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Apple accusata di non aver ascoltato le lamentele delle donne sugli abusi in ufficio

Apple accusata di non aver ascoltato le lamentele delle donne sugli abusi in ufficio

Il Financial Times ha pubblicato un lungo rapporto in cui afferma che Apple ha promosso una cultura tossica nei confronti delle segnalazioni di cattiva condotta da parte dei dipendenti, persino prendendo misure cautelative contro le donne che hanno denunciato abusi sessuali sul posto di lavoro.

Una notizia che andrebbe in netto contrasto con l’immagine che il colosso di Cupertino promuove all’esterno, piena di solidarietà e bandiere arcobaleno. Per il Times, diverse donne hanno presentato nei mesi scorsi reclami al dipartimento delle risorse umane di Apple per abusi sessuali, bullismo e altri incidenti. L’ex dipendente Megan Mohr si è lamentata del fatto che una collega le ha tolto il reggiseno e i vestiti mentre dormiva, scattandole una serie di foto dopo una serata.

Tuttavia, il rappresentante delle risorse umane ha definito l’esperienza un piccolo incidente. “Sebbene ciò che ha fatto sia stato riprovevole come persona e potenzialmente criminale, come dipendente Apple non ha violato alcuna politica nel contesto del suo lavoro” si legge in un’e-mail vista dal Financial Times. “E poiché non ha violato alcuna politica, non gli impediremo di cercare opportunità di lavoro in linea con i suoi obiettivi e interessi”.

Una dipendente dell’Apple Store si è lamentata di due gravi casi di aggressioni sessuali, incluso uno stupro, dicendo che le risorse umane l’avevano trattata non come una vittima, ma come il problema. “Mi è stato detto che il presunto stupratore svolgeva quel lavoro solo per sei mesi e che io sarei stata meglio”. La donna, si legge, ha richiesto un trasferimento che le è stato rifiutato ed oggi si ritrova a lavorare ancora nello stesso negozio.

L’avvocato Margaret Anderson parla di un “ambiente di lavoro tossico” e di “gaslighting”, una forma di manipolazione psicologica violenta e subdola nella quale vengono presentate alla vittima false informazioni con l’intento di farla dubitare della loro stessa memoria e percezione. Quando in Apple, un manager voleva licenziarla, citando false accuse precedenti al suo arrivo in azienda. Secondo quanto riferito, le risorse umane hanno ignorato un documento che aveva creato con i dettagli del caso, confutando le sue posizioni.

I dipendenti si sono anche lamentati del fatto che Apple abbia soppresso l’organizzazione dei lavoratori e il blocco dei canali Slack utilizzati per comunicare su questioni come il comportamento dei capi e l’iniquità salariale. La denuncia di più alto profilo è quella di Jayne Whitt, una direttrice dell’ufficio legale di Apple. Ha riferito alle risorse umane che un collega aveva violato i suoi dispositivi e minacciata. Whitt ha pubblicato un saggio di 2.800 parole sulla piattaforma The Leoness che descrive la situazione, provocando un’ondata di sostegno da parte dei dipendenti Apple.

Tuttavia, il colosso ha proceduto a licenziarla sulla base di quella che ha definito un’indiscrezione “irrilevante”. Whitt ora sta sfidando Apple legalmente, sottolineando che i canali Slack sulla disparità retributiva di genere le hanno aiutato ad aprire gli occhi. “Ero svantaggiata: è così che le donne lottano”, ha detto. “Se queste storie [su Slack] non fossero state pubblicate, non avrei fatto la cosa giusta, al di là della carriera”.

Apple ha dichiarato al Financial Times che lavora duramente per indagare a fondo sulle accuse di cattiva condotta e si sforza di creare “un ambiente in cui i dipendenti si sentano a proprio agio nel segnalare eventuali problemi”. Tuttavia, ha riconosciuto di non aver sempre soddisfatto tali ideali. “Ci sono alcune questioni sollevate che non riflettono le nostre intenzioni o le nostre politiche e che avremmo dovuto gestire in modo diverso, inclusi gli scambi riportati in questa storia. Di conseguenza, apporteremo modifiche alla nostra formazione e ai nostri processi”.




