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Senza i colori non si fa la storia

Lo studioso francese Pastoureau: l’ultima frontiera del marketing è azzeccare la tinta giusta.
Ecco un uomo che ne ha davvero viste di tutti i colori. Grande storico (il celebre saggio «Medioevo simbolico») e araldista, certo: ma Michel Pastoureau, classe 1947, è soprattutto il maggior esperto al mondo dei colori, della loro storia e dei loro significati. Tanto che oggi esce in Italia «I colori dei nostri ricordi» (Ponte alle Grazie), l’autobiografia che racconta tutti i colori della vita, la sua. Dunque Pastoureau è la persona giusta per decrittare la giungla cromatica della politica italiana, improvvisamente coloratissima dopo decenni di grigio diccì.
Professore, Milano passa alla sinistra e i vincitori festeggiano inalberando bandiere arancioni.
«Perché il rosso è troppo connotato, troppo a gauche. E rinvia a una storia passata. L’arancione lo ricorda, ma non è così forte: è un colore moderato. Ed è anche allegro, tonico, dinamico, caloroso: il rosso senza la sua drammaticità. E poi c’è un’altra ragione, più sottile».
Quale?
«Beh, in Occidente è il colore dei mezzi di soccorso, della tuta dei pompieri, del giubbotto di salvataggio. Dunque, il suo messaggio è: siamo in emergenza, ma gli arancioni vi salveranno». Gli antiberlusconiani più anti sono, invece, il popolo viola. «Colore che personalmente detesto. Non credo che nella scelta ci sia un messaggio preciso: i grandi colori sono quasi tutti politicamente “presi”, restano le seconde scelte. E il viola è così forte da gridare la collera di chi lo porta».
Perché gli antimondialisti violenti sono i black bloc? Il nero non è di destra?
«Sì, ma in questo caso il riferimento è al colore degli anarchici di fine Ottocento, che scelsero appunto il nero per distinguersi dal rosso socialista con l’idea di superare a sinistra la sinistra. Solo che poi, anche nei colori, l’estrema sinistra finisce per sfociare nell’estrema destra».
I Verdi, invece, sono verdi…
«Un geniale colpo di marketing. Oggi non si può pronunciare la parola “verde” senza pensare appunto ai Verdi. Non è così scontato: il verde, nel Medioevo e nel Rinascimento, aveva una cattiva reputazione, perché si sapeva fabbricarlo ma non fissarlo. Quindi finì per rappresentare tutto quel che è instabile, ingannevole: la giovinezza, l’amore, la fortuna e anche la menzogna e il tradimento. Oltre ovviamente al denaro, associazione poi ribadita dal dollaro come “biglietto verde”. Colore dell’Islam, era per l’europeo medievale anche quello del diavolo. Nessuno l’avrebbe associato alla Natura: per simboleggiarla, si faceva piuttosto riferimento ai quattro elementi che si credeva la componessero, terra, aria, acqua e fuoco. Solo dal XVIII secolo si comincia a pensare al verde come colore della vegetazione, quindi della Natura».
Il rosa è femminista?
«Solo perché è un colore che gli uomini portano poco. Ma all’inizio del XX secolo le prime suffragette avevano scelto, piuttosto, il viola».
Lei è appassionatissimo di calcio. Che significa il rossonero dei campioni d’Italia?
«Nulla di politico. I giocatori non lo sanno, i tifosi nemmeno, ma gli araldisti sì: sia il rossonero che il nerazzurro sono documentati fin dal XV secolo come colori di due quartieri di Milano. Ed evidentemente a fine Ottocento il ricordo era ancora vivo».
E la Juventus, allora?
«No, qui è diverso: il bianco e il nero sono i colori scelti dai movimenti dei giovani del XIX secolo. Juventus, giovinezza: il bianconero viene da lì».
Confessi: qual è il suo colore preferito?
«Da sempre, il verde. Mi piace il verde scuro. E mi piace la parola “vert”, che in francese vuol dire anche vigoroso, in gamba».
Però in italiano «essere al verde» significa non avere soldi…
«Ma in Francia uno squattrinato “est au rouge”, è al rosso».