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Non bastano competenze, ci vogliono virtù: come discutere bene per vivere felici

Non bastano competenze, ci vogliono virtù: come discutere bene per vivere felici

Il duplice vantaggio della ricerca della felicità nelle discussioni

Tale prospettiva, rispetto ad altre, è in grado di apportare un duplice vantaggio. Il primo è quello di concentrarsi non solo sulla qualità degli argomenti e sul modo con cui vengono affrontati, ma soprattutto sulla condizione degli argomentatori (più o meno soddisfatti) prima, durante e dopo lo scambio.

Il criterio della felicità mette al centro delle discussioni le persone, senza cedere ora a un intellettualismo formale che dimentica il fattore umano, ora a valutazioni puramente di metodo che dimenticano come quei modi incidano sulla vita reale di chi partecipa a uno scambio dialettico.

Da qui il secondo vantaggio: una prospettiva basata sulla felicità costringe ad ancorare i criteri del buon discutere alla realtà concreta dei dibattiti in carne e ossa che avvengono nella vita quotidiana online e offline, pena altrimenti il produrre visioni idealistiche che propongono dibattiti impossibili da applicare nelle situazioni reali.

Oltre gli argomenti c’è di più: la teoria delle virtù dell’argomentazione

A questo proposito ci sono alcuni spunti molto promettenti provenienti dalla cosiddetta Teoria delle Virtù dell’Argomentazione (in breve VAT) che alcuni autori hanno proposto negli ultimi anni (Cohen 2008, 2013; Aberdein 2010, 2014; Paglieri, 2015; Gascon, 2016).

L’approccio delle virtù dell’argomentazione sostiene che ogni scambio andrebbe considerato mettendo al centro dell’osservazione l’argomentatore e il suo modo di comportarsi nelle interazioni. Un comportamento che può essere virtuoso quando contribuisce alla buona riuscita della discussione, vizioso quando i suoi atti non fanno che distruggere il confronto o renderlo impossibile. La prospettiva della VAT, insomma, potrebbe essere riassunta nello slogan “oltre gli argomenti c’è di più”.

È un approccio particolarmente adatto a osservare e comprendere ciò che succede nelle discussioni online sui social network e in rete dove gli aspetti identitari e i modi di fare sono preminenti rispetto alle idee e ai contenuti: considerare i primi è un modo per tornare a porre al centro i secondi.

Il punto centrale di questo tipo di approccio è che per produrre dispute al contempo competitive (che vadano quindi fino in fondo nelle questioni) e cooperative (che tengano assieme i disputanti senza portarli al muro contro muro) c’è bisogno di concentrarsi sulla capacità umana di scegliere il bene della discussione nel proprio comportamento dialettico.

Al contrario, se si rimane in un’ottica puramente basata sulle abilità argomentative o sulla qualità degli argomenti, difficilmente si riesce a produrre lo stesso effetto. Dal punto di vista educativo la questione è cruciale: se si punta alle semplici competenze (il saper fare) senza le virtù (il saper fare il bene) difficilmente si otterrà un miglioramento dei dibattiti e della capacità dei cittadini di stare in essi in modo soddisfacente e sostenibile[1].

Il litigio Orsini-Ruggeri a Cartabianca

Partiamo con un percorso inverso: osserviamo ciò che non funziona in una discussione e proviamo a mettere a fuoco ciò su cui si potrebbe intervenire per risanare gli scambi deragliati.

Qualche settimana fa, nella trasmissione “Cartabianca” di Rai3, Alessandro Orsini, docente di sociologia alla Luiss, e Andrea Ruggeri, deputato di Forza Italia, sono stati protagonisti di un duro scontro verbale.

La discussione verteva sulla questione della guerra in Ucraina e la posizione di Putin nei confronti della Nato. Uno scambio che, sulla carta, aveva tutti i crismi per funzionare: due interlocutori titolati a parlarne e dotati di tutte le competenze necessarie e sufficienti per argomentare sulla questione.

A un certo punto del confronto, però, qualcosa va storto e l’interazione smette di essere un argomentare e controargomentare e diventa un litigio, ponendo di fatto fine al confronto.

Riporto quali sono stati, più o meno, alcuni degli ultimi passaggi dell’interazione:

-Orsini: “Quello che sto dicendo è che se noi gli mettiamo i “soldatini” e i carriarmati al confine, non va bene per l’Italia”.