E in Spagna per legge non si potrà sprecare il cibo

E in Spagna per legge non si potrà sprecare il cibo

Il cibo non si butta. Punto. In Spagna sarà a breve una realtà, precisamente dal 2023, grazie a un poderoso piano anti-spreco che coinvolge medie e grandi imprese che saranno “costrette” a trasformare la frutta non vendibile, ad esempio, in marmellata o in succo. Mentre i ristoranti si doteranno obbligatoriamente della “Doggy bag”. Sono solo alcune delle proposte contenute nel disegno di legge al vaglio. Poche settimane fa il governo socialista guidato dal presidente Pedro Sánchez ha infatti approvato un progetto che punta a un unico obiettivo: non gettare via il cibo con l’ambizione di fare scuola in Europa.

Oltre 1.300 tonnellate di cibo vengono sprecate ogni anno in Spagna 
Oltre 1.300 tonnellate di cibo vengono sprecate ogni anno in Spagna  

Come spiegato dal ministro spagnolo dell’agricoltura, della pesca e dell’alimentazione Luis Planas, il nuovo strumento adottato dal Governo modificherà i processi della catena alimentare nei punti in cui essa è più inefficiente. Ma, ispirato all’economia circolare, il “progetto di legge sulla prevenzione delle perdite e degli sprechi alimentari” è notevole anche sul piano etico, dal momento che include progetti collaborativi tra ristoranti, organizzazioni di quartiere e banche alimentari. Pena? Multe salatissime fino a 500 mila euro.
I numeri a suffragio, sono di fatto impietosi: 1.300 tonnellate di cibo (31 kg pro capite) che ogni anno vengono gettate dai cittadini.

Ma nel dettaglio, come si potrà attuare questo progetto che sa già di capofila rivoluzionario in termini di spreco?
Guardando nel profondo delle aziende produttrici e distributrici. Sarà per tutti un obbligo morale, come quella che tocca la grande distribuzione. Il governo propone a supermercati e ai negozi alimentari, linee di vendita per prodotti “Brutti, imperfetti o poco attraenti”, dal momento che parte delle 1.300 tonnellate di cibo sprecato in Spagna ogni anno deriva anche dagli inestetismi del cibo. In più, pensa ad offrire fra gli scaffali prodotti stagionali, locali e biologici, educando alla comprensione dei tre termini. Prodotti che rispettino i reali cicli naturali senza l’impiego di dissertanti, pesticidi e ausili chimici vari non sono “perfetti”, ma tutto quello che appare poco attraente è in realtà ben più naturale e salutare.

Un piatto tipico: la paella
Un piatto tipico: la paella 

E a che punto siamo in Italia? Ancora molto lontani dai virtuosismi spagnoli. L’unica iniziativa al momento in piedi è quella del14 settembre del 2016 (legge 166/2016), la cosiddetta norma “antisprechi”, la cui prima firmataria è stata l’onorevole Maria Chiara Gadda. Una legge che, a differenza della Spagna, punta quasi tutto sull’educazione alimentare nelle scuole e su campagne di comunicazione ad hoc prevedendo anche una riduzione della tassa rifiuti per chi dona il cibo e favorendo la Doggie bag nei ristoranti.
Viene da chiedersi in quali ristoranti in Italia ci sia, da parte dei ristoratori, un’attenzione talmente importante da consigliare di loro sponte, l’asporto del “non mangiato” al cliente.
Diciamo che nella maggior parte dei casi è sempre il cliente a chiedere e nella migliore delle ipotesi, lo stesso esce fuori dal ristorante con una bustona di plastica approntata alla meno peggio, con buona pace del riciclo e della sostenibilità.




Cosa succede quando acquisisci un marchio in difficoltà, oppure caduto in disgrazia

Cosa succede quando acquisisci un marchio in difficoltà, oppure caduto in disgrazia

InViaggi e Teorema, Columbus e Marcelletti. Cos’hanno in comune questi quattro gloriosi tour operator? Caduti in disgrazia e praticamente cessata l’attività, i rispettivi marchi sono stati rilevati (spesso dai curatori fallimentari) da altri t.o., che mirano a rilanciarli. Questo solo negli ultimi tre anni. Val la pena acquisire un marchio, magari spendendo un sacco di soldi? Sono più i rischi o i vantaggi? Usciamo dal turismo e vediamo cosa è successo in altri settori. Il bilancio offre più ombre che luci e bisogna avere la pazienza di leggere fino in fondo.

