Cosa richiede oggi un capitalismo “responsabile” agli investitori e alle aziende che si impegnano con la Cina?
La Cina è la seconda economia più grande del mondo, un vasto mercato per i beni di consumo ma è anche un anello critico nella catena di approvvigionamento globale. La Cina rappresenta una quota significativa dei ricavi annuali di giganti aziendali come Apple, Intel e Starbucks.
Date le opportunità di trarre profitto dall’impegno con la Cina, il saggio cinquantennaledi Milton Friedman dal titolo A Friedman doctrine – The Social Responsibility Of Business Is to Increase Its Profits fornisce una risposta chiara: coinvolgi!
Inizia così un post di Curtis J. Milhaupt, esperto riconosciuto a livello internazionale di corporate governance comparata, sistemi legali dell’Asia orientale e di capitalismo di stato pubblicato sulla rivista ecgi.
Ma la Cina, ci ricorda l’autore, è anche il maggior contributore mondiale di emissioni di gas serra, è governata da un regime autoritario repressivo che rinchiude i suoi oppositori, censura assiduamente il discorso ed è impegnata in un programma su larga scala di pulizia etnica. Pechino ha represso le voci democratiche a Hong Kong con l’imposizione di una draconiana legge sulla sicurezza nazionale ed è sempre più sfacciata nelle sue minacce di prendere Taiwan con la forza.
Ed in effetti, da questo punto di vista, il continuo impegno del capitalista occidentale con la Cina sembra, oggi, notevolmente meno responsabile, in particolare in un’era di fascinazione per le questioni ESG (Environmental, Social and Governance) nel governo societario e negli investimenti.
Questo è l’enigma che la Cina pone al capitalismo responsabile.
Per due decenni, la risposta confortante del capitalismo all’enigma cinese è stata l’affermazione che l’impegno con la Cina non solo sarebbe stato positivo per gli affari, ma avrebbe accelerato il rafforzamento della libertà personale e dell’emancipazione politica interna, attitrando la Cina in strutture di governo globali (occidentali).
Curtis J. Milhaupt ci ricorda il famoso discorso di Bill Clinton nel 2000 alla vigilia del voto del Congresso USA sull’adesione della Cina all’OMC:
“[Abbiamo] maggiori possibilità di avere un’influenza positiva sulle azioni della Cina se accogliamo la Cina nella comunità mondiale invece di escluderla.”
E nello stesso discorso, Clinton chiese alla Cina: “Sarà la prossima grande tigre capitalista, con il mercato più grande del mondo, o l’ultimo grande drago comunista del mondo e una minaccia per la stabilità in Asia?”
Come è andata a finire è storia nota.
Ma oggi, ci ricorda l’autore del post,
è giunto il momento di riconoscere che il profondo impegno capitalista con la Cina non solo non è riuscito a portare un cambiamento a Pechino, ma ha notevolmente ridotto la leva dei governi occidentali e del settore privato per incoraggiare l’ammorbidimento del regime in Cina e l’accettazione degli standard globali di trasparenza aziendale e di governo.
Un ottimo esempio è la politica, iniziata da Trump e proseguita sotto l’amministrazione Biden, di tagliare i flussi di capitali statunitensi alle imprese cinesi legate al governo e all’esercito cinese. Un filone della politica consiste nel rimuovere dalle borse valori statunitensi le società cinesi che rifiutano di consentire le ispezioni dei loro revisori esterni da parte del Public Company Accounting Oversight Board (PCAOB). Nel 2020, il Congresso ha approvato la Holding Foreign Companies Accountable Act (HFCA Act), che richiede la cancellazione dalle borse statunitensi delle società i cui revisori dei conti non si sottopongono alle ispezioni legalmente obbligatorie da parte del PCAOB per tre anni consecutivi. Dopo un solo anno di non conformità, una società deve certificare alla SEC di non essere “posseduta o controllata da un governo straniero”.
Lo statuto è nato dalla frustrazione per le affermazioni del governo cinese secondo cui la sua legge sui segreti di Stato impedisce l’accesso ai rapporti di revisione delle società cinesi e dal sospetto al Congresso che gli investitori statunitensi stiano finanziando le società cinesi che realizzano le ambizioni tecnologiche di Pechino.
Ma l’HFCA Act è un passo troppo modesto per una maggiore divulgazione dei legami esistenti tra le società cinesi quotate negli Stati Uniti con il governo cinese ed il ruolo del Partito Comunista nella loro governance aziendale.
