La riforestazione e i Salgado: un sogno da quattro milioni di alberi
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La natura come orizzonte, la riforestazione come obiettivo tangibile. Sebastião Salgado, fotografo tra i più celebri del mondo. Lélia Deluiz Wanick artista, autrice e produttrice. Da quasi 60 anni condividono la vita quotidiana e le sue passioni. Insieme hanno viaggiato un po’ ovunque ma alla fine sono sempre tornati in quell’angolo di Vale do Rio Doce chiamato casa. Per curarlo, salvarlo, riportarlo letteralmente alla vita. Il progetto è iniziato nel 1998 con la fondazione dell’Instituto Terra ed è destinato ora a proseguire per lo meno fino al 2027 perseguendo un traguardo importante: l’impianto di un milione di alberi.
En 1998, Sebastião Salgado y su esposa Lelia Deluiz decidieron reforestar un bosque en Aimorés, Brasil. El antes y después es sorprendente, se cree que 172 especies de aves, 33 mamíferos, 15 reptiles y 15 anfibios han regresado a la zona. pic.twitter.com/90qJIhxC9N
— Imágenes Históricas (@HistorieEnFotos) May 3, 2019
Dal degrado alla riforestazione
Il progetto segue un percorso tracciato da tempo. Una missione elaborata e condotta nel suolo arso e desolato della Fazenda Bulcão che la famiglia del celebre fotoreporter aveva acquistato negli anni ’40. Deciso a favorire il pascolo degli animali, il padre di Salgado aveva progressivamente disboscato il terreno per vendere legname e piantare erba da foraggio. Molti anni più tardi, ritornando alla tenuta della sua infanzia, Sebastião faticò a riconoscere lo scenario: la terra ormai arida, le piante scomparse. Il degrado. Ovunque.
La riforestazione che ne è seguita porta oggi il nome di 290 specie di piante e centinaia di animali tornati ad abitare quei 700 ettari di terra tropicale ad Aimores, nello Stato di Minas Gerais. Ed esplode, rigogliosa, all’ombra degli alberi impiantati nel tempo: tre milioni di esemplari fino ad oggi, che diventeranno quattro dopo il completamento del programma.
L’obiettivo? Rigenerare il suolo e la biodiversità
L’operazione, condotta dall’Instituto Terra in collaborazione con la compagnia assicurativa elvetica Zurich, è iniziata a novembre dello scorso anno con la semina delle prime 100mila piantine. L’obiettivo della riforestazione è quello di ripristinare il bioma originario della foresta rigenerando il suolo e la sua biodiversità e contrastando il cambiamento climatico. Un programma ambizioso che assume un significato particolare in un Paese che da tempo fa i conti con un uso indiscriminato del territorio. “Quella di Lélia Wanick e Sebastião Salgado è un’azione visionaria e rivoluzionaria in una regione, in un Paese e in un continente devastati dalla continua deforestazione e dall’uso intensivo e insostenibile delle terra con conseguente degrado, abbandono ed esodo rurale”, ha dichiarato Isabella Salton, direttore esecutivo dell’Instituto Terra.
L’introduzione delle specie arboree nell’area, precisa l’istituto, dovrebbe consentire all’ecosistema forestale in via di recupero “di riprodursi da solo in modo permanente”.
Arrivano le città circolari
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New York, ore 6. Lungo l’Holland Tunnel, principale arteria autostradale della Grande Mela, che collega il New Jersey con Manhattan, migliaia di camion e furgoni entrano nella città carichi di cibo, combustibili e merci per soddisfare 14 milioni di cittadini. Sul lato opposto decine di camion della spazzatura trasportano rifiuti di ogni tipo verso il centro di smistamento nei pressi dell’aeroporto di Newark.
A Newtown Creek, Brooklyn, l’impianto di depurazione, noto per l’iconica forma dei quattro coni d’acciaio alti 42 metri processa milioni di litri di reflui delle case dei newyorkesi. Migliaia di persone intanto stanno procedendo con la raccolta dei rifiuti domestici: fino a sera il traffico di nuove merci e nuovi rifiuti procederà attraverso i punti d’uscita e d’entrata della città. Uno scenario comune a tutte le grandi città del mondo, che ogni giorno metabolizzano materie prime, energia, acqua, prodotti, cibo ed espellono rifiuti in ogni forma (emissioni, reflui, rifiuti).
Le città oggi consumano circa il 75% delle risorse naturali, producono oltre il 50% dei rifiuti a livello globale, mentre emettono tra il 60 e l’80% delle emissioni di gas serra. In meno di tre decenni, due terzi della popolazione mondiale vivrà in aree metropolitane. Guardando al futuro, questo modello lineare miope non può sostenere un futuro sostenibile.
