Intervista al Dott. Pier Mario Biava
Medico del lavoro, già Primario di Medicina del lavoro all’ospedale di Sesto San Giovanni e Docente alla Scuola di Specializzazione di Medicina del Lavoro di Trieste, Pier Mario Biav attualmente lavora presso l’Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico Multimedica di Milano. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche e di alcuni libri: “L’aggressione nascosta – Limiti sanitari di esposizione ai rischi” edito da Feltrinelli, “Complessità e biologia” edito da Bruno Mondadori e “Il cancro e la ricerca del senso perduto” edito da Springer. È presidente onorario di Redonda Onlus (www.redonda.it) e della Fondazione per la Ricerca delle Terapie Biologiche del Cancro e vice presidente della Società Scientifica International Academy of Tumor Marker Oncology. Fa parte dei comitati scientifici di alcune riviste internazionali nel campo dell’oncologia e dell’epidemiologia
Come è nata la Sua pista di ricerca nell’area oncologica?
Sono un medico del lavoro, quindi neanche un oncologo tradizionale, ma da moltissimi anni, fin dalla fine degli anni ’70, m’interesso di cancerogenesi ambientale, cioè dello studio di quegli elementi nell’ambiente che ci circonda che possono causare il cancro. Ero all’Università di Trieste, allora, e mi ero interessato in modo particolare di problemi relativi all’esposizione dell’amianto, che incrociava direttamente l’area del mio lavoro. Lì a Trieste non erano segnalati casi di malattia professionale di mesotelioma della pleura (un tipo di tumore causato dalle fibre di amianto disperse nell’aria) e a me la cosa sembrava strana: ho fatto una ricerca retrospettiva negli archivi degli Ospedali Riuniti e ho trovato ben centoventi casi di tumori non diagnosticati. Così Trieste è diventata una delle città con la più alta incidenza di mesoteliomi in Italia. Peraltro a Trieste queste ricerche hanno portato dopo alcuni anni a sospendere l’utilizzo dell’amianto sia nei cantieri navali che nel porto, quindi queste indagini hanno avuto un impatto positivo molto importante a livello locale, perché mentre in Italia è andato avanti l’utilizzo dell’amianto ancora per anni, a Trieste l’hanno bloccato completamente molto prima.
Un successo notevole…
Si, questo era già un successo, si sono impegnate le organizzazioni sindacali e in pratica hanno fatto un contratto con i cantieri navali di Trieste e Monfalcone e con il Porto di Trieste per non utilizzare più l’amianto. Da allora mi sono interessato di più, in modo approfondito, dei problemi legati alla cancerogenesi ambientale, e quello che mi aveva colpito erano i diversi effetti che si hanno a seguito della somministrazione di cancerogeni durante la gravidanza.
Cioè
l’esposizione a fattori di rischio durante la gravidanza?
Sì, andando a studiare la letteratura scientifica internazionale sugli effetti dei cancerogeni in gravidanza mi ero accorto che questi erano la causa di due effetti molto diversi: se si somministrano i cancerogeni durante l’organogenesi, cioè nel periodo in cui si formano tutti gli organi e apparati dell’embrione, non si riesce mai a indurre tumori nella prole, si inducono solo malformazioni ma non tumori; poi invece, finita l’organogenesi, se si somministrano gli stessi identici fattori cancerogeni si inducono tumori nella prole. Allora la domanda era: perché in presenza degli stessi identici fattori cancerogeni prima io induco delle malformazioni e dopo induco dei veri e propri tumori? Questa domanda me ne generò naturalmente un’altra: che cosa succede durante l’organogenesi? Ebbene, in quel periodo di vita dell’embrione si differenziano tutti gli organi e tutti i tessuti, cioè da una cellula staminale embrionale totipotente attraverso vari stati di differenziazione si formano tutte le cellule del nostro organismo. Allora mi dissi: vuoi vedere che durante il processo in cui le staminali si differenziano esistono delle sostanze regolatrici che sono in grado di “correggere” il comportamento delle cellule tumorali? La pista di ricerca era assai intrigante, ed è facilissimo intuirne l’importanza: compreso il meccanismo di regolazione, si sarebbe fatto un enorme balzo avanti nella cura di certe forme di tumore…
