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Petrolio, un patto tra l’Angola e il colosso Chevron per scaricare i veleni in mare

Petrolio, un patto tra l'Angola e il colosso Chevron per scaricare i veleni in mare

Ai confini con la Repubblica del Congo, affacciata sull’Oceano Atlantico, si trova la provincia di Cabinda, un’exclave dello Stato dell’Angola famosa per le sue foreste tropicali, la produzione di caffè, di cioccolato, di olio di palma e di petrolio. Nonostante sia la più piccola provincia dell’Angola, qui si produce il 60 per cento del petrolio del Paese che rappresenta il 50 per cento del Pil e l’89 per cento delle esportazioni nazionali. «Ma noi siamo poveri», commenta Lucas, giovane angolano che vive in Europa.

Le sue parole sono confermate dai dati del National Institute of Statistics  in collaborazione con l’Università di Oxford: il 54% degli angolani vive in povertà. Dal 1955, anno in cui è stato scoperto l’oro nero, a sfruttare i suoi giacimenti sono arrivate di corsa tutte le più grandi compagnie petrolifere del mondo. Cosa che non stupisce. A sorprenderci, invece, è l a segnalazione di una fonte che preferisce rimanere anonima ma che ci racconta una storia mai scritta, e che il Corriere ha verificato nei dettagli.

Il 3 maggio, la società petrolifera americana Chevron, tra le più grandi del mondo che in Angola lavora per mezzo della controllata Cabgoc (Cabinda Gulf Oil Company), ha firmato con il governo una moratoria per poter scaricare nell’oceano tonnellate di rifiuti petroliferi pericolosi. Un accordo che è rimasto nell’ombra.

L’intesa fa sì che il ministero angolano delle Risorse minerarie, del petrolio e del gas abbia dato il via libera a riversare nel mare quelli che in gergo si chiamano i «detriti di perforazione», scarti contaminati che «rappresentano una grave minaccia all’ambiente», ci spiega Alessandro Giannì di Greenpeace Italia.

Facciamo un passo indietro. Per arginare l’impatto ambientale dello sfruttamento del petrolio e proteggere l’ecosistema dallo scarico dei frammenti di perforazione delle piattaforme offshore, nel 2014, il governo angolano ha dato il via a una politica chiamata «zer o discharge», discarica zero. Nonostante questa nuova pratica ambientale, il ministero angolano, nel 2019, ha concesso a vari operatori il permesso di scaricare i loro frammenti di trivellazione contaminati solo in caso di attività esplorative in aree di sviluppo e in acque ultra profonde, o in caso di nuove concessioni. Un via libera che ha allargato le maglie della legge.

A maggio, invece — come mostra il documento che pubblichiamo — la Chevron ha ottenuto l’autorizzazione allo scarico in mare degli scarti contaminati (con un livello massimo di ritenzione di detriti di perforazione del 5%) fino al 2023. Sono autorizzati a scaricare questi rifiuti in fondali bassi a poca distanza dalla riva. Total ed Esso si sono già accodati alla richiesta. Né il ministero del gas dell’Angola, né Chevron hanno risposto alle nostre domande.

«Fa impressione il fatto che succeda in acque basse, dove l’effetto della tossicità è maggiore perché c’è una concentrazione più elevata di veleni», spiega un operatore occidentale sul posto. Ci racconta che queste compagnie petrolifere che operano in tutto il mondo, in Europa e negli Stati Uniti, rispettano le severe leggi dello smaltimento, contribuendo alla salvaguardia degli ecosistemi marini. Nei Paesi occidentali, i processi di smaltimento e pulizia dei fluidi e dei detriti provocati dalla perforazione del suolo marino vengono seguiti accuratamente: «È il famoso double standard che alcuni utilizzano quando operano nelle zone del mondo più povere».

Ma perché l’Angola dovrebbe accettare una richiesta di questo tipo? Perché il potere di certe multinazionali supera quello di governi più deboli e indeboliti dalla corruzione e dalle guerre civili, governi più ricattabili.