-Ruggeri: “Senta non è che siamo dei minus habentes, lei è sicuramente un uomo intelligente non c’è bisogno di fare “i disegnini”… “i soldatini”, non è che siamo tutti più scemi di lei, professore”.

-Orsini: “Nel suo caso qualche dubbio lo avrei!”

-Ruggeri: “Probabilmente ha ragione. Le spiego perché. Io ho lavorato tredici anni in televisione, di gente frustrata come lei che spara qualunque cosa pur di farsi riconoscere al supermercato ne ho visti a decine. Lei è un “vorrei ma non posso” nella vita che cerca di farsi riconoscere per strada. Io rappresento qualcuno, seppur indegnamente, lei non rappresenta nessuno; quindi stia buono al suo posto. Questo è il pupazzo che diceva che nel 2018 avremmo subìto un attentato dell’Isis…”

-Orsini: “Lei è un bugiardo. Lei è un disonesto. Quel video è tagliato.”

-Ruggeri: “È un complotto? Di Chi?”

-Orsini: “Le voglio spiegare perché lei è un cretino. Quel video è tagliato, è un falso”.

Dal discutere sulla questione da cui si era partiti, ciascun interlocutore è passato ad attaccare l’altro sul personale. È accaduto cioè uno spostamento del disaccordo dal contenuto della discussione alla relazione tra i due contendenti (Wazlawick 1971, pp.73-74). Tanto che il tema iniziale è scomparso completamente dal discorso di entrambi. Non si discutono più le idee, ma di come le persone coinvolte si presentano inadeguate allo scambio.

Dal litigio alla perdita di fiducia nel dibattito

Vorrei osservare almeno tre effetti che questo tipo di fallimento di una discussione porta con sé (una trattazione più estesa del tema in Mastroianni, 2020).

Il primo, come abbiamo visto, è la perdita del tema oggetto di discussione: si smette di discutere e di argomentare su ciò da cui si era partiti nel confronto e si passa a criticare i comportamenti dell’interlocutore nel dibattito.

Il secondo effetto lo definirei di trasparenza: mentre i due si accusano a vicenda e vanno allo scontro, mostrano a chi assiste alla discussione alcuni loro aspetti caratteriali e di atteggiamento (negativi in questo caso) privi dell’abituale filtro sociale che avrebbe fatto mantenere loro il controllo delle proprie reazioni. In questo caso i due protagonisti finiscono in una sorta di gara infantile per dimostrare chi è il migliore.

Il terzo effetto, che è quello più grave, è la spettacolarità. Chi osserva due persone che si scontrano può provare una forma di piacere. La soddisfazione di vedere uno sovrastare l’altro, grazie alla aggressività delle espressioni più che per la forza delle argomentazioni, secondo dinamiche tipiche di dominanza e discredito (D’Errico & Poggi, 2010).

Questo tipo di soddisfazione può essere ricondotta a quelli che Aristotele definisce piaceri deplorevoli o distraenti (Aristotele, 1175b, 1173b) che non portano cioè verso il bene dell’azione in oggetto (in questo caso una discussione) ma distolgono da essa.

Ora il punto è che nel partecipare a questo spettacolo che provoca un piacere distraente o deplorevole si paga un biglietto molto salato che è la perdita di fiducia (Mastroianni 2020, p. 27-29). Gli effetti, infatti, dello spostamento del focus dalla discussione alla messa in discussione dei disputanti produce una perdita di fiducia nel dibattito: a forza di perdere per strada i temi, si ha la sensazione che non si possa davvero discutere.

Il caso riportato, come molti che si possono osservare online e offline, aggiunge un ulteriore carico su questa triplice sfiducia perché la dinamica si genera tra un esperto e un politico, cioè personaggi pubblici, titolati e che ricoprono un ruolo nella società. I comuni cittadini che assistono si sentiranno a maggior ragione fiaccati nella possibilità di intrattenere discussioni significative.

Si nota insomma come in questo scambio ciò che viene a mancare da parte degli argomentatori è la dedizione al tema (cioè il continuare ad argomentare nel merito) e il distacco da sé (non finire su un piano personale e ad hominem).