Quindi
è partita da lì, l’intuizione era basata sulla differenziazione delle
staminali…
Da lì, esatto, questa è stata la storia di questa ricerca, è partita dalla medicina del lavoro, che è il mio campo, e dagli studi sulla carcerogenesi ambientale, e a un certo punto quando ho capito che quella strada poteva essere giusta, non l’ho più abbandonata. A quel punto, bisognava fare tutti gli esperimenti, erano gli inizi degli anni ‘80, stiamo parlando di tempi lontani. Il primo lavoro infatti l’ho poi pubblicato nel 1988 su “Cancer Letter”, e già parlava in modo chiaro della possibilità di far ritornare i tumori ad un comportamento normale, cioè l’idea originaria è stata proprio sempre quella di “correggere il comportamento” delle cellule tumorali, pensando a queste malattie come malattie in parte reversibili. Questo concetto non era assolutamente accettato, all’epoca, e inoltre io venivo visto in modo anche abbastanza strano perché non ero un oncologo ortodosso
Immagino che anche questo abbia contribuito all’inizio ad una certa
diffidenza…
All’inizio è stato molto difficile, sembrava una specie di “eresia”, anche se com’è ovvio io non proponevo di curare in modo balzano i tumori, bensì inseguivo una ben precisa pista di ricerca scientifica assai seria, però il nuovo genera sempre diffidenza
Lei per contro l’ha percepita come una sfida?Si, un po’ come una sfida, mi sentivo dire “Interessante, ma questo medico ricercatore non ha le carte in regola, non è dei nostri”. All’inizio è stato molto, molto difficile. Però naturalmente da lì è partito tutto lo studio dei rapporti fra cellule staminali e cancro, e da lì è partito anche il rapporto con Guna, l’azienda leader in Italia nella ricerca sulle medicine non convenzionali, perché già da allora avevo chiaro che per correggere il comportamento di una cellula tumorale non bastava utilizzare una singola molecola come propone la medicina convenzionale, ma occorreva un network di molecole che potesse correggere il comportamento di queste cellule tumorali. Mi spiego: la mia intuizione, se così possiamo dire, era che le cellule tumorali erano nient’altro che cellule staminali mutate, bloccate in una fase di moltiplicazione compresa fra due stadi di differenziazione cellulare. A loro mancherebbe l’informazione per procedere nel normale sviluppo e andare avanti nei processi differenziativi. Allora, se noi diamo a queste cellule tumorali le informazioni per procedere nel loro regolare sviluppo, vengono bypassate le mutazioni che sono all’origine della malignità e le cellule tornano a differenziarsi e si normalizzano.
Dottore, questa sarebbe niente meno che la cura per il cancro, si rende
conto?
Certo
che mi rendo conto, ma vorrei frenare gli entusiasmi: tutto ciò è vero per ora
solo per certi tipi di cellule, e siamo ancora a livello sperimentale. Tuttavia
gli esperimenti sono confortanti, gli esperimenti in vitro che abbiamo fatto
hanno dimostrato quanto ho detto. Abbiamo studiato otto linee di diversi tumori
umani e le abbiamo trattate con proteine prelevate da embrioni di Zebrafish, piccoli
pesci i cui embrioni sono usati come modelli di studio del differenziamento
cellulare. I modelli di studio sono quattro: la Drosophila
melanogaster cioè il moscerino della frutta, il Caenorhabditis
elegans cioè un verme nematode, lo Xenopus
Laevis che è la rana, e il Brachydanio Rerio,
che è appunto lo Zebrafish. Fra tutti quello più vicino all’uomo da un punto di
vista evolutivo è il Brachydanio Rerio, lo Zebrafish, che ha circa il 95% di
proteine simili all’uomo. Quindi con i laboratori di ricerca di Guna, con la
Dottoressa Carluccio e con il Dottor Pizzoccaro, avevamo deciso già da allora
di studiare in modo preciso lo Zebrafish e loro avevano quindi allestito degli
acquari per la ricerca, allevavano questi pesci e io per gli esperimenti ne
utilizzavo gli embrioni prelevati in precisi momenti del differenziamento
cellulare, perché naturalmente bisognava conoscere quando le cellule staminali
si differenziavano.
