Non è solo una questione definitoria, è la capacità di cogliere gli ambiti e i perimetri della professione e di conseguenza della creazione di senso e significato delle attività strategiche ed operative che sostanziano la pratica della professione. Come ci ricorda James Grunig: «le relazioni pubbliche sono una professione complessa, svolta da persone preparate e competenti che sono consapevoli di doversi mettere al servizio degli interessi delle persone coinvolte a vario titolo dall’attività dell’organizzazione per la quale lavorano».
Tutti noi sappiamo che nel nostro Paese, per motivi ancora tutti da indagare, abbiamo dato maggiore importanza alle tecniche della professione piuttosto che alla costruzione di un percorso accademico e scientifico. Forse, complice inconsapevole, la distinzione fra il significato e il corpus accademico riferito alle relazioni pubbliche e alla comunicazione – e forse anche la forza del marketing rispetto alle relazioni pubbliche – non siamo stati capaci di indagare a fondo la portata, l’ampiezza e la frequenza della nostra professione, che ha sempre avuto delle declinazioni rilevanti, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo. Anche oggi, mentre il legislatore al Senato, analizza la legge sulla rappresentanza di interessi in seconda lettura, non abbiamo ancora avuto la possibilità di “raccontare” quanto tutto questo appartenga ad un’unica disciplina, codificata ed organizzata, e che oggi potrebbe trovare nella definizione di public diplomacy il suo più efficace perimetro.
Come già scritto altre volte, mi piace ricordare ciò che scriveva Adam Smithne la “Teoria dei sentimenti morali” del 1759: «La preoccupazione per la nostra personale felicità ci raccomanda la virtù della prudenza: cioè la preoccupazione per la felicità degli altri». Smith, che certamente non possiamo annoverare fra i teorici dell’economia civile o della moderna sostenibilità, pur tuttavia ci ricorda che un compromesso che faccia vincere tutti gli attori può rendere più profittevole per tutti la negoziazione, con una oggettiva massimizzazione della creazione di valore. Questo è il principio e fine ultimo delle relazioni pubbliche.
Un’altra definizione di Grunig del 1984: «Le relazioni pubbliche sono la gestione della comunicazione tra un’organizzazione e i suoi pubblici». Mentre Toni Muzi Falconi scrive nel 2005: «Le relazioni pubbliche sono una disciplina della comunicazione d’impresa e fanno parte della scienza del management, che si occupa della gestione delle organizzazioni complesse. La funzione delle relazioni pubbliche è di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione con un’attività continuativa, consapevole e programmata di gestione e di coordinamento dei sistemi di relazione che si attivano fra la stessa organizzazione e i suoi diversi segmenti di pubblico influente. Un’attività che deve essere sempre trasparente, corretta, a due vie. In particolare, compito specifico delle relazioni pubbliche è quello di orientare opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni – anche di consumo – degli stakeholder-influenti: soggetti che possono ostacolare o agevolare il raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione perché dotati di specifici poteri decisionali o perché ritenuti in grado di influenzare i primi».
E ancora: «Costruire relazioni basate sulla fiducia con tutti i pubblici dell’organizzazione (stakeholder, pubblici influenti, destinatari finali), per rafforzare la propria credibilità sociale, ambientale e finanziaria e la propria reputazione» (Giampietro Vecchiato, 2005); «Le relazioni pubbliche sono la disciplina che si prende cura della reputazione delle organizzazioni, con l’obiettivo di accrescere la conoscenza reciproca, il sostegno e per influenzare opinioni e comportamenti. Le relazioni pubbliche sono una funzione manageriale (deliberata e pianificata) per stabilire e mantenere un reciproco e proficuo ascolto e comprensione tra un’organizzazione e il suo pubblico» (CIPR Chartered Institute of Public Relations 2020).
