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Il metaverso non esiste

Il metaverso non esiste

Ogni giorno mi sveglio e so che nella mia casella email ci sarà almeno un comunicato stampa di un’azienda che annuncia il suo “ingresso nel metaverso”. C’è un solo problema: il metaverso non esiste. E allora come fanno le aziende a entrarci? E come fanno – stando a una miriade di articoli pubblicati in ogni angolo del globo – le persone a sposarsi nel metaverso? A speculare nel metaverso? A partecipare a eventi nel metaverso? A lavorare nel metaverso e addirittura a subire molestie nel metaverso?

Il punto è che tutto ciò non avviene nel metaverso, ma su singole piattaforme molto diverse tra loro. La speculazione e gli eventi brandizzati sono per esempio la specialità di Decentraland, il matrimonio di cui ha parlato la stampa è avvenuto tramite la piattaforma di collaborazione da remoto Virbela, mentre le riunioni di lavoro si tengono su piattaforme come Horizon Workrooms di Meta (ancora in fase beta). Le aziende che “entrano” nel metaverso, solitamente, si limitano ad adottare una di queste piattaforme per organizzare eventi o fare riunioni; in altri casi acquistano qualche piattaforma ad hoc che consente loro di fare team building o formazione in realtà virtuale (o cose simili).

Ha senso che in tutti questi casi si parli di metaverso? Per capirlo, dovremmo prima sapere esattamente che cosa il metaverso sia, e già qui la faccenda si complica. Secondo la definizione del venture capitalist Matthew Ball (che in tempi non sospetti ha dedicato un lungo saggio al tema), il metaverso è “un network interoperabile di mondi virtuali creati in 3D”. In parole semplici, il metaverso dovrebbe essere un vasto ambiente digitale in cui è possibile spostarsi senza soluzione di continuità da una piattaforma 3D all’altra, portando con noi i nostri avatar, i nostri beni digitali e il nostro denaro. 

Tutto questo, oggi, non esiste. E, come vedremo meglio più avanti, non è nemmeno chiaro se e quando prenderà davvero forma. Perché un videogioco multiplayer in realtà virtuale come Population One dovrebbe essere definito metaverso? E perché dovrebbe esserlo un ambiente sociale come Horizon Worlds di Meta o dei simil-Second Life (ma con una forte impronta speculativa legata alle criptovalute) come Decentraland o The Sandbox

Realtà virtuale

Metaverso, metaversi o…

In tutti questi casi, e in molti altri ancora, non solo non ha senso menzionare “il metaverso”, ma nemmeno parlare di “metaversi”, al plurale. Si tratta di singole piattaforme, a volte in realtà virtuale e altre no, in alcuni casi dedicate al lavoro, in altri alla speculazione, ai videogiochi, alla socialità. In più, nessuna di queste piattaforme comunica con un’altra: ciascuna di esse richiede di creare uno specifico avatar, che non possiamo trasportare da una piattaforma all’altra, e di acquistare beni che rimangono confinati al suo interno. 

Non è il metaverso (termine coniato dallo scrittore Neal Stephenson nel 1991 per indicare una sorta di “gemello virtuale” del mondo in cui viviamo): sono tante piattaforme che hanno in comune tra loro solo l’enfasi sulla possibilità di socializzare, al loro interno, con altri utenti. È come se avessimo chiamato “gameverso” il mondo dei videogiochi multiplayer o “socialverso” l’intero ecosistema dei social network. 

Ecco, immaginatevi se negli anni in cui le aziende o i politici iniziavano ad avere la loro pagina su Facebook non avessimo parlato del loro “approdo su Facebook”, ma invece annunciato il loro “ingresso nel socialverso”, se le molestie e l’hate speech non si fossero verificati su Twitter ma nel socialverso, se le teorie del complotto non si fossero diffuse su Reddit e YouTube ma nel socialverso. 

schermata da Horizon Worlds

La mossa di Zuckerberg

Ma se non esiste, perché si insiste così tanto a utilizzare il termine metaverso? Da un certo punto di vista, l’intera faccenda è una colossale operazione di marketing. Il principale responsabile è Meta/Facebook, che da quando nel 2014 ha acquistato Oculus, la più importante società produttrice di visori per la realtà virtuale, sta cercando in tutti i modi di aumentare l’interesse per la realtà virtuale. Finora, il successo è stato piuttosto scarso: secondo le stime (Meta non diffonde numeri ufficiali), dal 2014 a oggi tutti i visori Oculus hanno venduto circa 10 milioni di unità. Nello stesso lasso di tempo, sono state vendute quasi 150 milioni di Playstation, 110 milioni di Nintendo Switch e 50 milioni di Xbox One.