Il ministero, ricostruiscono sempre fonti occidentali, avrebbe detto che la richiesta di Chevron è arrivata quando il prezzo del petrolio era ai minimi storici e la deroga doveva essere un tentativo per tagliare i costi dello smaltimento dei detriti. Ma ora che a causa della guerra il prezzo del petrolio ha raggiunto i massimi storici? Difficilmente si tornerà indietro.

Una stima prudente è che in un anno verranno scaricate 12 mila tonnellate di detriti di perforazione e 6 milioni di litri di petrolio nell’oceano. Senza contare che la pulizia del suolo marino inquinato comporta una spesa di centinaia di milioni di dollari. «Quando abbandoni questi materiali nel mare, rilasci petrolio, metalli pesanti e fanghi che circolano nell’ambiente e che mettono a rischio la fauna marina. Finiscono nella rete alimentare e nei nostri piatti», dice Giannì. Una conseguenza molto grave in un Paese dove la pesca è tra le attività principali.




Barani, lo spezzino che vuole fare del Savona la prima squadra green: “Il calcio sia d’esempio”

Barani, lo spezzino che vuole fare del Savona la prima squadra green: “Il calcio sia d’esempio”

C’è un manager spezzino che si è messo in testa di dimostrare che un club di calcio può essere il motore di un cambiamento culturale nella direzione del rispetto dell’ambiente. Un paradigma declinato direttamente all’interno del funzionamento proprio di un’azienda sportiva e indirettamente utilizzando la prerogativa di visibilità che il gioco del pallone concede. Lui si chiama Vittorio Barani, 52 anni originario di Vernazza, fede blucerchiata, e la società a partire dalla quale vuole costruire questo progetto è il Savona Calcio.

Dirigente di un’importante azienda dell’energia, ha studiato un progetto che parte dagli spostamenti della prima squadra e arriva alla ristrutturazione del vecchio stadio “Bacigalupo”. Poi ha radunato una serie di imprenditori del centro Italia pronti a dare una mano al Savona, finito addirittura in Prima Categoria, e ora spera di poter mettere alla prova dei fatti le proprie intuizioni nei prossimi anni.

Città della Spezia ci ha fatto una chiacchierata.

La domanda nasce spontanea: come fa un’azienda calcistica a diventare ad impatto zero e farsi motore di una diversa coscienza su alcuni temi presso gli stakeholder, che siano tifosi, istituzioni o partner commerciali?

“Noi siamo partiti dal concetto che tutto il mondo affronta una crisi che rappresenta una sfida. Un fenomeno globale, come globale è il calcio. Abbiamo ragionato su tre temi: energia, acqua e ambiente. Per ognuno si possono trovare soluzioni via via più efficaci. Per quanto riguarda la parte energetica, pensiamo per iniziare ad uno stadio coperto da pannelli fotovoltaici e ad un’illuminazione a led. Per la parte idrica, vorremmo installare serbatoi autoportanti per raccogliere l’acqua piovana durante la stagione piovosa da utilizzare per il manto erboso. Ai nostri ospiti vorremmo presentare uno stadio plastic free che sia certificato dagli enti preposti. Di buona pratica in buona pratica, si può pensare di fare con il tempo di un impianto di calcio una specie di comunità energetica all’interno del tessuto urbano. Perché non pensare di mettere a disposizione le eventuali eccedenza di acqua o di corrente elettrica per progetti sociali? Uno stadio vive una volta alla settimana, i residenti ogni giorno”.

Come si rinuncia, per esempio, ad un pullman diesel per le trasferte senza incidere sui bilanci?

“Attualmente l’idrogeno non è un’alternativa perseguibile per mancanza di infrastrutture, ma la teniamo d’occhio. Però sarei molto contento di vedere la squadra muoversi intanto con mezzi ibridi. Mi piacerebbe vedere i nostri calciatori spostarsi solo con auto elettriche, che siano loro i primi a fare proprio questo tipo di approccio. Creare regole precise in questo senso in modo che calciatori e dirigenti siano i primi ambasciatori di questa filosofia. Avere un partner industriale di peso renderebbe la cosa semplice da realizzare chiaramente.”.