Non sono solo definizioni di circostanza. Le relazioni pubbliche, e oggi la public diplomacy, aiutano le organizzazioni a gestire la complessità come divenire della conoscenza. La complessità, concetto chiave del nostro tempo, mai fino in fondo indagato e capito, è un modo di approcciare la realtà e pensare per sistemi, confini, perimetri, ambiti, reti, processi, e connessioni. La crisi cognitiva nella quale ci troviamo dipende molto dalla mancanza di tempo e spazio che ci consente di trovare la giusta distanza dalle cose – materiali e immateriali – e darci il giusto sentire per aiutarci a trovare la quadra dell’eccesso di connessioni e del conseguente eccesso di disgregazioni. Le relazioni pubbliche, declinate con la nuova definizione di public diplomacy, ci consente di superare la necessità di una astrusa semplificazione e che temo possa rinchiuderci nei confini nazionali, frammentando i saperi – anziché intersecarli. Questa semplificazione non aiuta la gestione dei conflitti e la gestione delle crisi che verranno. Ecco perché è sempre più imperativo prendersi cura delle persone e delle organizzazioni senza la paura innata contro la complessità.
La public diplomacy: il punto di vista di Toni Muzi Falconi e Luca Poma
Dicevamo che la public diplomacy potrebbe diventare l’alveo naturale dello sviluppo della funzione manageriale delle relazioni pubbliche.
Per questo intervisto Toni Muzi Falconi, decano delle relazioni pubbliche italiane, e Luca Poma, allievo di Toni, come me, ed esperto di reputation management, crisis management e public diplomacy.
Partiamo da Toni. Nel mondo si è iniziato a parlare di public diplomacy già agli inizi degli anni ’60, anche se questa declinazione delle relazioni pubbliche può essere fatta risalire agli albori dell’umanità. Oggi dopo la pandemia, la crisi economica e ora la guerra, come ritieni che noi professionisti dobbiamo e possiamo investire in un rinnovato approccio alla public diplomacy?
Toni Muzi Falconi: «E’ necessario ritrovare il giusto tempo per guardare, e studiare, i valori della cultura liberale. Non c’è più tempo per correre inutilmente dietro a mille rivoli: questa è l’ora della responsabilità e della condivisione. E la public diplomacy, un modo nuovo per definire le relazioni pubbliche, può essere lo strumento giusto per rendere il mondo un posto migliore».
Nel libro di Nick Cull, edito alle Edizioni Olivares – “Public Diplomacy, Global engagment nell’era digitale”- la prefazione è affidata a Simon Anholt che scrive: «L’Italia è in molti sensi l’emblema del “soft power nation”… e i governi italiani dovranno investire molto per mantenere e migliorare lo straordinario prestigio internazionale che può essere raggiunto con duro lavoro e una strategia seria», nei mesi scorsi abbiamo analizzato insieme la quantità di corpi intermedi presenti in Italia e soprattutto a Roma, come cambia la definizione di public diplomacy alla luce della guerra in Ucraina ma anche alla luce della crescita del consenso e delle attese nei confronti delle organizzazioni private?
Toni Muzi Falconi: «Credo di non dire una eresia se affermo che pandemia e guerra hanno prodotto ovunque un vasto e profondo ripensamento dell’acquisito in ogni ambito, settore, luogo e ispirazione. Volendo ricominciare tenendo conto dell’accaduto, delle sue ragioni e delle diverse ipotesi di prospettive la public/cultural/social/corporate diplomacy sono secondo la mia opinione, un ragionevole e sensato punto di partenza. In effetti, in primis e fin da piccolo, la diplomazia è stata sempre il mio pane quotidiano e lo è ancora oggi a 81 anni compiuti: padre italiano, in carriera diplomatica e girovago per 60 anni nel mondo; madre anglo/irlandese figlia di un diplomatico; poi moglie, poi madre (mio fratello Livio, scomparso poco tempo fa, ha passato anche lui la vita in diplomazia). Infine, prima ancora che passasse sotto il controllo di Confindustria, avevo conseguito il mio primo Master in Relazioni Pubbliche nel 1964 alla Luiss, con Padre Morlion dell’Opus Dei e una dissertazione su: sindacato, la diplomazia e le relazioni pubbliche. Mi sono insomma sempre occupato di public, cultural, social e corporate diplomacy».
Quindi Toni ci conferma che il framework del futuro delle relazioni pubbliche, di cui lui è il decano italiano, è appunto la public diplomacy.
