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Che cos’è la certificazione di parità di genere?

Che cos’è la certificazione di parità di genere?

La certificazione di parità di genere è un processo di certificazione per le aziende virtuose che decidono di investire sulla propria cultura organizzativa uniformandola ai valori della parità, diversità inclusione, attraverso un piano strategico studiato per eliminare i bias di genere. Intraprendere questo percorso vuol dire sottoscrivere un impegno concreto, comunicandolo sia all’interno che all’esterno, e usufruire di incentivi fiscali, premialità nella partecipazione ai bandi pubblici e sgravi contributivi.

Recentissima novità, i datori di lavoro del settore privato che conseguano la certificazione della parità di genere, potranno usufruire dello sgravio contributivo dell’1%, per un massimo di 50.000 euro annui. La domanda di riconoscimento dello sgravio si presenta all’Inps e se i fondi non sono sufficienti, lo sgravio è proporzionalmente ridotto a tutti i beneficiari. A dirlo è un comunicato del 28 novembre del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che ha reso noto il decreto 20 ottobre 2022 di attuazione della legge 5 novembre 2021, n. 162 (art.5).

Il provvedimento prevede inoltre che, in attuazione dell’articolo 1, comma 138, della legge 30 dicembre 2021, n. 234, ulteriori interventi finalizzati alla promozione della parità salariale di genere e della partecipazione delle donne al mercato del lavoro siano realizzati dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in collaborazione con l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (INAPP) e in accordo con il Dipartimento per le Pari Opportunità che ne assicurerà la coerenza rispetto al Piano strategico nazionale per la parità di genere.Un ulteriore input dall’alto per spingere le imprese a investire nella certificazione di parità per ridurre il gender gap, a incentivare attraverso azioni concrete la presenza femminile nel mercato del lavoro, a garantire parità nel trattamento salariale a parità di mansioni, tutelare la genitorialità, offrire opportunità di crescita alle donne e una maggiore presenza negli incarichi esecutivi, con potere di rappresentanza e di spesa.

Certificazione di parità di genere: come nasce?

Istituita con il nuovo art. 46-bis, a partire dal 1° gennaio 2022, la certificazione di parità di genere è 1 delle 3 importanti novità previste dalla Legge 5 novembre 2021, n. 162, entrata in vigore il 3 dicembre 2021 modificando il Codice Pari Opportunità (Dlgs 198/2006), insieme al concetto più esteso di discriminazione e un rapporto più dettagliato sulla situazione del personale (obbligatorio per tutte le aziende, pubbliche e private, con più di 50 dipendenti, che dovrà riportare anche le retribuzioni e i premi riconosciuti ai lavoratori dei due sessi).

In coerenza con la Missione 5 Inclusione e Coesione del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR), con l’introduzione del Sistema di Certificazione di Parità si è puntato il focus sulla necessità di modificare la cultura organizzativa delle imprese, su base volontaria, superando il concetto di obbligatorietà e incentivando le aziende, di qualsiasi dimensione (quotate, medie, piccole), a intraprendere questo nuovo percorso virtuoso, attraverso vari meccanismi premiali. Con il PNRR sono stati stanziati 10 milioni per la certificazione di parità di genere di cui 5,5 destinati a coprire i costi di certificazione delle imprese (12.500 al massimo per ciascuna) e 2.500 per i servizi di assistenza tecnica.

Quali sono i parametri di riferimento?

Il 16 marzo 2022 è stata pubblicata la Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022, contenente le “Linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere che prevede l’adozione di specifici KPI (Key Performance Indicator – Indicatori chiave di prestazione) inerenti alle politiche di parità di genere nelle organizzazioni” e che individua 6 Aree da monitorare: Cultura e Strategia, Governance, processi HR, Opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda, Equità remunerativa per genere, Tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro.

Per ognuna è assegnato uno specifico peso percentuale, per un totale di 100. Con riferimento a ciascuna area vengono identificati degli specifici KPI qualitativi e quantitativi, per un totale di 33, applicabili secondo criteri proporzionali in base alle dimensioni dell’azienda. Per poter ottenere la certificazione bisogna raggiungere un punteggio minimo del 60%. La certificazione può essere rilasciata solo dagli organismi accreditati ai sensi del Regolamento (CE) n. 765/2008. Questi organismi sono accreditati in Italia da Accredia. Il certificato ha una validità di 3 anni ma sono previsti degli step intermedi annuali di verifica.

Parità di genere: quanto siamo lontane?

Il processo di certificazione di parità di genere è diventato pienamente operativo con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 152/2022 che definisce i parametri per il conseguimento della certificazione della parità di genere confermando in sostanza quanto indicato dalla UNI/PdR 125:2022, gettando le fondamenta per la costruzione di una reale dimensione sistemica in cui centrale è il ruolo delle donne nella ripresa economica post-Covid (She-covery).

In tale contesto vincono e sono maggiormente competitive le organizzazioni in grado di comunicare il proprio impegno in parità, il Sistema di certificazione di parità riconosce grande importanza alla corretta e inclusiva comunicazione di Parità, sia interna (verso i dipendenti) che esterna (verso gli stakeholder e l’opinione pubblica).

