Mi sono perso la Giornata Mondiale della Risata. E non ci trovo nulla da ridere.
Mi accontenterei di risate,
anche registrate.
Laugh track ovunque, come se
non ci fosse un domani, come sottofondo animato per i nostri talk show
casalinghi ma anche per le nostre digressioni apocalittiche al supermercato e durante
le file alla posta, dove diventiamo detrattori, giudici, presidenti del
Consiglio, allenatori della Nazionale, papi & cardinali, talent scout e
chef.
L’ingegnere del suono
americano Charles Douglass quando inventa le risate registrate ignora che
diventeranno una consuetudine nella programmazione mainstream degli Stati Uniti.
Accompagneranno generazioni nella costruzione dell’assenso, persino del
divertimento a comando e nell’autoconsolazione patriottica.
La risata ha poteri curativi
importanti e non ha effetti collaterali. Anzi, parrebbe migliorare la
circolazione e l’ossigenazione del sangue e la produzione di endorfine. Il
cortisolo si riduce sensibilmente a supporto, persino, delle difese
immunitarie.
Patch Adams, fondatore del
Gesundheit Institute e ideatore della clownterapia, sosteneva che la buona
salute è questione di risate.
Mark Twain sosteneva che “contro
l’assalto delle risate, nulla può resistere”.
In effetti, con dodici muscoli
si altera a piacimento l’intero pattern espressivo umano, diventiamo indocili,
mettiamo in crisi certezze altrui e pungoliamo l’establishment.
E per fare il broncio? Ne
occorrono settantadue, decisamente antieconomico.
Ho scoperto per caso la Giornata
Mondiale della risata che, in questo sfortunato 2020, è caduta il 3 maggio,
nel lockdown generale, dove c’era ben poco di cui ridere – direte voi, diranno
gli altri.
Eppure, entrando a passi
felpati nella Fase 2, con tutte le cautele del caso, si sente l’esigenza (quasi
fisica) di abbandonare i toni apocalittici e lo psicodramma collettivo della
nostra società dello spettacolo.
Non tanto per la volontà
(quasi persino voluttà) di ‘buttarla di caciara’, quanto per ridimensionare
il mood declinista, catastrofista, immanentista dei mesi precedenti l’arrivo
del virus. Dove la sintassi si destreggiava con armi di distruzioni di
massa.
Alle nostre latitudini, dov’è
che si apprendono stile & prestanza nel confronto pubblico? Nei talk
show – ovviamente – dove l’infotainment e il politainment sono governati da
media logic e dallo share; dove gli ‘elettori fluttuanti’ sono pane demoscopico
irrinunciabile, sorpresi nelle loro tentazioni di voyeurismo e tanaturismo.
Care ‘very important person’ del
momento (mi riferisco ai fluttuanti citati), la balistica del priming si
collega al processo di agenda building: fatevene una ragione, è il destino di
tutti noi!
Adeguati o inadatti, preparati
o ignoranti, attenti o distratti, siamo entrati nei mondi di Carta Bianca,
Agorà, Ottoemezzo, L’aria che tira, La Gabbia, Piazza Pulita, Virus, Matrix,
Annozero, Ballarò, Porta-a-Porta, Milano Italia, Profondo Nord, Omnibus
Servizio Pubblico, DiMartedì, Che tempo che fa (quanti ne dimentico tra
presenti e passati?) e da lì non ne siamo più usciti.
Ricordate ‘Faccia a faccia’, il
rotocalco televisivo condotto da Enzo Biagi o ‘Tribuna elettorale’ o ancora ‘Bontà
loro’, condotto da Maurizio Costanzo?
Vanaglorismo? Macché.
Bourdieu parlava di censura
invisibile e di violenza simbolica, i più intemperanti di dumbing down, i più
incarogniti di effetti Manchurian, io (sommessamente) di distrazioni incaute
di massa.
Gli elettori fluttuanti hanno
potuto contare su piazze televisive dove farsene una ragione, per poi trovare
conferma nei bias della cultura digitale.
Figurarsi il 47% dei
cosiddetti analfabetici funzionali: pane per i loro denti affilati.
Ma torniamo ai cosiddetti political
debate shows che imperversano più tonici che mai.
Ma è così dappertutto? Per
esempio, nella tv britannica? Uno solo e si chiama “Question Time”.
“Sì, ma loro sono algidi,
mentre noi italiani siamo focosi, urlatori, passionali”.
Sia. Ma se con i canali tv
nazionali presenti sulle principali piattaforme (nel 2017 erano 361), che fanno
capo a 59 editori, si riuscisse a trovare un accordo di massima su una pausa
da ricostruzione che riveda il linguaggio, le tassonomie, il mood generale,
non potremmo riuscire a sotterrare l’ascia di guerra per ritrovare gli
anticorpi di una comunicazione razionale e meno emotiva?
Non consolatoria e nemmeno intimista.
Pervicacemente contro la
ciarla e l’avventurismo, in vista di un futuro che riscatti i dolori individuali
e collettivi, prendendoci tutti insieme la responsabilità della ripartenza.
Con il ricorso alle energie
migliori del bel Paese, della nostra provincia, alle esperienze delle nuove
professioni o dei nuovi lavori, con l’ottimismo tipico di chi deve scrollarsi
di dosso calcinacci, polvere e morchie varie. Con l’utilizzo della retorica –
stavolta necessaria – del ‘tutti-per-uno’.
In mancanza di ciò: autopunizione,
rinuncia alla mediazione e alla interpretazione di ciò che accade attorno a
noi. Silenzio.
E dunque il necessario ricorso
alle risate. Per iniettare dosi omeopatiche di endorfine nelle relazioni
ordinarie, in quelle istituzionali, nella politica locale, nella stampa locale.
Risate pericolose,
irriverenti, destabilizzanti, cauterizzanti, come
quelle descritte da Arthur Schopenhauer ne ‘Il mondo come volontà e
rappresentazione’ o quelle di Friedrich Nietzsche ne ‘La gaia scienza’.
Altrimenti?
Avrà avuto ragione Michel
Houellebecq, a proposito di questo virus banale, senza qualità: “Non ci
risveglieremo, dopo il lockdown, in un nuovo mondo; sarà lo stesso, ma un po’
peggio”.