Il punto che vorrei sottolineare è che i due disputanti non compiono solo scorrettezze argomentative, ma è come se dimenticassero la reale posta in gioco: il possibile bene che poteva derivare dal confronto, sia per loro come contendenti, sia nei confronti del numeroso pubblico che assiste alla loro discussione, il quale non sta più ottenendo benefici in termini di migliore conoscenza e messa a fuoco dell’argomento.

In altre parole, questo esempio, che è solo uno tra i tanti possibili, ci mostra che una discussione non fallisce solo sul piano dell’argomento (che si è perso per strada ed è entrato su un terreno puramente ad hominem), non fallisce nemmeno solo sul piano dell’argomentare (che è diventato un denunciare le presunte inadeguatezze dell’altro), ma la pienezza del suo fallimento si può davvero capire solo se la si giudica dal punto di vista del bene in gioco per gli attori coinvolti, che non sono solo i due disputanti, ma anche tutti gli altri astanti che, pur senza intervenire, hanno un ruolo attivo nella discussione (Cohen 2013).

I tre antidoti al litigio e il comportamento dell’argomentatore

Per rispondere al problema delle polarizzazioni occorre insomma lavorare su tre dimensioni:

1. La dedizione al tema: il saper stare sul tema e tornare continuamente a esso sarà una delle strade maestre per ricostruire la fiducia nella possibilità di discutere.

2. La padronanza sull’effetto trasparenza: la capacità dell’argomentatore di presentarsi al pubblico nella discussione sarà un aspetto centrale (e non collaterale) della discussione stessa.

3. Una spettacolarità “virtuosa”: realizzare dispute che producano nell’assistervi non un piacere di tipo deplorevole o distraente, ma il piacere che si genera nel condurre un’attività in modo eccellente perseguendo il bene che porta in sé stessa (che in una discussione è il capire meglio una certa questione grazie al confronto di idee).

La sfida numero 1, che mette al centro il valore dell’argomento, sembra apparentemente contraddire quanto detto a proposito delle virtù dell’argomentatore[2]. In realtà più che una contraddizione è una conferma: la centralità dell’argomento è subordinata alla centralità del comportamento dell’argomentatore e non viceversa.

Se è vero infatti che, da un punto di vista teorico, la centralità dell’argomento si può considerare prioritaria rispetto al comportamento dell’argomentatore, in una discussione reale la possibilità di mettere l’argomento al centro, tenendo la sua validità come fulcro valutativo della discussione, è sempre subordinata alla capacità e alla motivazione degli argomentatori di stare in esso e di non deviare.

È una sorta di paradosso che potremmo così formulare: per mantenere al centro gli argomenti e non finire sul personale c’è bisogno di una motivazione personale a mettere al centro l’argomento. Senza questa motivazione, la priorità che l’argomento ha dal punto di vista teorico e logico viene persa nella pratica, come nell’esempio visto nel paragrafo precedente: dal contenuto della discussione ci si sposta alla relazione e al giudizio (negativo) sulle persone. Validità e legittimità dell’argomento, da sole, non potranno mai sostenere il buon esito di una discussione reale. Se si vuole essere realisticamente dediti all’argomento e dare validità e legittimità delle argomentazioni non si può prescindere dal fatto che quella centralità dipenderà da quanto gli argomentatori (le persone in carne e ossa) saranno motivate a impegnarsi in essa.

La virtù nell’argomentare: un esempio pratico

Proviamo a spiegarlo attraverso un esempio. Un formatore sta facendo una lezione sulla gestione della propria reputazione online in un’azienda. Sta parlando in particolare della gestione intelligente della propria immagine sui social. In quel momento uno dei partecipanti alza la mano mostrando sul suo smartphone una foto del formatore tratta da Instagram e dice: “Questa accresce la sua reputazione?”

Si dà il caso che la foto ritragga il formatore a torso nudo, con un vistoso tatuaggio sulla spalla, mentre sta fumando. L’affermazione ha una formulazione entimematica (Paglieri 2011) perché in modo implicito e allusivo sta sostenendo che la foto ha qualcosa di negativo per l’immagine del formatore e quindi ne compromette l’attendibilità e la credibilità sul tema.

Si tratta di un attacco ad hominem piuttosto efficace perché allude a un comportamento personale del formatore che potrebbe indebolire la sua autorevolezza nell’argomentare (Aberdein 2014) sul tema delle immagini e la reputazione online.