Nel momento preciso…
Si, nel momento preciso, perché queste proteine non sono sempre attive come agenti di differenziazione durante tutto l’arco della vita embrionale, ma solo in precisi momenti. Abbiamo identificato il momento in cui questi fattori di differenziazione erano maggiormente presenti, scegliendo per esempio l’inizio della differenziazione delle cellule staminali da totipotenti a pluripotenti, cioè abbiamo scelto il periodo in cui l’embrione era allo stadio di medio-blastula-gastrula, ovvero il momento in cui dalla cellula staminale totipotente si formano tre cellule staminali pluripotenti che sono l’endoderma, l’ectoderma e il mesoderma. Questa era la prima fase, poi andando avanti negli studi abbiamo individuato altre fasi, e alla fine ci siamo resi conto che le fasi di differenziazione delle cellule staminali sono cinque, e anzi questo studio mi è servito anche per concepire un modello di differenziazione cellulare che interpreta in modo molto chiaro come avviene il fenomeno del differenziamento.
Questa
ricerca quindi rappresentò un’innovazione, anche già in questa fase iniziale,
dico bene?
Fu un trovare conferme, innovative per l’epoca, su cose che si sospettavano ma per le quali non vi era ancora una prova scientifica certa. In fondo la vita – pur nella sua complessità – per formarsi utilizza degli algoritmi molto semplici. Ci siamo resi conto che gli stadi di differenziazione come le dicevo sono cinque: da cellula staminale totipotente a pluripotenti, da plutipotenti a multipotenti, da multipotenti a oligopotenti, da oligopotenti a cellule in via di differenziazione definitiva, infine cellule completamente differenziate. Cinque stadi. Se noi pensiamo che per ogni stadio da una cellula progenitrice si formano tre cellule figlie, e ripetiamo l’evento cinque volte, il numero di cellule completamente differenziate da che cosa è dato? Da una potenza che ha per base 3 ed esponente 5: 3⁵, quindi sono duecentoquarantatre cellule somatiche, a cui, se noi aggiungiamo le cellule germinative, che sono nove tipi, cioè le cellule sessuali maschili e femminili che si differenziano per una via diversa rispetto alle cellule somatiche, il numero di cellule completamente differenziate sale a duecentocinquantadue. Su miliardi di cellule, sa quante sono le cellule del nostro organismo, come tipologia? Duecentocinquantadue, appunto. Quindi con una formula matematica tutto sommato molto semplice noi interpretiamo come si sviluppa la vita. Allora il problema vero per trovare una terapia efficace dei tumori è quello di regolare e differenziare le cellule staminali mutate prima dell’ultima differenziazione definitiva.
Tra
la quarta e la quinta differenziazione, quindi?
Tra la prima e la seconda, tra la seconda e la terza, eccetera, e in rapporto alla diversa malignità dei tumori noi dobbiamo utilizzare diversi fattori di regolazione, perché tra l’altro con questo modello noi abbiamo interpretato anche quante sono le malattie tumorali, cosa che è facile anche da capire: infatti, se i tumori sono tutte le cellule staminali alterate che non si sono differenziate, allora il numero di tumori è dato dalla formula 3 + 3² + 3³ + 3⁴, cioè 120 tipi di tumore, a cui se lei somma i tumori dell’ovaio e del testicolo più il coriocarcinoma, il teratocarcinoma e il carcinoma embrionario, arriviamo a centotrenta malattie diverse, e per queste 130 malattie diverse lei vede già come ognuna deve essere trattata, perché se lei si trova di fronte a una leucemia a cellule staminali multipotenti è ben diverso che se si trova di fronte ad una leucemia linfatica cronica dove le cellule sono quelle dell’ultimo stadio di differenziazione. Stadio diverso di differenziazione delle cellule staminali, uguale tipo diverso di tumore, uguale differente strategia terapeutica, sempre però basata sulla “riprogrammazione” delle staminali non differenziate.
Si
personalizza il trattamento, quindi, in modo ben più marcato che con le attuali
terapie d’urto indifferenziate…
Si personalizza il trattamento, esatto, molto più di quanto si fa adesso. Cioè, questa prospettiva di regolazione e di riprogrammazione delle cellule staminali tumorali permetterà di arrivare – perlomeno questo è il nostro auspicio – a delle terapie individualizzate del cancro. Ora, tutto questo discorso, che allora era fatto quasi esclusivamente solo da me ed era considerato in parte non credibile, negli ultimi cinque anni invece ha preso molto piede, perché è stato dimostrato che la malignità dei tumori è legata alla presenza di cellule staminali tumorali. In pratica si è visto che alla base della malignità dei tumori, che resistono alla radio e alla chemioterapia e che dunque metastatizzano, c’è un gruppo di cellule, cosidette staminali tumorali, che è quello che riperpetua la malattia e non ne permette la guarigione definitiva. Si ha magari all’inizio delle terapie un miglioramento, ma poi si ricade nella malattia. Queste cellule staminali tumorali sono state trovate in quasi tutti i tumori. Man mano che si sta andando avanti con gli studi, stiamo comprendendo questo. Quindi il primo concetto da cui ero partito è cioè che le cellule tumorali fossero cellule staminali alterate, è stato acquisito.