Abbigliamento giovanile: Guru – La parabola del marchio di abbigliamento creato da Matteo Cambi a Parma, nel 1999, è balistica, ovvero dalle stelle alle stalle in una manciata di anni. Da zero ai cento milioni di euro del 2006, dalle prime magliette artigianali distribuite agli amici a milioni di T-shirt vendute in tutto il mondo: nei primi anni 2000 la margherita stilizzata a sei petali colorati, con contorni neri marcati, diventa un love-mark, indossato da calciatori e soubrette televisive, deejay e protagonisti del gossip da spiaggia. Nel 2008 il tracollo: 100 milioni di debiti, Matteo Cambi prima arrestato e poi condannato per bancarotta fraudolenta. Dal 2008 a oggi il marchio Guru passa di mano tre volte: acquisito dal colosso indiano Bombay Rayon Fashion Limited, nel 2016 la sua partecipata italiana, Brlf Italia, chiede il concordato preventivo; nel 2019 subentra la svizzera Ibs Sagl di Lugano, che però affida la commercializzazione alla monegasca Ghep, che nel 2021 diventa l’unica titolare di Guru. Oggi sul sito di Guru l’iconica T-shirt con la margherita si compra con 30 euro, ma chi se la ricorda più?

Sportswear: Sergio Tacchini, Fila, Ellesse – Negli anni ’70/’80 gli italiani erano i più bravi e innovativi creatori di abbigliamento sportivo nel mondo. Altro che Nike o Adidas. Limitandoci al tennis, Sergio Tacchini, marchio creato nel 1966 dall’omonimo tennista, vestiva Jimmy Connors e Ilie Năstase, Adriano Panatta e John McEnroe. Fila, fondata a Biella nel 1911, nel 1973 diventa Fila Sport e veste Guillermo Vilas e Björn Borg (che con l’iconica polo in cotone a costine vince cinque tornei di Wimbledon consecutivi). La perugina Ellesse, fondata nel 1959 da Leonardo Servadio, da cui prende le iniziali, nel 1975 comincia a produrre abbigliamento da tennis e veste Corrado Barazzutti, che nel 1976 vince l’unica Coppa Davis per l’Italia, in Cile. Sergio Tacchini, Fila ed Ellesse sono marchi tuttora presenti nello sportswear, ma – da molti anni e dopo innumerevoli vicende societarie – non appartengono più ai fondatori, né hanno sede in Italia. Dal 2019 Sergio Tacchini fa capo a due private equities americani, Twin Lakes Capital e B. Riley Principal Investments. Nel 2007 Fila viene acquistata dall’imprenditore sud-coreano Gene Yoon e a Biella rimane solo la Fondazione Fila Museum, che accoglie oltre 30.000 tra capi di abbigliamento, scarpe e accessori a marchio Fila. Dal 1994 Ellesse è un marchio della holding britannica Pentland Group, che controlla tra gli altri Speedo e Berghaus. Nessuno dei grandi tennisti italiani di oggi indossa questi marchi, ormai diventati “heritage brands”: Matteo Berrettini veste Boss, Jannik Sinner e Lorenzo Musetti sono sponsorizzati da Nike sin da quando erano ragazzini.

Gelati: Grom – L’Italia è considerata la patria del gelato e non poteva che nascere a Torino, nel 2003, l’avventura del manager ex PWC  Federico Grom e dell’enologo Guido Martinetti. Occupa 25mq la prima gelateria Grom, a pochi minuti da piazza San Carlo: con un capitale di partenza ridottissimo, cui contribuiscono parenti e amici, si fonda su un’idea di marketing precisa, “Il gelato come una volta”. In un unico stabilimento nella cintura torinese e solo con ingredienti di prima qualità, a chilometro zero e da presidi Slow Food, vengono prodotti i semilavorati dei vari gusti: questi, confezionati e surgelati, sono distribuiti alle gelaterie per essere miscelati, mantecati e serviti al pubblico. Il prezzo di vendita è più quello di una pasticceria torinese, che di una gelateria su strada. La crescita è esplosiva: decine di Grom aprono in Italia e all’estero (New York, Londra, Hong Kong) e dopo i 16 milioni di euro di fatturato, nel 2009, si toccano i 23 milioni nel 2011. L’avventura imprenditoriale indipendente di Grom e Martinetti termina bruscamente nel 2015, quando – reduci da alcune difficoltà finanziarie – cedono Grom alla multinazionale britannico-olandese Unilever, che in portafoglio dispone già di vari marchi di gelati industriali, tra cui Algida e Magnum, Carte d’Or e l’americana Ben&Jerry’s. Da allora Grom sbarca nei supermercati con le classiche vaschette da frigo, chiude diversi punti vendita in Italia e dice addio all’artigianalità che l’aveva caratterizzata fino ad allora. Grom e Martinetti restano nel board per diversi anni, pur con sempre minore autonomia gestionale, ma sembrano non condividere più la strategia di Unilever: negli USA è la GDO a intermediare quasi il 97% delle vendite, lasciando alle gelaterie una quota residuale, e il gelato in vaschetta è consumato tutto l’anno. La gelateria con coni e coppette, aperta solo 6 mesi l’anno, non funziona più.