Non si tratta di un attacco che possa essere liquidato come una mera distrazione rispetto al tema, perché il dubbio di credibilità sollevato è pertinente all’argomento oggetto di discussione (Mastroianni, 2020, pp. 95-96).

In tale situazione il formatore potrebbe rispondere secondo una prospettiva pragmatica e di pura logica informale denunciando l’ad hominem: “Cosa centrano le mie competenze con i miei fatti privati?” e tentare una contro-argomentazione per ricostruire la sua credibilità: “Ho diversi anni di studio sul tema alle spalle”.

L’effetto di questa affermazione però correrebbe un rischio simile all’esempio che abbiamo visto prima, scivolando nei tre effetti del litigio: perdita del merito del tema (si smetterà di parlare di reputazione digitale e si discuterà piuttosto della coerenza del formatore o del modo di porsi pregiudiziale da parte del partecipante), trasparenza (si noterà che i due non sono in una buona relazione, perché uno accusa e l’altro difende il suo buon nome), spettacolo (alcuni partecipanti si immedesimeranno nella critica del partecipante, altri saranno dalla parte del formatore).

Ora pensiamo invece a una risposta diversa, che definirei all’altezza della dedizione all’argomento e del distacco da sé richiesta a un disputatore virtuoso: “Il fatto che lei trovi inopportuna la mia foto conferma quanto sia importante riflettere su ciò che pubblichiamo su di noi online, non trova?”.

Dando una risposta del genere il formatore avrebbe tre effetti: quello di rinforzare la relazione nel momento del dissenso (non si è offeso per la presunta accusa, ma l’ha accettata come argomentazione a cui replicare), quello di ritornare al merito della questione perché è come se stesse dicendo “non parliamo di me, torniamo a parlare del tema”, infine di rendere lo scambio gradevole e spettacolare grazie a una sovversione (Mastroianni, 2017, pp. 105-108) che ribalta una presunta debolezza (aver pubblicato una foto disinvolta = non essere coerente) trasformandola in un punto di forza (foto percepita come inadatta = importanza del tema della reputazione).

Quello che si può osservare in queste due differenti possibili reazioni del formatore è che per mettere l’argomento al centro di una discussione, e mantenerlo tale, c’è bisogno di motivazioni che vanno oltre l’argomento in sé. In questo caso: distacco da sé stesso per non offendersi, motivazione a cooperare anche in caso di dissenso, sensibilità per il bene di chi ascolta e per mantenere il focus della discussione.

Il ritorno all’argomento è avvenuto grazie alla presenza di una virtù in azione, in questo caso l’umiltà intellettuale (Kidd 2016) che ha permesso al formatore di avere la confidenza necessaria per accettare la messa in dubbio della sua coerenza e credibilità. È quella che altrove ho definito “la mossa del gattino” (Mastroianni, 2019): invece di contrattaccare denunciando l’azione scorretta dell’avversario e allargando la portata delle proprie competenze (come un fiero leone che distrae dall’argomento difendendo sé stesso); ridurre il proprio perimetro (il gattino), accettare la critica, e mostrare che proprio quel limite apparente in realtà si può trasformare in una risorsa utile per affrontare l’argomento e quindi tornare a esso.

Il comportamento virtuoso pone al centro l’argomento

Al di là del caso in sé, di cui è difficile dare una reale stima di come andrebbe a finire, c’è un elemento da rilevare: la prospettiva dell’argomento al centro (e la sua validità) si realizza pienamente in presenza di un argomentare che segua la prospettiva delle virtù. Il comportamento virtuoso dell’argomentatore non può che favorire la messa al centro dell’argomento, scongiurando che si finisca a distrarsi andando sul personale.

Questo introduce e si collega alla sfida numero 2 sull’effetto trasparenza e la conseguente padronanza di sé che un argomentatore dovrebbe avere in un dibattito. Qui arriviamo agli aspetti più pragmatici dell’interazione (cioè sull’argomentare in modo più o meno corretto) il cui peso si coglie fino in fondo proprio grazie allo sguardo più ampio delle virtù o dei vizi in campo.

Cosa può spingere, infatti, il formatore a non dare una risposta litigiosa e a mostrarsi paziente e disposto a discutere anche di fronte a un attacco ad hominem? Non è l’argomento in sé, non è nemmeno l’argomentare, ma qualcosa di più, cioè il riconoscimento di ciò che sta accadendo in questa discussione: la messa alla prova del formatore di fronte al pubblico.