Se è vero che 162 e 125, verranno ricordati come i numeri della svolta (entro giugno 2026 si stimano 800 piccole e medie imprese certificate e 1.000 aziende che riceveranno le agevolazioni) è anche vero che abbiamo ancora tanto lavoro da fare per accelerare il cambiamento.

132 anni è il tempo stimato su scala globale per colmare il gap di genere, in base al Global Gender Report 2022 del World Economic Forum. Dei 146 Paesi messi a confronto nessuno ha ancora raggiunto la piena parità. L’Italia risulta 63°, mantenendo la stessa posizione della classifica 2021, dopo Uganda (61°) e Zambia (62°), con un tempo stimato per il superamento effettivo dei gap di 150 anni.

Ruth Bader Ginsburg, per 13 anni giudice della Corte d’Appello e per 27 anni giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, diceva che il cambiamento duraturo è quello che si ottiene a piccoli passi, step by step, ma è anche vero che è oggi il momento di accelerare quel cambiamento che le donne hanno atteso per molto tempo e per cui hanno a lungo lavorato. Non possiamo tirarci indietro.




Discriminazioni sul lavoro, quelle che le donne non dicono

Discriminazioni sul lavoro, quelle che le donne non dicono

Fragili, umorali, sensibili al limite del patologico. È lo stereotipo che accompagna ogni donna, quello che sul posto di lavoro diventa il pretesto per svilire il ruolo delle lavoratrici, metterle in una condizione di subalternità psicologica e farne il capro espiatorio di ridimensionamenti aziendali o meschine rivalse.

Partiamo dai rilevamenti scientifici, quelli diffusi dall’Istituto Superiore di Sanità. Quasi una donna su quattro (24%) rischia di soffrire di un disagio psichico nel corso della vita, e le donne hanno una probabilità quasi tre volte maggiore rispetto agli uomini di sviluppare un disturbo mentale, in particolare depressione e ansia. Inoltre, esistono disturbi psichici esclusivamente femminili o quasi, come quelli della sfera alimentare, dove il rapporto donna-uomo arriva a essere di 9 a 1.

Le ragioni sono da ricercarsi in fattori sociali e ambientali, oltre che biologici; le donne devono conciliare troppe cose, spesso troppe di più rispetto ai maschi. È il carico di cura di cui si parla sempre quando si affronta la questione femminile, soprattutto in Italia: cura dei figli e dei genitori in assenza di servizi per l’infanzia e per gli anziani, cura della casa. E, quando hanno la fortuna di averlo, cura del lavoro. È vero, la biologia ci dice che sono più sensibili a depressione, ansia e insonnia, ma il fattore ambientale ha un ruolo centrale. L’essere più svantaggiate sul lavoro, con stipendi più bassi, meno possibilità di carriera e più probabilità di essere discriminate e licenziate le sottopone a una pressione costante, in una condizione di stress perpetuo.

Discriminazione e mobbing, sono le donne le vittime perfette?

A dare man forte a questa visione “di genere” dello stress da lavoro concorre una recente ricerca, svolta nel Regno Unito da studiosi italiani e inglesi, che ha dimostrato il nesso causale tra qualità del lavoro e salute mentale dei lavoratori, soprattutto per le donne.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Labour Economics e condotto dai docenti di Economia politica Michele Belloni dell’Università di Torino, Elena Meschi della Bicocca di Milano e da Ludovico Carrino, ricercatore dell’Ateneo di Trieste e del King’s College di Londra, ha mostrato come il rischio di sviluppare stress o ansia sia collegato alle condizioni lavorative. In particolare a richieste elevate, ridotta autonomia decisionale, scarsa valutazione delle competenze, assenza di supporto sociale, squilibrio tra impegno e retribuzione, ingiustizia percepita relativamente all’imparzialità e rispetto con cui i dipendenti sono trattati dai superiori.

Inoltre la ricerca ha messo in evidenza che sono le donne a pagare il prezzo più alto, in quanto la loro salute mentale è più sensibile a variazioni nella qualità del lavoro, ma anche – sarebbe da aggiungere – in quanto più soggette a questo tipo di fenomeni.

Svalutazione, isolamento, umiliazioni, disparità di trattamento sono infatti tutti elementi che suoneranno familiari a chi, per qualunque motivo, si sia imbattuto in storie di discriminazione e mobbing. Proprio come quella che stiamo per raccontare.

“Hai fatto un’elvirata”: quando il mobbing chiama per nome

Milano, settembre 2014. Elvira è assunta in una rivista con contratto a tempo determinato. Da subito le assegnano la responsabilità di intere sezioni del giornale, i colleghi e il direttore mostrano di apprezzare molto il suo lavoro, e man mano che i contratti vengono rinnovati aumentano le responsabilità e l’impegno richiesti: nessun orario, zero vita privata e una crescente ansia da prestazione, perché è l’ultima arrivata, ha il contratto periodicamente in scadenza e un direttore che stravolge il giornale in continuazione, per cui lei cerca di essere sempre pronta a adeguarsi alle richieste.

