Gli Nft sono una grande bolla?
Ci ha scherzato sopra persino Beeple, l’artista digitale che a metà marzo ha visto una sua opera digitale (in realtà un pacchetto di opere) venduta all’asta da Christie’s per 69 milioni di dollari. “Potrei essere quello che ha guadagnato più di tutti da una cosa che poi si rivela una grande bolla”, ha detto intervistato dalla Cnn. La “cosa” a cui fa riferimento Beeple sono ovviamente gli Nft (non-fungible token): la certificazione basata su blockchain che sottrae le opere d’arte digitali – e tutti gli oggetti collezionabili che vivono su internet – alla caratteristica di essere infinitamente replicabili in copie identiche all’originale. Possedere l’Nft di un oggetto digitale è come avere una figurina autografata dal campione lì ritratto, una qualità che la distingue dalla massa delle altre figurine “fungibili” (ovvero tra loro scambiabili come equivalenti) e le conferisce un valore immensamente superiore
La moda degli Nft sta imperversando da mesi nel mondo “crypto”, dando vita a fenomeni che hanno fatto alzare più di un sopracciglio: la clip di una schiacciata di LeBron James venduta a 250mila dollari? Il primo tweet di Jack Dorsey venduto al 2,9 milioni? E che dire dello stesso Beeple, che è diventato l’artista vivente più quotato al mondo dietro ai soli Jeff Koons e David Hockney? Come sempre avviene in questi casi, la frenesia per una nuova tecnologia si è trasformata in esaltazione e quindi in bolla speculativa; che inevitabilmente è scoppiata lasciando chissà quante persone col cerino in mano e il portafoglio vuoto.
Il crollo del prezzo
“Il prezzo medio per un Nft ad aprile era di 1.256 dollari, in caduta dagli oltre 4mila di fine febbraio”, scrive per esempio la Cnn. Dati confermati dai vari siti che tengono traccia del valore di questa nuova forma di collezionismo digitale. La bolla, insomma, è scoppiata: questo però non significa che la tecnologia non sia valida o piena di potenziale (come già avvenuto con le dot-com e i bitcoin, che oggi valgono il triplo di quanto valessero all’apice della bolla del 2017), ma semplicemente che al momento l’isteria ha prevalso sulla razionalità.
Gli Nft puntano a risolvere un problema concreto e sentito da tutti gli artisti che lavorano in campo digitale, quello relativo a “provenienza, possesso, distribuzione e controllo delle opere d’arte digitali”, come ha scritto sull’Atlantic il programmatore Anil Dash, uno dei due creatori dell’applicazione per blockchain oggi nota come nft ma che loro all’epoca chiamarono “monetized graphics”.
Come racconta lo stesso Dash, la creazione avviene nel maggio 2014 nel corso di un hackaton a cui partecipò assieme all’artista Kevin McCoy. “Eravamo all’apice della cultura di Tumblr, un periodo in cui una comunità di milioni di artisti e fan stava condividendo le proprie immagini e video senza alcuna attribuzione o compensazione […]. Kevin pensava da tempo al potenziale dell’allora neonata blockchain – essenzialmente un registro indelebile delle transazioni digitali – per offrire agli artisti supporto e protezione per le loro creazioni”, scrive Anil Dash.
Per qualche anno, l’idea alla base degli Nft – che non venne brevettata – non fece presa nemmeno nei circoli legati all’arte digitale e al mondo della blockchain. Fatta eccezione per il breve boom dei CryptoKitties nel 2017, questa tecnologia non ebbe nessuna applicazione di successo fino all’improvvisa esplosione degli ultimissimi mesi, quando all’improvviso l’intero mondo dell’arte e non solo ha iniziato a occuparsene freneticamente.
I limiti degli Nft
E forse è anche per questo che alcuni dei limiti causati dalla fretta con cui gli Nft erano stati creati in una notte di hackaton sono ancora oggi presenti. “Se ti piacesse un’opera d’arte, pagheresti di più soltanto perché qualcuno ha incluso il suo nome in un foglio Excel?”, scrive provocatoriamente Dash. Eppure è proprio quello che avviene con gli Nft, che non contengono la vera e propria opera d’arte, ma soltanto un link certificato che rimanda a essa. Un limite causato dal fatto che i “blocchi” che contengono i dati nel registro digitale della blockchain hanno un limite di capienza che è quasi sempre superato dalle opere digitali. La scorciatoia individuata è stata di inserire all’interno del blocco certificato soltanto il link all’immagine e magari una forma compressa della stessa.