Serve dunque modificare e curare il metabolismo delle città, riducendo in parte la quantità di materia che entra e limitando la produzione di rifiuti, che devono diventare da scarto una risorsa.
Secondo gli esperti, il passaggio alla modalità circolare, basata su riduzione dei consumi, allungamento della vita dei prodotti, condivisione e riuso/riciclo, offrirà alle città l’opportunità di riconsiderare il modo in cui produciamo e consumiamo aprendo nuove opportunità di impresa, liberando spazi sociali inclusivi e rendendo gli spazi che abitiamo più salubri e sicuri.
Le città hanno un vantaggio nella transizione circolare, sostiene C40 Cities, un network globale che unisce le più grandi metropoli del pianeta: avere persone, produttori, rivenditori e servizi così vicini tra loro può facilitare la creazione di reti e flussi di economia circolare. Secondo il position paper sulle circular cities di Gruppo Enel, da anni oramai attore di riferimento sulla circular economy a livello internazionale, sono i cinque pilastri dell’economia circolare a determinare la struttura di questa auspicabile rivoluzione urbana: input sostenibili (fonti rinnovabili, riuso, riciclo), estensione della vita utile di asset e prodotti, sharing, prodotto come servizio, valorizzazione del fine vita dei beni (riciclo, riuso, upcycling). Dentro queste macro-categorie ricadono praticamente tutte le innovazioni e transizioni necessarie per la città del domani: dalla mobilità alle reti energetiche, dal design di prodotti e servizi al sistema cibo, dalla riprogettazione dei quartieri e degli edifici al sistema del retail.
C’è poi un altro elemento fondamentale: la centrale acquisti della pubblica amministrazione. In inglese si chiama Green Public Procurement, di fatto è la lista della spesa delle amministrazioni, dalla cancelleria agli edifici che possono orientarsi sempre di più su soluzioni sostenibili e circolari. Servono nuovi mobili per la scuola? Si favoriscono materiali riciclati. Bisogna cambiare la flotta del municipio? Si usino sistemi di sharing e veicoli elettrici. E via dicendo. Devono essere proprio le città a dare l’esempio. Vediamo allora chi guida questa trasformazione.
Amsterdam, l’avanguardia circolare
Il simbolo indiscusso delle circular cities è la città di Amsterdam che ha puntato la sua strategia di sviluppo circolare sulla riduzione degli sprechi e l’innovazione. Tutto è iniziato con la mappatura e identificazione delle aree in cui sarebbe possibile applicare modelli di business circolari, evidenziando le strategie per l’attuazione pratica di queste soluzioni sostenibili. Il piano si è chiamato City Circle Scan, implementato da un ufficio dedicato della municipalità e dal think tank Circle Economy. Dagli scarti del pane per produrre birra al riuso del materiale da demolizione degli edifici passando per un mega hub di imprese presso il Porto che usano scarti alimentari per produrre biomateriali. E ancora educazione al riciclo, ristoranti che servono gli scarti dei supermercati (con piatti realizzati da chef da stella Michelin), edifici modulari che possono facilmente cambiare destinazione d’uso, riuso dei materiali reflui dai depuratori, e tanto altro.
Secondo il comune l’implementazione di strategie di riutilizzo dei materiali vale 85 milioni di euro all’anno nel settore delle costruzioni e 150 milioni di euro all’anno nella chimica sfruttando la frazione organica dei rifiuti in maniera innovativa. Quando il piano sarà a pieno regime nel 2025 si risparmieranno annualmente fino a 900 mila tonnellate di materie prime, una quantità significativa rispetto all’attuale importazione annuale di 3,9 milioni di tonnellate di materie prime. In termini di posti di lavoro? L’aumento dei livelli di produttività ha la capacità di aggiungere fino a 700 posti di lavoro aggiuntivi nel settore edile e 1200 posti di lavoro aggiuntivi nell’agricoltura e nell’industria di trasformazione alimentare. Non male per una città di 800mila abitanti.
Glasgow, un futuro post-industriale
La spinta è arrivata dall’iniziativa Circular Glasgow. Un piano per aiutare le attività commerciali di diversi settori a comprendere e adottare strategie economiche circolari, attraverso l’innovazione, la progettazione e nuovi modelli di business. La cittadina scozzese, divenuta nota per la conferenza sul clima del 2021, ha come obiettivo quello di diventare una delle prime città circolari e a “prova di futuro” del mondo. Hanno deciso di partire subito con le imprese della città, aiutandole a trovare nuove fonti di reddito tramite processi di riciclo, riuso, riparazione e ad essere allineate alla legge sul clima, che punta a rendere Glasgow a emissioni nette zero entro il 2045.