Poi, però, dopo circa un anno il clima cambia. Senza capirne la ragione, nel giro di qualche settimana il lavoro di Elvira diventa insoddisfacente, prima per il direttore, poi a ruota anche per i colleghi: “In questo pezzo non si capisce un cazzo, è scritto in un italiano approssimativo”, “sei lenta, lenta”. E poi urla, insulti, minacce.

Il copione, da qui in poi, è da manuale: Elvira è progressivamente demansionata, ogni volta che scrive un articolo viene passato a un collega che lo riscrive di sana pianta, resta ore a fissare lo schermo del computer senza nulla da fare. “Una volta fui convocata nell’ufficio dei grafici. Avevo lasciato da impaginare alcune foto per una rubrica e il grafico ancora non le aveva messe in pagina. Davanti a tutti, il direttore iniziò a urlarmi contro frasi aggressivesprezzantiirripetibili. La violenza di quella sfuriata, il suo viso paonazzo vicino al mio, gli occhi folli di rabbia mi portarono sull’orlo delle lacrime. Io, una donna di più di quarantadue anni, stavo per scoppiare a piangere davanti all’intero ufficio. Non dimenticherò mai l’umiliazione, la vergogna, la rabbia di quel lungo momento. Decisi che con me avevano chiuso. Non sapevo ancora come e quando, ma sapevo che dovevo andare via di lì”.

E poi c’è l’isolamento, perché la solidarietà tra colleghi non esiste più, diventi un paria, e perché anche chi ti vuole bene fatica a entrare nei tuoi panni. “Noi puoi piangere per questo, è solo lavoro”, dicevano suo padre e suo marito. Già, come spiegarlo a chi non c’è mai passato? Come spiegare l’angoscia quando ogni errore commesso da chiunque diventa una “elvirata”, il proprio nome trasformato in sinonimo di incompetenza?

Così, anche Elvira entra nella spirale psicologica della depressione. La prima cosa a sparire è il sonno; le poche ore di riposo sono popolate da sogni orrendi, e ogni mattina alzarsi dal letto diventa più difficile. E poi le crisi d’ansia, la bulimia, le emicranie devastanti, la tachicardia, con quella sensazione di morte che il cuore voglia balzare fuori dal petto. Poi, però, Elvira rimane incinta, e per se stessa e il suo bambino capisce che è il momento di andare via. Il bambino non si salverà, troppo stress, dirà il medico. Ma lei, bene o male, sì.

“Ancora oggi, che sono passati sei anni, a volte sogno quell’ambiente e quelle situazioni”, dice. “E mi sveglio col cuore a mille, senza respiro”. Nonostante il tempo trascorso, la riconquista della fiducia nelle sue capacità e il riconoscimento di colleghi e superiori coi quali lavora oggi, quel senso di vergogna e di inferiorità, quella ritrosia ad avanzare proposte per il timore di dire banalità, non la abbandonano ancora del tutto.

Fenomenologia e sintomi dello stress da lavoro nelle donne

A introdurre implicitamente il concetto di “mobbing di genere” è lo stesso legislatore. Il d. lgs. 81/2008, il Testo Unico per la sicurezza sul lavoro, prevede infatti l’obbligo di valutare tutti i pericoli per la sicurezza e la salute dei lavoratori “ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, fra cui quelli collegati allo stress lavoro correlato… alle differenze di genere”.

“Nel confronti del genere femminile il mobbing assume manifestazioni specifiche”, spiega la dottoressa Giovanna Castellini, psicologa presso la Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico Milano. “Quando si parla di mobbing di genere, le molestie sessuali sono la prima cosa alla quale si pensa, ma non sono certo l’unica o la più ricorrente. Le forme di mobbing più frequenti nei confronti delle donne riguardano la maternità e la gestione dei figli e si esplicano, per esempio, nell’ostacolare la conciliazione lavoro-famiglia o nell’emarginare e demansionare la lavoratrice che torna dopo la maternità, fino a spingerla al licenziamento. Oltre al fatto, noto, che le lavoratrici sono in genere pagate meno degli uomini e che di rado raggiungono posti di comando”.

Ma il mobbing interessa particolarmente le donne soprattutto in termini di virulenza e durata delle violenze, perché di questo si tratta, né più né meno. “Nella mia esperienza posso dire che, quando si parla di mobbing, la prevalenza delle donne non è significativa tanto da un punto di vista numerico, quanto per quel che riguarda l’intensità e la durata delle vessazioni, e quindi le loro conseguenze psicofisiche”, dice ancora Giovanna Castellini.

“Le lavoratrici tendono a resistere più a lungo alle angherie, perché devono sempre dimostrare più dei colleghi maschi e anche perché sanno che per loro è più difficile riciclarsi se perdono il posto. Il mobbing tende sempre a distruggere il senso di sé del lavoratore, a maggior ragione se indirizzato contro una donna, perché in questo caso colpisce non solo il profilo professionale, ma anche personale: allusioni al vestiario, alle abitudini sessuali, alla fisicità, alle condizioni personali, sono tipiche del mobbing di genere.”

E allora immaginiamola questa lavoratrice, demansionata, svilita professionalmente e denigrata come donna, costretta a tenere insieme famiglia e lavoro, che stringe i denti oggi, domani, il giorno dopo, per settimane, mesi, anni. Alla fine esplode, perché è umana, non perché è debole.

