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Lobbying, una regolamentazione efficace necessita di una visione olistica 

Lobbying, una regolamentazione efficace necessita di una visione olistica

Quando si parla di rappresentanza di interessi si possono facilmente rilevare approcci, modelli organizzativi, chiavi di lettura e, talvolta, anche visioni diverse sul futuro di un’attività che ricopre, come già ampiamente sottolineato, un ruolo fondamentale per il processo decisionale democratico del nostro Paese.

Tuttavia, tali differenze che possono derivare dal ruolo ricoperto, dal background o più semplicemente dagli interessi che si hanno in tale attività, convergono su due elementi fondamentali: il valore centrale dell’informazione e la necessità di una normativa sul settore che renda trasparente l’utilizzo di tale informazione nell’intero processo decisionale.

Come far emergere questi elementi nel tentativo di regolamentazione in atto? Lo abbiamo chiesto a Vincenzo Manfredi Head of Public Affairs and Advocacy di Assoholding e Professore a contratto presso la Luiss School of Government.

La Camera dei Deputati ha avviato un nuovo tentativo di regolamentazione dell’attività di rappresentanza di interessi. Da dove si dovrebbe partire perché si arrivi ad una normativa efficace?

A mio parere l’approccio alla regolamentazione dell’attività di rappresentanza di interessi, la famosa legge sulle lobby, non dovrebbe avere una determinante solo ed esclusivamente costituzionale. Naturalmente la mia non è una critica alla formazione di una Commissione di soli professori di diritto pubblico voluta dal Presidente Pagano. 

Intendo dire che un tema complesso come quello della rappresentanza di interessi deve essere considerato nella sua accezione sistemica, per tale motivo una legge che regoli tale settore necessita di una visione olistica che tenga conto dei pareri di scienziati della politica, relatori pubblici, esperti di comunicazione politica, di IA e digital strategist, perché non possiamo sottovalutare l’impatto della digitalizzazione e dei suoi strumenti. 

Se volessimo fare un’analisi di ciò che accomuna tutti i precedenti tentativi di regolamentazione, compresa la proposta approvata dalla Camera dei Deputati durante la scorsa legislatura, si noterebbe come l’approccio utilizzato derivi da una visione limitata di questo settore che, solitamente, è ricondotto alla sola attività di lobbying.

Le Relazioni Pubbliche, perché è di questo che stiamo parlando, rappresentano la disciplina più vasta che racchiude al proprio interno le attività di public affairs, di advocacy, di lobbying, di comunicazione politica, di marketing strategico, di consulenza strategica e posizionamento di brand, di reputazione, di brand identity, di Corporate Social Responsibility.  Per tale motivo, a mio parere, il legislatore più che regolamentare l’attività di lobbying, dovrebbe trovare la strada per regolare le relazioni pubbliche e il loro rapporto con l’informazione. 

L’informazione e le sue potenzialità di utilizzo, è questa la reale questione da cui dovremmo partire per un approccio costruttivo e sistemico.

Guardiamo, ad esempio, all’allarme lanciato dal Presidente degli Stati Uniti che teme un’influenza dell’intelligenza artificiale nelle prossime elezioni di midterm o, ancora, a ciò che è successo con Cambridge Analytica che non aveva le capacità che, oggi, offrono sistemi come Bard o Chat GPT. 

Potrebbe specificare meglio quella che è, per lei, la differenza tra Relazioni Pubbliche e Rappresentanza di interessi?

Non vi è una differenza. La declinazione della rappresentanza di interessi all’interno delle relazioni pubbliche ha a che fare con tre concetti fondamentali che sostanziano il significato stesso di ciò, che poi, è la tecnica della comunicazione: rappresentanza, rappresentatività e rappresentazione. Questi tre concetti che sembrano distanti, in realtà sono un unicum che definisce, all’interno della disciplina delle relazioni pubbliche, ciò che la rappresentanza di interessi rappresenta in funzione, non solo del decisore pubblico ma, di qualunque tipo di relazione.

Un’altra delle declinazioni si potrebbe definire “Organizational listening” (o ascolto organizzativo) che è la necessità di capire il contesto fornendo soluzioni capaci di generare valore.  Un tipo di valore che deriva dalle relazioni e non si esaurisce con il profitto, a differenza di quanto succede con l’azione imprenditoriale, ma crea un valore come asset intangibile rinveniente e precedente al profitto. Ciò consente agli asset intangibili non solo di essere misurati e verificati ma, anche, di creare quel valore sostenibile nel passaggio dallo shareholder allo stakeholder capitalism. 

Quando si parla di rappresentanza di interessi non si può ignorare la percezione negativa che questo settore ha in Italia. Basterà una regolamentazione del settore per cambiare tale percezione?

Sono certo che una regolamentazione del settore sicuramente potrebbe dare una diversa dignità, una diversa considerazione, come giustamente detto, ed una diversa percezione. Tuttavia, non credo che i colleghi giornalisti smetteranno di utilizzare la parola lobby in maniera negativa o con un’accezione denigratoria subito dopo l’approvazione della norma. È una questione culturale e se vuoi anche storica. Nonostante il susseguirsi di governi e “stagioni politiche” differenti, nel nostro Paese vi è sempre un motivo per utilizzare la parola “lobby” in senso negativo.