È stato accettato dalla scienza più ortodossa?
(Biava)
Dopo tanti anni, finalmente si, Adesso l’obiettivo di molti ricercatori e’
quello di riuscire a riprogrammare non solo le cellule staminali normali, ma
anche quelle tumorali. Per questo una rivista importante, che si chiama “Current pharmaceutical biotechnology”, lei deve andare sul
sito Current pharmaceutical biotechnology, e
selezionare sul volume 12, numero 2 del febbraio 2011…
Ah, è recente, cosa dice?
Lì vede che c’è un numero speciale, di cui sono stato il guest editor e che si chiama “Reprogramming of normal and cancer stem cells”, dedicato alla riprogrammazione delle cellule staminali normali e tumorali. Ci sono quindici articoli, di cui tre scritti anche da me, gli altri da importanti ricercatori di fama internazionale, come il Direttore del Centro Tumori di Tokyo, molti Direttori di Istituti Oncologici delle Università italiane – Milano, Roma, Pisa, Varese – e da Centri di Ricerca Americani e Asiatici, indiani, indonesiani eccetera: sono tutti articoli che dimostrano la possibilità di riprogrammare le cellule staminali normali e che fanno intravvedere la possibilità di riprogrammare le cellule staminali tumorali. Io lì ho scritto anche un’editoriale che introduce il numero, se lo leggete capite bene il senso, la portata di questo approccio innovativo al cancro: in quel numero della rivista vengono illustrate quali sono le prospettive future in questa direzione.
Che
era una domanda che volevamo porle, appunto. Il carattere innovativo di queste
ricerche, comunque direi che è già emerso da tutto quello che ha detto…
Assolutamente, è una visione differente dei tumori, ma nel contempo non balzana, cioè, è basata su ricerca scientifica, non su fantasie. Si ipotizza che i tumori possano essere riprogrammati, quindi l’approccio non è più quello distruttivo, non è più la ricerca di “pallottole intelligenti”, cioè delle singole molecole che possono bloccare il tumore, ma è l’approccio di una strada individualizzata, di una terapia individualizzata di riprogrammazione. In poche parole possiamo dire che la soluzione dei tumori e nei tumori stessi. Da questo punto di vista allora la medicina complementare e non convenzionale può offrire molto, perché chiaramente il paradigma scientifico va cambiato a questo punto: bisogna passare dal paradigma riduzionista a quello della complessità, in quanto quello che si è visto è che non sono importanti i singoli punti e le singole molecole, in quanto le singole molecole danno solo qualche “Bit” di informazione e invece nel caso della riprogrammazione noi dobbiamo puntare su un network, una rete informativa che riprogrammi e ripristini gli equilibri biologici che sono andati persi. Sono terapie specifiche, come abbiamo detto addirittura individualizzate, ma sono terapie che mirano al microambiente e alla rete d’informazione, che interessa l’intero organismo, non la singola molecola. Questo è già accennato nell’editoriale di “Current Pharmaceutical Biotachnology” dove per altro sono stati pubblicati articoli, in cui si è dimostrato che non vi è alcuna incompatibilità tra le chemioterapie e queste terapie di nuova generazione che stiamo studiando.
Cioè
possono essere complementari?
Possono essere complementari, questo è importante, perchè per un certo periodo bisognerà utilizzare tutti gli approcci integrati al cancro: come abbiamo visto le malattie tumorali sono complesse e difficili da trattare: sono malattie in cui è stato perso in parte o quasi completamente il programma del differenziamento cellulare. Integrare il programma mancante non è facile e dunque per un tempo abbastanza lungo occorrerà utilizzare tutti gli approcci integrati, utili a bloccare o a sconfiggere la malattia.
Qual’è
la prospettiva di medio periodo?
La prospettiva è quella di cambiare l’approccio e quindi di utilizzare un approccio complesso: quest’idea si sta già facendo strada nella comunità scientifica.
Quindi
proseguono le ricerche in questa direzione?