“Comincia con piccoli segnali con i quali il corpo somatizza il malessere psicologico: disturbi del sonno, emicranie, gastriti”, spiega la dottoressa Castellani. “Poi alterazioni dell’alimentazione e dell’umore. Tutto questo cresce, si somma, fino a che esplode in ansiadepressioneesaurimento nervoso, a volte pensieri suicidari. La salute mentale viene compromessa alla radice, e spesso la ripresa richiede anni di analisi e terapia farmacologica”.

Talvolta, purtroppo, va a finire anche peggio: la malattia che sta mandando in frantumi l’equilibrio psichico fa tabula rasa delle difese immunitarie, rendendo fragile il corpo.

L’ipotesi di correlazione tra stress psicologico e cancro

Sulla relazione tra stress, depressione, disagio psicologico in generale e insorgenza di tumori la comunità scientifica tende a escludere un nesso di causalità diretta. Tuttavia, secondo uno studio pubblicato sul British Medical Journal e guidato da David Batty del Dipartimento di epidemiologia e salute pubblica dell’University College di Londra, lo stress psicologico può essere predittivo di mortalità per alcuni tipi di cancro.

Secondo il ricercatore inglese, l’esposizione ricorrente a stress emotivi potrebbe diminuire la funzione delle cellule natural killer, e quindi ridurre il controllo di quelle tumorali e favorire l’insorgere di neoplasie. “I risultati della ricerca mostrano che le persone che vivono uno stato di disagio psicologico sono anche quelle che hanno registrato più alti tassi di mortalità per cancro all’intestino, alla prostata, al pancreas, all’esofago e per leucemia”, dice Batty. “Abbiamo dunque la conferma che una cattiva salute mentale può avere una certa capacità predittiva per alcune malattie fisiche. Siamo molto lontani dal sapere come si manifesti questa relazione, ma non possiamo negarla”.

Se, dunque, ancora non si può provare una correlazione biochimica tra disturbo mentale e malattie organiche, è riconosciuto che la depressione, l’ansia, la fragilità psichica derivanti da discriminazione e mobbing creino un ambiente favorevole all’insorgenza di patologie anche gravissime. E questo non solo perché determinano un indebolimento delle difese immunitarie e dell’intero organismo, ma anche perché portano a trascurare la propria salute, adottando stili di vita pericolosi e saltando visite ed esami che permetterebbero l’individuazione precoce di eventuali anomalie.

Una ricerca che risuona in maniera inquietante con la realtà, in una delle testimonianze che abbiamo raccolto: quella di Sara.

La storia di Sara, dal mobbing al tumore al seno

Anche Sara è stata mobbizzata, e anche lei si è salvata solo lasciando il lavoro, dopo un anno e mezzo di “resistenza” in un ambiente che, dal suo racconto, assomiglia a un girone dantesco, tra colleghi ignavi e superiori iracondi.

Dopo circa quindici anni di anzianità in un’agenzia editoriale romana, Sara viene trasferita in un’altra sezione dell’azienda. Le mansioni sono quelle in cui ha maturato tutta la sua esperienza professionale: redigere testi, tenere i rapporti con gli autori, coordinarsi con l’ufficio grafico. Inizialmente il suo lavoro è apprezzato, ma ben presto l’asticella delle richieste si alza sempre di più, in termini di disponibilità a orari che si dilatano progressivamente, di gestione autonoma di una mole di lavoro che cresce in modo esponenziale e di flessibilità rispetto a richieste che cambiano di continuo.

Sara è una perfezionista, e più le si chiede, più lei cerca di dare. Solo che con il tempo il suo dare risulta sempre più inadeguato, insufficiente, e così viene demansionata, ridotta a fare una semplice revisione formale del lavoro altrui, a dover rispondere del proprio operato non solo al suo diretto superiore, ma anche a colleghi che hanno meno anzianità aziendale di lei. Non viene neppure più convocata alle riunioni di pianificazione del lavoro, alle quali partecipano invece tutti coloro che lavorano nel suo ufficio. Fino al punto che le sue giornate si riducono letteralmente a controllare le sue e-mail e aspettare, spesso inutilmente e per tutto il giorno, che qualcuno le dia qualcosa da fare.

Tuttavia, questo forzato far niente non le risparmia gli attacchi personali, la denigrazione, l’isolamento. “Ricordo che la collega che aveva la scrivania davanti alla mia aveva preso l’abitudine di rivolgere verso di me il deodorante da tavolo che aveva sulla sua postazione. Un modo silenzioso ma eloquente per dirmi che puzzavo. Ovviamente non puzzavo, ma iniziai a essere ossessionata da quell’idea e a lavarmi in continuazione. Un altro esempio del trattamento che mi veniva riservato? Una volta una collega, l’unica con la quale avessi legato lì dentro, mi disse che era stata caldamente sollecitata a non farsi vedere in mia compagnia. Un avvertimento anche per lei”.