È per tale motivo che, a mio parere, tutti noi dovremmo investire su una diversa narrazione della rappresentanza di interessi quale fenomeno naturale e connaturato in ogni sistema decisionale. Qualsiasi esso sia. Basti pensare a cosa fa un bambino quando, appena nato, capisce che piangendo richiama l’attenzione della madre e ne influenza le decisioni. 

Una volta accettato questo concetto basilare, ciò che realmente serve è un sistema trasparente e tracciabile dell’intero processo decisionale che non sia punitivo o lesivo nei confronti del rappresentante di interessi. Questo permetterà di distinguere il professionista da ben altro tipo di individui e di modificare, pian piano, la percezione di questa professione.

Ha parlato di un sistema trasparente e tracciabile. Secondo lei l’istituzione del registro permetterebbe il raggiungimento di tale obiettivo oppure ritiene vi siano altre soluzioni?

Il registro può essere uno strumento all’interno di una normativa che tenga conto della corretta definizione della professione, perché da solo non basta. Le faccio un esempio. 

Come è noto alla Camera dei Deputati esiste un registro dei rappresentanti di interessi che prevede la rendicontazione degli incontri annuali. Ebbene chi di noi si è interfacciato con il decisore pubblico per portare le proprie istanze e quelle dei propri clienti durante la pandemia, in cui era impossibile effettuare incontri fisici nelle sedi istituzionali, ha dovuto utilizzare i sistemi di web conference. Ebbene, arrivato il momento di stilare le nostre relazioni sugli incontri effettuati, i funzionari della Camera addetti al recepimento della rendicontazione ci hanno richiamato per dirci che gli incontri on line non erano da rendicontare in quanto non erano avvenuti nelle sedi istituzionali. Le sembra normale che nel 2023 venga ancora effettuata una distinzione simile? 

Per tale ragione credo che più che un registro, serva una considerazione oggettiva di ciò che si intende per attività di rappresentanza di interessi nell’alveo della più vasta disciplina delle relazioni pubbliche.

D’altra parte, come dimostrato da alcuni colleghi che hanno sviluppato piattaforme di digital lobbying, basterebbe istituire una piattaforma fondata sulla blockchain per richiedere gli incontri e tenere traccia delle interlocuzioni avvenute fra decisore pubblico e rappresentanti di interessi. 

È vero che ciò renderebbe tutto molto più semplice, nonché trasparente tuttavia, come detto all’inizio, non sono certo che un semplice registro degli incontri e dei temi trattati possa essere la soluzione a questo problema. 

Mancherebbe, come ampiamente detto, il reale valore della relazione stessa impossibile da rendicontare perché dovrebbe essere, in qualche modo, considerata da un punto di vista strategico nei suoi aspetti, sia ex ante che ex post, rispetto alla scelta pubblica. 

Non è, infatti, sufficiente rendicontare solo l’attività di rappresentazione o di rappresentanza ma anche è necessario rendicontare anche la funzione di rappresentatività. Ciò significa che non basta creare un semplice registro perché si rischierebbe che alcune categorie di soggetti, che data la loro funzione fanno effettivamente rappresentanza di interessi, come ad esempio le organizzazioni ordinistiche, non si iscrivano.

Pertanto, a mio parere bisognerebbe spingersi oltre l’istituzione di un semplice registro, perché ciò che potrebbe essere davvero utile alla definizione e riconoscimento di questa professione è un albo dei portatori di interessi, intesi come regolatori pubblici. È questo ciò che auspico.

Nei tentativi precedenti di regolamentazione del settore, accanto alla norma che prevedeva l’istituzione di un registro obbligatorio per i rappresentanti di interesse è stato sempre introdotto un elenco di “soggetti derogati”. In cosa si differenziano gli interessi rappresentati da un’associazione di categoria, da un’azienda o da un’agenzia di lobbying? 

Ci sono alcuni soggetti professionali che sono iscritti al registro dei portatori di interesse di Bruxelles, che vorrei ricordare è un registro volontario basato sulla better regulation e prevede una serie di obblighi e di premialità (a differenza dell’ultima proposta italiana ndr). 

Ebbene questi soggetti affermano volontariamente di esercitare tale attività in Europa e quindi si deve presumere lo facciano anche qui in Italia, eppure non sono iscritti al registro italiano. Ma non solo, questi soggetti nel testo dell’ultima proposta di legge approvata alla Camera erano stati esclusi dall’obbligo di iscrizione al registro italiano. Perché? 

Perché sono, di fatto, i rappresentanti degli interessi dei corpi intermedi, delle parti sindacali o delle parti imprenditoriali. Hanno, quindi, esercitato un’azione di lobbying efficace in modo da non essere obbligati alla rendicontazione. Lecito da parte loro, ma decisamente una scelta miope del legislatore che ha creato tali deroghe.

