1

Bilancio di sostenibilità: ecco le aziende che si raccontano meglio

Bilancio di sostenibilità: ecco le aziende che si raccontano meglio

L’obiettivo del Premio Bilancio di Sostenibilità, frutto dell’iniziativa comune di Corriere della Sera e Bologna Business School con Aiccon è valutare e premiare le aziende che sanno raccontare meglio impegni e prestazioni non finanziarie. Sotto la lente c’è stato il processo di redazione del bilancio di sostenibilità e della sua capacità di essere trasparente, chiaro e capace di comunicare efficacemente la strategia di sostenibilità a tutti gli stakeholder.

L’iniziativa, a cui è dedicato l’intero inserto di Buone Notizie in edicola domani, è stata presentata con evento in streaming oggi al Corsera. La prima sessione dell’incontro era dedicata alle linee guida dell’indagine, divisa in tre settori – Energia, Food, Fashion -, sulle quali sono intervenuti i professori Matteo Mura, Leticia Canal Vieira e Mariolina Longo della Bologna Business School.

Ospiti della seconda sessione dell’appuntamento sono stati poi tre esperti di queste tematiche. Ermete Realacci, presidente di Fondazione Symbola, ha sottolineato il valore e la forza della sostenibilità: «Essere buoni conviene. Le aziende che fanno investimenti in campo ambientale e sociale sono più forti, producono, esportano e ottimizzano di più». Ed è un dato che coinvolge anche il consumatore «che percepisce le imprese sostenibili come soggetti di qualità maggiore».

Quindi Stefano Granata, presidente Aiccon, l’Associazione Italiana per la Promozione della Cultura della Cooperazione e del Non Profit, ha spiegato come «sia importante lavorare sull’aspetto sociale. Le aziende stanno capendo come le vecchie logiche non servono più per massimizzare il profitto». Per soffermarsi poi sulla necessità del superamento delle disuguaglianze, sulla coesione con il territorio e sul valore dei giovani come elementi fondamentali per la crescita.

Infine i temi dela governance e delle pari opportunità sono stati affrontati da Daniela Bernacchi, segretario generale del Global Compact Network delle Nazioni Unite: «Su alcuni temi che favoriscono la parita di genere l’Italia è in forte ritardo rispetto all’Europa, soprattutto per quanto riguarda le società non quotate. E la governance è un sfida importante quando si tratta di sostenibilità».




Il futuro delle relazioni pubbliche: la public diplomacy quale declinazone fondamentale per le democrazie

Il futuro delle relazioni pubbliche: la public diplomacy quale declinazone fondamentale per le democrazie

Non è solo una questione definitoria, è la capacità di cogliere gli ambiti e i perimetri della professione e di conseguenza della creazione di senso e significato delle attività strategiche ed operative che sostanziano la pratica della professione. Come ci ricorda James Grunig: «le relazioni pubbliche sono una professione complessa, svolta da persone preparate e competenti che sono consapevoli di doversi mettere al servizio degli interessi delle persone coinvolte a vario titolo dall’attività dell’organizzazione per la quale lavorano».

Tutti noi sappiamo che nel nostro Paese, per motivi ancora tutti da indagare, abbiamo dato maggiore importanza alle tecniche della professione piuttosto che alla costruzione di un percorso accademico e scientifico. Forse, complice inconsapevole, la distinzione fra il significato e il corpus accademico riferito alle relazioni pubbliche e alla comunicazione – e forse anche la forza del marketing rispetto alle relazioni pubbliche – non siamo stati capaci di indagare a fondo la portata, l’ampiezza e la frequenza della nostra professione, che ha sempre avuto delle declinazioni rilevanti, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo. Anche oggi, mentre il legislatore al Senato, analizza la legge sulla rappresentanza di interessi in seconda lettura, non abbiamo ancora avuto la possibilità di “raccontare” quanto tutto questo appartenga ad un’unica disciplina, codificata ed organizzata, e che oggi potrebbe trovare nella definizione di public diplomacy il suo più efficace perimetro.

Come già scritto altre volte, mi piace ricordare ciò che scriveva Adam Smithne la “Teoria dei sentimenti morali” del 1759: «La preoccupazione per la nostra personale felicità ci raccomanda la virtù della prudenza: cioè la preoccupazione per la felicità degli altri». Smith, che certamente non possiamo annoverare fra i teorici dell’economia civile o della moderna sostenibilità, pur tuttavia ci ricorda che un compromesso che faccia vincere tutti gli attori può rendere più profittevole per tutti la negoziazione, con una oggettiva massimizzazione della creazione di valore. Questo è il principio e fine ultimo delle relazioni pubbliche.

Un’altra definizione di Grunig del 1984: «Le relazioni pubbliche sono la gestione della comunicazione tra un’organizzazione e i suoi pubblici». Mentre Toni Muzi Falconi scrive nel 2005: «Le relazioni pubbliche sono una disciplina della comunicazione d’impresa e fanno parte della scienza del management, che si occupa della gestione delle organizzazioni complesse. La funzione delle relazioni pubbliche è di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione con un’attività continuativa, consapevole e programmata di gestione e di coordinamento dei sistemi di relazione che si attivano fra la stessa organizzazione e i suoi diversi segmenti di pubblico influente. Un’attività che deve essere sempre trasparente, corretta, a due vie. In particolare, compito specifico delle relazioni pubbliche è quello di orientare opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni – anche di consumo – degli stakeholder-influenti: soggetti che possono ostacolare o agevolare il raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione perché dotati di specifici poteri decisionali o perché ritenuti in grado di influenzare i primi».

E ancora: «Costruire relazioni basate sulla fiducia con tutti i pubblici dell’organizzazione (stakeholder, pubblici influenti, destinatari finali), per rafforzare la propria credibilità sociale, ambientale e finanziaria e la propria reputazione» (Giampietro Vecchiato, 2005); «Le relazioni pubbliche sono la disciplina che si prende cura della reputazione delle organizzazioni, con l’obiettivo di accrescere la conoscenza reciproca, il sostegno e per influenzare opinioni e comportamenti. Le relazioni pubbliche sono una funzione manageriale (deliberata e pianificata) per stabilire e mantenere un reciproco e proficuo ascolto e comprensione tra un’organizzazione e il suo pubblico» (CIPR Chartered Institute of Public Relations 2020).

