Quando la diversità diventa un imperativo aziendale
Sempre più aziende stanno chiamando esperti in risorse umane specializzati nel promuovere politiche aziendali inclusive
AAA Cercasi diversity manager. «Il candidato ideale sarà responsabile per la diversità e l’inclusione all’interno dell’azienda. Una persona che sappia coltivare un ambiente aperto e favorevole a tutti i dipendenti evitando discriminazioni in base a razza, genere e orientamento».
Negli ultimi tempi post come questo si sono moltiplicati. Esperti in risorse umane specializzati nel promuovere politiche aziendali inclusive stanno spuntando in molte aziende di alto profilo. Secondo i dati del sito di offerte di lavoro Indeed tra il 2017 e il 2018 gli annunci per posizioni legate al miglioramento di diversità e inclusione sul posto di lavoro sono aumentate di quasi il 20%.
Nel 2018 il dibattito su diversità, inclusione e appartenenza ha dominato le conversazioni nella Silicon Valley, a Hollywood, nel mondo dello sport e nella politica. Inoltre la combinazione di una popolazione sempre più diversificata e di una mobilità senza confini fa sì che la diversità e gli sforzi di inclusione nel settore privato si siano fatti più urgenti che mai. Negli ultimi due anni i giganti della tecnologia Google e Facebook in testa, in gran parte bianchi e maschi da cima a fondo, hanno iniziato a riconoscere la drammatica mancanza di diversità nella loro forza lavoro come un grave problema, non solo di facciata. Diversi studi hanno infatti confermato che empowerment, dialogo aperto e stili di lavoro inclusivi portano a maggiori entrate, aumento della produttività e migliore innovazione. Un recente sondaggio di McKinsey & Company ha rilevato che le società più inclusive hanno superato i concorrenti in termini di performance con guadagni superiori del 15%.
Costruire una forza lavoro aziendale eterogenea per razza, età, genere è dunque molto più che una valida iniziativa d’immagine. Apple, Google, Microsoft e Facebook stanno assumendo Chief Diversity Officers dal 2016. Per i suoi sessantamila dipendenti Google organizza persino corsi di formazione sui «pregiudizi inconsci». Il pregiudizio inconscio si riferisce agli stereotipi, sia negativi che positivi, che esistono nel subconscio umano e che influenzano il modo di agire nei confronti degli altri. Per i dirigenti della società di Mountain View diventare consapevoli di tali pregiudizi può portare a prendere decisioni più obiettive, a facilitare le interazioni inclusive e a creare opportunità. Tutto a vantaggio dell’azienda.
La consulenza di un responsabile della diversità, inclusione e appartenenza si fa ancora più urgente quando la compagnia fa scandalo. Lo scorso gennaio Uber ha ingaggiato Bo Young come suo primo Chief Diversity and Inclusion Officer. Una mossa strategica nel tentativo di rinnovare l’immagine aziendale in seguito alle accuse di sessismo portate alla luce dal saggio-denuncia di Susan Fowler reso pubblico nel 2017. Negli anni passati Uber si è rifiutato di condividere i suoi numeri sulla diversità pubblicamente, ma in seguito alle critiche roventi i dirigenti hanno persino assunto un team di specialisti esterni per condurre un’accurata indagine sulla cultura aziendale in nome di trasparenza e diversità. Manovra obbligata vista la quotazione in borsa.
In materia di danni d’immagine H&M, il gigante svedese della moda low-cost, ne sa qualcosa. Mesi fa una pubblicità raffigurante un bambino di colore con indosso una felpa su cui campeggiava lo slogan «Coolest Monkey in the Jungle» ha scatenato una violenta ondata di proteste. L’azienda si è scusata rapidamente rimuovendo al volo la felpa incriminata dai negozi e le pubblicità da tutti i canali. Per evitare che problemi analoghi possano in futuro verificarsi nuovamente H&M ha assunto Annie Wu come suo primo leader globale della diversità.
All’interminabile show di scivoloni mediatici politicamente scorretti ha preso parte anche Netfilx. Pochi mesi fa Verna Myers ha assunto prontamente il ruolo di VP per la strategia e l’inclusione dopo che il portavoce delle comunicazioni dell’azienda Jonathan Friedland era stato licenziato in seguito all’accusa di dichiarazioni insensibili nei confronti dei suoi colleghi di colore.
Anche da Facebook la diversità è diventata un imperativo aziendale. Con l’obiettivo di aumentare la rappresentanza delle minoranze, la compagnia californiana adotta un approccio definito «Diverse Slate» per le assunzioni, in base al quale per ogni posizione aperta deve esserci almeno un candidato di un gruppo sottorappresentato intervistato. Le grane sembrano però infinte per Zuckerberg. Lo scorso novembre è arrivata l’ennesima denuncia da parte di un ex dipendente che ha incolpato Facebook di discriminazione nei confronti delle persone di colore malgrado le pubblicizzatissime promesse per l’aumento di inclusione e diversità.
Nell’era dei social media dove le critiche e le notizie, soprattutto quelle negative, si diffondono in modo virale in pochi secondi nulla può essere lasciato al caso. Un solo passo falso può costare miliardi ma al di là dei danni d’immagine l’aumento della richiesta di personale in ruoli tanto delicati rappresenta un primo, concreto passo avanti verso una migliore cultura del posto di lavoro.
