Newsbrand: Reputazione, Community & la “Facebook Apocalypse”
A pochi giorni dall’annuncio dell’aggiornamento del news feed del social più popoloso del pianeta che fa tremare newsbrand, e brand, di tutto il mondo arriva la seconda mazzata ed è, se possibile, ancor peggio della prima, anche se in questo caso vede coinvolti solamente i publisher.
«La scorsa settimana ho annunciato un cambiamento importante nel news feed», ha scritto Zuckerberg il 19 Gennaio in un post pubblicato sulla sua pagina Facebook e poi ripreso da Adam Mosseri, Head of News Feed, che successivamente ha twittato alcune precisazioni, spiegando che «Ogni utente vedrà meno contenuti pubblici, tra cui notizie, video e post pubblicati dalle aziende.
Dopo questo cambiamento, prevediamo che le notizie rappresenteranno circa il 4% dei contenuti, rispetto a circa il 5% di oggi». Proseguendo, «Tra i sondaggi sulla qualità del nostro servizio, chiederemo alle persone se conoscono una certa fonte giornalistica [un sito, un giornale, una tv] e se si fidano di quel media. Crediamo infatti che alcune testate giornalistiche abbiano fiducia soprattutto dai propri lettori, mentre altre siano invece riconosciute come testate autorevoli anche da chi non le segue direttamente».
Incrociando le risposte degli utenti quindi, il social deciderà quali testate avranno priorità nel feed, quali no. Dando così priorità alla diffusione della fiducia che ha un media, piuttosto che alla sola credibilità dei suoi fan. Zuckerberg quindi in buona sostanza ha deciso di affidare ad ognuno dei circa due miliardi di utenti mensili del suo social di stilare la propria personale classifica su quali siano le fonti attendibili dell’informazione, quelle a cui credere, quelle che hanno sufficiente autorevolezza per comparire sulle bacheche.
Al riguardo Massimo Russo, Managing Director, Digital Division GEDI e Ceo HuffPostItalia, ha scritto: «Vi prego, qualcuno dica a Mark che la folla è quella che, messa di fronte alla scelta da Ponzio Pilato, decise compatta di liberare Barabba #nonimpariamonulla?», e le reazioni a livello internazionale non si sono fatte attendere, dalle più “colorite” di Gizmodo agli interrogativi di The Atlantic, passando per i richiami al grande fratello di Forbes, i dubbi, diciamo, di Slate e molto altro ancora, con Emily Bell che solleva il dubbio, non peregrino, anche se smentito, che ci sia anche un fine commerciale dietro la mossa di Facebook, e fornisce tre buoni suggerimenti all’Head of News Feed Mosseri su trasparenza e autorevolezza.
La questione è estremamente complessa ed articolata e coinvolge più aspetti che vale la pena di esaminare in dettaglio.
Se infatti teoricamente sarebbe meraviglioso concettualmente affidare direttamente alle persone la valutazione dell’affidabilità dei media, compiendo così finalmente un percorso di “democrazia dal basso”, non è per nulla certa la capacità di giudizio e di discernere sull’affidabilità delle fonti, sia per il ben noto fenomeno del “confirmation bias” che per limiti culturali, diciamo, che del resto sono proprio quelli che contribuiscono alla diffusione delle “fake news”.
Se a questo di aggiunge che i criteri relativi ai valori della sezione notizie di Facebook sono ampiamente discutibili a cominciare dal fatto che «la sezione notizie deve essere divertente» secondo Facebook. Aspetto che, a prescindere da tutte le altre considerazioni possibili al riguardo, è talmente soggettivo da non renderlo un parametro di valore. Si capisce come vi sia una profonda distanza tra quelli che sono, o dovrebbero essere, i criteri giornalistici e l’interpretazione che Facebook ne fa nel suo dorato walled garden.