Ora partendo dalla definizione che l’amico e collega Luca Poma fa nel suo libro: «La public diplomacy consiste in un sistema di procedure, normalmente coordinate dalle stesse istituzioni, utili per intervenire sull’opinione pubblica del proprio e degli altrui Paese, con azioni di relazioni pubbliche finalizzate ad aumentare la pressione sul proprio governo, influenzandone o legittimandone le scelte. I principi generali sui quali si basa questa strategia vennero definiti dal politologo statunitense Nye negli anni ’80, che introdusse il concetto di soft power (potere morbido) intendendo con esso la capacità di influenzare le scelte e i comportamenti di diversi attori nell’arena internazionale (stati, aziende, comunità, pubblici, ecc) attraverso l’attrazione o la persuasione, anziché la coercizione» gli chiedo: Luca come è cambiata questa definizione alla luce della guerra in Ucraina?
Luca Poma: «Non penso sia cambiata, anzi, ha trovato vieppiù conferme. Come non evidenziare ad esempio l’intensa (ed eterodiretta, secondo alcuni) attività social del Presidente Zelensky? La leadership Ucraina ha reso plasticamente evidente l’importanza di un’intelligente, coraggioso e proattivo utilizzo dei canali digitali per “condizionare” l’opinione pubblica internazionale ed attraverso essa i Governi. Come scrivevo in una mia analisi circa 1 mese fa, come ben sappiamo la reputazione è un asset importante – il più prezioso tra quelli “immateriali” – che si costruisce assieme ai propri pubblici per durare nel tempo, ed essere poi “scambiata” con una più ampia licenza di operare. Autenticità, coerenza, comunicazione di valori conformi alla propria identità, capacità di gestire scenari di crisi e propensione ad assumersi le proprie responsabilità, tono deciso ma caldo, da comandante del proprio popolo: ecco i pilasti sui quali Volodymyr Zelen’skyi sta costruendo la propria rinnovata immagine, a rischio della vita.
Dal punto di vista della gestione della reputazione e del nation branding, a dispetto degli enormi mezzi dedicati alla propaganda, specie on-line, il Presidente Russo, in realtà, ha già perso questa “guerra della comunicazione”, che è anche e soprattutto una “guerra di relazioni” (più che mai pubbliche), e che dimostra una volta di più, qualora fosse necessario, l’importanza di saper gestire la diplomazia nel XXI secolo come un qualcosa di circolare e complesso, coinvolgente molti diversi attori tra protagonisti e comprimari, e non come si è fatto per secoli in modo frontale e binario – sequenziale».
Luca, nel tuo libro, citi una case history denominata: «La reputazione nella sfera politica: l’antimateria del crisis management». Ti riferivi alle giravolte, inconsistenze e persuasioni varie, senza fondamento e senza valori, poste in essere da una maggioranza a geometria variabile. Come è cambiata la reputazione del nostro paese dopo l’inizio del Governo Draghi?
Luca: «Dopo le assai deludenti performance dei Governi Conte, mediocri nella gestione della pandemia (Italia maglia nera in Europa su non pochi fronti), poco genuini e poco coerenti, e attenti soprattutto all’immagine (si ricordino le dirette Facebook a tarda notte volute da Casalino), con il Governo Draghi – continua Poma – il Paese ha ritrovato smalto. La linea politica può piacere o no, questo non si discute, ma altrettanto vero è che il profilo di autorevolezza dell’Italia è migliorato assai. E il “nation branding”, la costruzione del brand per un’intera nazione, parte della più ampia materia del reputation management, passa anche attraverso l’autorevolezza della leadership: la sensazione è che a livello internazionale quando Draghi alza il telefono ci sia qualcuno ad ascoltarlo, e che esista “un uomo al comando” a Palazzo Chigi. Che poi la direzione piaccia a tutti, questo non possiamo dirlo, e molte criticità del nostro sistema-Paese permangono intatte (magari bastassero due anni di governo a risolverle…), ma certamente la reputazione della nazione ha guadagnato punti con questo governo, e quindi – si spera – anche la nostra licenza di operare sui mercati internazionali».
Sia Toni Muzi Falconi che Luca Poma ritengono, quindi, che le relazioni pubbliche siano la disciplina, e la competenza principale, per la gestione della diplomazia pubblica e per la costruzione di quella aurea di negoziazione e di valori condivisi che rendono uno stato, attraverso il suo nation branding, un sistema complesso capace di dialogare a livello internazionale e capace altresì di costruire le corrette intersezioni internazionali per definire, accrescere e gestire la sua “licenza ad operare”. Ma come avete letto, i colleghi hanno detto anche molto di più.