(Nella foto, una scena di «Dear White People»).
Negli ultimi tempi post come questo si sono moltiplicati. Esperti in risorse umane specializzati nel promuovere politiche aziendali inclusive stanno spuntando in molte aziende di alto profilo. Secondo i dati del sito di offerte di lavoro Indeed tra il 2017 e il 2018 gli annunci per posizioni legate al miglioramento di diversità e inclusione sul posto di lavoro sono aumentate di quasi il 20%.
Nel 2018 il dibattito su diversità, inclusione e appartenenza ha dominato le conversazioni nella Silicon Valley, a Hollywood, nel mondo dello sport e nella politica. Inoltre la combinazione di una popolazione sempre più diversificata e di una mobilità senza confini fa sì che la diversità e gli sforzi di inclusione nel settore privato si siano fatti più urgenti che mai. Negli ultimi due anni i giganti della tecnologia Google e Facebook in testa, in gran parte bianchi e maschi da cima a fondo, hanno iniziato a riconoscere la drammatica mancanza di diversità nella loro forza lavoro come un grave problema, non solo di facciata. Diversi studi hanno infatti confermato che empowerment, dialogo aperto e stili di lavoro inclusivi portano a maggiori entrate, aumento della produttività e migliore innovazione. Un recente sondaggio di McKinsey & Company ha rilevato che le società più inclusive hanno superato i concorrenti in termini di performance con guadagni superiori del 15%.
Costruire una forza lavoro aziendale eterogenea per razza, età, genere è dunque molto più che una valida iniziativa d’immagine. Apple, Google, Microsoft e Facebook stanno assumendo Chief Diversity Officers dal 2016. Per i suoi sessantamila dipendenti Google organizza persino corsi di formazione sui «pregiudizi inconsci». Il pregiudizio inconscio si riferisce agli stereotipi, sia negativi che positivi, che esistono nel subconscio umano e che influenzano il modo di agire nei confronti degli altri. Per i dirigenti della società di Mountain View diventare consapevoli di tali pregiudizi può portare a prendere decisioni più obiettive, a facilitare le interazioni inclusive e a creare opportunità. Tutto a vantaggio dell’azienda.
La consulenza di un responsabile della diversità, inclusione e appartenenza si fa ancora più urgente quando la compagnia fa scandalo. Lo scorso gennaio Uber ha ingaggiato Bo Young come suo primo Chief Diversity and Inclusion Officer. Una mossa strategica nel tentativo di rinnovare l’immagine aziendale in seguito alle accuse di sessismo portate alla luce dal saggio-denuncia di Susan Fowler reso pubblico nel 2017. Negli anni passati Uber si è rifiutato di condividere i suoi numeri sulla diversità pubblicamente, ma in seguito alle critiche roventi i dirigenti hanno persino assunto un team di specialisti esterni per condurre un’accurata indagine sulla cultura aziendale in nome di trasparenza e diversità. Manovra obbligata vista la quotazione in borsa.
In materia di danni d’immagine H&M, il gigante svedese della moda low-cost, ne sa qualcosa. Mesi fa una pubblicità raffigurante un bambino di colore con indosso una felpa su cui campeggiava lo slogan «Coolest Monkey in the Jungle» ha scatenato una violenta ondata di proteste. L’azienda si è scusata rapidamente rimuovendo al volo la felpa incriminata dai negozi e le pubblicità da tutti i canali. Per evitare che problemi analoghi possano in futuro verificarsi nuovamente H&M ha assunto Annie Wu come suo primo leader globale della diversità.
All’interminabile show di scivoloni mediatici politicamente scorretti ha preso parte anche Netfilx. Pochi mesi fa Verna Myers ha assunto prontamente il ruolo di VP per la strategia e l’inclusione dopo che il portavoce delle comunicazioni dell’azienda Jonathan Friedland era stato licenziato in seguito all’accusa di dichiarazioni insensibili nei confronti dei suoi colleghi di colore.
Anche da Facebook la diversità è diventata un imperativo aziendale. Con l’obiettivo di aumentare la rappresentanza delle minoranze, la compagnia californiana adotta un approccio definito «Diverse Slate» per le assunzioni, in base al quale per ogni posizione aperta deve esserci almeno un candidato di un gruppo sottorappresentato intervistato. Le grane sembrano però infinte per Zuckerberg. Lo scorso novembre è arrivata l’ennesima denuncia da parte di un ex dipendente che ha incolpato Facebook di discriminazione nei confronti delle persone di colore malgrado le pubblicizzatissime promesse per l’aumento di inclusione e diversità.
Nell’era dei social media dove le critiche e le notizie, soprattutto quelle negative, si diffondono in modo virale in pochi secondi nulla può essere lasciato al caso. Un solo passo falso può costare miliardi ma al di là dei danni d’immagine l’aumento della richiesta di personale in ruoli tanto delicati rappresenta un primo, concreto passo avanti verso una migliore cultura del posto di lavoro.
(Nella foto, una scena di «Dear White People»).