A ben vedere, infatti, la vera posta in gioco dell’ad hominem non è riconoscibile del tutto se intesa solo in termini di logica informale e nemmeno in una chiave interpretativa prettamente pragmatica. Quel “Questa foto accresce la sua reputazione?” detto da un “partecipante tra partecipanti” nella posizione di ricevere una certa formazione, rivolto a un “formatore in cattedra” nella posizione di chi quella formazione la deve elargire, rappresenta una sfida a un intero sistema di valori e di orizzonti di significati legati alla relazione in cui gli interlocutori si stanno trovando.

La posta in gioco, insomma, non si riduce solo all’espressione di un set di idee più o meno ragionevoli sulla formazione, ma riguarda il riconoscimento o il disconoscimento della bontà di una relazione che si sta sviluppando in uno specifico e reale momento, così come riguarda il riconoscimento o meno della persona che si ha di fronte nel ruolo di esperto e competente adeguato allo scopo. C’è dentro, tra l’altro, anche l’affermazione di una visione del mondo (preminenza della coerenza personale sulla competenza) unita a un richiamo morale all’unione dei simili (i partecipanti sottoposti alle difficoltà di gestire la propria immagine pubblica) contro un diverso, il teorico-formatore, che può avere il privilegio di discettare su questo tema senza avere le mani in pasta.

È un conflitto di valori che avrà un effetto sul senso della relazione formatore-partecipante nel contesto in cui si trovano, e quindi sulla possibilità di sintonizzarsi o meno per capirsi e far andare la formazione a buon fine. È il “resto della storia” che l’ottica della VAT è in grado di riconoscere.

I modelli del duello e del duetto

Adelino Cattani nella sua riflessione sul dibattito parla di due modelli contrapposti di discussione con le efficaci immagini del duello e del duetto (Cattani 2019, p.19).

Nel primo avviene una gara in cui si decreta un vincitore e uno sconfitto, nel secondo la qualità del confronto è valutata in base alla capacità dei due interlocutori di stare nella differenza di opinioni in un certo modo.

A questa immagine si può aggiungere la riflessione di Stefano Bartezzaghi (2017) che fa notare come una competizione in cui una delle parti vinca senza alcuna resistenza dell’altra è molto meno soddisfacente di quella in cui i due sfidanti dimostrano di dare il meglio di sé. Questo fa capire che in ogni sfida la posta in gioco non è mai il semplice vincere, ma anche il giocare stesso come dimensione in cui emergono le capacità dei due contendenti di fronte a chi li osserva sfidarsi.

Nella risposta “virtuosa” il formatore ha l’occasione di generare questo tipo di soddisfazione perché è come un tennista che non si arrende di fronte alla palla lanciata dall’avversario in un angolo difficile del campo, ma si getta a recuperarla là dove è arrivata; lo scambio sarà spettacolare e chi assiste apprezzerà le mosse anche al di là di chi avrà alla fine segnato il punto (per rimanere nella metafora del gioco di Bartezzaghi).

La soddisfazione legata a un certo modo di argomentare è stata distinta da Cohen (2008) in due possibili significati. Si può essere soddisfatti da una discussione (satisfied by an argument) oppure soddisfatti nella discussione (satisfyied in the argument).

Il primo tipo di soddisfazione è più emotivo e allude a un certo tipo di effetto che si prova a causa dello scambio: ad esempio ciò che abbiamo tratteggiato come piacere nel sentirsi migliore dell’altro o nel vedere il proprio beniamino primeggiare con i suoi argomenti rispetto all’interlocutore con cui non si è d’accordo.

Diverso è invece è essere soddisfatti nella discussione, che scaturisce, come spiega Cohen, dal sentire di aver avuto la possibilità di esprimersi pienamente, di aver ricevuto il giusto ascolto, di aver visto raccolte e riconosciute le obiezioni e le critiche. Questo secondo tipo di risultato è ciò che caratterizza un buon confronto in senso virtuoso: non indica solo l’aver soddisfatto i requisiti logici, retorici e dialettici, ma indica che è stato di piena soddisfazione per le persone che vi hanno partecipato.