Uno dei fiori all’occhiello è il Construction Waste Portal, una piattaforma che aiuta a trovare una destinazione ai rifiuti edili ancora prima che inizi la costruzione o rigenerazione di un cittadino. Tanta attenzione anche al settore alimentare, con rigide politiche sul food waste e l’uso degli scarti per l’agricoltura urbana, dai quali si produce persino la birra. Per i cittadini la raccolta differenziata è motivo di orgoglio. Per questo la quantità e la qualità del riciclato sono tra le più alte in Europa. Un po’ di campanilismo serve, se lo scopo è rendere più efficienti ed ecosostenibili le nostre città.
Milano: lo scarto alimentare, un tesoro prezioso
«Il Comune di Milano si è posto una serie di target chiari, per facilitare e velocizzare la transizione verso l’economia circolare», spiega Piero Pelizzaro, già Chief Resilience Officer del Comune di Milano. «Questi includono una riduzione delle emissioni del 45% al 2030 attraverso l’uso di fonti rinnovabili per la produzione energetica, la riduzione dei consumi energetica e la transizione elettrica del trasporto pubblico locale, un tasso di riciclo del 70% entro la fine del decennio, riduzione del 15% della quantità di rifiuti prodotti da ogni cittadino, aumentare la presenza, l’utilizzo e le tipologie di Car Sharing (PUMS e PGT), Piantumazione di 3 milioni di alberi equivalenti entro il 2030».
Secondo una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca, il capoluogo lombardo si conferma nel 2020, al primo posto delle circular cities italiane, grazie a sistemi di trasporto pubblico ramificati e apprezzati, servizi avanzati di car sharing, rete idrica innovativa (vari sistemi di recupero dei reflui per fare biogas e ammendanti), elevato livello di raccolta differenziata (oltre il 60%) e alto fatturato delle attività di vendita dell’usato. Sono innumerevoli i progetti, come ad esempio OpenAgri, focalizzato sull’agricoltura periurbana nel comune di Milano che oggi funge da laboratorio vivente per l’innovazione circolare lungo la filiera alimentare. Oppure il progetto Centrinno (“New CENTRalities in INdustrial areas as engines for inNOvation and urban transformation”) che ha come obiettivo principale la rigenerazione delle aree urbane storiche e dei siti culturali in hub di imprenditorialità e di integrazione sociale e culturale. O ancora lo splendido Circular Economy Lab, dentro Cariplo Factory, che promuove la nascita di progetti di economia circolare industriali e di start-up. «Abbiamo un ecosistema vivace, con strategie efficaci – basti pensare che più del 50% dell’umido viene avviato a compostaggio o alla produzione di biometano – e una buona partecipazione dei cittadini. Spingere su politiche di economia circolare in città ci può aiutare ad affrontare shock ambientali ed economici», conclude Pelizzaro.
CityLife, rigenerare circolare è possibile
Non c’è luogo più iconico di Milano del nuovo spettacolare progetto CityLife, che ha riqualificato il quartiere Fiera di Milano, un tempo periferia di nessun interesse e oggi landmark metropolitano visitato da tutto il mondo per il suo pregio architettonico e i suoi store.
Quello che forse turisti e influencer non sanno, mentre si scattano selfie e postano video su Tiktok, è che si trovano in uno dei progetti urbanistici più sostenibili e circolari della città. Innanzitutto è una delle più grandi aree pedonali urbane in Europa, con splendidi spazi verdi dove rilassarsi o giocare con amiche e amici. Nel verde è incastonato un gioiello di efficienza energetica: tutti gli edifici hanno elevate prestazioni energetiche e integrano tecnologie di riscaldamento e raffrescamento a emissioni zero al punto da ricevere la prestigiosa certificazione LEED Gold.
Ma è sull’economia circolare che CityLife dà del suo meglio. A partire dai materiali, dato che oltre il 20% proviene da input riciclati, oltre il 95% dei rifiuti di cantiere sono stati inviati a riciclo e una parte rilevante degli edifici residenziali usa finiture in legno proveniente da foreste gestite in maniera responsabile.
CityLife si è affidata a Enel X come partner strategico per il disegno e l’implementazione di un nuovo piano di sostenibilità ed economia circolare. Lo scorso anno si è iniziato con l’analisi di circolarità dei nuovi edifici residenziali e del parcheggio sotterraneo. Il risultato? Un piano urbano integrato che usa le soluzioni di Enel X sull’uso intelligente dell’energia, sulla mobilità circolare ed elettrica e di illuminazione intelligente (notate i lampioni che si accendono quando si avvicina qualcuno!).
