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Bill Gates e Hyundai finanziano la start-up israeliana H2Pro, che punta a produrre H2 green a 1 euro/Kg prima del 2030

Bill Gates e Hyundai finanziano la start-up israeliana H2Pro, che punta a produrre H2 green a 1 euro/Kg prima del 2030

La start-up israeliana H2Pro ha raccolto 22 milioni di dollari da investitori privati, tra cui compare anche il tycoon americano Bill Gates, per sviluppare un innovativo sistema di elettrolisi in grado, stando alle dichiarazione della società, di produrre idrogeno verde ad un costo estremamente competitivo, pari a 1 dollaro al kg entro la seconda metà di questo decennio.

Secondo quanto riportato da Bloomberg, H2Pro ha ottenuto le risorse nell’ambito di un round di finanziamenti sottoscritto, oltre che dal fondatore di Microsoft, anche dal miliardario di Hong Kong Li Ka-shing, dal gruppo industriale giapponese Sumitomo Corp e da Hyundai Motor.

“Vediamo un reale mercato a livello globale per la nostra tecnologia” ha assicurato il CEO dell’azienda israeliana Talmon Marco, che ha aggiunto: “Quando abbiamo fondato la società nel 2019 era molto difficile anche solo avere colloqui con potenziali finanziatori, mentre ora tutti sono disponibili a investire nell’idrogeno”.

La tecnologia di H2Pro è simile a quelle utilizzata dagli elettrolizzatori alcalini tradizionali, ma consentirebbe di ridurre drasticamente il consumo di energia elettrica, sostituendola in parte (nel processo di accoppiamento degli atomi di ossigeno per creare le molecole di questo gas ‘di risulta’) con calore termico. Questa innovazione, secondo la società, consentirebbe di abbattere drasticamente il costo di produzione dell’H2 green, portandolo attorno a 1 dollaro a Kg già nella seconda metà di questo decennio. Un target di prezzo che, con gli elettrolizzatori tradizionali, non sarà raggiungibile prima del 2050 secondo le previsione di BloombergNEF.

La sfida, molto ambiziosa, di H2Pro è però quella di ‘scalare’ su dimensioni maggiori il suo prototipo, che attualmente è in grado di produrre, in ambiente di laboratorio, appena 100 grammi di idrogeno al giorno. I fondi raccolti con questo giro di finanziamenti serviranno proprio a realizzare un modello più grande, capace di generare 1 kg di idrogeno al girono, e a sviluppare in un secondo momento elettrolizzatori di dimensione commerciale.

Un percorso ancora lungo, considerando che gli elettrolizzatori tradizionali prodotti dai principali player del settore come ITM Power, NEL Hydrogen, Siemens Energy, Thyssenkrupp e Haldor Topsoe, impiegati in progetti pilota, sono in grado di produrre migliaia di chilogrammi di H2 green al girono, e che le previsioni per i progetti in fase di studio in questo periodo sono di incrementare di molto tale capacità.




I treni persi dell’indipendenza energetica italiana

I treni persi dell’indipendenza energetica italiana

Quando nel novembre 1987 le cittadine e i cittadini italiani votarono su tre quesiti riguardanti il programma di sviluppo della fissione nucleare nel nostro Paese, noi due frequentavamo il quarto anno del liceo e non avevamo ancora compiuto 18 anni. L’esito del referendum portò alla chiusura delle centrali nucleari esistenti, anche se i quesiti non lo implicavano necessariamente. Una decisione così rilevante, sicuramente influenzata da quanto successo l’anno precedente a Černobyl’, avrebbe avuto effetti duraturi e significativi sulle strategie di approvvigionamento energetico del nostro Paese.

Erano anni in cui i consumi energetici ancora aumentavano costantemente (+14% tra il 1981 e il 1991) in particolare quelli di elettricità (+37% tra il 1981 e il 1991). Erano anni in cui la politica energetica era pianificata e imperniata su due enti nazionali, quello degli idrocarburi (Eni) e quello dell’energia elettrica (Enel). Enti ancora molto lontani dall’orizzonte della privatizzazione. 