Sì, adesso anche gli ultimi studi vanno in questa direzione: si studiano sia le alterazioni genetiche, sia quelle epigenetiche del cancro, compresi i fattori del microambiente che possono favorirne l’attecchimento e/o la progressione o al contrario contrastarne lo sviluppo. In quest’ottica come può essere definita questa terapia basata sui fattori di differenziazione? La potremmo definire “terapia epigenetica” del cancro. Che cos’è il codice epigenetico? E’ il codice che è in grado di programmare e regolare il codice genetico, che è un codice che di per sé non sa fare nulla se non viene programmato e informato. Al di sopra del DNA che costituisce il codice genetico, c’è un altro codice, che si definisce appunto “epigenetico”, che è costituito da tutta questa rete regolatoria molto complessa, che decide come far funzionare il codice genetico sottostante, un po’ come il software che controlla e programma l’hardware. Se io non programmo il computer il computer non sa fare niente di suo, e così il DNA: se lui non è programmato adeguatamente, non può dare origine alla vita. Nel codice epigenetico c’è il segreto del differenziamento cellulare, che da luogo alla vita.
Voi
lavorate su un codice superiore?
Epigenetico. Di fatto i fattori di differenziazione delle cellule staminali costituiscono il codice epigenetico. Perché le cellule staminali si differenziano? Perché questi fattori detereminano quali geni devono essere spenti, quali geni devono rimanere attivi, quale proteine devono essere sintetizzate.
Quindi
è lì che bisogna indagare?
È come il Direttore d’orchestra… La differenziazione delle cellule staminali consiste in una specifica e selettiva programmazione di queste cellule, per cui alla fine del differenziamento tutte le cellule del nostro corpo alla base hanno tutte lo stesso codice genetico, la differenza tra una cellula del cervello rispetto a una cellula del rene o del fegato è che i geni che sono rimasti attivi e che quindi vanno a sintetizzare le proteine sono selettivamente diversi nel cervello rispetto al rene e rispetto fegato, tutto qui. Il “disco rigido” è sempre uguale, il DNA non cambia, ma il programma di espressione genica quello si che è diverso, i fattori di differenziazione delle cellule staminali sono il programma che decide cosa deve stare spento e cosa deve stare acceso. Quindi nel tumore che cosa succede? Succede che una parte di questo programma, che ha “silenziato” i vari geni e ha fatto sì che una cellula diventasse per esempio una cellula del cervello, viene riattivato. Vengono riattivati quelli che si chiamano protoncogeni, ovvero geni embrionari silenziati durante il processo di differenziazione e a volte questi protoncogeni vengono mutati – e in questo caso vengono chiamati oncogeni – e inoltre vengono disattivati o mutati i geni oncorepressori: i geni riattivati producono fattori di crescita embrionari, che costringono la cellula ad una moltiplicazione indefinita, mentre la disattivazione degli oncorepressori impedisce che vi sia un freno a questa moltiplicazione. Allora, se noi lavoriamo sul programma che ha spento i protoncogeni e cerchiamo di attivare gli oncorepressori, allora noi spegniamo il processo di moltiplicazione indefinita. Gli studi che vengono fatti adesso, per lo meno quelli più avanzati, dimostrano che nei tumori ci sono moltissimi geni attivati ed alterati: con programmi matematici complessi, mettendo insieme la rete di geni alterata, si è riusciti a capire, per certi tipi di tumore, quali sono i geni più importanti che determinano l’attivazione del processo nel suo complesso.
Si riesce quindi a capire come bisogna intervenire per “spegnere” i
geni che sono all’origine della malignità?
È corretto. Aggiungo che il cancro è una patologia che richiede un vero e proprio cambio di paradigma, è una malattia molto complessa, che non può più essere affrontata con le armi tradizionali, che vanno bene, ma solo nei casi nei quali la malattia non è dovuta alla presenza di cellule staminali tumorali. Negli altri casi va cambiato l’approccio: finché la medicina rimane agganciata a un paradigma riduzionista, non riusciremo a inquadrare la questione in una sintesi più generale: ci mancherà sempre la visione d’insieme. Lo sforzo che dobbiamo fare è lavorare per un cambio di paradigma.
Un quadro più ampio della malattia, e quindi delle possibili terapie oncologiche?