Un libro che mancava nel panorama italiano
«Il ruolo della public diplomacy è sempre più cruciale in questa epoca di informazione globale e social media. Pochi autori sono in grado di guidare il lettore attraverso i nuovi aspetti della diplomazia meglio di Nick Cull, che nel libro “Public Diplomacy, Global engagment nell’era digitale” lo fa magistralmente»
commento di Joseph Nye, il padre del soft power.
La data dell’introduzione, dell’edizione inglese, è del maggio del 2018: quindi pandemia e guerra non erano ancora all’orizzonte. Eppure, questo libro può dare un contributo fondamentale, per l’impianto di ricerca e per le tecniche proposte, anche alle soluzioni di crisi devastanti come quelle che stiamo vivendo.
Molto attuale (e ora con la guerra in Ucraina anche molto forte) un passaggio che Cull riferisce in apertura del volume di una conversazione del suo figlio più piccolo Olly, con una sua coetanea: “bambina: ‘ Tuo padre non fa un lavoro vero. La public diplomacy non esiste’. certo che esiste, ha impedito che scoppiassero un bel po’ di guerre” Ah sì? E come si chiamavano? Facile: Si chiamavano tutte Terza Guerra Mondiale‘. Non cito questo passo per vanagloria (sebbene tutti i relatori pubblici sanno quanto sia difficile far capire il mestiere che facciamo). A volte semplice, ma più spesso complicato e complesso. Public Diplomacy è una funzione di governo di cui si sentirà sempre di più il bisogno” scrive appunto Nick Cull.
L’editore dell’edizione italiana del volume di Cull, e’ Federica Olivares: la più importante docente e studiosa di Public Diplomacy in Italia. È il Fondatore e Direttore del Programma Internazionale in Cultural Diplomacy (IPCD) – presso l’Università Cattolica – nonché del Master in Cultural Diplomacy: Arts e Digital Media for International Relations and Global Communication (in partnership con docenti da Oxford University, Digital Diplomacy Research Center e di University of Southern California).
Chiedo alla Professoressa Olivares: Avevamo bisogno di questo libro in italiano? Mi pare necessario non solo per avere un testo a cui fare riferimento per la disciplina, ma anche perché abbiamo il compito di accrescere il dibattito pubblico intorno ad un tema come la public diplomacy fondamentale per il futuro delle democrazie e dei sistemi liberali.
Federica Olivares: È proprio così. Infatti, mai come in questo complesso scenario geopolitico, dopo gli anni del terrorismo islamico internazionale, questo conflitto è invece “andato in scena” proprio nel Continente Europa nonostante l’apparente omogeneità culturale. Stiamo quindi intuendo di essere ben lungi dall’aver colmato un percorso di piena adesione ai valori civili basati sull’imprescindibile piattaforma: stato di diritto, pratiche democratiche, diritti umani e, aggiungerei, anche, su valori culturali condivisi che invece oggi appaiono come un immenso unfinished job. Ecco perché in questo drammatico frangente sta emergendo la consapevolezza dell’urgenza di una ulteriore armonizzazione non solo di leggi e regolamenti a livello europeo, ma anzitutto di un lessico civile e culturale condiviso nelle pratiche, a partire da quelle del paradigma introdotto dalla Public Diplomacy.
L’impianto della Public Diplomacy, come viene argomentato da Nick Cull, si basa su 5 pilastri fondamentali, che sono poi la struttura stessa del suo libro: Ascolto, Advocacy, Cultural Diplomacy, Exchange Diplomacy, International Broadcasting. Con un impianto che ha grandi punti di contatto con le relazioni pubbliche. Quali sono secondo lei le intersezioni disciplinari rispetto all’insegnamento delle relazioni pubbliche e della comunicazione che emergono dal modello di Cull, e quali le ripercussioni sul sistema complessivo della diplomazia pubblica e culturale?