Non sono solo definizioni di circostanza. Le relazioni pubbliche, e oggi la public diplomacy, aiutano le organizzazioni a gestire la complessità come divenire della conoscenza. La complessità, concetto chiave del nostro tempo, mai fino in fondo indagato e capito, è un modo di approcciare la realtà e pensare per sistemi, confini, perimetri, ambiti, reti, processi, e connessioni. La crisi cognitiva nella quale ci troviamo dipende molto dalla mancanza di tempo e spazio che ci consente di trovare la giusta distanza dalle cose – materiali e immateriali – e darci il giusto sentire per aiutarci a trovare la quadra dell’eccesso di connessioni e del conseguente eccesso di disgregazioni. Le relazioni pubbliche, declinate con la nuova definizione di public diplomacy, ci consente di superare la necessità di una astrusa semplificazione e che temo possa rinchiuderci nei confini nazionali, frammentando i saperi – anziché intersecarli. Questa semplificazione non aiuta la gestione dei conflitti e la gestione delle crisi che verranno. Ecco perché è sempre più imperativo prendersi cura delle persone e delle organizzazioni senza la paura innata contro la complessità.

La public diplomacy: il punto di vista di Toni Muzi Falconi e Luca Poma

Dicevamo che la public diplomacy potrebbe diventare l’alveo naturale dello sviluppo della funzione manageriale delle relazioni pubbliche.

Per questo intervisto Toni Muzi Falconi, decano delle relazioni pubbliche italiane, e Luca Poma, allievo di Toni, come me, ed esperto di reputation management, crisis management e public diplomacy.

Partiamo da Toni. Nel mondo si è iniziato a parlare di public diplomacy già agli inizi degli anni ’60, anche se questa declinazione delle relazioni pubbliche può essere fatta risalire agli albori dell’umanità. Oggi dopo la pandemia, la crisi economica e ora la guerra, come ritieni che noi professionisti dobbiamo e possiamo investire in un rinnovato approccio alla public diplomacy?

Toni Muzi Falconi: «E’ necessario ritrovare il giusto tempo per guardare, e studiare, i valori della cultura liberale. Non c’è più tempo per correre inutilmente dietro a mille rivoli: questa è l’ora della responsabilità e della condivisione. E la public diplomacy, un modo nuovo per definire le relazioni pubbliche, può essere lo strumento giusto per rendere il mondo un posto migliore».

Nel libro di Nick Cull, edito alle Edizioni Olivares – “Public Diplomacy, Global engagment nell’era digitale”- la prefazione è affidata a Simon Anholt che scrive: «L’Italia è in molti sensi l’emblema del “soft power nation”… e i governi italiani dovranno investire molto per mantenere e migliorare lo straordinario prestigio internazionale che può essere raggiunto con duro lavoro e una strategia seria», nei mesi scorsi abbiamo analizzato insieme la quantità di corpi intermedi presenti in Italia e soprattutto a Roma, come cambia la definizione di public diplomacy alla luce della guerra in Ucraina ma anche alla luce della crescita del consenso e delle attese nei confronti delle organizzazioni private?

Toni Muzi Falconi: «Credo di non dire una eresia se affermo che pandemia e guerra hanno prodotto ovunque un vasto e profondo ripensamento dell’acquisito in ogni ambito, settore, luogo e ispirazione. Volendo ricominciare tenendo conto dell’accaduto, delle sue ragioni e delle diverse ipotesi di prospettive la public/cultural/social/corporate diplomacy sono secondo la mia opinione, un ragionevole e sensato punto di partenza. In effetti, in primis e fin da piccolo, la diplomazia è stata sempre il mio pane quotidiano e lo è ancora oggi a 81 anni compiuti: padre italiano, in carriera diplomatica e girovago per 60 anni nel mondo; madre anglo/irlandese figlia di un diplomatico; poi moglie, poi madre (mio fratello Livio, scomparso poco tempo fa, ha passato anche lui la vita in diplomazia). Infine, prima ancora che passasse sotto il controllo di Confindustria, avevo conseguito il mio primo Master in Relazioni Pubbliche nel 1964 alla Luiss, con Padre Morlion dell’Opus Dei e una dissertazione su: sindacato, la diplomazia e le relazioni pubbliche. Mi sono insomma sempre occupato di public, cultural, social e corporate diplomacy».

Quindi Toni ci conferma che il framework del futuro delle relazioni pubbliche, di cui lui è il decano italiano, è appunto la public diplomacy.

Ora partendo dalla definizione che l’amico e collega Luca Poma fa nel suo libro: «La public diplomacy consiste in un sistema di procedure, normalmente coordinate dalle stesse istituzioni, utili per intervenire sull’opinione pubblica del proprio e degli altrui Paese, con azioni di relazioni pubbliche finalizzate ad aumentare la pressione sul proprio governo, influenzandone o legittimandone le scelte. I principi generali sui quali si basa questa strategia vennero definiti dal politologo statunitense Nye negli anni ’80, che introdusse il concetto di soft power (potere morbido) intendendo con esso la capacità di influenzare le scelte e i comportamenti di diversi attori nell’arena internazionale (stati, aziende, comunità, pubblici, ecc) attraverso l’attrazione o la persuasione, anziché la coercizione» gli chiedo: Luca come è cambiata questa definizione alla luce della guerra in Ucraina?

Luca Poma: «Non penso sia cambiata, anzi, ha trovato vieppiù conferme. Come non evidenziare ad esempio l’intensa (ed eterodiretta, secondo alcuni) attività social del Presidente Zelensky? La leadership Ucraina ha reso plasticamente evidente l’importanza di un’intelligente, coraggioso e proattivo utilizzo dei canali digitali per “condizionare” l’opinione pubblica internazionale ed attraverso essa i Governi. Come scrivevo in una mia analisi circa 1 mese fa, come ben sappiamo la reputazione è un asset importante – il più prezioso tra quelli “immateriali” – che si costruisce assieme ai propri pubblici per durare nel tempo, ed essere poi “scambiata” con una più ampia licenza di operare. Autenticità, coerenza, comunicazione di valori conformi alla propria identità, capacità di gestire scenari di crisi e propensione ad assumersi le proprie responsabilità, tono deciso ma caldo, da comandante del proprio popolo: ecco i pilasti sui quali Volodymyr Zelen’skyi sta costruendo la propria rinnovata immagine, a rischio della vita.
Dal punto di vista della gestione della reputazione e del nation branding, a dispetto degli enormi mezzi dedicati alla propaganda, specie on-line, il Presidente Russo, in realtà, ha già perso questa “guerra della comunicazione”, che è anche e soprattutto una “guerra di relazioni” (più che mai pubbliche), e che dimostra una volta di più, qualora fosse necessario, l’importanza di saper gestire la diplomazia nel XXI secolo come un qualcosa di circolare e complesso, coinvolgente molti diversi attori tra protagonisti e comprimari, e non come si è fatto per secoli in modo frontale e binario – sequenziale».