Si, perché se l’unica via è quella di continuare a combattere il cancro con “pallottole intelligenti”, si rischia di non sconfiggere definitivamente la malattia, perchè le cellule tumorali sono a loro volta cellule intelligenti che imparano a resistere agli attacchi, rendendo inattive le armi che andiamo di volta in volta ad utilizzare.
In
questo momento c’è disponibilità quanto meno al confronto da parte degli
specialisti più ortodossi su queste piste di ricerca innovative?
Certo, adesso mi è stato chiesto di fare l’editor di un numero monografico per una rivista scientifica di medicina convenzionale molto importante. Quindi vuol dire che l’atteggiamento di molti oncologi tradizionali è cambiato, anche se ovviamente rimangono ancora molte sacche di resistenza da parte degli oncologi, soprattutto clinici.
Quindi è iniziata la fase vera dell’approfondimento, per trovare
riscontri definitivi…
Sì, oggi i ricercatori che fanno ricerca di base non mettono più in dubbio che la malignità dei tumori sia legata alla presenza di cellule staminali alterate, come da me ipotizzato tanti anni fa. La ricerca più avanzata oggi sta arrivando a identificare le vie metaboliche che sono comuni e condivise dalle cellule staminali normali e da quelle tumorali, in modo da capire poi le “correzioni specifiche” che vanno apportate. Io cerco di essere molto prudente e di stare attento a trasferire i risultati delle ricerche sperimentali a livello clinico. Vi sono però due studi clinici controllati nel caso di tumore primitivo del fegato, cioè nell’epatocarcinoma, che sono abbastanza significativi. C’è un trial clinico, durato quaranta mesi, su centosettantanove pazienti affetti da epatocarcinoma in fase intermedio-avanzata nei quali non erano più possibili terapie antitumorali tradizionali di consolidata efficacia: un trattamento basato sull’utilizzo dei fattori di differenziazione a bassi dosaggi ha dimostrato il 20% di regressioni, di cui 2,3% di regressione completa, e il 16% di non progressioni, con assenza di effetti collaterali avversi, ma comunque un notevole miglioramento del performance status e della qualità della vita. Soprattutto per questo 36% di pazienti che ha risposto al trattamento, da una speranza di vita di 6 od 8 mesi, si è passati ad una sopravvivenza per il 65% di essi di oltre 5 anni. Nel numero monografico già citato, che ha come titolo “Reprogramming of normal and cancer stem cells”, c’è poi un articolo redatto da Professori dell’Università di Milano e della Clinica Humanitas, che descrive i casi di regressione completa del tumore primitivo del fegato trattato con i fattori di differenziazione delle cellule staminali: i casi di regressione completa sono stati il 13,1%.
Lei ha la sensazione che la scienza sia a una svolta nella cura
integrata dei tumori?
Penso che questa sia una strada estremamente interessante, sarei tentato di dire la “strada giusta”, o per lo meno, una delle strade giuste. Però la strada da percorrere è ancora lunga, perchè come già detto, ogni tipo di tumore richiede un trattamento specifico. Io oggi non posso dire che abbiamo in questo momento una cura generale per il cancro. Ho cercato di sottolineare questo concetto anche nel numero speciale della rivista che ho citato: infatti nell’editoriale parlo dell’utilizzo dei fattori di differenziazione staminali a livello clinico solo per il tumore primitivo del fegato, al quale per ora tale trattamento va limitato.
Quale messaggio vuole lanciare alla comunità scientifica, ai suoi
colleghi?
Il
messaggio più importante è che è necessario cambiare il paradigma scientifico,
inglobando la visione riduzionistica nel più efficace “paradigma della
complessità”. Quello che qui ho cercato di sottolineare è che il cancro
rappresenta una patologia complessa, che va affrontata con una visione nuova:
non ci si può più limitare allo studio dei meccanismi puntuali, cercando poi di
intervenire solo su quelli. Questa strada si è dimostrata capace di ottenere
risultati, certamente, però molto limitati, come dimostrano anche i più recenti
e moderni approcci basati sull’impiego delle cosiddette molecole biologiche,
quali gli anticorpi monoclonali o gli inibitori delle tirosino-chinasi. Molti
oncologi tradizionali cercano di dare il meglio, ma sono ancora fermi lì. La
ricerca biologica è andata per fortuna avanti, verso una visione più complessa
della vita e delle malattie ed è sperabile, che in un tempo non troppo lontano,
i risultati di queste ricerche possano essere trasferiti a livello clinico, a
beneficio di tutti.