Formazione: Pegaso Università Telematica – Nel 2006 Danilo Iervolino, napoletano, classe 1978, figlio d’arte (il padre Antonio fonda le Scuole Paritarie Iervolino per far recuperare la bocciatura ai cattivi studenti) ha un’idea meravigliosa, ispirata da due accadimenti, uno pubblico e uno privato. Nel 2003 era stato emanato il decreto “Moratti-Stanca” che istituiva le università telematiche; Iervolino si era appena laureato in economia a Napoli e durante un soggiorno negli USA aveva scoperto la formazione a distanza e le nuove piattaforme tecnologiche che – grazie al boom mondiale di internet, si era nel 2002 – si stavano sviluppando. Nel 2006 nasce l’Università Telematica Pegaso, con la forma giuridica di società per azioni, della quale Iervolino è presidente del CdA e maggiore azionista: Pegaso ottiene l’accreditamento del Ministero dell’Istruzione e attiva i primi due corsi di laurea, in giurisprudenza e scienze della formazione. In un sol colpo, Iervolino rompe il monopolio statale (o privato, ma solo per eccellenze come Università Cattolica o Bocconi, Luiss o IULM) e impone il modello della formazione a distanza, basata sul PC e sull’interazione col docente. Il successo è immediato: i corsi di laurea si moltiplicano, sedi di esami si diffondono a decine in tutta Italia, a iscriversi e laurearsi (il titolo è equiparato a quello ottenuto in una università tradizionale) sono prima in migliaia, poi in decine di migliaia. La svolta arriva un anno fa, a settembre 2021: il private equity britannico CVC Capital Partners rileva l’intera proprietà della holding, a cui fanno capo Pegaso Università Telematica e l’Università Mercatorum, valutando l’asset – la cifra è ufficiosa – un miliardo di euro. Danilo Iervolino rimane nel board, ma investe i guadagni in nuove attività, comprando prima la Salernitana Calcio (e qui incrocia Gerardo Soglia ex CIT e Buon Viaggio Network), poi il settimanale L’Espresso da Gedi/la Repubblica.

Due note a margine: di tutte le imprese citate, l’unica a non aver ceduto proprietà/marchio causa difficoltà finanziarie o industriali è quella di Iervolino. Guru, Sergio Tacchini, Fila, Ellesse, Grom e Pegaso – tutte eccellenze italiane – oggi sono in mani straniere.

Conclusione, per i pazienti lettori arrivati fin qui: è costoso e complesso rilevare un marchio, soprattutto se questo è in difficoltà (o peggio). Per questo rimango perplesso sul rilancio di tour operator che hanno vissuto tempi migliori. Nel nostro settore, è un’eccezione: nessuno si è mai sognato di rilanciare marchi come Jolly Hotels o Motel Agip, CIGA o Metha Hotels; e tantomeno Alpi Eagles o Volare Airlines, AirOne o Gandalf. E neanche Alitalia, pensa te.