Luca, nel tuo libro, citi una case history denominata: «La reputazione nella sfera politica: l’antimateria del crisis management». Ti riferivi alle giravolte, inconsistenze e persuasioni varie, senza fondamento e senza valori, poste in essere da una maggioranza a geometria variabile. Come è cambiata la reputazione del nostro paese dopo l’inizio del Governo Draghi?

Luca: «Dopo le assai deludenti performance dei Governi Conte, mediocri nella gestione della pandemia (Italia maglia nera in Europa su non pochi fronti), poco genuini e poco coerenti, e attenti soprattutto all’immagine (si ricordino le dirette Facebook a tarda notte volute da Casalino), con il Governo Draghi – continua Poma – il Paese ha ritrovato smalto. La linea politica può piacere o no, questo non si discute, ma altrettanto vero è che il profilo di autorevolezza dell’Italia è migliorato assai. E il “nation branding”, la costruzione del brand per un’intera nazione, parte della più ampia materia del reputation management, passa anche attraverso l’autorevolezza della leadership: la sensazione è che a livello internazionale quando Draghi alza il telefono ci sia qualcuno ad ascoltarlo, e che esista “un uomo al comando” a Palazzo Chigi. Che poi la direzione piaccia a tutti, questo non possiamo dirlo, e molte criticità del nostro sistema-Paese permangono intatte (magari bastassero due anni di governo a risolverle…), ma certamente la reputazione della nazione ha guadagnato punti con questo governo, e quindi – si spera – anche la nostra licenza di operare sui mercati internazionali».

Sia Toni Muzi Falconi che Luca Poma ritengono, quindi, che le relazioni pubbliche siano la disciplina, e la competenza principale, per la gestione della diplomazia pubblica e per la costruzione di quella aurea di negoziazione e di valori condivisi che rendono uno stato, attraverso il suo nation branding, un sistema complesso capace di dialogare a livello internazionale e capace altresì di costruire le corrette intersezioni internazionali per definire, accrescere e gestire la sua “licenza ad operare”. Ma come avete letto, i colleghi hanno detto anche molto di più.

Un libro che mancava nel panorama italiano

«Il ruolo della public diplomacy è sempre più cruciale in questa epoca di informazione globale e social media. Pochi autori sono in grado di guidare il lettore attraverso i nuovi aspetti della diplomazia meglio di Nick Cull, che nel libro “Public Diplomacy, Global engagment nell’era digitale” lo fa magistralmente»

commento di Joseph Nye, il padre del soft power.

La data dell’introduzione, dell’edizione inglese, è del maggio del 2018: quindi pandemia e guerra non erano ancora all’orizzonte. Eppure, questo libro può dare un contributo fondamentale, per l’impianto di ricerca e per le tecniche proposte, anche alle soluzioni di crisi devastanti come quelle che stiamo vivendo.

Molto attuale (e ora con la guerra in Ucraina anche molto forte) un passaggio che Cull riferisce in apertura del volume di una conversazione del suo figlio più piccolo Olly, con una sua coetanea: “bambina: ‘ Tuo padre non fa un lavoro vero. La public diplomacy non esiste’. certo che esiste, ha impedito che scoppiassero un bel po’ di guerre” Ah sì? E come si chiamavano? Facile: Si chiamavano tutte Terza Guerra Mondiale‘. Non cito questo passo per vanagloria (sebbene tutti i relatori pubblici sanno quanto sia difficile far capire il mestiere che facciamo). A volte semplice, ma più spesso complicato e complesso. Public Diplomacy è una funzione di governo di cui si sentirà sempre di più il bisogno” scrive appunto Nick Cull.

L’editore dell’edizione italiana del volume di Cull, e’ Federica Olivares: la più importante docente e studiosa di Public Diplomacy in Italia. È il Fondatore e Direttore del Programma Internazionale in Cultural Diplomacy (IPCD) – presso l’Università Cattolica – nonché del Master in Cultural Diplomacy: Arts e Digital Media for International Relations and Global Communication (in partnership con docenti da Oxford University, Digital Diplomacy Research Center e di University of Southern California).

Chiedo alla Professoressa Olivares: Avevamo bisogno di questo libro in italiano? Mi pare necessario non solo per avere un testo a cui fare riferimento per la disciplina, ma anche perché abbiamo il compito di accrescere il dibattito pubblico intorno ad un tema come la public diplomacy fondamentale per il futuro delle democrazie e dei sistemi liberali.

Federica Olivares: È proprio così. Infatti, mai come in questo complesso scenario geopolitico, dopo gli anni del terrorismo islamico internazionale, questo conflitto è invece “andato in scena” proprio nel Continente Europa nonostante l’apparente omogeneità culturale. Stiamo quindi intuendo di essere ben lungi dall’aver colmato un percorso di piena adesione ai valori civili basati sull’imprescindibile piattaforma: stato di diritto, pratiche democratiche, diritti umani e, aggiungerei, anche, su valori culturali condivisi che invece oggi appaiono come un immenso unfinished job. Ecco perché in questo drammatico frangente sta emergendo la consapevolezza dell’urgenza di una ulteriore armonizzazione non solo di leggi e regolamenti a livello europeo, ma anzitutto di un lessico civile e culturale condiviso nelle pratiche, a partire da quelle del paradigma introdotto dalla Public Diplomacy. 

L’impianto della Public Diplomacy, come viene argomentato da Nick Cull, si basa su 5 pilastri fondamentali, che sono poi la struttura stessa del suo libro: Ascolto, Advocacy, Cultural Diplomacy, Exchange Diplomacy, International Broadcasting. Con un impianto che ha grandi punti di contatto con le relazioni pubbliche. Quali sono secondo lei le intersezioni disciplinari rispetto all’insegnamento delle relazioni pubbliche e della comunicazione che emergono dal modello di Cull, e quali le ripercussioni sul sistema complessivo della diplomazia pubblica e culturale?