Ed è così che, anche per Sara, inizia un malessere psicologico profondo: attacchi di panico, depressione, disturbi del sonno e dell’alimentazione. Arriva a pesare meno di quaranta chili, fino a rinunciare al lavoro, pur di porre fine al calvario. Ma non basta, perché quando ormai è fuori dall’ambiente che l’aveva fatta ammalare, ma ancora dentro alle conseguenti difficoltà psicologiche, a Sara viene diagnosticato un tumore al seno. La perizia dello psichiatra e medico legale che l’aiuterà nella sua causa contro l’azienda certificherà poi una relazione temporale tra la neoplasia e il quadro psicopatologico.

Ora Sara è guarita, da tutti i punti di vista. Ed è una donna nuova.

In questo quadro diventa più che mai urgente garantire condizioni di lavoro eque per le donne, che favoriscano la conciliazione di vita e di lavoro senza discriminazioni e colpevolizzazioni.

Perché da un ambiente di lavoro “a misura di donna”, più flessibile, gentile, accogliente e rispettoso, trarrebbero beneficio anche i colleghi maschi. Di questo si può stare sicuri.




Vietato “nuocere al prestigio o all’immagine” della Pa sui social network: il nuovo Codice di comportamento per i dipendenti pubblici

Vietato “nuocere al prestigio o all’immagine” della Pa sui social network: il nuovo Codice di comportamento per i dipendenti pubblici

Vietato mettere in imbarazzo il datore di lavoro, cioè lo Stato, sui social network. Nella seduta di giovedì il Consiglio dei ministri ha approvato il nuovo Codice di comportamento per i dipendenti pubblici, la cui adozione era prevista dal decreto legge “Pnrr 2” dello scorso aprile. E uno degli aggiornamenti riguarda proprio le regole di condotta dettate per l’uso delle piattaforme social, sulle quali “il dipendente” – si legge – “è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della Pa in generale”. Avrà rilievo disciplinare, dunque, ogni presa di posizione fuori dalle righe o giudicata inopportuna per il buon nome dell’ufficio pubblico.

Servirà fare attenzione anche a ciò che altri utenti postano sui propri profili: “Il dipendente utilizza gli account dei social media di cui è titolare in modo che le opinioni ivi espresse e i contenuti ivi pubblicati, propri o di terzi, non siano in alcun modo attribuibili all’amministrazione di appartenenza o possano, in alcun modo, lederne il prestigio”. Meglio, inoltre, non mettere online alcun riferimento al proprio posto di lavoro nella Pa: se dagli account social sono “ricavabili o espressamente indicate le qualifiche professionali o di appartenenza dei dipendenti”, questo “costituisce elemento valutabile ai fini di un’eventuale sanzione disciplinare”.

“Con l’approvazione in Cdm della revisione del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici proseguiamo nella strada tracciata per una riforma della Pa che basa la sua efficienza sul suo capitale umano“, commenta il ministro per la Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo. “Tutta insieme la Pa, centrale e territoriale, quale infrastruttura strategica per lo sviluppo del Paese, impegnata nella messa a terra dei progetti del Pnrr, non può prescindere dalla giusta valorizzazione delle persone che lavorano per l’interesse collettivo e dalla loro responsabilizzazione, quali leve indispensabili per la crescita degli stessi lavoratori e delle organizzazioni”.




La festa-flop della Commissione Europea sul metaverso: ci vanno in 6

La festa-flop della Commissione Europea sul metaverso: ci vanno in 6

C’è una festa più triste di quella, dalla fama ormai planetaria, della piccola Avery Strong, 3 anni, rimasta sola a spegnere le candeline perché nessuno dei suoi amichetti si è presentato?

Sì, c’è.

Ed è il «Gateway Gala», un concerto indetto martedì sera dalla Commissione europea per «attirare l’interesse dei giovani tra i 18 e i 35 anni» sul Global Gateway, un piano di investimenti esteri da 300 miliardi che per molti osservatori è una risposta europea alla «Via della Seta».

Si sono presentati in 6, di cui due giornalisti, su migliaia di possibili invitati, tra cui già appena 44 avevano perlomeno guardato il video di invito (pochissimo europeo: mostrava una festa danzante in una spiaggia tropicale).

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Tristezza doppia perché questa «festa» si è tenuta sul metaverso: la Commissione europea ha stanziato recentemente 378 mila euro per stabilire una presenza ufficiale su questa «realtà parallela», e così farsi conoscere dai giovani che «normalmente non sono esposti alle nostre comunicazioni».

L’idea è venuta a Journee, un’agenzia di «costruzione di spazi digitali» a sua volta reclutata da un’agenzia che ha vinto l’appalto della Commissione.

Tra gli intervenuti, il giornalista Vince Chadwick, che si fa beffe sul sito Politico del party più triste d’Europa.




Cosa possiamo imparare dal caso Balenciaga

OLTRE LE CONGETTURECosa possiamo imparare dal caso Balenciaga

Questa è una storia nella quale ci sono più congetture che fatti. Questa è una storia nella quale le responsabilità si rimpallano come in una partita Brasile-Argentina. Questa è una storia che ha molto da insegnare, e poco di cui essere soddisfatti. Questa è la storia dell’ultimo “caso” che ha travolto Balenciaga, con tanto di teorie cospirazioniste di fronte alle quali le scie chimiche appaiono idee tutto sommato plausibili.