Nell’agosto 1988, a soli nove mesi dal referendum sul nucleare, il governo presieduto da Ciriaco De Mita approvò il nuovo Piano energetico nazionale (Pen) che ad esempio proponeva di aumentare la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili del 44% entro il 2000. Per attuare concretamente il Pen nel gennaio 1991 vennero poi approvate la legge 9 dedicata alla ricerca e sfruttamento degli idrocarburi e la legge 10 dedicata alla promozione dell’efficienza energetica e allo sviluppo delle rinnovabili. Dovevano essere le due gambe dell’autonomia energetica, ma l’andatura negli anni successivi risultò parecchio claudicante.

La legge 10 del 1991 conteneva alcune importanti misure innovative: l’obbligo di nomina di un energy manager per gli attori del settore industriale e terziario con consumi superiori a determinate soglie; la certificazione energetica per tutti gli appartamenti o gli edifici venduti o affittati; limiti al consumo energetico dei nuovi edifici; l’obbligo all’integrazione di impianti rinnovabili in edifici pubblici; la contabilizzazione del calore e la termoregolazione in tutti gli edifici; e, ciò che più conta, finanziamenti a fondo perduto tra il 20 e il 40% dell’investimento necessario per l’efficientamento. Solo alcune di queste norme ebbero effettiva applicazione, per responsabilità di una classe dirigente che solo un anno dopo venne travolta dalle inchieste di “Mani pulite”.

Per fare un esempio, il decreto che avrebbe dovuto regolare i limiti al consumo energetico dei nuovi edifici fu approvato nel luglio 2005: era previsto entro 180 giorni, ce ne vollero più di 5.000. Con l’ulteriore beffa per cui solo 23 giorni dopo il decreto venne superato da un nuovo provvedimento che recepiva la prima direttiva europea in materia (Epbd – Energy performance of buildings directive): il decreto legislativo 192 del 2005. Sembra incredibile, sì: non ditelo a noi.

Ma mentre efficienza e rinnovabili finivano per essere completamente dimenticate, l’altra gamba in compenso viaggiava veloce. Tra completamento della metanizzazione della rete gas e nuove esplorazioni erano gli anni del boom della produzione domestica di metano che nel 1994 arrivò a coprire il 40% dei consumi nazionali. Nelle intenzioni, doveva probabilmente essere l’inizio della corsa all’indipendenza energetica e invece divenne la premessa dell’incapacità delle nostre classi dirigenti di pensare un’alternativa percorribile, date le condizioni. Rapidamente la produzione nazionale di gas superò il picco e oggi è solo pari a un quinto del massimo raggiunto. Non per colpa dell’opposizione di qualcuno, ma semplicemente per scarsità della risorsa. 

La scelta di campo a favore dei fossili dei primi anni 90 visse un altro decisivo momento. Nel passaggio finale di approvazione della legge 10, infatti, una sapiente manina inserì accanto alle rinnovabili le cosiddette fonti assimilate. Per “fonti assimilate” si intende la cogenerazione (cioè la produzione combinata di elettricità e calore) o il recupero del calore di scarto dei cicli di produzione industriali. Le fonti assimilate sicuramente sono esempi di un modo efficiente di usare l’energia (lato produzione) che meritavano di essere stimolate. Ma mettendole sullo stesso piano delle rinnovabili si è chiusa la porta a un possibile sviluppo di queste ultime che sarebbe arrivato solo dopo oltre 15 anni, sempre grazie allo stimolo di una direttiva europea. La delibera del Comitato interministeriale dei prezzi che doveva definire gli incentivi alle rinnovabili (la cosiddetta Cip 6/92) di fatto andò a finanziare per oltre l’80% la grossa cogenerazione industriale: per un’ironia tragica, soprattutto dell’industria fossile, come ad esempio le raffinerie del gruppo Saras dei Moratti o di Api Energie.

Che fosse per insipienza, malafede o semplicemente per una cieca fiducia nel fossile, il governo dell’energia negli anni 90 fu la seconda grande occasione persa (la prima furono le crisi energetiche degli anni 70). Del resto nel 1992 inaugurammo  la stagione dei governi tecnici, in una situazione in cui la politica era invece debole, debolissima. Sin dai primi anni 90 le decisioni strategiche furono demandate a tecnocrati che dimostrarono concretamente la mancanza di una visione politica di medio periodo, che necessariamente include la sicurezza di approvvigionamento energetico, così come la politica industriale. Quello che contava era far tornare i conti a breve.