Olivares: Anzitutto, sia Public Diplomacy sia Public Relations partono da una visione strategica complessiva, sono fortemente relazionali e utilizzano tutte le leve della ‘sinfonia timbrica’ della Comunicazione per raggiungere pubblici sempre più diversificati. Entrambe sono spesso confuse con qualcos’altro! Prendiamo, ad esempio, la Cultural Diplomacy che, come d’altra parte il Soft Power, non ha senso se non saldamente situati all’interno delle strategie complessive di politica estera di un Paese, della sua Public Diplomacy, appunto. La Cultural Diplomacy costituisce una forte leva, un braccio armato, per il Soft Power, che a sua volta rappresenta l’attrattività di un Paese basata sulla sua cultura, valori, ideali e politica estera. Ma la Cultural Diplomacy può essere anche uno strumento efficace, nella più ampia strategia di Public Diplomacy di un Paese, per trasformare la reputazione globale di un territorio. Un esempio per tutti: pensiamo a cosa abbia rappresentato per la reputazione e per l’economia di una città come Bilbao la costruzione del Guggenheim Museum nel 1997 che ha ridefinito quella che era la capitale del terrorismo basco in una meta iconica del turismo culturale globale, con tutti gli impatti sociali ed economici che questo innesto culturale è stato in grado di produrre. Già da queste prime considerazioni risulta evidente quello che la Cultural Diplomacy senz’altro non è: il taglio del nastro di mostre nazionali in sedi internazionali, ma è più precisamente: l’affermazione strategica e competitiva di un sistema culturale in un’ottica di economia della cultura. Può davvero rappresentare il braccio armato di una più ampia linea strategica di Public Diplomacy, in cui tutto sitiene: Soft Power, Cultural Diplomacy in tutte le sue infinite e rilevanti declinazioni per la creazione di valore e di influenza per un Paese, un territorio ma anche per un Continente come il nostro, il Continente Europa, oggi così lontano da quella definizione di solo pochi decenni fa: “Europa potenza civile”!

Come ci dice la Professoressa Olivares – Europa potenza civile – c’è da fare molto per renderla tangibile e sostanziale. Non sono certo che abbiamo ancora un lessico comune. Come Cull ci ricorda, il crescente interesse degli studiosi per la Public Diplomacy non ha ancora portato alla formulazione di una teoria complessiva della materia e ci troviamo piuttosto davanti ad una costellazione di contributi provenienti dalla storia, dalle relazioni internazionali e dalla comunicazione, senza dimenticare l’apporto delle scienze psicologiche e delle relazioni pubbliche. Di conseguenza il concetto, o meglio l’espressione public diplomacy, si è fatta strada in molti corsi di laurea specialistici.

Scambio culturale o strategic communications evocano retroterra diversi ma non confliggenti, così come nation brading fa pensare a qualcosa di creativo, metropolitano, di quelli con l’ufficio open space, il portofolio sotto il braccio e gli slogan sempre pronti. Come dice Cull anceh Public diplomacy richiama alla mente un’immagine specifica: quella di un professionista degli affari esteri (ma ancora prima delle relazioni pubbliche) che comunica per conto di uno stato: è un termine che è diventato molto influente non soli per la capacità degli stati di esportare il proprio pensiero ma anche per aver messo al centro il coinvolgimento di pubblici internazionali. Il modo della diplomazia gode di fama migliore di quella del mondo delle relazioni internazionali, certamente dell’ambito manipolatorio viene definito propaganda. Public diplomacy invece definisce più efficacemente il processo di coinvolgimento come forma di diplomazia, coè come uno dei modi in cui un soggetto internazionale cerca di gestire il contesto internazionale.  

E come non dettagliare le determinanti dei due aspetti, public diplomacy e propaganda. La public diplomacy, come espressione delle relazioni pubbliche, si basa sulla verità è a due vie, ascolta per imparare, può cambiare mittente, è flessibile, è rispettoso degli altri è aperta, etica e sostenibile. La propaganda invece: seleziona la verità, quasi mai è a due vie, ascolta il target, ha lo scopo di cambiare solo l’obiettivo, presuppone che gli altri siano ignoranti o sbagliati, la propaganda è chiusa e può non essere etica . Non sfuggirà al lettore da che parte sta l’autore e soprattutto da che parte sta la vera professione del relatore pubblico: solo in una pratica sostanziata dalla competenza potremo attualizzare la leadership del comunicatore e del relatore pubblico e continuare a fare di questa professione il lavoro più bello e mondo.




Moda e sostenibilità: è il momento di fare sul serio

Moda e sostenibilità: è il momento di fare sul serio

È arrivato il momento di estendere e precisare il concetto di “sostenibilità”. Da troppo tempo subiamo la comunicazione errata di scarpe, magliette, jeans e felpe sostenibili. E con la comparsa, alla Stazione Centrale di Milano, delle “vetrine sostenibili” e delle “pubblicità sostenibili”, forse si è andati un po’ oltre. Ma poi, cosa vuol dire “pubblicità sostenibile”? Forse che la produzione ha parzialmente utilizzato fonti di energia rinnovabile?
Il problema sta proprio qui: al giorno d’oggi la promessa di sostenibilità, nella maggior parte dei casi, si esaurisce sempre in tecnologie, materiali o processi capaci di ridurre certe dimensioni dell’impatto ambientale di un prodotto in una o più fasi del suo sviluppo. Ma la verità è che questo non vuol dire “sostenibile”. Perché quegli stessi materiali potrebbero avere correlate conseguenze negative di altra natura. Potrebbero, per esempio, risultare nocivi per la nostra pelle e salute, impossibili da smaltire o riciclare ed essere frutto di lavoro sottopagato. Potremmo mai definire “sostenibile” un materiale che riduce le emissioni di CO2 in fase di produzione ma che è tossico per la pelle delle persone? Il concetto va quindi esteso per abbracciare aspetti sociali, culturali e ambientali con una visione sistemica che è lontana dalla percezione che si ha oggi del prodotto “sostenibile”.
“Sostenibile” è qualsivoglia azione che, compiutasi nel presente, non preclude in alcun modo lo svolgimento della medesima nel futuro. Sul mercato quindi non esistono oggi prodotti 100% sostenibili, ma ci sono prodotti a limitata responsabilità ambientale e/o a massimale responsabilità sociale. Il raggiungimento della destinazione “sostenibilità” rimane, per ora, una sfida più grande di un singolo brand. È un’utopia necessaria che ci deve spronare a continuare lavorare e innovare per avvicinarci sempre di più alla meta.

Fashion revolution Italia campagna #GoodClothesFairPay
Fashion revolution Italia campagna #GoodClothesFairPay