Vittorio Barani

Perché proprio Savona?

“La proprietà ed il presidente, l’avvocato Cittadino, si sono dimostrati molto sensibili a questi temi e hanno sposato subito il progetto di squadra green. Altro aspetto importante è il fatto che il Savona si trova attualmente in Prima Categoria e questo ci dà lo spazio per crescere con il tempo, modellando il progetto secondo i nostri princìpi. Partire dal professionismo sarebbe stato più difficile”.

La piazza savonese come vi ha accolti: tifoseria e istituzioni?

“Il Savona Calcio esce da un periodo travagliato, la piazza dei tifosi è naturalmente alla finestra per capire le nostre mosse. Siamo partiti pensando dalla squadra, seguendo gli iter per rinnovare il settore tecnico, dall’allenatore alla dirigenza e fino ai calciatori. Dalle istituzioni, un progetto che include uno stadio green che ottenga le necessarie certificazioni, è stato accolto con apprezzamento. Nei primi giorni di settembre ci sarà la presentazione ufficiale e poi cercheremo le aziende che ci diano una mano a realizzarlo”.

la monetina è in terra. Palla o campo?

Come si tiene assieme il risultato sportivo con una progettazione di lungo periodo?

“Ho incontrato subito i tifosi del Savona. Avevano il desiderio di rivedere il club usare il simbolo storico, perso negli ultimi anni. La squadra va nella stessa direzione, le nuove divise saranno presentate presto e anche quello sarà un momento importante di identità. Stiamo aspettando di completare la rosa. Siamo coscienti di non essere in una piazza che può rimanere in Prima Categoria, che ambisce al professionismo per propria collocazione naturale. Siamo pronti a lavorare per raggiungere standard che al momento non ci sono”.

Una squadra green è un approccio che rappresenta sicuramente una novità in Italia. All’estero?

“Il progetto è originale e nasce dall’unione di due circostanze. Il fatto che io lavori in un’azienda del settore ambiente, e quindi viva giornalmente le tematiche della sostenibilità, e la mia passione per il calcio. In Italia non vi sono precedenti, nella terza serie inglese c’è un club che punta molto sulle politiche ambientali. Ma per noi è un discorso nuovo, ci sentiamo dei precursori”.

Diego Farias e Morten Thorsby

Cosa la ha ispirata a lanciarsi in questa avventura?

“Mia figlia Gaia di 21 anni. Mentre elaboravo il progetto a casa, ho notato il suo interesse. I giovani hanno una sensibilità particolare sui temi dell’ambiente. Nel progetto di un Savona green c’è l’utilizzo dei giocatori all’interno delle scuole come testimonial delle buone pratiche ambientali, oltre che dell’aspetto sportivo. Mi piacerebbe far vedere il calcio in maniera diversa. Oggi questo è uno sport che non sempre lancia messaggi costruttivi tra plusvalenza, tatuaggi, veline, simulazioni, auto di grossa cilindrata… noi vorremmo perseguire un’immagine che sia meno superficiale, se mi è concesso. Non è impossibile. Sono amico di Morten Thorsby, che con i suoi atteggiamenti e scelte personali è per me un modello ed un esempio di quanto potrebbe fare il calcio per il pianeta”.

Partendo dalla Liguria, che certo è una regione in cui l’antropizzazione e l’industrializzazione è stata particolarmente aggressiva nel corso degli scorsi decenni.

“Se la televisione negli anni Sessanta ha contribuito ad alfabetizzare l’Italia, oggi il calcio potrebbe avere la stessa funzione per quanto riguarda l’utilizzo cosciente delle limitate risorse del pianeta o dei nostri consumi. Con il Savona, nel nostro piccolo, vorremmo avere un ruolo di questo tipo. Se il messaggio sarà recepito dalle grandi aziende, faremo presto a diventare un simbolo di questo approccio innovativo secondo me”.