Ma non è finita lì. Una terza occasione importante per migliorare la nostra dipendenza energetica si materializzò nei primi anni 2000 quando, come già ricordato, l’Unione europea obbligò il nostro Paese a promuovere efficienza energetica e le fonti di energia rinnovabili attraverso un nutrito pacchetto di direttive in materia. In effetti dagli anni 2005-2006 assistiamo a una diminuzione dei consumi energetici complessivi, a un calo delle importazioni, a un rapido aumento della produzione da fonti rinnovabili e della loro quota sul totale dei consumi. In questo quadro la dipendenza energetica passa dall’86% del 2006 fino al 76% del 2014. Una corsa impetuosa alimentata tra gli altri dal vertiginoso aumento degli impianti fotovoltaici. Una corsa forse sregolata, che avrebbe avuto bisogno di briglie migliori, che consentissero di creare un settore con risultati meno eclatanti ma più stabili nel tempo. Gli investimenti fatti o programmati per realizzare un’industria nazionale capace di coprire l’intera filiera di produzione dei moduli e la relativa componentistica non ebbero tempo di stabilizzarsi e un intero settore fu ucciso nella culla. Con il paradosso che il nostro Paese ha investito tanto quando il fotovoltaico costava troppo, contribuendo come pochi altri a renderlo conveniente a livello globale, per poi rinunciare ad approfittarne. E che oggi siamo quasi interamente dipendenti dalle importazioni della tecnologia, anche se qualcosa, forse, sta cambiando.

Invece lo stop agli incentivi (più che comprensibile) e i provvedimenti retroattivi (meno comprensibili, visto che minano alla base la fiducia di tutto un settore e più in generale la credibilità dello stato) hanno causato un brusco stop che dal 2014 si è poi protratto per lunghi anni. Solo recentemente il settore torna ad affacciarsi, con iniziative che oggi includono anche impianti di accumulo, la terza gamba dell’indipendenza insieme a efficienza e rinnovabili.

Grazie a tutti i treni persi, oggi siamo quindi ancora in una situazione di dipendenza estrema da due combustibili fossili (petrolio e gas costituiscono il 70% dei nostri consumi e sono quasi tutti importati) con fatture energetiche di 40 miliardi di euro annui (prima dei recenti aumenti) che vanno ad alimentare regimi come quello russo e quello saudita. Ma se oggi siamo in questa situazione è per via di scelte precise, di strategie perseguite a lungo nel tempo, di colpevoli omissioni. 

Un problema non può essere risolto con la stessa mentalità di chi lo ha creato e chissà che le tragiche circostanze di questi giorni non ci diano la possibilità di cambiare, finalmente, il nostro futuro. Con il non secondario risultato che potremmo anche risolvere la crisi climatica e dare prospettive sensate di vita e di lavoro alle giovani generazioni.

Gianluca Ruggieri è ricercatore all’Università dell’Insubria, attivista energetico e socio fondatore di Retenergie e di ènostra. Autore con Fabio Monforti di “Civiltà solare” e con Massimo Acanfora di “Che cos’è la transizione ecologica”.




Un edificio Nearly zero energy per la nuova sede Ferrero

Un edificio Nearly zero energy per la nuova sede Ferrero

Il progetto Nearly Zero Eergy è firmato dall’architetto Frigerio

(Rinnovabili.it) – Manca ormai poco al completamento della nuova sede della multinazionale Ferrero costruita per essere nZEB Nearly Zero Energy Building.

Il progetto vincitore del concorso indetto nel 2017 porta la firma del team Frigerio Design Group, che ha sviluppato un edificio capace di ospitare al meglio i futuri 200 dipendenti di Alba.

Il Ferrero Technical Center è stata definita la manifattura 4.0. Qui la componente naturale e quella umana convivono in un polo innovativo dove la tecnologia “c’è ma non si vede”.

La fabbrica di domani

credits: Frigerio Design Group

Così come l’hanno descritto i suoi creatori, il nuovo Centro Nearly Zero Energy è concepito per non “urlare” al mondo la sua presenza. L’idea è quella di contrapporre l’immagine caotica della fabbrica tradizionale, ad un’architettura semplice e lineare dove gli impianti e le soluzioni tecnologiche sono integrate nella facciata o nel mezzanino tecnico.