COSA DEVE FARE LA MODA PER ESSERE DAVVERO SOSTENIBILE

In questo percorso, se ai designer contemporanei è richiesto lo sforzo di bilanciare la qualità del proprio lavoro con la qualità dell’impatto derivato dalle proprio scelte, ai team marketing spetta la responsabilità di rappresentare questa transizione con trasparenza e onestà. E per fare questo ci vuole un po’ meno storytelling e un po’ di più realitytelling, un po’ meno art direction e un po’ più scienza. Senza venire meno alla magia che un abito e una campagna possono creare e alla funzione culturale della moda, è oggi richiesto all’industria intera un nuovo livello di consapevolezza scientifica del presente nel quale viviamo per il semplice fatto che gli ingredienti utilizzati per creare i vestiti sono gli stessi che servono per tenere in vita miliardi di specie viventi: acqua, aria, terra, energia. E continuare a sfruttarli e inquinarli per produrre numeri sempre più elevati di prodotti non essenziali, né rilevanti, equivale al suicidio. Dice bene il professor Otto von Bush quando parla di “Faust-Fashion” in riferimento allo stato attuale della moda: come nel dramma di Faust, assistiamo infatti oggi alla tragedia di un sistema avido che, indipendentemente dall’uso di materiali più o meno responsabili dal punto di vista ambientale, continua a cercare escamotage per sentirsi sempre più appagato dal punto di vista finanziario procrastinando il pagamento (collettivo) a un futuro non più tanto remoto. Le dinamiche di questo sistema stanno già costando la vita a milioni di umani, di specie vegetali, animali e di risorse naturali.
Siamo di fronte a una crisi cronica causata e perpetuata dal settore tessile che, finalmente, sembra non essere passata inosservata alla classe politica. Dagli Stati Uniti all’Europa stanno infatti emergendo proposte e pacchetti legislativi pensati per supportare l’inevitabile cambiamento del fashion system e reindirizzare i brand ad abbracciare una più ampia idea di sostenibilità. Come la “Strategia per Tessuti Sostenibili e Circolari” presentata il 30 marzo scorso dalla Commissione Europea. Un documento rilevante in quanto pubblicato da un ente politico che per la prima volta ha dato un segnale molto forte della comprensione del problema, portando sul tavolo strumenti per la sua risoluzione.

Vicenza, mostra 5 Finestre sul Futuro della Moda
Vicenza, mostra 5 Finestre sul Futuro della Moda

I 10 PUNTI CHIAVE EMERSI DAL REPORT DELLA COMMISSIONE UE

Ecco un riassunto dei 10 punti più significativi di questo report.

ECODESIGN

La Commissione UE fa sapere che verranno create linee-guida obbligatorie per indirizzare gli uffici stile e i designer europei a progettare capi più durevoli, riparabili, con filati riciclati (fibre-to-fibre) e privi di sostanze chimiche dannose;

NULLA SI DISTRUGGE

La comune pratica di distruggere capi invenduti verrà resa illegale. La Commissione UE precisa inoltre che l’eventuale distruzione di materiale tessile dovrà essere comunicata in modo trasparente.

STOP ALLE MICROPLASTICHE

Oramai arrivate anche nei nostri vasi sanguigni, le microplastiche hanno invaso il pianeta. Per ridurre d’ora in avanti il problema sono previste linee guida al design, prediligendo la scelta di materiali non sintetici, e incentivi per investimenti in tecnologie di filtraggio delle lavatrici industriali e domestiche.

Vicenza, mostra 5 Finestre sul Futuro della Moda
Vicenza, mostra 5 Finestre sul Futuro della Moda

TRASPARENZA

Nessun segreto, il mercato avrà il diritto di sapere come, dove, da chi e in che modo vengono realizzate tutte le componenti degli abiti che indossiamo. Parola d’ordine: trasparenza.

NO GREENWASHING

La Commissione UE vuole restituire all’aggettivo “green” il suo reale significato e chiede che ogni comunicazione sulla sostenibilità di un prodotto sia supportata da valide prove scientifiche. Dopo aver constatato con un recente sondaggio che il 40% dei claim di sostenibilità dei brand sono falsi, non saranno più concesse campagne di comunicazione ambiziosamente proiettate al futuro (es. “saremo climate-neutral entro il 2030”) se non fondate su concreti piani di sviluppo sostenibile. E si prevede anche che ogni brand dovrà comunicare ai clienti la durabilità commerciale dei propri prodotti e offrire servizi su come, eventualmente, ripararli.

EPR ‒ EXTENDED PRODUCERS’ RESPONSIBILITY

La responsabilità di un brand non terminerà più con la vendita! La Commissione UE ha infatti proposto che siano i brand ora a prendersi cura della gestione del fine vita di ogni articolo prodotto tramite il pagamento di una tassa dedicata che servirà a potenziare sistemi di raccolta, recupero e riciclo.

FAST-FASHION? OUT OF FASHION

Uno dei passaggi più significativi della strategia UE per la sostenibilità dei prodotti tessili è l’attacco frontale al business model dei brand fast-fashion, responsabili di aver innescato insostenibili cicli di sovrapproduzione e sovraconsumo. La Commissione chiede che venga ridotto, tra le altre cose, il numero di collezioni e drop annui. Bisogna sottolineare però come chiedere di “ridurre le collezioni” sia diverso dall’imporre una riduzione della quantità degli articoli prodotti, che sarebbe il vero traguardo. Pur riducendo il numero di collezioni, è comunque possibile aumentare le quantità assoluta di capi semplicemente redistribuendo il differenziale.

Vicenza, mostra 5 Finestre sul Futuro della Moda
Vicenza, mostra 5 Finestre sul Futuro della Moda

RICERCA E INNOVAZIONE

Sono stati annunciati sostegni alla ricerca per lo sviluppo di nuove tecnologie per il riciclo dei materiali tessili (fibre-to-fibre) e di nuovi materiali bio-based.
La Commissione UE insiste, giustamente, sul riciclo tessile da fibra a fibra e invita a ridimensionare la tanto popolare quanto inefficiente pratica del riciclo di bottiglie PET per la creazione di poliestere riciclato.

GIUSTIZIA SOCIALE

Riconoscendo che la maggior parte dei capi di abbigliamento sono oggi prodotti fuori dai confini europei, la Commissione chiede che gli articoli realizzati in condizioni avverse ai diritti fondamentali dell’uomo non siano più ammessi nel mercato europeo. Prodotti frutto di sfruttamento, oppressione, lavoro sottopagato e lavoro minorile dovranno essere banditi.

VINTAGE O SCARTO?

Recuperare vestiti usati per la rivendita è diventato sempre più difficile e costoso a causa della scarsa qualità progettuale iniziale dei capi. Costo che i Paesi occidentali esportano vendendo più della metà dei capi d’abbigliamento usati a Paesi extra UE le cui discariche e risorse naturali sono, però, oramai sature. Basti pensare al Ghana, dove si stima che ogni settimana transitino più di 15 milioni di vestiti gettati dai Paesi dell’occidente del pianeta con oramai scarsi benefici per l’economia locale. L’esportazione di vestiti usati, propone la Commissione, avverrà dunque solo verso Paesi che ne dimostrino la volontà e la capacita di gestione.