Zona portuale Savona

Alla Spezia si va verso il rinnovamento del Picco con una nuova tribuna. Secondo lei cosa si potrebbe fare da subito per renderlo a basso impatto?

“In verità a marzo abbiamo anche fatto qualche incontro con lo Spezia Calcio, ci sarebbe piaciuto poter sviluppare il progetto di una prima squadra green in serie A. C’erano imprenditori importanti pronti ad investire sul Picco, ma non è andata in porto. Io credo che, in generale, tutte le società calcistiche dovranno convergere verso queste idee sul breve periodo. Per quanto riguarda il Picco, intanto penserei ad un modo, in accordo con l’amministrazione comunale, per permettere ai tifosi di raggiungere lo stadio con una mobilità dedicata: mezzi elettrici, una pista ciclabile pensata per loro e magari un parcheggio per le biciclette sarebbe un buon inizio”.




DAZN IN CRISI DI REPUTAZIONE: ANCORA PROBLEMI, E ANCORA, E ANCORA…

DAZN IN CRISI DI REPUTAZIONE: ANCORA PROBLEMI, E ANCORA, E ANCORA…

DAZN è una piattaforma di streaming online, parte del colosso Perform Group, sport media company globale, la quale, a sua volta è proprietaria di siti come Goal.com, Runningball e OptaSport. La “mente” dietro al gruppo è Len Blavatnik, figlio di immigrati ucraini approdati in USA, dove ha conseguito una laurea in scienze informatiche presso la Columbia University e poi un MBA alla Harvard Business School, per poi fondare Acces Industries, gruppo di intermediazione finanziaria e di investimenti, decollata anche grazie alla vendita, decisa da Blavatnik, delle sue quote nell’azienda petrolifera TNK-BP, operazione che gli permise di portare a casa ben 7 miliardi di dollari di ricavi, investiti in immobili di lusso, produzioni hollywoodiane, case discografiche, applicazioni per cellulare, fino ad arrivare al petrolio e all’alluminio russo, e – appunto – al mercato dei diritti sportivi in TV. Nella successiva fase di diversificazione dei suoi investimenti, ha infatti creato DAZN, che nel 2018 è entrata con una certa euforia nel campo dei diritti TV della seria A italiana, trasmettendo le partite online tramite la connessione wi-fi di casa, e vincendo successivamente la gara per il triennio dal 2022 al 2024.

DAZN è nella bufera per evidenti limiti nella gestione delle connessioni: nuovamente, diremmo, perché a ben guardare le difficoltà non sono certamente un fulmine a ciel sereno, ed anzi erano evidenti da tempo, come denunciarono i mass-media fin dal debutto nel 2018.

La Lega Calcio, a questo punto decisamente spazientita, ha annunciato la propria volontà di prendere provvedimenti severi, con l’obiettivo di scongiurare con certezza assoluta (perlomeno nei propri desideri) l’eventualità che i gravi disservizi possano ripetersi ancora in futuro, evitando sia il comprensibile scontento tra gli abbonati, sia possibili ricorsi legali e le richieste di risarcimento su larga scala da parte dei cittadini infuriati.

Anche perché – come giustamente evidenziato da addetti ai lavori del settore del management sportivo con curriculum più che consolidato – questa situazione problematica rischia di danneggiare, alla lunga, anche le squadre, sia per la minore esposizione del brand degli sponsor, che avranno non poche ragioni per lamentarsi a loro volta, sia per la disaffezione di quel pubblico occasionale e non fidelizzatissimo che ha di certo di meglio da fare che “litigare” ad ogni match con la piattaforma tecnologica DAZN.

Nel frattempo si è mossa anche l’Agcom, che ha chiesto con urgenza chiarimenti a Dazn su quanto accaduto, sui gravi disservizi intercorsi, e su come la società stia operando per evitare il ripetersi dei problemi di connessione in occasione delle prossime partite di calcio, chiedendo inoltre a Dazn di provvedere celermente ad erogare gli indennizzi previsti dalla precedente delibera punitiva adottata dall’Autorità, riservandosi – se tutto ciò non dovesse accadere – di assumere ogni iniziativa che dovesse rivelarsi utile e necessaria, frase che non suona per nulla rassicurante ai vertici dell’azienda, che fonti ben informate riferiscono essere assai agitati.

