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IL "BAR MARIO"

Brand “Italia” versus resto del mondo: sulla necessità di rivalutare alcuni nostri valori immateriali.
Ascoltando lo sfogo un po’ “No Logo” di Luca Yuri Toselli, tutto preso a discutere quest’estate al mare con un’amica che lodava le certezze contrattuali derivanti dal lavorare nelle grandi catene internazionali, ho riflettuto – più che per dare risposte, per sollecitare interrogativi – su quelle che per noi italiani sono una serie di infinite e scontate banalità, ma che sono un plus da comunicare con maestria in tutto il resto del mondo, al punto da arrivare a costituire il core del valore immateriale di alcuni brand miliardari.
“Mario tira un colpo di straccio al banco del Bar”, cantava Ligabue, riferendosi al titolare del “Bar Mario”,  tipico posto da “certe notti fra nebbia e locali a cui dai del tu”. Il Bar Mario è il bar dell’angolo, quello dove tutti noi passiamo almeno una volta al giorno per un veloce caffè, per fare due chiacchiere, sfogliare il giornale o incontrare gli amici finito il lavoro, in una specie di rito tutto italiano ricordato anche dal motivetto degli anni ’30 che cantava “…questa è l’ora senza pari, questa è l’ora del Campari!”. Ma è sempre quello, il bar dell’angolo sotto casa, oppure il bar più cool in centro città. Ognuno di noi, che caschi il mondo, ne ha uno o più d’uno dislocato lungo i propri tragitti abituali, a seconda dell’occasione.
E’ stato in uno dei tanti “Bar Mario” da lui visitati nel 1983 a Milano che Howard Shultz, poi Direttore marketing di Starbuck, allora una singola torrefazione di Seattle, colse l’ispirazione: offrire a tutti gli americani (cito testualmente) “il terzo luogo dove andare, dopo il lavoro e prima di tornare a casa” (1). Nacque così l’epopea di una catena mondiale che apre tre nuovi locali al giorno nei cinque continenti: ovunque si diffondono locali di plastica che offrono innumerevoli  versioni del buon vecchio caffè e cappuccino italiani, in una atmosfera impregnata di accoglienza anch’essa di plastica, con camerieri e addetti sempre pronti ad accogliere con un sorriso imparato in corsi di formazione standardizzati, perché… “Starbucks si impegna a trasmettere a tutto il personale l’idea dell’importanza dei valori del brand”. Brand. Una prima considerazione va fatta sull’humus culturale che sta alla base di questa strategia di approccio al mercato: un popolo quello americano che – non avendo luoghi di incontro “naturali” come i bar presenti a milioni sulle strade della nostra penisola – deve necessariamente “innamorarsi di un brand”, determinando il successo planetario di una catena di franchising. Lo stesso popolo che – privo di piazze nell’accezione ateniese di Agorà – deve costruire centri commerciali per avere un luogo – artificiale – ove passeggiare. Socializzare in una “Shopping gallery”? Quanto si possa socializzare con la mascotte di peluche in scala 1 a 1 di Topolino che saluta davanti a un Disney Store è ancora da spiegare: forse può essere lievemente imbarazzante per noi, ma non per la nostra carta di credito, che è l’unica vera protagonista di queste esperienze di consumo.
L’Italia è l’unico paese al mondo in cui la catena “Pizza Hut” non è riuscita a penetrare il mercato: lo strano composto caldo e spugnoso ricoperto di ketchup e di una gran varietà di sostanze difficilmente identificabili, innaffiato con abbondanti fiumi di Coca-cola, nel nostro paese non ha avuto gran fortuna. Nella mia città dal 1958 “Gino” – esiste, lo giuro – serve la migliore pizza al tegamino della regione: ragionandola all’americana, Gino avrebbe dovuto aprire una catena. Peccato che i 2.000 Gino in franchising non sarebbero stati più “Gino”: non la stessa acqua, non la stessa umidità, necessariamente non la stessa salsa di pomodoro fatta in casa, e non le stesse mani ad impastare la pizza.
A parte l’Italia, Starbucks, ha avuto un successo planetario in tutte le nazioni. Ma il produttore seriale di “Vanilla Tall No-Fun Cappuccino” o “Double Grande Skinny Latte” (?) non è l’unico esempio eclatante di successo commerciale in un mondo che cerca di confezionare un “format”, di trasferire cordialità forzata in un corso di formazione, di disciplinare emozioni in un contratto di franchising, e di riprodurre il tutto serialmente dove gli studi di mercato indicano possibilità di successo. “Pret a Manager” è una catena (in franchising, ovviamente) di paninoteche, dove i panini sono – quale rivoluzione! – “fatti a mano con ingredienti freschi e selezionati”. Centotrenta punti vendita in Gran Bretagna, USA e Hong Kong, dove manager ed impiegati con poco tempo a disposizione sgomitano per mangiare del cibo forse non OGM come se si trattasse di una preziosa rarità, o – com’è definita nei manuali di marketing – “una geniale innovazione controcorrente” (2). “Panera Breads”, catena capitalizzata in borsa per ben un miliardo di dollari (!) copre 38 dei 50 Stati Uniti con i propri corner, dove si può comprare una pagnotta o un dolcetto appena sformato o – addirittura! – “gustare un pasto veloce seduti”, e dove – questo è un vero motivo di vanto della catena! – “ogni locale ha delle specialità diverse dall’altro, a seconda del gusto nella regione dove è situato o della stagione…”. Nuovamente il – banale? – format italiano riproposto come fattore di successo.
Dopo questo giro del mondo in pochi “brand”, torniamo un attimo da Mario, perché sento di aver bisogno di un attimo di tranquillità. Di un luogo dove mi conoscono e non mi “profilano”. Un locale dove sono un individuo e non un “target”. Di un esercizio commerciale dove mi si chiede “come va oggi” non per rispondere alla parte di mansionario in cui all’interinale di turno si impone di instaurare “un approccio amichevole nella relazione con il cliente”, ma perché ieri non mi son fatto vedere e tutti si chiedevano se per caso mi fossi preso un’influenza.
Gli strenui e fidelizzati sostenitori dell’amato “brand” – ormai ci sono persone prontissime ad alzare la voce se fai dell’ironia sullo “swoosh” Nike che troneggia sul loro guardaroba sportivo – osserveranno che da Starbucks trovi sempre e comunque le stesse rassicuranti cose, le stesse certezze, la stessa qualità e la stessa garanzia in ogni angolo di mondo, in 5th Avenue a NY come a Hong Kong. Obiettivamente, non mi sembra né un valore né un vantaggio: se percorro 5.000 miglia in aereo su volo intercontinentale è anche per il piacere di scoprire quel posto, quel popolo, quel modo di vivere, e magari calpestare il pavimento di un locale tipico vissuto dai cittadini del luogo.
E se proprio mi manca tanto il mio Mario, vorrà dire che gli manderò una cartolina con un bel paesaggio di quell’angolo di mondo, con scritto dietro “tienimi in caldo un caffè bello forte come lo sai fare tu per quando torno, che ti devo raccontare come è andata…”