Componenti nZEB

credits: Frigerio Design Group

Le aperture della facciata soprannominate “brachie”, catturano la luce naturale diffusa, schermando invece i raggi solari diretti. I pannelli microforati e fonoassorbenti dell’involucro assicurano la massima qualità acustica interna riducendo al minimo l’inquinamento.

Sei aree verdi, i “giardini volanti”, si aprono nell’edificio per assicurare il massimo beneficio bioclimatico, acustico ed estetico, assicurando inoltre agli occupanti, uno spazio di relax sempre a portata di mano.

Le emissioni di anidride carbonica sono ridotte al minimo. I materiali sono prefabbricati ed assemblati prevalentemente a secco, mentre il volume compatto facilità a riduzione dei consumi.

Tutti i contributi di progettazione passiva sono massimizzati, dalla luce naturale, alla circolazione dell’aria, riducendo significativamente l’utilizzo di risorse esterno.

Un impianto fotovoltaico sul tetto produce inoltre energia pulita pari a 300 kW.

l progetto dovrebbe essere ultimato entro aprile 2022.




Tigotà: con lo scontrino digitale 2mila Km di carta in meno

Tigotà: con lo scontrino digitale 2mila Km di carta in meno

Tigotà, drugstore specializzato nella vendita di prodotti per la cosmesi, cura della persona e pulizia della casa con oltre 650 store in tutta Italia, ha deciso di introdurre lo scontrino digitale. Un’email al posto della carta termica, un materiale che non è possibile riciclare. Un segnale forte in termini di tutela e rispetto dell’ambiente.

Nel 2019 tutti i Tigotà della Penisola hanno emesso oltre 20mila Km di scontrini, pari alla distanza tra Polo nord e Polo sud. Nel 2021, grazie all’introduzione dello scontrino digitale, il consumo di carta termica si è ridotto di circa 2mila chilometri. Pericle Ciatto, Responsabile marketing di Tigotà, spiega: “Abbiamo intrapreso questa strada con convinzione e vediamo grandi potenzialità. Siamo solo agli inizi, il nostro augurio è che sempre più persone scelgano di aderire a questa iniziativa. Gestire correttamente i rifiuti, soprattutto quelli che non possono essere riciclati, permette alle nostre comunità di fare importanti passi in avanti per l’ambiente”.

Ottenere lo scontrino digitale è semplicissimo: i clienti con carta fedeltà possono richiederlo direttamente in cassa, a quel punto i commessi inviano lo scontrino digitale all’indirizzo di posta elettronica comunicato.

Questa non è l’unica iniziativa a favore dell’ambiente messa in atto da Tigotà. Da 4 anni, infatti, la catena ha intrapreso un’operazione di relamping dei pdv che prevede la sostituzione di tutte le vecchie lampadine con led di nuova generazione, meno impattanti dal punto di vista energetico. L’obiettivo per il 2022 è completare i lavori, arrivando così a coprire il 92% del totale dei punti vendita Tigotà. Lo scorso 11 marzo, in occasione dell’iniziativa ‘M’illumino di meno’ prevista per la ‘Giornata del risparmio energetico e degli stili di vita sostenibili’, tutti i negozi dell’insegna hanno abbassato le luci per dare il loro contributo alla tutela dell’ambiente.




Quale “capitalismo responsabile” di fronte all’enigma cinese?

Quale "capitalismo responsabile" di fronte all'enigma cinese?

Cosa richiede oggi un capitalismo “responsabile” agli investitori e alle aziende che si impegnano con la Cina?

La Cina è la seconda economia più grande del mondo, un vasto mercato per i beni di consumo ma è anche un anello critico nella catena di approvvigionamento globale. La Cina rappresenta una quota significativa dei ricavi annuali di giganti aziendali come Apple, Intel e Starbucks.

Date le opportunità di trarre profitto dall’impegno con la Cina, il saggio cinquantennaledi Milton Friedman dal titolo A Friedman doctrine – The Social Responsibility Of Business Is to Increase Its Profits fornisce una risposta chiara: coinvolgi!