È chiaro che Facebook è nel panico, terrorizzato da accuse e sanzioni per la diffusione di “fake news” e reagisce in maniera assolutamente inadeguata con un sistema che sembra «terribilmente semplicistico e ingenuo» ma questa è solo una parte della questione.
I timori e le accuse a Facebook da parte dei media all’annuncio di Facebook sono da inquadrarsi in un utilizzo dei social, ed in particolare di Facebook, come “discarica di link”, come abbiamo evidenziato a più riprese nel tempo in questi spazi, utilizzando il social più popoloso del pianeta come canale di distribuzione con il solo obiettivo di dragare traffico da questo. Non vi è stata praticamente nessuna attenzione alla gestione della reputazione e dell’immagine dei newsbrand. Altrettanto non vi è stata nel complesso nessuna attenzione alla creazione ed alla gestione delle community come con grande onestà intellettuale finalmente qualcuno inizia ad ammettere a fronte della “facebook apocalypse”. Non a caso dopo l’annuncio di Facebook le quotazioni in borsa del NYTimes sono “schizzate” verso l’alto proprio per la superiorità del quotidiano statunitense in quest’ambito.
Il Trust Barometer di Edelman nell’edizione 2018, appena pubblicato, dedica ampio spazio alla questione della fiducia e dell’autorevolezza dei media con approfondimenti specifici anche al tema delle “fake news”,
Dal rapporto emerge come vi sia una una generale polarizzazione della fiducia, con l’Italia tra le nazioni in cui maggiore è il calo di fiducia. Fiducia che per quanto riguarda in maniera specifica i media, seppur maggiore rispetto a quella riposta nelle piattaforme social, è ai minimi termini con la popolazione di 22 delle 28 nazioni oggetto dell’indagine, italia inclusa ancora una volta, che mette i media tra le organizzazioni nelle quali meno fiducia ripone.
Soprattutto, emerge come sia il concetto di media ad essere mutato completamente, con l’ecosistema dell’informazione che è fatto sempre più non solo dai legacy media ma anche dalle piattaforme social, dagli “influencer”, e da molto altro ancora.
Inoltre, si evidenzia come la metà degli intervistati siano “disingaged”, non coinvolti, rispetto alle news con un consumo informativo inferiore ad una volta alla settimana, e due terzi che ritengono che i publisher siano maggiormente interessati ad attrarre a loro la maggior porzione possibile di audience piuttosto che a svolgere una corretta informazione, sacrificando l’accuratezza in nome della velocità e/o per favorire una determinata tesi politica.
Ed ancora, il report evidenzia come il 63% delle persone non sia in grado di distinguere il “buon giornalismo” da falsità e cattiva informazione, e per il 59% degli individui è sempre più difficile dire se se l’informazione è prodotta da un media degno di rispetto. Elemento che smonta definitivamente, in caso di dubbi, l’ipotesi di lavoro di Facebook.
È insomma evidente che il lavoro svolto, sia in termini prettamente giornalistici che in specifico riferimento alla [non] gestione dei social da parte dei publisher è fallimentare.
Sta a loro, a noi, cambiare rotta e invertire, hic et nunc, la tendenza cambiando diametralmente l’approccio sia a livello di contenuti che, soprattutto, di coinvolgimento delle persone. Le fanpage perderanno sempre più di rilevanza e questo, per quanto preoccupante nel breve periodo, è un bene. Cessiamo una volta per tutte l’attuale approccio basato sui click e mettiamo al centro le persone. Usciamo dalle nostre “paginette” ed entriamo in relazione veramente con le persone. Qualunque community vive di informazioni senza le quali implode, svanisce. Entriamo nelle communities, nei gruppi [non solo su Facebook, eh!] e forniamo loro notizie, informazioni, argomenti di loro interesse. Stabiliamo veramente una volta per tutte una relazione e creiamo spazi di confronto e discussione nei siti web per valorizzarla. Credo davvero non ci sia altra scelta.