Vivienne Westwood
Vivienne Westwood

LA CULTURA DELLA SOSTENIBILITÀ COME INVESTIMENTO SOCIALE

Nonostante queste indicazioni non siano ancora legge, sono comunque un primo passo significativo. Fatto magari un po’ tardi, al limite della scadenza dei tempi massimi, come quando all’università ci si trovava a studiare la notte prima degli esami. Ma se ogni traguardo altro non è che un nuovo punto di partenza, siamo felici perché questa forte presa di posizione della Commissione UE ha dato nuovo slancio e vigore al viaggio. Dopo anni complessi (e frustranti per chi è attivo nel settore), in cui da una parte i grandi brand hanno giocato a definire la propria teoria di moda sostenibile, quella normalmente più conveniente per la salvaguardia dei propri interessi, e dall’altra parte un esercito di organizzazioni scientifiche, NGOs, attivisti, intellettuali e artisti provavano a fare contro-informazione oggettiva, ora la posizione della Commissione UE ha finalmente fatto chiarezza su molti punti.
A tutti noi, adesso, il compito di ripartire da qui più forti di prima, con pro-attività e voglia di partecipazione. Perché la sostenibilità non è una cosa che si può fare con un materiale o un disegno di legge. È un modus operandi che comporta un modo radicalmente diverso di percepire noi stessi e le nostre attività in relazione all’ambiente che deve coinvolgere tutti gli attori della società. È una cultura da internalizzare fondata su empatia, apertura, collaborazione e positività ‒ che è un significativo investimento sociale.




La sostenibilità si deve misurare. Un solo standard contro il falso green

La sostenibilità si deve misurare . Un solo standard contro il falso green

La transizione green chiede più finanza Esg

Grande è la confusione sotto il cielo della sostenibilità. Misurare, valutare e confrontare un’impresa per il suo valore di coerenza con i criteri Esg (Environmental, Social, Governance) è impossibile, ognuna ha un metro diverso.
Per dare solo un’idea della giungla metrica fra il 2007 e il 2021 a livello globale sono stati 1.047 gli autori che hanno prodotto sistemi diversi per misurare la sostenibilità nelle imprese, 490 i modelli definiti con una media di 35 all’anno e picchi fino a 65 paradigmi differenti. Intanto si sono moltiplicate le agenzie di rating Esg, ciascuna con un proprio modello di valutazione (rating) e il quadro si è complicato ancora: l’ultimo studio dell’Esg European Institute dice che nel 2018 erano più di 600 i rating Esg a livello globale. Il paradosso è evidente: leggere la responsabilità sociale, l’impatto ambientale i criteri di governance e integrare l’analisi in relazione oggettiva a costi e benefici in base alle informazioni dei report di sostenibilità (quando ci sono) porta quasi sempre «di fronte a visioni totalmente differenti» fra imprese: ciò che è attività sostenibile da una parte, può essere un rischio in un’altra azienda. Manca una «chiara identificazione delle informazioni minime da riportare». E per il mondo finanziario e industriale, «che deve valutare e valutarsi secondo metriche Esg chiare e condivise è un grande problema, crea potenziali rischi di essere coinvolti in attività di greenwashing o in imprese non sufficientemente green».

Raffaele Jerusalmi Già amministratore delegato di Borsa italiana e capo globale dei mercati del London Stock Exchange Group

Il monito non è da trascurare visto che arriva da chi per venti anni ha governato le società in Borsa italiana di cui dodici come Ceo e capo globale dei mercati del London Stock Exchange Group. Ma Raffaele Jerusalmi, va oltre e chiama in causa imprenditori, consumatori e autorità proprio perché questa confusione, soprattutto per le piccole e medie imprese, rischia di compromettere l’attenzione della finanza Esg (oggi vale già 500 miliardi di cui 31 in Italia) e far perdere l’occasione di aprire il capitale e intercettare risorse per crescere di dimensione, di sviluppo e decidere proprio destino.

«Gli investitori sarebbero quindi facilitati nella valutazione delle performance Esg e nel confronto fra le imprese. Per le autorità di controllo rendere oggettive le misurazioni Esg agevolerebbe le verifiche» spiega Jerusalmi, riducendo le false dichiarazione. Tema su cui è scesa in campo anche l’Europa, con suoi dati alla mano: nel 42% dei casi le affermazioni delle aziende non erano vere e quindi valutate «pratiche commerciali sleali», greenwashing, tanto da proporre modifiche alla direttiva sulla tutela dei consumatori ampliando le caratteristiche del prodotto su cui le imprese non possono più ingannare i cittadini solo per includere l’impatto ambientale o sociale con dichiarazioni di prestazioni future senza includere impegni, obiettivi verificabili e senza un sistema di monitoraggio indipendente. Che è l’altro problema. Solo in Europa la Commissione ha rilevato che oggi esistono oltre 40 rating diversi, 150 sistemi di misurazione e 450 indici Esg. La confusione sotto il cielo della sostenibilità quindi aumenta a un buon ritmo.

La proposta di un modello unico

Luca Dal Fabbro Presidente di ESG European Institute

Anche perché «oggi per valutare un’impresa o la sostenibilità di un investimento nel medio-lungo periodo non basta più guardare ai soli dati finanziari. Le decisioni sui piani aziendali tengono conto anche di dati extra-finanziari come i fattori Esg», spiega il presidente di ESG European Institute, Luca Dal Fabbro, oggi impegnato nel costruire un indice che sappia fare sintesi nella vasta giungla dei rating. La proposta l’ha raccolta nel libro “ESG: La misurazione della Sostenibilità” (Rubbettino Editore). Con un obiettivo dichiarato, non solo quello di analizzare le metriche di misurazione Esg esistenti, ma di avanzare un’analisi che contribuisca al processo di semplificazione e standardizzazione delle metriche di sostenibilità Esg attualmente esistenti, e giungere ad una rendicontazione e una disclosure di sostenibilità integrata, oggettiva e misurabile.

Dal Fabbro è un manager dell’energia e dell’economia circolare, è stato presidente di Snam, Ceo di Enel Energia e E.ON Italia e membro del Cda di Terna, e da questi osservatori propone un nuovo strumento, incrociando le numerose variabili esistenti e più diffuse per uniformità e universalità, semplificando le metriche e rendere più attendibili. Dal Fabbro lo ribadisce chiaramente: «La crescente importanza di questo concetto non è stata accompagnata da una chiara definizione di standard e metriche condivise e uniformi per la misurazione e la rendicontazione della sostenibilità. Nonostante la presenza di numerosi standard internazionali – spiega Dal Fabbro – ancora oggi si evidenziano sostanziali lacune nel processo di misurazione e disclosure di queste informazioni».