Inizia così un post di Curtis J. Milhaupt, esperto riconosciuto a livello internazionale di corporate governance comparata, sistemi legali dell’Asia orientale e di capitalismo di stato pubblicato sulla rivista ecgi.

Ma la Cina, ci ricorda l’autore, è anche il maggior contributore mondiale di emissioni di gas serra, è governata da un regime autoritario repressivo che rinchiude i suoi oppositori, censura assiduamente il discorso ed è impegnata in un programma su larga scala di pulizia etnica. Pechino ha represso le voci democratiche a Hong Kong con l’imposizione di una draconiana legge sulla sicurezza nazionale ed è sempre più sfacciata nelle sue minacce di prendere Taiwan con la forza.

Ed in effetti, da questo punto di vista, il continuo impegno del capitalista occidentale con la Cina sembra, oggi, notevolmente meno responsabile, in particolare in un’era di fascinazione per le questioni ESG (Environmental, Social and Governance) nel governo societario e negli investimenti.

Questo è l’enigma che la Cina pone al capitalismo responsabile.

Per due decenni, la risposta confortante del capitalismo all’enigma cinese è stata l’affermazione che l’impegno con la Cina non solo sarebbe stato positivo per gli affari, ma avrebbe accelerato il rafforzamento della libertà personale e dell’emancipazione politica interna, attitrando la Cina in strutture di governo globali (occidentali).

Curtis J. Milhaupt ci ricorda il famoso discorso di Bill Clinton nel 2000 alla vigilia del voto del Congresso USA sull’adesione della Cina all’OMC:

“[Abbiamo] maggiori possibilità di avere un’influenza positiva sulle azioni della Cina se accogliamo la Cina nella comunità mondiale invece di escluderla.”

E nello stesso discorso, Clinton chiese alla Cina: “Sarà la prossima grande tigre capitalista, con il mercato più grande del mondo, o l’ultimo grande drago comunista del mondo e una minaccia per la stabilità in Asia?”

Come è andata a finire è storia nota.

Ma oggi, ci ricorda l’autore del post,

è giunto il momento di riconoscere che il profondo impegno capitalista con la Cina non solo non è riuscito a portare un cambiamento a Pechino, ma ha notevolmente ridotto la leva dei governi occidentali e del settore privato per incoraggiare l’ammorbidimento del regime in Cina e l’accettazione degli standard globali di trasparenza aziendale e di governo.

Un ottimo esempio è la politica, iniziata da Trump e proseguita sotto l’amministrazione Biden, di tagliare i flussi di capitali statunitensi alle imprese cinesi legate al governo e all’esercito cinese. Un filone della politica consiste nel rimuovere dalle borse valori statunitensi le società cinesi che rifiutano di consentire le ispezioni dei loro revisori esterni da parte del Public Company Accounting Oversight Board (PCAOB). Nel 2020, il Congresso ha approvato la Holding Foreign Companies Accountable Act (HFCA Act), che richiede la cancellazione dalle borse statunitensi delle società i cui revisori dei conti non si sottopongono alle ispezioni legalmente obbligatorie da parte del PCAOB per tre anni consecutivi. Dopo un solo anno di non conformità, una società deve certificare alla SEC di non essere “posseduta o controllata da un governo straniero”.

Lo statuto è nato dalla frustrazione per le affermazioni del governo cinese secondo cui la sua legge sui segreti di Stato impedisce l’accesso ai rapporti di revisione delle società cinesi e dal sospetto al Congresso che gli investitori statunitensi stiano finanziando le società cinesi che realizzano le ambizioni tecnologiche di Pechino.

Ma l’HFCA Act è un passo troppo modesto per una maggiore divulgazione dei legami esistenti tra le società cinesi quotate negli Stati Uniti con il governo cinese ed il ruolo del Partito Comunista nella loro governance aziendale.

I regolamenti della SEC (che implementano i requisiti di divulgazione della legge) tradiscono una grave mancanza di comprensione da parte delle aziende cinesi (per via dei canali di influenza dello stato-parte cinese sulle aziende domestiche) ed è improbabile che raggiungano anche i loro obiettivi limitati, dice Milhaupt.