Il Jova Beach Party, il fratino, gli econazisti e il greenwashing

Il Jova Beach Party, il fratino, gli econazisti e il greenwashing

Il 21 luglio il sindaco di Vasto indaco di Vasto Francesco Menna aveva definito “ecoterroristi” gli ambientalisti che si oppongono al concerto di Jovanotti in quello che ritengono un ambiente molto delicato. Jovanotti ha rispeso le accuse del sindaco e rincarato la dose: «Il Jova Beach Party non mette in pericolo nessun ecosistema, non devastiamo niente, le spiagge non solo le ripuliamo ma le portiamo a un livello migliore di come le troviamo. Il Jova Beach non è un ‘progetto greenwash’, parola mi fa cagare così come mi fa schifo chi la pronuncia, perché è una parola finta, è un hashtag e gli hashtag sapete dove dovete metterveli. E’ un lavoro fatto bene: se pensate che non sia fatto bene venite a verificare, venite qua. Il mio pubblico è fantastico, ha una coscienza alta rispetto all’ambiente. Se voi, econazisti che non siete altro, volete continuare ad attrarre l’attenzione utilizzando la nostra forza, sono fatti vostri. Il nostro è un progetto fatto bene che tiene conto dell’ambiente, parla di obiettivi di sostenibilità e realizza quelli che è in grado di realizzare con gli strumenti che abbiamo a disposizione».

Intanto il Comitato TAG Costa Mare, che riunisce molte associazioni ambientaliste marchigiane, denuncia: «La chiusura della sezione Wwf del fermano è uno degli effetti collaterali più dannosi del tour di Jovanotti». E il Wwf risponde: «Spiace che al solo fine di alimentare le polemiche sia stata strumentalizzata la scelta dell’Organizzazione Aggregata Wwf Natura Picena di sciogliersi. Va anche detto, però, che tale organizzazione da anni (ben prima di qualsiasi concerto) non raggiungeva i requisiti di partecipazione e rappresentatività previsti dallo statuto del Wwf ed era stata da tempo sollecitata a ristabilire gli elementi minimi per continuare ad operare con il logo del Wwf Italia».·

Inoltre, il Wwf ci tiene a precisare di non essere tra gli organizzatori dei concerti: «Abbiamo fornito supporto al Jova Beach Party per favorire la trasformazione di un evento che comunque si sarebbe tenuto al fine di ridurne al massimo gli impatti» e aggiunge che «Tutte le spiagge interessate dai concerti, compresa quella di Fermo, si trovano in aree fortemente antropizzate dove, quindi, l’impatto delle attività antropiche è purtroppo già molto forte. Grazie al lavoro del Wwf Italiaogni location è stata sottoposta a screening ambientale, una procedura finalizzata ad evidenziare le caratteristiche ecologiche del sito prescelto in termini di habitat e specie presenti, nonché i possibili impatti. Dalle attività di screening ambientale sono scaturite le prescrizioni per gli organizzatori».

Insomma, la polemica impazza e il direttore generale della Lipu, Danilo Selvaggi, cerca di fare il punto sulla sua pagina Facebook. Ecco cosa scrive:

Jovanotti non ha mai aperto un dialogo con le organizzazioni ambientaliste che contestano la sua scelta. Non lo ha fatto nel 2019 e non lo ha fatto quest’anno.

Ha assunto la sua posizione come certamente valida e ha escluso gli argomenti contrari in quanto pretestuosi, infondati o irrilevanti.

Un grave errore, tattico e strategico.

Ho varie volte espresso il mio pensiero, che guarda anzitutto a una necessità di fondo: la disoccupazione umana del territorio. Siamo troppi e dovunque e portati a mettere a frutto ogni occasione e luogo. Questa logica spericolata ha causato una trasformazione territoriale globale, in atto (già realizzata) o in potenza (prossima alla realizzazione), nel senso che gli ambienti integri, “vuoti”, sono ancora tali solo perché ancora non ci siamo organizzati per riempirli, usarli “valorizzarli”.

Valorizzare: un termine che meriterebbe (e meriterà) una vera e propria riabilitazione semantica.

Che le spiagge siano ambienti già oggi sottoposti a forti pressioni antropiche non può giustificare l’apertura di un nuovo fronte (i grandi concerti estivi), tanto più con protagonista un personaggio che ha sempre inteso dare messaggi pubblici di un certo segno, cioe di attenzione ai deboli e ai sognatori di mondi diversi.

In questo senso il fratino è veramente un simbolo, una metafora, la minoranza delle minoranze, l’indifeso tra gli indifesi. Il che non è bastato a sottrarlo alle ironie dei fans di Jovanotti né, io credo, al suo risentimento personale. Il fratino dovrebbe essere il centro della “grande chiesa da Che Guevara a Madre Teresa” e invece, come ha scritto un fan arrabbiato, “è un uccello rompicoglioni e inutile come tutti gli ambientalisti”.