Il rating per la sostenibilità d’impresa

Il libro -«ESG: La misurazione della Sostenibilità» – Edizioni Rubbettino Editore

Ma di che cosa si tratta esattamente quando si parla di parametri Esg?
l testo di Dal Fabbro ripercorre l’evoluzione storica dell’Esg investing e il ruolo cruciale che i rating Esg hanno svolto nel processo investor-driven di affermazione di aspetti non finanziari nella valutazione aziendale. Al contempo, l’analisi della letteratura ha mostrato la disomogeneità esistente a livello di framework di rating Esg. Questa disomogeneità può esser definita una caratteristica strutturale del sistema dei rating Esg. In un contesto competitivo di mercato, ogni agenzia di rating Esg ha interesse a proporre un framework proprietario di analisi e di valutazione e di promuovere gli aspetti caratteristici della propria metodologia. Questa situazione ha portato al proliferare di un gran numero di framework di rating Esg, al punto che nel 2018 potevano contarsi piu di 600 framework di rating Esg a livello globale. Seguendo una tradizione ormai consolidata, i tre criteri di riferimento per la rendicontazione sono:

  • – Environment (E):
    include tutti gli standard su come rendicontare gli impatti da e su tutti i fattori ambientali come cambiamento climatico, risorse idriche, biodiversita ed ecosistemi, economia circolare, inquinamento;
  • – Social (S):
    include tutti gli standard su come rendicontare gli impatti da e su tutti i fattori sociali come forza lavoro, lavoratori nella value chain, comunita, consumatori finali;
  • – Governance (G)
    include tutti gli standard su come rendicontare gli impatti da e su tutti i fattori relativi alla governance e all’emittente, come etica del business, management, relazioni con azionisti e stakeholders, organizzazione e innovazione, reputazione e gestione del brand.

C’è un dato in più di cui tenere conto. La pandemia legata al Covid ha evidenziato in modo ancora più accelerato la necessità di modelli di business sostenibili e resilienti: ogni nuova elaborazione – avverte Del Fabbro – non può però prescindere «dall’approccio che le imprese devono seguire, impegnate nell’integrazione dei propri piani di sostenibilità con il piano strategico». Il tema diventa cosi rilevante che non e più percepito come una sola questione etica, ma «va a indirizzare il purpose delle società e si pone come elemento competitivo di mercato. Che alla fine si traduce in una gestione efficiente e strategica delle risorse a disposizione, siano esse naturali, finanziarie, umane o relazionali».

Non solo. Gli ultimi due anni hanno anche mostrato con evidenza «la natura globale e pervasiva» delle sfide che aziende e persone possono trovarsi ad affrontare. La pandemia oltre a rimodulare i modelli di business, ha rivoluzionato anche il modo e l’organizzazione di lavorare, «promuovendo organizzazioni ibride e flessibili e accelerando la transizione digitale. In seguito, l’aumento dei prezzi dell’energia e dei costi CO2 in Europa ha mostrato l’urgenza e le difficoltà che la transizione ecologica pone. «Difficoltà che non sono solo economiche e tecnologiche – spiega Dal Fabbro nel suo lavoro -, ma anche e soprattutto sociali. Infine, il recente scoppio del conflitto tra Ucraina e Russia ha evidenziato ulteriormente l’importanza di temi geopolitici e di sicurezza energetica».

IL grafico

Il contesto geopolitico, l’emergenza energetica e il post emergenza sanitaria, guardando avanti, è evidente che hanno ridefinito anche le maggiori sfide per le aziende. In particolare queste riguarderanno:
• Le minacce associate al cambiamento climatico e alla necessità di dover ridurre i propri consumi, sia nelle scelte produttive che in quelle distributive della propria azienda;
• La gestione delle risorse. Una buona gestione delle risorse, unita a una riduzione degli sprechi, oltre ad essere un elemento importante per la sostenibilità ambientale della propria azienda, comporta anche dei benefici economici considerevoli nel breve periodo. Una scelta strategica, quindi, di duplice rilevanza, su cui il modello dell’economia circolare rivestirà un ruolo di primo piano.
Tutto questo significa che nei prossimi anni «una strategia aziendale non potrà essere di successo nonostante queste sfide – spiega Dal Fabbro -, ma solo attraverso le stesse. Solo prendendo in attenta considerazione i rischi e le opportunità della transizione ecologica le aziende avranno gli strumenti per eccellere nel proprio settore».

Le tensione e le nuove sfide delle imprese

Esiste anche altro aspetto che mette in ulteriore primo piano l’importanza di coltivare una relazione tra un’impresa, i suoi dipendenti e la propria comunità. È in questo contesto che i criteri Esg avranno un peso nuovo e rilevante. «Anche la guerra in Ucraina sta cambiando la percezione di sicurezza e sta determinando una serie di cambiamenti nei principi e nelle assunzioni con cui aziende e gli Stati operavano. Tutto questo – spiega Dal Fabbro – genera forti cambiamenti nelle dinamiche europee e mondiali sull’energia, sulle materie prime, sulla finanza e sugli aspetti sociali. È diventato così essenziale soprattutto per le aziende (oltre che per gli stati) che si mettano al centro i criteri e gli obiettivi Esg.

Ed qui , a questo punto che scatta il tema della sostenibilità misurabile con la massima attendibilità e forza di comparazione, perché attraverso il monitoraggio dei criteri e obiettivi Esg «sarà sempre più importante per una gestione ottimale delle aziende».

Intanto, e proprio per questa nuova spinta, «la misurazione dei fattori Esg è ancora in grande evoluzione». Gli standard internazionali sono la base del lavoro di Dal Fabbro, il secondo passo è stato la selezione e l’allineamento di 21 fattori Esg più ricorrenti e più condivisi dai sistemi di rating, e dai 17 Goals Onu «vista la loro importanza universale».
La tecnica della content analys ha poi collegato i 21 fattori Esg con 137 criteri di misurazione di ogni dimensione Esg, a loro volta suddivisi per indicatore specifico sui tre Esg: ne è nata una matrice di allineamento (alto, medio, basso) che valuta, per esempio e in estrema sintesi, fattori come l’uso e tipologia di materie prime, il tipo di energia, da fonti rinnovabili o fossile, l’utilizzo dell’acqua e le risorse idriche, la localizzazione degli impianti o il numero di progetti per la tutela ambientale (biodiversità), livello e natura di ogni emissione per ogni tipo di gas liberato, la compliance ambientale fino alle misure di impatto sociale sia sulla comunità sia sui dipendenti (formazione, welfare, retribuzioni, pari opportunità, ambiente di lavoro).

Non sono informazioni scontate: un test sulle 15 maggiori società quotate, sul tema dell’energia solo il 40% sa distinguere fra energia diretta e indiretta, fra fonti green e non. È certo una questione di metrica, ma spesso anche di capacità di assegnare valore ai propri progetti di sostenibilità.