Inoltre, poiché il capitale è globale, gli sforzi unilaterali degli Stati Uniti per rimuovere le società cinesi dal listino saranno inefficaci nel tagliare il loro accesso ai finanziamenti, anche da parte degli investitori statunitensi.

Le aziende che rischiano il delisting negli Stati Uniti riceveranno da Pechino il benvenuto da eroe. La loro partenza dal NYSE e dal NASDAQ avrà spesso un costo per gli investitori statunitensi, poiché i loro azionisti di controllo ricollocheranno le loro società in Cina a valutazioni più elevate.

Debole, quanto agli effetti, è anche il secondo filone della politica USA, che vieta il commercio (da parte di soggetti statunitensi) con società inserite in un elenco di “Società complesse militari-industriali cinesi” tenuto dall’OFAC, l’ufficio sanzioni del Dipartimento del Tesoro.

Sebbene l’elenco abbia comportato la rimozione di diverse società cinesi dai principali indici azionari, l’impatto della politica è ancora una volta limitato dalla mobilità aziendale globale e dalla pianificazione strategica.

Un esempio recente: appena prima della prevista IPO di Cayman, il leader dell’intelligenza artificiale SenseTime Group Inc. a Hong Kong, la sua consociata interamente controllata di Hong Kong, SenseTime Group Limited, è stata designata come CMICC (la tecnologia di SenseTime è ampiamente utilizzata da Pechino nella sorveglianza interna).

Secondo il parere legale del consulente esterno di SenseTime Group Inc., dice Milhaupt, la designazione della consociata interamente controllata non avrebbe alcun impatto sulla negoziazione delle azioni della società madre da parte di soggetti statunitensi: la società madre è un’entità separata e, secondo l’interpretazione dell’OFAC, le conseguenze della designazione come CMICC non fluiscono verso l’alto o verso il basso alle società collegate.

La famosa dichiarazione di Milton Friedman, secondo cui la responsabilità sociale delle imprese consiste nel massimizzare i profitti entro i limiti della legge e delle norme sociali, non fornisce molte indicazioni ai capitalisti in un mondo in cui il capitalismo stesso si è frammentato in varianti di mercato e statali, ciascuna con le proprie norme e istituzioni. Né Friedman immaginava un mondo in cui le società fossero profondamente intrecciate nelle politiche di sicurezza nazionale dei loro governi nazionali, uno sviluppo guidato dalla natura indispensabile della tecnologia (e degli investimenti nella ricerca di base) sia per il valore economico che per la potenza militare – e per la centralità dei dati – praticamente ad ogni aspetto della vita del ventunesimo secolo.

Forse più fondamentalmente, prosegue l’autore, la dottrina di Friedman si basa sulle precarie fondamenta intellettuali dell’altra sua opera altamente influente, Capitalismo e Libertà. Friedman non è riuscito a riconoscere che ogni forma di capitalismo è suscettibile, a modo suo, di gravi patologie di corruzione (o dei suoi parenti stretti, cattura normativa e lobbying), esternalità aziendali non affrontate e accelerazione della disuguaglianza sociale. Affinché il capitalismo sia una condizione necessaria di libertà, deve essere abbinato a meccanismi efficaci di governo pubblico democratico, ma i mercati non producono tali meccanismi da soli.

Potrebbe essere già troppo tardi per risolvere l’enigma cinese, avverte però Milhaupt.

Vent’anni di ingenuità, e di silenzio, sulla traiettoria che la la Cina ha preso, partendo dal comunismo fino ad arrivare al capitalismo di stato e alla repressione delle libertà, hanno gravemente indebolito gli strumenti dell’Occidente nei confronti di Pechino. Una cosa è chiara: senza il coordinamento tra i governi del mondo democratico, le borse valori, le società – e forse la cosa più importante, gli investitori istituzionali – sarà quasi impossibile esercitare un’influenza su Pechino attraverso politiche che cercano leva dai mercati globali.

L’enigma cinese persisterà, irrisolto, mentre alcuni dei più accesi sostenitori dell’ESG continueranno a crogiolarsi con la retorica del capitalista responsabile.

Curtis J. Milhaupt è William F. Baxter, Visa International Professor of Law presso la Stanford Law School e membro della ricerca ECGI.

Qui il post originale.