Dico di più: il vero problema non è stato il primo Jova Beach Party, del 2019, ma questo tour, 2022. La replica del tour è stata una perseveranza spiazzante, come se nulla si potesse realmente apprendere dagli eventi. Forse era il caso di aprire un momento di discussione, di confronto, e invece no. Jovanotti e Trident non ci hanno nemmeno pensato.

Gli amici del Wwf sanno come la pensa la Lipu. Ne abbiamo parlato molto nel 2019, ne abbiamo parlato pochissimo nel 2022 ma ognuno conosce il pensiero dell’altro. Mi permetto tuttavia di invitare a non schiacciare la considerazione del Wwf su questa vicenda. I contributi del Wwf alla conservazione della natura sono preziosissimi in molti campi e continueranno ad esserlo, nonostante ci siamo momenti difficili in cui le cose sono un po’ più complicate e le posizioni nettamente distinte.

L’ambientalismo ha bisogno del Wwf più di quanto ne abbia bisogno Jovanotti. Ovvero, anche Jovanotti ne avrebbe bisogno, tanto bisogno, sebbene – io credo – in un modo un po’ diverso.

Un pensiero finale, ancora una volta, deve andare a tutte le volontarie e i volontari delle organizzazioni ambientaliste e animaliste: Enpa, Legambiente, Italia Nostra, Greenpeace, Pro Natura, Lav, Lac, comitati locali, Wwf eccetera eccetera eccetera e, se permettete, alle volontarie e ai volontari della mia cara Lipu. L’azione di queste persone è enorme e commovente e ha contribuito a cambiare l’Italia, a renderla molto migliore di come la avrebbe resa una certa amministrazione o anche una certa cittadinanza, meno attenta, informata e altruista.

Senza questa azione, che ha tracciato anche un’importante cornice culturale, e senza le azioni analoghe delle associazioni del sociale, del solidarismo, della partecipazione, del civismo, la grande chiesa di Jovanotti forse nemmeno esisterebbe. Sarebbe una mera astrazione. È dunque a questo mondo, concreto, in carne, ossa e idee, che Jovanotti, forse senza capirlo, deve buona parte dell’ispirazione artistica e culturale.

Tuttavia, agire per il bene richiede dazi da pagare. Se cosi non fosse ci sarebbe un qualcosa di storto, una dissonanza. E allora aggiungiamo l’econazismo e la “fogna di Nuova Delhi” alla lunga lista di definizioni che da tempo ci accompagnano (grazie a speculatori, inquinatori, distruttori, bracconieri, ladri di natura, cattiva politica) e andiamo avanti. Anzi, prepariamoci ai contraccolpi della transizione ecologica e a cose persino peggiori.

Questo piccolo grande pianeta, con le sue abbaglianti bellezze e i suoi fratini di ogni ordine e grado, lo merita davvero




Come bloccano internet

Guerre di Rete - Come bloccano internet

Sappiamo perché i governi bloccano internet, totalmente o parzialmente (per spegnere il dissenso; impedire la sua organizzazione; ridurre l’accesso o la circolazione di informazioni sgradite, ecc); sappiamo che negli ultimi anni lo hanno fatto sempre più spesso (182 casi nel 2021 in 34 Paesi contro i 159 del 2020). Ma non sappiamo molto di come avvengano effettivamente tali blocchi. Eppure anche il come è importante, per un motivo molto semplice: “l’assenza di comprensione tecnica ha un impatto nella nostra capacità di combatterli”.

Una tassonomia dei blocchi internet

Così scrive un rapporto appena uscito dell’Ong Access Now che analizza le differenze tecniche dei vari tipi di blocchi della Rete tracciando una “tassonomia degli internet shutdown”.
Ma prima di tutto una definizione. Per internet shutdown si intende, scrive Access Now, “la sospensione intenzionale di internet o di comunicazioni elettroniche, al fine di rendere le stesse inaccessibili o di fatto inutilizzabili, per una popolazione specifica o in una località, spesso per esercitare controllo sul flusso di informazioni”. 

Non solo. Siccome cresce la pressione internazionale contro questa forma di “punizione collettiva” (e aggiungo io, siccome un blocco totale ha costi economici non indifferenti) i governi stanno ricorrendo sempre di più a forme mirate, geograficamente o a livello di servizio/app specifiche. Ad esempio, c’è una mobilitazione di piazza antigovernativa? Si sospende il traffico dati mobile della zona, e via dicendo. 