I tre fattori della sostenibilità

Ma, indicatore per indicatore, ecco che cosa è emerso dalla verifica del livello di standardizzazione dei parametri Esg. Cominciando dal primo, il criterio ambientale, Environmental, (E), in base a quanto riportato dal testo.
Tra i tre criteri Esg quello ambientale rileva il maggior grado di standardizzazione a livello globale, sia relativamente ai fattori ambientali considerati, sia per gli indicatori scelti per misurare. Così il 60% dei fattori Esg applicati risulta altamente “allineato”. Più complesso invece il fattore Social (S), anche perché più di difficile misurazione. L’ostacolo maggiore, secondo il 46% degli investitori interrogati è legato alla «difficoltà di analizzare e integrare questo fattore all’interno delle strategie di investimento».
Per esempio, per effetto della globalizzazione molte grandi imprese si trovano a «delocalizzare le attività produttive in aree che non soddisfano i requisiti minimi per esempio in materia di diritti civili, diritti minimi dei lavoratori, lotta al lavoro minorile o alla discriminazione».
Sull’ultimo criterio, di Governance (G) lo studio di Dal Fabbro ha rilevato invece una «discreta convergenza dei fattori applicati dalle agenzie di rating. Il 50% dei fattori applicati infatti risulta come ricorrente e con simili metriche di misurazione.

C’è poi un’ultimo fattore Esg che il libro di Dal Fabbro introduce: il Social Return on Investment (Sroi). Si tratta di un approccio nuovo per la misurazione e la rendicontazione di un più ampio concetto di valore, «con ll’obiettivo di integrare nelle analisi di progetti, programmi e politiche i costi ed i benefici sociali, economici e ambientali. Il dato nuovo sono i parametri monetari che vengono utilizzati per rappresentare il contributo contro i cambiamenti climatici. Un informazione nuova che gli «investitori che operano seguendo criteri d’investimento responsabile possono usare lo Sroi per assicurare che le attività in cui investono stiano effettivamente gestendo i rischi sociali, ambientali ed economici».

La nuova responsabilità dei consumatori

Il primo passo dell’Europa verso i cittadini: attenti al greenwashing

Aggiornate le norme a tutela dei consumatori per responsabilizzarli di più nelle scelte d’acquisto consapevoli e il diritto di conoscere la durata prevista di un prodotto e come può essere riparato. L’Europa ha anche rafforzato la tutela da dichiarazioni ambientali inattendibili o false.

Attenzione alla durabilità e al consumo di un prodotto

I consumatori devono essere informati della durabilità garantita dei prodotti. Se la garanzia commerciale di durabilità è superiore a due anni, il venditore deve informarne il consumatore. Per i beni che consumano energia il venditore deve informare i consumatori.

Basta buttare, tutti i prodotti si possono riparare

Le imprese e i venditori devono informare sulle riparazioni, come l’indice di riparabilità, o altre informazioni come la disponibilità di pezzi di ricambio. Per i dispositivi intelligenti e servizi digitali il consumatore va informato sugli aggiornamenti del software forniti.

Uno stop agli inganni sui falsi impatti ambientali

È vietato dare dichiarazioni ambientali generiche o vaghe quando l’eccellenza delle prestazioni ambientali del prodotto o del professionista non sia dimostrabili. Dichiarazioni generiche o errate sono: «rispettoso dell’ambiente», «eco» o «verde».

Il marchio di sostenibilità deve essere verificabile

È vietato esibire un marchio di sostenibilità che non è verificabile da parte di terzi o stabilito dalle autorità pubbliche. Lo stesso vale nel formulare una dichiarazione ambientale di un prodotto nel suo complesso quando in realtà riguarda soltanto un suo aspetto.

La riparazione diventa una priorità, ma va sempre informata

Ogni prodotto di deve poter riparare. Ma è vietato omettere di informare che prodotto dispone di una funzionalità limitata quando si utilizzano materiali di consumo, pezzi di ricambio o accessori non forniti dal produttore originale.




KANTAR METTE A PUNTO LE BEST PRACTICE PER PARLARE DI SOSTENIBILITÀ IN COMUNICAZIONE

KANTAR METTE A PUNTO LE BEST PRACTICE PER PARLARE DI SOSTENIBILITÀ IN COMUNICAZIONE

Con un’analisi dei migliori e peggiori spot che comunicano su temi sociali o legati all’ambiente Kantar, in collaborazione con Affectiva, ha evidenziato le best practice che le aziende dovrebbero seguire quando parlano di sostenibilità nella loro comunicazione. Essere autentici, capire l’audience, dare prospettive, essere positivi e creare connessioni sono le 5 regole emerse dallo studio che ha estrapolato i dati da una serie di test sulle creatività fatti su Kantar Marketplace prendendo in considerazione lavori realizzati in mercati diversi tra loro.

Incoraggiare. Le migliori pubblicità a favore della sostenibilità hanno spesso un tono più incoraggiante e suscitano reazioni positive: un tono di speranza aiuta a non far sentire in colpa i consumatori ed evita che rifiutino il messaggio. Secondo lo studio gli annunci contenenti messaggi sociali evocano in genere forti emozioni che però non sono sempre positive: i test hanno registrato anche senso di colpa (18%) e tristezza (17%).

Pensare positivo. Il senso di colpa è stato registrato anche in numerosi annunci che hanno ottenuto le migliori performance, ma queste pubblicità sono state capaci di lasciare un sentimento positivo anche quando trattavano temi molto seri. L’esempio best in class è la campagna ‘Where there are cooks’ di Lurpack capace di affrontare il tema dello spreco alimentare lasciando agli spettatori un’ispirazione da seguire.

Agire. Si può ispirare un comportamento sostenibile anche in modo implicito e secondo l’analisi di Kantar questo modo di comunicare, capace di suggerire come mettere in atto le buone intenzioni, evita di creare sensi di colpa e di rivendicare per il brand un forte ecologismo.

Fatto non trascurabile, quest’ultimo, visto che secondo il Sustainability Index Sector di Kantar il 64% dei consumatori globali sostiene che le aziende hanno per prime la responsabilità di agire senza scaricare il compito sulle persone. Per questo, secondo l’analisi della società di insight, è importante che le aziende siano autentiche, fedeli ai valori del brand e senza pretendere troppo.

Aiutare i consumatori può fare la differenza, quando si è capaci di mostrare in modo tangibile cosa fare, tanto quanto agire in modo concreto, mantenendo le promesse e non limitandosi a parlare.

I brand sembrano cogliere la sfida, almeno per quanto riguarda la numerosità delle campagne contenenti messaggi sostenibili o sociali, la cui percentuale è triplicata dal 2016 a livello internazionale, sottolinea Stéphanie Leix, Head of Creative & Media Insights Division di Kantar. Ma comunicare questi temi, spiega, non è facile sia per la diffidenza dei consumatori sia per gli interventi delle autorità di regolamentazione che agiscono per arginare le affermazioni fuorvianti.