Tuttavia, quella norma se era ingiusta verso alcune categorie, era altrettanto ingenua verso altre nella parte in cui prevedeva l’impossibilità in capo ai manager e ai rappresentanti apicali delle aziende partecipate dallo Stato di continuare a rappresentare gli interessi delle società che, sostanzialmente, pongono in essere la politica economica e industriale del Paese. Perché? 

Non ha senso creare una norma e porvi, poi, delle deroghe. Si snatura la funzione stessa di una regolamentazione e si creano distorsioni pericolose e confusione.

Stiamo assistendo ad un cambiamento nel rapporto tra rappresentanza di interessi, comunicazione ed editoria. Lei cosa ne pensa di quello che qualcuno ha definito il settore dei “media affairs”? 

Quella in via di definizione, forse, dovrebbe essere una legge sulla regolamentazione dei media affairs perché, che differenza c’è tra l’azione di un rappresentante di interessi che cerca di influenzare un decisore con gli strumenti a sua disposizione e quella di un importante editorialista che scrive alcuni articoli sui principali giornali nazionali su una determinata questione politica e che, quindi, saranno letti dallo stesso decisore pubblico? Qual è la differenza fra l’azione di un rappresentante di interessi, quella di un editore o di un giornale? Voglio continuare questa mia provocazione. 

Pensiamo ai post di un influencer che ha 5 milioni di follower fa media, lobbying, advocacy? Se l’influencer utilizza il suo account Instagram per fare influenza a favore di un prodotto di largo consumo o un bene di lusso è pubblicità; se parla dell’attività di una ONG in Africa è sicuramente advocacy; se invece parla di policy, è lobbying? 

No, non propriamente, ma è sempre la creazione di percorsi di influenza che avranno degli effetti a cascata su tutta una serie di soggetti, decisori nei rispettivi campi. L’obiettivo della persuasione è stato raggiunto ma con altri mezzi rispetto a quelli che noi solitamente riconduciamo all’attività di rappresentanza di interessi. È questa la rivoluzione che stiamo vivendo. 

Pertanto, visto che si sta cercando di regolamentare questo settore e abbiamo la possibilità di porre la dovuta attenzione anche a queste nuove rivoluzioni, dovremmo prendere in esame tutta una serie di contributi di rilevanza scientifica, fondati sui dati, per analizzare la questione che è molto più complessa e di provare a regolamentare tutto il sistema dei media affairs. Credo che se ci riuscissimo, aiuteremmo sicuramente la democrazia e il futuro stesso del nostro Paese.

Ha fatto riferimento a nuovi player di cui non si può non tener conto e quindi le vorrei chiedere quale sarà, secondo lei, il ruolo degli studi legali e delle società di consulenza strategica nel futuro di questo settore?

Sicuramente ripensando il sistema con un approccio non giacobino. Le relazioni pubbliche sono, di fatto, un’attività di consulenza strategica, perché sono attività di posizionamento, di accrescimento della reputazione. Sono attività, come dicevamo, intangibili, che riguardano la crescita, la ricchezza, la capacità di creazione di valore per un determinato soggetto imprenditoriale e più in generale, di tutte le organizzazioni. Per tale motivo, ci saranno sempre più soggetti che entreranno nel mondo delle relazioni pubbliche, del public affairs, della lobby e dell’advocacy che porteranno una evoluzione del settore che la legge dovrà essere in grado di regolamentare garantendo però il libero mercato.

Questo è un settore che sta formando centinai (se non migliaia) di ragazzi e ragazze che diventeranno lobbisti. Ma qual è il settore del lobbista? Una professione senza un albo, o un ordinne, di riferimento la possono fare tutti, con il rischio di creazione di monopoli o situazioni perniciose.

Ecco perché risulta fondamentale avere approcciare il quadro in maniera multidisciplinare, senza fare della soluzione del problema una questione di interessi particolari.

Se consideriamo nella giusta misura il valore e l’efficacia delle relazioni pubbliche riusciamo anche a “rallentare” lo sguardo, non lasciandoci ingabbiare dalla tentazione del breve termine e da comportamenti estrattavi. Rimettere al centro la costruzione di senso e di significato per creare valore, per valutare l’impatto delle politiche pubbliche: per avere quindi quel comportamento rigenerativo che è proprio della rappresentanza di interessi.

L’obiettivo delle relazioni pubbliche e della lobby, come funzione di management, è di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione con un’attività continuativa, consapevole e programmata di gestione e di coordinamento dei sistemi di relazione che si attivano fra la stessa organizzazione e i suoi diversi stakeholder: orientare opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni degli stakeholder influenti e di tutti i soggetti che a vario titolo interagiscono con l’organizzazione. 

Se questi comportamenti sono posti in essere nel rispetto delle parti, non si annichilisce il dialogo ma si creano i presupposti per una negoziazione sostenibile ed inclusiva. Da questo punto di vista, gioca un ruolo cruciale il pensiero critico e l’intelligenza contestuale, una intelligenza emotiva che il relatore pubblico attua in quanto “ingegnere delle relazioni” e dei processi di cambiamento: un approccio quindi rigenerativo capace di operare in contesti complessi e trovare quindi soluzioni armoniche che creano consenso e sviluppo sostenibile.