I fatti

La scorsa settimana Balenciaga pubblica sul proprio sito le immagini della sua “campagna holiday”, con accessori e borse da comprare in occasione delle prossime feste natalizie. Al suo interno dei bambini sono fotografati in un ambiente casalingo, tra divani dai cuscini brandizzati, abbracciati ai loro peluche. 

L’ispirazione originale arriva dalla serie Toy Stories, un progetto che il fotografo della campagna, Gabriele Galimberti, ha all’attivo da dieci anni, e nel quale scatta, appunto, dei bambini circondati dai loro giochi, per immortalare «la gioia pura e spontanea che unisce i bambini di origini differenti, quando si parla di giochi, che si tratti di macchine in miniatura o una scimmia di peluche: l’orgoglio che mostrano è commovente, divertente, e in certi sensi, porta a riflettere». Così ha scritto Galimberti in un post Instagram del 30 agosto, a corredo di una delle foto del suo progetto. Quelle della campagna Holiday di Balenciaga dovevano originariamente seguire le stesse coordinate: qualcosa però è andato orribilmente storto. 

Le dichiarazioni

Il pubblico ha iniziato a sollevarsi quando ha notato gli orsetti ai quali si stringevano i bambini, e che erano abbigliati con chiari riferimenti al bondage (top a rete, tanga, chocker con lucchetto). Una scelta di indubbio cattivo gusto che ha causato una valanga che si è ingrossata, via via che scendeva a valle. Alle foto di questa campagna, l’ira social ha aggiunto quelle di un’altra, sempre di Balenciaga, sempre presente nell’homepage del sito, e relativa però alla collaborazione tra il brand e Adidas, nella quale le borse con le tre strisce apparivano appoggiate su una scrivania, contorniate da documenti: facendo zoom, si scopre che uno di questi è la copia di un verdetto della Corte Suprema americana, in materia di pedo-pornografia, la US vs Williams, caso del 2008. 

Nel mentre il brand, percependo la possibilità di un caso, ha cancellato entrambe le immagini delle campagne dal proprio sito, lo scorso martedì, con una story di scuse postata su Instagram. «Ci scusiamo sinceramente per qualunque offesa che la nostra campagna holiday ha potuto causare. I nostri orsacchiotti plush bear (che in realtà sono degli zainetti, ndr) non avrebbero dovuto essere fotografati con i bambini in questa campagna, che abbiamo immediatamente rimosso da tutte le nostre piattaforme». Gabriele Galimberti, responsabile solo della prima campagna con i bambini, e non della seconda con i documenti, è stato ugualmente travolto dalle ire di Twitter e di Instagram, tanto da vedersi costretto mercoledì a pubblicare una dichiarazione su Ig.

«A seguito delle centinaia di mail e messaggi di odio che ho ricevuto per le foto della campagna di Balenciaga, mi sento obbligato a rilasciare una dichiarazione. Non sono nella posizione di commentare le scelte di Balenciaga, ma devo sottolineare che non ho avuto nessuna autorizzazione o coinvolgimento nella scelta dei prodotti o dei bambini da fotografare. In quanto fotografo (Galimberti è raramente utilizzato dalle maison, essendo un professionista che collabora maggiormente con riviste come National Geographic, ndr) mi è stato richiesto soltanto di scattare una scena già pronta, secondo il mio stile. Come succede spesso negli shooting commerciali, la direzione della campagna e la scelta degli oggetti da mostrare non erano nelle mie mani. Sospetto che qualunque individuo prono alla pedofilia faccia ricerca sul web e abbia sfortunatamente accesso a immagini completamente diverse dalla mia, esplicite nel loro tremendo contenuto. Accuse del genere sono dirette contro il bersaglio sbagliato, e distraggono dal reale problema. Inoltre, non ho nessuna connessione con la foto nella quale appare un documento della corte Suprema. Quella specifica foto è stata scattata in un altro set, da altre persone, ed è stata falsamente associata ai miei lavori».

In effetti, Galimberti ha ragione nell’affermare che nella maggior parte dei casi, nessuna immagine viene pubblicata, e persino prodotta, senza l’approvazione interna del brand, che ha in questo caso peccato di sicumera nel pensare di poter condividere delle foto del genere, senza timore di scatenare delle discussioni accese.

Visto che però lo statement ufficiale del brand non è sembrato calmare le acque, la maison ha fatto posto sul suo Instagram ad un unico post pubblicato il 28 novembre. Nel comunicato Balenciaga ammette sostanzialmente la propria responsabilità e negligenza nel vigilare durante il servizio nel quale sono ritratti gli zaini a forma di orsetto. Per quanto invece riguarda la campagna che vede sulla scrivania la sentenza della Corte Suprema, il brand afferma che «tutti gli oggetti inclusi nello shooting sono stati forniti da parti terze, che hanno confermato per iscritto che questi props (come si definiscono nel linguaggio modaiolo gli oggetti usati sui set, per creare un’ambientazione, ndr) fossero finti documenti legali. Si sono poi dimostrati essere in realtà documenti reali, che probabilmente erano stati presi dal set di una serie tv drammatica»

La pubblicazione di questi documenti, prosegue la nota di Balenciaga, «è quindi il risultato di una negligenza sconsiderata, per la quale Balenciaga ha sporto denuncia. Ci prendiamo la piena responsabilità per la nostra mancanza di controllo e vigilanza rispetto a questi documenti sullo sfondo. Avremmo potuto agire diversamente. Impariamo dai nostri errori e cerchiamo di identificare le modalità nelle quali possiamo dare un contributo. Balenciaga rinnova le sue più sincere scuse per l’offesa che ha causato ed estende le scuse a tutti i talent e partner».