DAZN a questo punto ha attivato un servizio di assistenza per tentare di ridurre l’impatto del problema per gli utenti, servizio il cui obbiettivo pare essere quello di risolvere – per quanto possibile in breve tempo – le problematiche che affliggono la piattaforma, ma nel contempo ha anche informato i propri clienti riguardo ad importanti modifiche delle politiche di condivisione dei contenuti e degli abbonamenti e anche dei costi di acquisto del servizio, ottenendo come unico risultato quello di far montare ancora di più la polemica, che letteralmente infuria sui Social, con un evidente danno reputazionale per l’azienda.

Polemiche aggravate – come ve ne fosse bisogno… – dalla folle, inavveduta e inspiegabile decisione di cancellare dal proprio Twitter un post di scuse che era stato inizialmente pubblicato, decisione che non è certo passata inosservata agli addetti ai lavori.

Innumerevoli le voci critiche, a partire dal tifoso interista Enrico Mentana: il notissimo giornalista ha da anni una querelle aperta con DAZN, proprio a causa del perdurare dei disservizi, polemica che ovviamente non accenna ad abbassarsi nei toni, e che non fa che amplificare ulteriormente il rebound reputazionale negativo per la filiale italiana dell’azienda americana.

Senza una buona reputazione – che si costruisce con un comportamento aziendale in linea con le attese dei cittadini – non bastano certamente promesse, marketing accattivante e pubblicità, per garantire la sopravvivenza di un’azienda nel lungo periodo. La reputazione aziendale impatta infatti direttamente sul valore di mercato dell’azienda, toccando un insieme di fattori come l’identità, l’immagine, la notorietà e la riconoscibilità, che influiscono sugli stakeholder e sul valore percepito dai clienti.

La buona reputazione è l’asset immateriale più importante e di maggior valore per qualunque azienda, come confermano sia una letteratura assai robusta, sia le ricerche di mercato – secondo una recente indagine di Weber Shandwick dal titolo “The State of Corporate Reputation”, il 63% del valore di mercato di un’azienda è infatti attribuibile alla reputazione – sia, infine, le numerosissime evidenze empiriche che correlano il danno reputazionale, e la scorretta gestione delle crisi reputazionali, a ingenti danni economici e a distruzione del valore per gli azionisti. E non c’è alcun motivo per il quale questo caso, che colpisce Dazn, evidentemente non adeguatamente preparata a gestire queste criticità, dovrebbe fare eccezione.

La gestione delle crisi reputazionali, in particolare, è materia assai delicata e specialistica: ad esempio, le scuse non condizionate, com’è ben documentato nella letteratura specialistica sul crisis management, sono il solvente universale di ogni crisi reputazionale.  Potrà infatti apparire paradossale, ma negli ultimi anni – complice l’affermarsi di una virata verso il web 2.0, caratterizzato da un elevato grado di partecipazione e interazione tra gli utenti – quella delle scuse non condizionate è la strategia che si è rivelata in assoluto più efficace: scusarsi con sincerità e schiettezza smorza le polemiche, smussa le armi ai giornalisti, preserva quanto più possibile la reputazione dell’organizzazione e riduce le – inevitabili – richieste di risarcimento danni in sede giudiziale. Gli interlocutori delle aziende coinvolte nelle crisi apprezzano tale comportamento, e, percependo una riduzione generale dell’entropia, valutano la crisi e i suoi effetti con occhi più “concilianti”.

Come amo ripetere spesso in aula, e come confermano gli esperti di reputation management, è sconcertante notare come il dimensionamento dei vari colossi industriali non è necessariamente indice di una cultura aziendale adeguata a tutelare il valore degli azionisti mediante l’adozione di corrette procedure di previsione e di gestione delle crisi

E dire che è tutto già scritto: sarebbe sufficiente, banalmente, applicare buone prassi codificate e note da tempo. E dopo 4 anni di segnali (neppure troppo deboli…) di crisi, DAZN, davvero, non ha più scuse.