I regolamenti della SEC (che implementano i requisiti di divulgazione della legge) tradiscono una grave mancanza di comprensione da parte delle aziende cinesi (per via dei canali di influenza dello stato-parte cinese sulle aziende domestiche) ed è improbabile che raggiungano anche i loro obiettivi limitati, dice Milhaupt.
Inoltre, poiché il capitale è globale, gli sforzi unilaterali degli Stati Uniti per rimuovere le società cinesi dal listino saranno inefficaci nel tagliare il loro accesso ai finanziamenti, anche da parte degli investitori statunitensi.
Le aziende che rischiano il delisting negli Stati Uniti riceveranno da Pechino il benvenuto da eroe. La loro partenza dal NYSE e dal NASDAQ avrà spesso un costo per gli investitori statunitensi, poiché i loro azionisti di controllo ricollocheranno le loro società in Cina a valutazioni più elevate.
Debole, quanto agli effetti, è anche il secondo filone della politica USA, che vieta il commercio (da parte di soggetti statunitensi) con società inserite in un elenco di “Società complesse militari-industriali cinesi” tenuto dall’OFAC, l’ufficio sanzioni del Dipartimento del Tesoro.
Sebbene l’elenco abbia comportato la rimozione di diverse società cinesi dai principali indici azionari, l’impatto della politica è ancora una volta limitato dalla mobilità aziendale globale e dalla pianificazione strategica.
Un esempio recente: appena prima della prevista IPO di Cayman, il leader dell’intelligenza artificiale SenseTime Group Inc. a Hong Kong, la sua consociata interamente controllata di Hong Kong, SenseTime Group Limited, è stata designata come CMICC (la tecnologia di SenseTime è ampiamente utilizzata da Pechino nella sorveglianza interna).
Secondo il parere legale del consulente esterno di SenseTime Group Inc., dice Milhaupt, la designazione della consociata interamente controllata non avrebbe alcun impatto sulla negoziazione delle azioni della società madre da parte di soggetti statunitensi: la società madre è un’entità separata e, secondo l’interpretazione dell’OFAC, le conseguenze della designazione come CMICC non fluiscono verso l’alto o verso il basso alle società collegate.
La famosa dichiarazione di Milton Friedman, secondo cui la responsabilità sociale delle imprese consiste nel massimizzare i profitti entro i limiti della legge e delle norme sociali, non fornisce molte indicazioni ai capitalisti in un mondo in cui il capitalismo stesso si è frammentato in varianti di mercato e statali, ciascuna con le proprie norme e istituzioni. Né Friedman immaginava un mondo in cui le società fossero profondamente intrecciate nelle politiche di sicurezza nazionale dei loro governi nazionali, uno sviluppo guidato dalla natura indispensabile della tecnologia (e degli investimenti nella ricerca di base) sia per il valore economico che per la potenza militare – e per la centralità dei dati – praticamente ad ogni aspetto della vita del ventunesimo secolo.
Forse più fondamentalmente, prosegue l’autore, la dottrina di Friedman si basa sulle precarie fondamenta intellettuali dell’altra sua opera altamente influente, Capitalismo e Libertà. Friedman non è riuscito a riconoscere che ogni forma di capitalismo è suscettibile, a modo suo, di gravi patologie di corruzione (o dei suoi parenti stretti, cattura normativa e lobbying), esternalità aziendali non affrontate e accelerazione della disuguaglianza sociale. Affinché il capitalismo sia una condizione necessaria di libertà, deve essere abbinato a meccanismi efficaci di governo pubblico democratico, ma i mercati non producono tali meccanismi da soli.
Potrebbe essere già troppo tardi per risolvere l’enigma cinese, avverte però Milhaupt.
Vent’anni di ingenuità, e di silenzio, sulla traiettoria che la la Cina ha preso, partendo dal comunismo fino ad arrivare al capitalismo di stato e alla repressione delle libertà, hanno gravemente indebolito gli strumenti dell’Occidente nei confronti di Pechino. Una cosa è chiara: senza il coordinamento tra i governi del mondo democratico, le borse valori, le società – e forse la cosa più importante, gli investitori istituzionali – sarà quasi impossibile esercitare un’influenza su Pechino attraverso politiche che cercano leva dai mercati globali.
L’enigma cinese persisterà, irrisolto, mentre alcuni dei più accesi sostenitori dell’ESG continueranno a crogiolarsi con la retorica del capitalista responsabile.
Curtis J. Milhaupt è William F. Baxter, Visa International Professor of Law presso la Stanford Law School e membro della ricerca ECGI.
Qui il post originale.