Ora il report identifica 8 tipi di shutdown, che vi riassumo qui di seguito (in un difficile equilibrismo tra tecnicismi, divulgazione e sintesi, dato che il report è dettagliato e rivolto a un pubblico tecnico):

1) Blocco fondamentale dell’infrastruttura

Quando l’interruzione nasce da un danneggiamento all’infrastruttura fisica. Esempio: quando nel 2015-2016 gli hacker di Sandworm (considerati legati all’intelligence russa) hanno provocato un blackout elettrico in Ucraina, hanno anche causato un’interruzione nelle reti di comunicazione. O quando nel 2018 è andato a fuoco un centro tecnico di Orange in Costa d’Avorio dei cavi sottomarini sono stati distrutti col risultato di rendere il servizio inaccessibile per settimane. Per Orange si trattò di sabotaggio.
Vantaggi per chi lo fa: efficace; offre plausible deniablity (negazione plausibile: è stato un incidente, non volevamo mica censurare nessuno!); ma può essere alla portata anche di attori non statali.
Come affrontarlo: comunicazioni satellitari, radio, altre infrastrutture.

2) Routing

La manipolazione del network routing. L’informazione sul routing è alterata in punti chiave dell’infrastruttura di rete, come ai gateways internazionali, per non far passare il traffico ad altre infrastrutture, determinando uno shutdown. Non funziona bene su sezioni localizzate del network, e di solito è implementata per nazioni intere o grandi aree geografiche.
Vantaggi: un modo semplice di chiudere la connettività internet internazionale per un Paese. Ma ha lo svantaggio che i cambiamenti nel routing devono propagarsi e ci vuole del tempo.
Come affrontarlo: comunicazioni satellitari, radio, altre infrastrutture.

3) Manipolazione del sistema dei nomi di dominio (DNS)

Si usa la manipolazione dei DNS (il sistema che regola la traduzione dei domini in indirizzi IP) e in particolare dei domain name servers di un Paese per dirigere il traffico verso domini specifici (ad esempio WhatsApp) via dai server dell’azienda e mandarlo invece a server sotto il controllo del governo o che nemmeno esistono, causando un blocco del servizio. Perché sia efficace serve il controllo (da parte del governo) o la collaborazione degli internet service providers (ISP). Inoltre alcuni meccanismi usati per implementare questo tipo di blocco sono facili da aggirare da parte degli utenti. In realtà questo tipo di manipolazione è molto complessa e con varie sfumature, per cui rimando al rapporto, che va molto in dettaglio.
Esempi: L’Iran anni addietro aveva bloccato Facebook Messenger in questo modo. Il Pakistan l’ha usata per bloccare alcuni social media durante le proteste del 2017. E la manipolazione dei DNS è stata usata per bloccare 25 siti in Catalogna in occasione del referendum del 2017 sull’indipendenza.
Vantaggi: facile da implementare contro social o piattaforme “hostate su un piccolo set di domini DNS”. 
Come affrontarla: a seconda della tipologia si possono usare server DNS non sotto il controllo delle autorità; e/o una VPN. Per proteggersi da attacchi di questo tipo può aiutare anche l’uso di una funzione DNS avanzata, nota come DNSSEC, “che aggiunge un livello di fiducia al DNS fornendo un servizio di autenticazione”.

4) Filtraggio (Filtering)

Usa particolari apparecchiature (filtering appliances), adottate anche a livello corporate, per bloccare l’accesso a specifiche piattaforme, come Facebook, Twitter ecc. È un meccanismo usato spesso da Cina, Iran, Arabia Saudita. In genere tali apparecchiature sono già messe in piedi per filtrare siti criminali e poi sono estese ad altri.
Sono implementate a livello di backbone, dorsali internet (se il governo controlla le infrastrutture telco in un Paese), o a livello di ogni singolo ISP del Paese (e in tal caso il filtraggio non sarà omogeneo).
Esempi: il Brasile ha bloccato Whatsapp in questo modo nel 2015.
Vantaggi: nasce come tecnologia con vari scopi commerciali; ha effetto immediato; può essere molto granulare, anche sulla base della localizzazione degli utenti. Quando l’utente prova a collegarsi a un sito bloccato, può vedere un avviso che dice che è bloccato ma anche un messaggio di errore.
Come affrontarlo: si possono usare VPN per aggirarlo (se non sono a loro volta bloccate)