Olivares: Anzitutto, sia Public Diplomacy sia Public Relations partono da una visione strategica complessiva, sono fortemente relazionali e utilizzano tutte le leve della ‘sinfonia timbrica’ della Comunicazione per raggiungere pubblici sempre più diversificati. Entrambe sono spesso confuse con qualcos’altro! Prendiamo, ad esempio, la Cultural Diplomacy che, come d’altra parte il Soft Power, non ha senso se non saldamente situati all’interno delle strategie complessive di politica estera di un Paese, della sua Public Diplomacy, appunto. La Cultural Diplomacy costituisce una forte leva, un braccio armato, per il Soft Power, che a sua volta rappresenta l’attrattività di un Paese basata sulla sua cultura, valori, ideali e politica estera. Ma la Cultural Diplomacy può essere anche uno strumento efficace, nella più ampia strategia di Public Diplomacy di un Paese, per trasformare la reputazione globale di un territorio. Un esempio per tutti: pensiamo a cosa abbia rappresentato per la reputazione e per l’economia di una città come Bilbao la costruzione del Guggenheim Museum nel 1997 che ha ridefinito quella che era la capitale del terrorismo basco in una meta iconica del turismo culturale globale, con tutti gli impatti sociali ed economici che questo innesto culturale è stato in grado di produrre. Già da queste prime considerazioni risulta evidente quello che la Cultural Diplomacy senz’altro non è: il taglio del nastro di mostre nazionali in sedi internazionali, ma è più precisamente: l’affermazione strategica e competitiva di un sistema culturale in un’ottica di economia della cultura. Può davvero rappresentare il braccio armato di una più ampia linea strategica di Public Diplomacy, in cui tutto sitiene: Soft Power, Cultural Diplomacy in tutte le sue infinite e rilevanti declinazioni per la creazione di valore e di influenza per un Paese, un territorio ma anche per un Continente come il nostro, il Continente Europa, oggi così lontano da quella definizione di solo pochi decenni fa: “Europa potenza civile”!
Come ci dice la Professoressa Olivares – Europa potenza civile – c’è da fare molto per renderla tangibile e sostanziale. Non sono certo che abbiamo ancora un lessico comune. Come Cull ci ricorda, il crescente interesse degli studiosi per la Public Diplomacy non ha ancora portato alla formulazione di una teoria complessiva della materia e ci troviamo piuttosto davanti ad una costellazione di contributi provenienti dalla storia, dalle relazioni internazionali e dalla comunicazione, senza dimenticare l’apporto delle scienze psicologiche e delle relazioni pubbliche. Di conseguenza il concetto, o meglio l’espressione public diplomacy, si è fatta strada in molti corsi di laurea specialistici.
Scambio culturale o strategic communications evocano retroterra diversi ma non confliggenti, così come nation brading fa pensare a qualcosa di creativo, metropolitano, di quelli con l’ufficio open space, il portofolio sotto il braccio e gli slogan sempre pronti. Come dice Cull anceh Public diplomacy richiama alla mente un’immagine specifica: quella di un professionista degli affari esteri (ma ancora prima delle relazioni pubbliche) che comunica per conto di uno stato: è un termine che è diventato molto influente non soli per la capacità degli stati di esportare il proprio pensiero ma anche per aver messo al centro il coinvolgimento di pubblici internazionali. Il modo della diplomazia gode di fama migliore di quella del mondo delle relazioni internazionali, certamente dell’ambito manipolatorio viene definito propaganda. Public diplomacy invece definisce più efficacemente il processo di coinvolgimento come forma di diplomazia, coè come uno dei modi in cui un soggetto internazionale cerca di gestire il contesto internazionale.
E come non dettagliare le determinanti dei due aspetti, public diplomacy e propaganda. La public diplomacy, come espressione delle relazioni pubbliche, si basa sulla verità è a due vie, ascolta per imparare, può cambiare mittente, è flessibile, è rispettoso degli altri è aperta, etica e sostenibile. La propaganda invece: seleziona la verità, quasi mai è a due vie, ascolta il target, ha lo scopo di cambiare solo l’obiettivo, presuppone che gli altri siano ignoranti o sbagliati, la propaganda è chiusa e può non essere etica . Non sfuggirà al lettore da che parte sta l’autore e soprattutto da che parte sta la vera professione del relatore pubblico: solo in una pratica sostanziata dalla competenza potremo attualizzare la leadership del comunicatore e del relatore pubblico e continuare a fare di questa professione il lavoro più bello e mondo.