Questo non è soltanto un evidente limite di per sé (comprare l’opera o un link all’opera non è proprio la stessa cosa, anche se la certificazione è valida in entrambi i casi), ma soprattutto per la domanda che inevitabilmente si pone: e se un domani quel link non fosse più disponibile? E come potremo assicurarci che l’opera sopravviva al passare del tempo?
A dire il vero, questo è un problema che ci si sta già adoperando per risolvere, sfruttando il protocollo decentralizzato Ipfs (Interplanetary file system), basato su blockchain e gestito quindi da una rete di computer, che evita che sia sufficiente dimenticarsi di rinnovare il dominio per vedere il proprio sito e tutti i contenuti scomparire. Anche l’Ipfs richiede però che ci sia sempre almeno un computer acceso a far parte della catena: ci affideremmo a un sistema del genere per assicurarci che l’opera in questione sia ancora qui tra migliaia di anni? L’Ipfs è inoltre uno strumento usato ancora oggi da una minoranza, mentre la maggior parte degli oggetti digitali acquistati tramite nft vive nelle normali url. Come si legge su The Verge, “si rischia di andare incontro a un ‘errore 404’ estremamente costoso”.
Un “difetto” della blockchain
C’è un altro problema tipicamente legato alla blockchain: una tecnologia che garantisce che i dati immessi non possano essere contraffatti e che tutte le transazioni siano immutabilmente registrate, ma che non dà alcuna garanzia sulla genuinità dei dati inseriti in primo luogo. E infatti non solo si sono verificati parecchi casi di artisti che hanno visto i loro lavori tramutati in Nft senza nemmeno saperlo (tra cui le opere retrofuturistiche di Simon Stålenhag), ma anche di persone che hanno approfittato del lasco processo di verifica di alcune piattaforme dedicate agli Nft per fingere di essere un determinato artista e guadagnare così dai “gettoni” di opere non loro.
E infine, ovviamente, c’è il problema più immediato e sentito. Quello ambientale. Il processo per creare un singolo nft consuma l’energia necessaria ad alimentare un’abitazione europea per un mese e mezzo. Considerando che già oggi l’impatto ambientale del mondo legato alla blockchain – e in particolare ai bitcoin – è deleterio, diventa fondamentale evitare che la situazione peggiori drasticamente nel caso in cui gli Nft diventassero una normale forma di produzione di arte digitale. Anche in questo caso, però, la soluzione potrebbe essere vicina.
Ethereum, che è la blockchain su cui vive la maggior parte degli Nft, sta infatti lavorando per abbandonare il sistema energivoro della proof-of-work (attraverso il quale i blocchi della blockchain vengono validati dal primo computer che, in competizione con migliaia di altri, risolve un complicatissimo puzzle algoritmico per il quale sono necessarie macchine incredibilmente potenti) e passare alla proof-of-stake.
In questo sistema, i nodi sono rimpiazzati dai “validatori”, che per partecipare non devono risolvere puzzle matematici ma semplicemente depositare una somma di denaro come cauzione (al momento pari a un minimo di 32 ether, 55mila dollari). Più soldi si depositano, maggiori sono le possibilità di essere selezionati tra i validatori, che devono confermare la validità della transazione che sta avvenendo sulla blockchain e ottengono come ricompensa altri ether. La transazione è valida se approvata da due terzi dei validatori selezionati, mentre chi viene scoperto a truffare il sistema perde una parte o tutti i soldi depositati.
Secondo alcuni calcoli, questo sistema permette di risparmiare il 99% dell’energia attualmente consumata, oltre a rendere la blockchain molto più rapida ed efficiente. A questo punto, almeno il problema energetico sarebbe risolto. E tutti gli altri? C’è ancora parecchio lavoro da fare. Finché non sarà impossibile – o almeno molto più difficile – spacciarsi per l’artista che non si è, appropriarsi di opere altrui e smarrire quelle appena acquistate, gli Nft continueranno a venir accusati di non rappresentare altro che un castello di carte.