L’ultima ad essersi espressa sul caso è stata la musa di Demna Gvasalia, Kim Kardashian. Nella giornata del 26 novembre, in una dichiarazione passata in una storia su Instagram, l’imprenditrice digitale ha affermato: «Sono rimasta in silenzio negli scorsi giorni, non perché non fossi disgustata e oltraggiata dalle immagini della campagna di Balenciaga, ma perché volevo un’opportunità di parlare con il mio team interno per capire come sia stato possibile che tutto ciò sia successo. Come madre di quattro bambini, sono stata scossa da queste immagini disturbanti. La sicurezza dei minori deve essere garantita e qualunque tentativo di normalizzare l’abuso su di loro non dovrebbe trovare posto nella nostra società, punto. Apprezzo la rimozione della campagna e le loro scuse. Parlando con il team, credo che abbiano capito la serietà della questione e prenderanno le misure necessarie affinché non possa più capitare. Per quanto riguarda il mio futuro con Balenciaga, sto valutando il prosieguo della nostra partnership, sulla base della loro volontà nell’accettare la loro responsabilità in qualcosa che non sarebbe mai dovuto accadere, e sulle future azioni che mi aspetto che intraprendano, per difendere i bambini». 

Kim Kardashian (AP Photo/LaPresse)

La causa legale

A seguito del caso, nella settimana del divorzio tra Gucci e Alessandro Michele, Balenciaga ha preso provvedimenti. Il 25 novembre la maison ha intentato causa alla casa di produzione North Six e al set designer Nicholas Des Jardins, responsabili della campagna con i documenti della Corte Suprema (la causa non cita gli orsetti bondage). Nella causa, l’azienda afferma di aver subito danni d’immagine quantificabili in venticinque milioni di dollari, e che la condotta dei due imputati ha portato «membri del pubblico, compresi i media, ad associare falsamente e orribilmente Balenciaga con il ripugnante e profondamente inquietante oggetto della decisione del tribunale».

Di conseguenza, gli imputati sono responsabili nei confronti di Balenciaga per «tutti i danni derivanti da questa falsa associazione». Non è ancora chiaro quale sia la richiesta di risarcimento del brand, come riporta The fashion law, sito esperto in questioni legali applicate alla moda.

Le teorie

I toni dello scontro sono poi saliti esponenzialmente, fino a delirare, citando fantomatici collegamenti che riporterebbero addirittura al Pizza Gate, la teoria cara all’alt-right americana, utilizzata nel 2016 e poi di recente rispolverata, secondo la quale degli individui di alto profilo americano (inizialmente la teoria buttava nel mischione Hillary Clinton, per minarne la corsa alla presidenza della Repubblica, poi si è allargata a diversi esponenti del Partito Democratico) usavano riunirsi al Comet Ping Pong, pizzeria di Washington DC, per perpetrare abusi su minori. Con tanto di riti satanici a corredo e traffico minorile.

Una escalation corroborata, secondo chi la teorizza, da altri elementi presenti nella campagna scattata di recente, relativa alla prossima spring/summer 2023 con testimonial come Bella Hadid e Nicole Kidman, tra gli altri. Nella foto che vede come protagonista l’attrice Isabelle Huppert alla scrivania di un ufficio tra i grattacieli, probabilmente newyorchesi, tra i tomi impilati sul mobile, zoomando, se ne riesce a intravedere uno di Michaël Borremans, pittore belga. 

Per chi non fosse a suo agio con la pittura contemporanea, Borremans è un artista che nel 2018 – durante la mostra Fire from the Sun a Hong Kong – ha esposto dei quadri nei quali si scorgono bambini che giocano con il fuoco, in un’atmosfera priva di controllo. Sono nudi e coperti nel sangue – non loro ma di qualcun altro, visto che in alcune delle opere sono disegnati anche arti umani. Immagini sinistre, dove i bambini non appaiono però traumatizzati. A spiegarlo meglio è il sito di David Zwirner, la galleria di Hong Kong che lo ha ospitato nel 2018. 

«Dalle fattezze di cherubini nei quadri rinascimentali, i bambini sembrano allegorie della condizione umana, la loro innocenza archetipa che si scontra con le loro devianze umane. Altri dipinti nella mostra disegnano macchine misteriose, la cui presenza enigmatica suggerisce un elemento di sperimentazione scientifica». Una riflessione inquietante sullo stato della società contemporanea, ma nulla che chi ha letto Il signore delle mosche, libro seminale di William Golding, ad oggi considerato universalmente un capolavoro, non abbia già conosciuto. 

