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Oltre il Pil: la spinta di cinque governi per rilanciare l’economia del benessere

Oltre il Pil: la spinta di cinque governi per rilanciare l’economia del benessere

Misurare ciò che conta”, avevano scritto nel 2021 Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, Jean-Paul Fitoussi (da tempo in odore di Nobel, ma purtroppo morto nell’aprile del ‘22) e Martine Durand. Perché è proprio il momento di andare al di là del Prodotto interno lordo, uno strumento che indica quantità di ricchezza prodotta e non qualità dei risultati delle scelte economiche. E “ciò che conta davvero è il benessere”.

Il libro, pubblicato in Italia da Einaudi, riprendeva i temi di un famoso rapporto, firmato nel 2009 appunto da Stiglitz, Fitoussi e da un altro premio Nobel, Amartya Sen, per incarico di Nicolas Sarkozy, allora presidente della Repubblica francese e poi approfondito da un comitato di esperti dell’Ocse, sulla misurazione delle performance economiche e dei processi sociali. L’idea di fondo: proporre una nuova agenda economica, con un insieme di metriche per stabilire lo stato di salute e l’accettabilità di una società, tenendo in primo piano le misure sulla diseguaglianza e sulla vulnerabilità economica, sulla sostenibilità ambientale e su come le persone percepiscono la propria vita e ne possono progettare il miglioramento.

Il tema, al di là del dibattito economico, è stato rilanciato con un’iniziativa politica di rilievo, proprio negli ultimi giorni del 2022, da cinque capi di governo, Jacinda Arden (Nuova Zelanda), Sanna Marin (Finlandia), Katrín Jakobsdóttir (Islanda), Nicola Sturgeon (Scozia) e Mark Drakeford (Galles), che hanno scelto di lavorare insieme per una “Wellbeing Economy Governments Partnership”, cui potrebbero presto aderire anche Canada e Australia. Wellbeing, benessere, appunto. Una scelta politica di grande valore strategico.

L’idea di fondo, infatti, è quella di orientare le scelte politiche verso la qualità della vita e la sostenibilità, ambientale e sociale, dello sviluppo economico, andando al di là della dimensione puramente quantitativa della crescita, proprio quella misurata dal Pil. E la scelta dell’unità di misura ha una straordinaria valenza politica ed etica. Guardando non soltanto alla ricchezza prodotta ma soprattutto alla sua distribuzione, alle opportunità offerte alle nuove generazioni, alla salute, all’istruzione, agli impegnativi abbattimenti delle diseguaglianze.

I tempi di crisi che stiamo vivendo, fin dall’inizio del nuovo millennio (disastri climatici e ambientali, pandemie, crolli finanziari, tensioni geopolitiche sino alle esplosioni di guerra, fratture sociali, aumento dei divari geografici, generazionali, di genere) hanno portato alla ribalta la necessità di ripensare radicalmente i parametri economici tradizionali, in direzione di una “economia giusta” (l’espressione cara a Papa Francesco) e di seguire nuovi paradigmi di sviluppo.

Nulla a che vedere, naturalmente, con la “decrescita felice” teorizzata da economisti eccentrici alla Serge Latouche (in realtà, infelice: senza crescita non ci sono risorse da redistribuire, né investimenti in innovazione né nuovo lavoro). C’è molto, invece, da discutere proprio nel momento in cui i temi dell’ambiente e della giustizia sociale e della risposta alle drammatiche fratture dei tradizionali e distorti equilibri di produzione e di scambio impongono la ridefinizione di relazioni, poteri, valori. E la scrittura di nuove mappe economiche e non soltanto il riaggiustamento marginale della distribuzione del valore generato dall’economia (profitti, corsi di Borsa). Mappe essenziali, anche per il riequilibrio della globalizzazione.

Economia civile, economia circolare, economia generativa sono termini che sempre più spesso arricchiscono il dibattito culturale e sociale e che incidono sulla ricerca di nuovi e migliori assetti d’esistenza e di futuro.

Trova, insomma, rilievo crescente anche in politica l’essenziale passaggio, diffuso nel mondo dell’impresa, dal primato dello shareholders value (profitti, appunto) a quello degli stakeholders values (i valori che riguardano tutti coloro che hanno a che fare con l’impresa: dipendenti, fornitori, clienti e consumatori, cittadini delle comunità e dei territori su cui impatta l’attività aziendale) e la cui eco risuona con forza nei “bilanci sociali” e “di sostenibilità” e soprattutto nelle scelte di parecchi gruppi industriali e finanziari di incorporare proprio quelle voci nell’unico bilancio aziendale: una scelta chiara di buona etica d’impresa, d’una radicata “morale del tornio”. Benessere, dunque. E sostenibilità.

Analizzando bene le recenti scelte economiche della Ue con il Recovery Fund come risposta alla crisi post pandemia da Covid19, si ritrovano chiare le tracce di queste nuove sensibilità: attenzione alla next generation, istruzione, salute, ricerca economica, sostenibilità nella twin transition ambientale e digitale. Una migliore idea di futuro. In cui proprio l’Europa, riscoprendo, rilanciando e riformando la proprio profonda sensibilità storica e contemporanea per il welfare, ha un ruolo fondamentale. La sintonia con la Wellbeing Economy della Arden e della Marin è evidente.

L’Italia, in questo processo riformatore, ha una posizione di primo piano. Come dimostra proprio un indicatore, il Bes, l’indice del “Benessere equo e sostenibile”, elaborato dall’Istat e dal Cnel, che dal 2017 accompagna il Documento di Economia e Finanza del Governo, misurando con 12 parametri l’andamento delle condizioni sociali del Paese. Un indicatore di cui è necessario tenere sempre più conto.

Vale la pena, in questo processo riformatore dell’economia, dei suoi valori e dei suoi indici, rileggere anche una lezione politica fondamentale, quella di Robert Kennedy, in un discorso fatto agli studenti dell’università del Kansas nel marzo del 1968, tre mesi prima di essere ucciso. Proprio sul Pil che “misura tutto, eccetto ciò che rende che rende la vita veramente degna di essere vissuta” e che “può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani”.

Eccolo, dunque, il monito kennediano: “Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto interno lordo”. Il Pil, infatti, “comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzino la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari”.Il Pil, insomma, “non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei nostri valori familiari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese”. Più di mezzo secolo dopo, il messaggio è quanto mai attuale.