Apple accusata di non aver ascoltato le lamentele delle donne sugli abusi in ufficio

Apple accusata di non aver ascoltato le lamentele delle donne sugli abusi in ufficio

Il Financial Times ha pubblicato un lungo rapporto in cui afferma che Apple ha promosso una cultura tossica nei confronti delle segnalazioni di cattiva condotta da parte dei dipendenti, persino prendendo misure cautelative contro le donne che hanno denunciato abusi sessuali sul posto di lavoro.

Una notizia che andrebbe in netto contrasto con l’immagine che il colosso di Cupertino promuove all’esterno, piena di solidarietà e bandiere arcobaleno. Per il Times, diverse donne hanno presentato nei mesi scorsi reclami al dipartimento delle risorse umane di Apple per abusi sessuali, bullismo e altri incidenti. L’ex dipendente Megan Mohr si è lamentata del fatto che una collega le ha tolto il reggiseno e i vestiti mentre dormiva, scattandole una serie di foto dopo una serata.

Tuttavia, il rappresentante delle risorse umane ha definito l’esperienza un piccolo incidente. “Sebbene ciò che ha fatto sia stato riprovevole come persona e potenzialmente criminale, come dipendente Apple non ha violato alcuna politica nel contesto del suo lavoro” si legge in un’e-mail vista dal Financial Times. “E poiché non ha violato alcuna politica, non gli impediremo di cercare opportunità di lavoro in linea con i suoi obiettivi e interessi”.

Una dipendente dell’Apple Store si è lamentata di due gravi casi di aggressioni sessuali, incluso uno stupro, dicendo che le risorse umane l’avevano trattata non come una vittima, ma come il problema. “Mi è stato detto che il presunto stupratore svolgeva quel lavoro solo per sei mesi e che io sarei stata meglio”. La donna, si legge, ha richiesto un trasferimento che le è stato rifiutato ed oggi si ritrova a lavorare ancora nello stesso negozio.

L’avvocato Margaret Anderson parla di un “ambiente di lavoro tossico” e di “gaslighting”, una forma di manipolazione psicologica violenta e subdola nella quale vengono presentate alla vittima false informazioni con l’intento di farla dubitare della loro stessa memoria e percezione. Quando in Apple, un manager voleva licenziarla, citando false accuse precedenti al suo arrivo in azienda. Secondo quanto riferito, le risorse umane hanno ignorato un documento che aveva creato con i dettagli del caso, confutando le sue posizioni.

I dipendenti si sono anche lamentati del fatto che Apple abbia soppresso l’organizzazione dei lavoratori e il blocco dei canali Slack utilizzati per comunicare su questioni come il comportamento dei capi e l’iniquità salariale. La denuncia di più alto profilo è quella di Jayne Whitt, una direttrice dell’ufficio legale di Apple. Ha riferito alle risorse umane che un collega aveva violato i suoi dispositivi e minacciata. Whitt ha pubblicato un saggio di 2.800 parole sulla piattaforma The Leoness che descrive la situazione, provocando un’ondata di sostegno da parte dei dipendenti Apple.

Tuttavia, il colosso ha proceduto a licenziarla sulla base di quella che ha definito un’indiscrezione “irrilevante”. Whitt ora sta sfidando Apple legalmente, sottolineando che i canali Slack sulla disparità retributiva di genere le hanno aiutato ad aprire gli occhi. “Ero svantaggiata: è così che le donne lottano”, ha detto. “Se queste storie [su Slack] non fossero state pubblicate, non avrei fatto la cosa giusta, al di là della carriera”.