Con la trovata del “metaverso”, Mark Zuckerberg non ci ha solo segnalato che per il futuro punta a farci trascorrere sempre più tempo all’interno di ambienti immersivi e virtuali, ma anche quale sia lo stratosferico potere del marketing, in grado di incanalare l’attenzione dei media e della massa su qualcosa che fino al giorno prima suscitava ben poco interesse. Secondo i dati Factiva riportati dal Washington Post, solo in novembre e dicembre 2021 (ovvero subito dopo l’annuncio del rebranding di Facebook in Meta) sono apparsi sul web 12mila articoli in lingua inglese che contenevano il termine metaverso; in qualunque altro anno precedente non si era mai andati oltre i 400 nel corso di 12 mesi. Articoli più letti

Ad approfittare del gran parlare che si fa del metaverso è anche una miriade di società di consulenza e simili, che hanno trovato una gallina dalle uova d’oro che permette di offrire i loro servizi ad aziende che vogliono capire come si fa a “entrare nel metaverso” (che suona molto meglio di “aprire un negozio in Decentraland” o “lavorare in realtà virtuale”, anche se poi proprio di questo si tratta). “Chiunque vi dica che sta facendo qualcosa ‘nel metaverso’ o non ha idea di cosa stia parlando oppure vi sta volontariamente fuorviando”, ha perentoriamente scritto James Whatley, esperto di videogiochi, su The Drum

Se a questo si aggiunge che il “metaverso” viene spesso accostato ad altre complesse innovazioni – come il web3, gli nft o la realtà aumentata, con cui in realtà si sovrappone solo parzialmente – si capisce perché in giro ci sia così tanta confusione. Il complottista che è in me sospetta che tutta questa confusione sia in gran parte indotta: meno le persone hanno le idee chiare, più è facile far loro pensare che davvero esista un grande mondo virtuale – una sorta di replica digitale del nostro mondo fisico – in cui a breve tutti trasferiremo almeno una parte delle nostre esistenze. 

Questa, per ammissione di più o meno tutte le realtà che ci stanno puntando (a partire da Meta ed Epic Games), è invece solo l’utopistica e lontanissima ambizione finale: rendere il metaverso un ambiente unico e interoperabile, in cui tutte le realtà sono collegate tra loro. Una sorta di world wide web immersivo, in 3D e in realtà virtuale, che permette di spostarci tra Fortnite, Horizon Worlds, Decentraland e tutti gli altri con la stessa facilità con cui oggi ci muoviamo nel web con il nostro browser.

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I giardini recintati

Oltre a essere una prospettiva molto distante nel tempo e la cui fattibilità tecnica è ancora tutta da dimostrare (molti puntano sulla blockchain, ma anche qui siamo in un campo pieno di incognite), non è nemmeno chiaro se davvero ci sia la volontà di perseguirla. “Storicamente, lo sviluppo di tecnologie interoperabili come le email e il web è stato alimentato da governi, dall’accademia e dalle no-profit, non da colossi privati come Meta”, scrive ancora il Washington Post. Al contrario: realtà di questo tipo hanno semmai sempre spinto in direzione opposta, trasformando la decentralizzazione del web nei “giardini recintati delle app”, che hanno lo scopo di trattenerci quanto più tempo possibile al loro interno e non certo di aprirci alla possibilità di esplorare liberamente un ambiente aperto.

“Una versione di internet interconnessa e in 3D in cui ci scambiamo magliette sotto forma di nft mentre ci spostiamo senza difficoltà da una piattaforma all’altra è tanto realistica quanto i film di fantascienza che vengono mostrati nelle slide di apertura di ogni singola presentazione che avete visto su questo tema”, scrive ancora Whatley su The Drum. Se anche fosse possibile, bisogna capire se davvero vorremo passare le nostre giornate tappati in casa indossando dei visori che ci isolano completamente da ciò che ci circonda e che ci costringono a svolgere una parte delle operazioni quotidiane in un mondo di poligoni e popolato da avatar. La buona notizia è che, finché esisterà praticamente solo nei reparti marketing delle aziende e delle società di consulenza, non dovremo preoccuparci dei risvolti distopici del metaverso.