Nel nostro esempio, se il formatore si fosse limitato a rintuzzare il partecipante rispondendogli a tono, magari con un altro ad hominem (Schopenhauer, “Stratagemma 21”), non avrebbe davvero risposto all’emergere di un pensiero dissidente rispetto alla sua autorevolezza nel parlare di reputazione digitale. Avrebbe creato uno spettacolo negativo adatto a richiamare il consenso di coloro già in accordo con lui, ma non avrebbe dato spazio alle resistenze silenziose presenti nel pubblico a cui si stava rivolgendo. Perdendo un’occasione di migliore comprensione del tema per tutti.

La virtù include la competenza: l’importanza dell’educazione al dibattito

La buona argomentazione nella prospettiva che stiamo tracciando non è solo quella più logica o più cortese, ma soprattutto quella che è portata avanti da un argomentatore virtuoso (Cohen 2008). È una prospettiva educativa che va oltre la maturazione di semplici competenze (skill) dell’argomentazione per rivolgersi al piano più ampio delle virtù.

Aberdein fa notare che la differenza tra competenza e virtù si apprezza appieno quando si pensa ai discorsi manipolatori e alle argomentazioni fallaci che convincono commettendo un errore di ragionamento nel discorso. Una fallacia, infatti, può essere affermata in una discussione sia in modo competente (skillfull) che in modo incompetente (not skillful). Nel primo caso, siamo di fronte alla manipolazione consapevole, messa in campo ad arte da un interlocutore per ingannare gli altri; nel secondo siamo di fronte a un semplice errore di ragionamento o a un fraintendimento dovuto a una mancanza di abilità nell’argomentare.

Questa prospettiva rivela in modo particolarmente efficace come ci possa essere un argomentatore competente (skillfull) – cioè molto capace nell’usare le sue capacità dialettiche e retoriche – ma allo stesso tempo vizioso (è il caso del manipolatore). Tanto che Aberdein osserva (2010, p. 21): mentre gli argomenti viziosi possono essere skillfull (le manipolazioni) o not skillfull (gli errori di ragionamento), è molto difficile che si possa avere il contrario, cioè un argomentatore virtuoso che non sia competente. La virtù, infatti, per essere tale richiede in sé le competenze adeguate per condurre in modo eccellente l’azione. Gli argomentatori semplicemente competenti, insomma, possono essere piuttosto viziosi, come dice Cohen (2013b, p. 16).

A noi sembra quindi di poter trarre una conclusione: un’educazione al dibattito che si muova nella prospettiva delle virtù comprenderà in sé stessa e porterà al massimo grado lo sviluppo delle competenze di argomentazione, mentre una formazione basata solo sulle competenze argomentative non garantirà che da esse possano venire discussioni che davvero cerchino il bene dei partecipanti.

Come dice Adelino Cattani (2018, p. 28-29) non si tratta di formare dei nuovi sofisti capaci di sostenere qualsiasi posizione, ma persone abili nel discutere che abbiano la capacità di valutare in ogni specifica situazione il bene o il male che una disputa può procurare a sé stessi e agli altri.

Un modello semplicemente competitivo di dibattito, che abbia come principale valore la vittoria, secondo l’immagine della battaglia e del duello, potrebbe rivelarsi diseducativo: in esso, infatti, la ricerca di pura competizione basata sulle competenze dell’argomentazione porterebbe spesso a scadere nella manipolazione per ottenere la vittoria.

Allo stesso tempo, occorre ammettere che la cooperazione da sola non può bastare. Trovare punti di collaborazione in una discussione, evitando rotture, non è sufficiente come criterio per ciò che abbiamo detto della “posta in gioco”: è necessario che ci sia lo scambio, che si celebri la disputa e che si stia nel dissenso per arrivare a una discussione pienamente soddisfacente. Tra l’altro, la pura prospettiva cooperativa non riesce ad aiutare in molte situazioni reali in cui l’altro non ha intenzione di cooperare.

Ad esempio, nel caso della “foto incriminata” del formatore che abbiamo visto, un’ottica puramente cooperativa in cui la risposta non sapesse entrare in competizione con la sfida sollevata, sarebbe stata di nuovo viziosa e non virtuosa, perché non avrebbe affrontato la crisi di autorevolezza generata.