Analizzando ancora le immagini, nella stessa foto con la Huppert si intravede un altro libro: “The cremaster cycle” di Matthew Barney, definito dal New York Times come uno degli artisti americani più influenti della sua generazione (e anche, ex marito di Bjork). Si tratta di uno dei suoi lavori più imponenti, costituito da cinque lungometraggi che raccontano la crescita dell’individuo, concepito come “materia grezza”, e che si forma in una società nella quale lo sviluppo dell’identità è in continuo (e ambiguo) mutamento. 

Un discorso estremamente complesso e articolato che non si ha la presunzione di riassumere in poche righe: ai teorici di QAnon della moda è bastato però molto meno. “The cremaster cycle” è riferimento al muscolo cremastere, quello che ricopre i testicoli. Barney faceva riferimento ai primi cambiamenti fisici del corpo: nulla che avesse anche solo lontanamente a che fare con dei set designer che simpatizzano per la pedopornografia. Nella strampalata conspiracy fashion, però, questo elemento liminale è diventato ulteriore prova del tentativo di Balenciaga di normalizzare l’abuso minorile. 

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Non ci dilunghiamo qui su altri inquietanti “Easter eggs” scovati da infervorati utenti di Twitter e Instagram, e quindi prova provata della assoluta veridicità del teorema. E così l’account Instagram Diet Prada, che ha cresciuto per anni i suoi follower a latte e sospetti – a volte confermati, altre modellati ad hoc per favorire un maggiore engagement sui social – redarguisce il suo pubblico, che in ansia chiede a gran voce che ci si esprima. In più, l’account nel quale ci sono Tony Liu e Lindsey Schuyler – un po’ gran visir della morale modaiola – ha pubblicato alcune stories dove invitava il proprio seguito a consultare Google nell’attesa: per vagliare e analizzare ogni teoria erano necessari tempo e attenzione, pensando forse di essere il team Spotlight del Boston Globe, i giornalisti che, nella realtà, smascherarono un sistema di abuso minorile endemico, perpetrato per anni nell’area di Boston, ad opera di preti cattolici (l’inchiesta valse loro il premio Pulitzer nel 2003).

I precedenti

Eppure, c’è stata un’era pre-social nella quale certe cose sono già successe, anche se non esistevano luoghi deputati sul web nei quali riunirsi in conclave per parlarne. Nel 2010 Carine Roitfeld, ai tempi direttrice di Vogue Paris, lasciò il giornale dove aveva militato per dieci anni. Se allora si parlò ufficialmente di separazione consensuale, i rumors del settore suggerivano un “disallineamento” tra lei e l’editore Condé Nast: una differenza di visioni a cui però l’editoriale dedicato ai regali di Natale – dal titolo “Cadeaux”, del numero di dicembre 2010 – mise la ciliegina sulla torta. 

Se l’intero numero vide la curatela di Tom Ford – insieme al quale Roitfeld mise a punto lo stile porno-chic per il quale Ford divenne amato nei suoi anni da Gucci e poi con il suo brand – lo specifico servizio ritraeva tre modelle bambine, che giocavano a vestirsi “da grandi”. Le modelle indossavano vestiti perfetti per le feste natalizie, e firmati dalle maggiori maison, ed erano fornite del make up per l’occasione. Un gioco stilistico sulla linea del politically correct, una zona nella quale la Roitfeld si è sempre sentita a suo agio e che però causò molte critiche relative alla sessualizzazione di minorenni. Critiche che, in un’era priva della penetrazione sociale odierna di Twitter e Instagram (per quanto non prive di una loro validità), finirono poi nel dimenticatoio, consentendo a Roitfeld di iniziare una seconda carriera come consulente dei brand di moda, e di rimanere nell’empireo delle più iconiche direttrici della rivista.

Cosa possiamo imparare dallo scandalo Balenciaga

L’unica lezione che si può trarre da questa faccenda, che ha assunto contorni spropositati e grotteschi, è che si possono suonare le campane a morto per il tentativo culturale messo in atto dalla moda di far coesistere l’alto e il basso, lo streetwear e le maison, il giudizio popolare con quello della critica. La complessità non può essere ridotta a un’immagine semplicistica, a un tweet di 240 battute, a una story che dura ventiquattro ore e poi scompare. 

Essere capaci di riflettere, interrogarsi e informarsi richiede più tempo di quello che serve per esprimere un giudizio sommario, e digitarlo prima di tutti gli altri. Con questo non intendiamo che il brand non sia incappato in un gigantesco errore di valutazione – sottostimando l’attenzione untuosa che circonda questi temi – nei tempi disgraziati nei quali si dà valore alle teorie del Pizza Gate. Quando, però, si gioca costantemente sul terreno di argomenti divisivi per emergere nei tempi dei social – che triturano e digeriscono qualunque riflessione nei tempi olimpici nei quali Usain Bolt correva i cento metri -, anche l’orsetto con il choker diventa pietra dello scandalo. 

Laddove, invece, si trattava di incauto cattivo gusto e di una generalizzata inerzia che trovano faticoso porsi un dubbio. Laddove, invece, in questo mercato drogato dalla necessità di rilevanza e povero (nella maggior parte dei casi) di una reale sostanza, sarebbe necessario evitare i «perché no?» (che avevano già un senso infausto quando a pronunciarli fu Bobby Kennedy nel 1968, poco prima del suo assassinio) e chiedersi semplicemente «perché?» una volta in più.