Apple ha dichiarato al Financial Times che lavora duramente per indagare a fondo sulle accuse di cattiva condotta e si sforza di creare “un ambiente in cui i dipendenti si sentano a proprio agio nel segnalare eventuali problemi”. Tuttavia, ha riconosciuto di non aver sempre soddisfatto tali ideali. “Ci sono alcune questioni sollevate che non riflettono le nostre intenzioni o le nostre politiche e che avremmo dovuto gestire in modo diverso, inclusi gli scambi riportati in questa storia. Di conseguenza, apporteremo modifiche alla nostra formazione e ai nostri processi”.




E in Spagna per legge non si potrà sprecare il cibo

E in Spagna per legge non si potrà sprecare il cibo

Il cibo non si butta. Punto. In Spagna sarà a breve una realtà, precisamente dal 2023, grazie a un poderoso piano anti-spreco che coinvolge medie e grandi imprese che saranno “costrette” a trasformare la frutta non vendibile, ad esempio, in marmellata o in succo. Mentre i ristoranti si doteranno obbligatoriamente della “Doggy bag”. Sono solo alcune delle proposte contenute nel disegno di legge al vaglio. Poche settimane fa il governo socialista guidato dal presidente Pedro Sánchez ha infatti approvato un progetto che punta a un unico obiettivo: non gettare via il cibo con l’ambizione di fare scuola in Europa.

Oltre 1.300 tonnellate di cibo vengono sprecate ogni anno in Spagna 
Oltre 1.300 tonnellate di cibo vengono sprecate ogni anno in Spagna  

Come spiegato dal ministro spagnolo dell’agricoltura, della pesca e dell’alimentazione Luis Planas, il nuovo strumento adottato dal Governo modificherà i processi della catena alimentare nei punti in cui essa è più inefficiente. Ma, ispirato all’economia circolare, il “progetto di legge sulla prevenzione delle perdite e degli sprechi alimentari” è notevole anche sul piano etico, dal momento che include progetti collaborativi tra ristoranti, organizzazioni di quartiere e banche alimentari. Pena? Multe salatissime fino a 500 mila euro.
I numeri a suffragio, sono di fatto impietosi: 1.300 tonnellate di cibo (31 kg pro capite) che ogni anno vengono gettate dai cittadini.

Ma nel dettaglio, come si potrà attuare questo progetto che sa già di capofila rivoluzionario in termini di spreco?
Guardando nel profondo delle aziende produttrici e distributrici. Sarà per tutti un obbligo morale, come quella che tocca la grande distribuzione. Il governo propone a supermercati e ai negozi alimentari, linee di vendita per prodotti “Brutti, imperfetti o poco attraenti”, dal momento che parte delle 1.300 tonnellate di cibo sprecato in Spagna ogni anno deriva anche dagli inestetismi del cibo. In più, pensa ad offrire fra gli scaffali prodotti stagionali, locali e biologici, educando alla comprensione dei tre termini. Prodotti che rispettino i reali cicli naturali senza l’impiego di dissertanti, pesticidi e ausili chimici vari non sono “perfetti”, ma tutto quello che appare poco attraente è in realtà ben più naturale e salutare.

Un piatto tipico: la paella
Un piatto tipico: la paella 

E a che punto siamo in Italia? Ancora molto lontani dai virtuosismi spagnoli. L’unica iniziativa al momento in piedi è quella del14 settembre del 2016 (legge 166/2016), la cosiddetta norma “antisprechi”, la cui prima firmataria è stata l’onorevole Maria Chiara Gadda. Una legge che, a differenza della Spagna, punta quasi tutto sull’educazione alimentare nelle scuole e su campagne di comunicazione ad hoc prevedendo anche una riduzione della tassa rifiuti per chi dona il cibo e favorendo la Doggie bag nei ristoranti.
Viene da chiedersi in quali ristoranti in Italia ci sia, da parte dei ristoratori, un’attenzione talmente importante da consigliare di loro sponte, l’asporto del “non mangiato” al cliente.
Diciamo che nella maggior parte dei casi è sempre il cliente a chiedere e nella migliore delle ipotesi, lo stesso esce fuori dal ristorante con una bustona di plastica approntata alla meno peggio, con buona pace del riciclo e della sostenibilità.