Per la riflessione fin qui svolta ci sembra, insomma, di poter dire che competizione e cooperazione senz’altro non possono essere poste in alternativa, ma non possono nemmeno essere giustapposte in una sorta di equilibrio paritario. Ci vuole un modello più articolato.

È importante che la competizione emerga sul piano del merito degli argomenti e dei loro requisiti logico-inferenziali: alle competenze di un manipolatore devono corrispondere le competenze di un interlocutore nel non lasciarsi manipolare da ragionamenti fallaci. Questo livello però dovrebbe essere costantemente corretto e completato dall’ottica della virtù capace di incidere sul comportamento da tenere in una disputa (l’effetto trasparenza) e sullo spettacolo costruttivo o meno che ne deriverà per chi assiste. In altre parole, se le competenze spingeranno a mettere tutti gli sforzi per andare fino in fondo con la massima abilità argomentativa nel mettere alla prova le proprie idee e quelle dell’altro, le virtù faranno sì che in quella competizione si mantenga il focus sul bene delle persone reali coinvolte.

Saranno le virtù, infatti, a dare la motivazione per mantenere al centro l’argomento pur nella differenza di vedute, a coltivare il distacco da sé pur di fronte ad attacchi scomposti, a essere disposti a muoversi in condizioni di discussione avverse e imperfette, e così via. Tutti elementi che sfuggirebbero o non sarebbero sufficientemente tenuti in conto dalla semplice ottica competitiva.

Conclusioni

Il vero punto però è sempre lo stesso: perché prendersi la briga di tutto questo sforzo virtuoso? Qui si torna al punto che abbiamo messo a fuoco in partenza: la felicità che l’agire virtuoso promette.

Nell’ottica delle virtù, a dare soddisfazione agli esseri umani è il compiere azioni in modo eccellente e consapevole, cioè trovando il fine nel compiere al meglio quelle azioni stesse (Aristotele, I, 7, 1097a-b), in questo caso il buon discutere.

Insomma, la questione non si riduce solo ad avere buoni argomenti (il piano del merito della questione), non dipende esclusivamente dal ben discutere (il piano dell’argomentare in modo competente), ma ha il suo culmine nell’ottenere il bene nella discussione (il piano delle virtù dell’argomentazione e della felicità che ne consegue). Quest’ultima dimensione è l’unica che può entrare in concorrenza con i piaceri distraenti prodotti dagli scontri che non portano lontano.

Farsi ispirare dalla prospettiva delle virtù nell’educazione alla disputa vuol dire in fin dei conti mettere la ricerca della felicità in competizione con le effimere promesse dei litigi.


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Note

  1. Una versione in inglese e più approfondita di questo saggio in Bruno Mastroianni, “From the Virtues of Argumentation to the Happiness of Dispute”, in Adelino Cattani e Bruno Mastroianni (a cura di), “Competing, cooperating, deciding: for a deliberative debate model”, FUP, Firenze, 2022. 
  2. Una delle critiche alla Teoria delle Virtù dell’Argomentazione è stata mossa proprio al suo essere sbilanciata sul disputante rispetto all’argomentazione che porta. Bowell and Kingsbury (2013) fanno notare che gli aspetti di validità degli argomenti sono ineliminabili, e quindi la teoria delle virtù, mettendo al centro l’argomentatore, non sembra essere in grado di porsi come reale alternativa all’approccio più classico centrato sull’argomentazione. Su una linea simile Godden (2016) ha sollevato un problema di priorità, sostenendo che un’ottica centrata sui comportamenti dell’argomentatore ha bisogno di fondamento in una certa concezione di razionalità per riconoscere in cosa consiste un buon argomento, che è poi l’obiettivo del comportamento virtuoso. Il valore dell’azione dell’argomentatore virtuoso sarebbe insomma secondario e subordinato alla qualità razionale dell’argomento. A questi rilievi ha risposto in modo piuttosto efficace Fabio Paglieri (2015) mostrando come l’aspetto davvero proficuo della VAT è proprio quello di non avere la validità e la cogenza degli argomenti al centro, cioè di non avere bisogno di tale fondamento per il suo oggetto di studio (2015, p. 69-71). Una prospettiva ripresa da Gascon (2015) nell’osservare che proprio ciò che va oltre la mera validità e consistenza è essenziale per valutare l’argomentazione in modo davvero completo.