5) Ispezione profonda dei pacchetti (Deep packet inspection o DPI)

Si tratta ancora di device di filtraggio in grado anche di valutare i contenuti del traffico e anche qua possono essere implementati a livello di backbone o da ogni singolo ISP. Sono strumenti che possono essere usati in un’ottica di sorveglianza ma anche di censura. Il Paese che forse più l’ha usata in questa maniera è la Cina.
Esempi: come segnalato dall’osservatorio anti-censura OONI (che ha collaborato al report di Access Now), Cuba ha usato questa tecnologia per bloccare Skype. L’Iran l’ha usata nel 2018 per bloccare Instagram.
Vantaggi: è una tecnologia potente con vari utilizzi, da quelli commerciali alla censura e sorveglianza. Anche questa può essere molto granulare.
Come affrontarla: con alcuni meccanismi per nascondere la comunicazione in un protocollo (obfuscation proxies).

6) Attacco attraverso un’infrastruttura non autorizzata (rogue)

Avviene quando l’attaccante introduce un meccanismo (in genere temporaneo) nell’infrastruttura o in un segmento di rete, così da clonare l’infrastruttura legittima a cui si connetterà l’utente. Che in quel modo, senza accorgersene, affida le comunicazioni all’operatore del nodo illegittimo. In genere si utilizza su reti cellulari e WI-Fi.
Esempi: nel 2016 durante una protesta in North Dakota i partecipanti hanno riferito di chiamate disconnesse e altri problemi al segnale mobile.
Vantaggi: permette di identificare i partecipanti a una protesta o a una attività in un certo luogo.
Come gestirlo: Bisogna smettere di usare il sistema di comunicazione intercettato dai nodi non autorizzati. 

7) Attacco di negazione del servizio – Denial of Service (DoS)

I suoi autori usano attacchi di negazione distribuita del servizio o DDoS (Distributed Denial of Service) e altri attacchi DoS (Denial of Service) per prendere di mira le comunicazioni di una piattaforma specifica, o anche le comunicazioni internet di un intero Paese, come accadde nel 2016 quando il gruppo dietro la botnet Mirai attaccò le telco e infrastrutture della Liberia (collegata a internet solo da un cavo sottomarino). L’offerta criminale di questi servizi, che possono essere acquistati da altri, è ampia e ben organizzata.
Esempi: i DDoS che si sono visti in Ucraina.
Vantaggi: plausible deniability (non sono stato io ma questo gruppo di scappati di casa); ma d’altro canto si tratta di uno strumento che possono usare anche attori non-statali; gli utenti non possono fare nulla per aggirare o risolvere il problema, se non lo risolve il fornitore del servizio sotto attacco.
Come mitigarli: la mitigazione va fatta prima usando dei servizi di protezioni dai DoS.

8) Throttling (limitazione)

È l’atto di limitare volutamente, senza bloccare del tutto, il flusso di dati attraverso una rete di comunicazione. Così sembra che il servizio o la piattaforma in questione siano disponibili, ma  di fatto sono inutilizzabili. Ci sono vari meccanismi tecnici per farlo, e la comunicazione può essere limitata sulla base del protocollo, origine, destinazione ecc. È difficile distinguere se la causa sia voluta o dovuta ad altro.
Esempi: l’Iran col traffico HTTPS prima delle elezioni.
Vantaggi: plausible deniability; permette alcuni usi essenziali: spinge utenti via dai canali cifrati.
Come affrontarlo: se il throttling riguarda solo siti e servizi basati su uno specifico protocollo, si possono usare sistemi come VPN ecc. Altrimenti se tutto il traffico è limitato, è più difficile aggirarlo.

Il report, dopo aver classificato le diverse tipologie di shutdown, prosegue ad analizzare l’impatto di questi blocchi: quante persone hanno riguardato? Hanno impedito attività economiche? Servizi di emergenza? L’accesso a informazione indipendente? Comunicazioni interpersonali? Era facile migrare a una piattaforma equivalente? E quanto le persone si affidavano alla tecnologia/piattaforma bloccata? E infine, come si possono individuare e attribuire le diverse cause all’origine di questi blocchi?
Nella riconfigurazione di internet che sta avvenendo in questi ultimi tempi (o che alcuni vorrebbero far avvenire) anche le questioni tecniche assumono una forte connotazione di attualità politica. Non che ne siano mai state prive