Grazie a queste analisi ed interventi si potrà fornire un contributo al percorso di decarbonizzazione e sostenibilità avviato nell’area, contribuendo al contempo a strutturare un’informazione trasparente e chiara per far capire come anche il mondo delle costruzioni e dell’immobiliare può fare la sua parte nella fatidica lotta contro il clim
La curva di efficacia nell’adesione dei brand alle cause sociali
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La drammatica vicenda ucraina si è imposta con immediata urgenza alla sensibilità collettiva europea. E non poteva che essere così. Una guerra antistorica dentro l’Europa, civili straziati, evocazione del nucleare, drammatici appelli del leader e dirette social costanti dagli stessi assediati, rappresentano una narrazione inquietante e totalizzante. Uno scenario che ha portato inevitabilmente le principali aziende internazionali a cercare delle forme di coinvolgimento. Chi prima, chi dopo. C’è chi, ancora traccheggiando, soppesa il minor danno tra la perdita immediata del mercato russo e il potenziale danno reputazionale a livello globale per “omessa indignazione” e chi invece ha già sbarrato ogni porta a Mosca. Chi esprime una solidarietà leggera e tutta social, e chi invece si attiva con azioni più concrete, in linea con il proprio purpose. Infine, c’è chi –specchio dei tempi- adotta scelte insensatamente radicali, che puzzano di cancel culture. Ma, più o meno tutti, indirizzando un proprio segnale al mercato russo, cercano di sintonizzarsi su quel sentimento di sdegno dell’opinione pubblica internazionale.
D’altra parte, in tempi di preteso e atteso attivismo dei brand, dove si chiede alle marche di dimostrare una propria coscienza, le immagini di bambini uccisi in una guerra d’aggressione -in terra d’Europa!- non possono non determinare un immediato moto di turbamento. La rapidità con cui l’opinione pubblica europea ha reagito in questo caso, non deve stupire. Condannarle come il disvalore massimo, è ormai diventata parte del nostro stesso dna continentale, un principio metabolizzato e oramai acquisito da decenni, dopo gli orrori di due guerre mondiali. Ma ricordiamoci che i primi sostenitori del pacifismo laico, agli inizi del novecento in Europa, rappresentavano poco più che una bizzarria. Usualmente, infatti, esiste un tempo di gestazione per le cause sociali. Una istanza di questa natura, di norma, nasce fragile e vulnerabile, minoritaria e controcorrente. Ma poi cresce col tempo, di pari passo alla diffusione nella società di quella sensibilità che la riconosce come tale. Ci possono volere anni per la sua affermazione, decenni, o generazioni. Basti pensare al razzismo, alla sensibilità ambientale, a al rispetto degli orientamenti sessuali. Dipende dal grado di predisposizione di una collettività a riconoscere, in determinati comportamenti, quel disvalore che li rende non più accettabili, non più tollerabili. Si tratta di un percorso graduale e complesso, non sempre lineare, ma che ha sicuramente nella acculturazione di massa e nella libera diffusione delle informazioni (leggi, grado di civiltà), due fondamentali acceleratori nella società.
Oggi “esplodono” cause sociali dopo percorsi di crescita durati decadi, costellati da migliaia di episodi di denuncia e di sensibilizzazione, prima di fare breccia nell’opinione pubblica tanto da diventarne una battaglia prioritaria. Cause che, nel tempo, si sono infiammate per singoli episodi di cronaca e poi riassopite, perché in quella collettività di riferimento non si erano ancora diffusi sufficientemente gli anticorpi atti a combattere quella battaglia in modo continuativo. Dunque, un terreno complesso e scivoloso per le aziende, dove orientarsi e compiere la scelta più corretta di sintonizzazione, rappresenta una forma di decisone critica. Ma il tempo, anzi la tempistica, conta. E tanto. E’ indubbio che proprio nel “momento” in cui verrà operata una scelta, risieda una parte determinante del valore della medesima. Perché la decisione del sostegno ad una causa sociale avrà sempre più, per i consumatori, un valore diverso a seconda della tempistica con cui questa verrà espressa dal brand, secondo un paradigma di autenticità e credibilità che ne determinerà, in ultima analisi, il vero valore reputazionale.
E questa gradazione potrebbe essere espressa attraverso un diagramma rappresentabile come una sorta di curva e segmentabile in un processo a tre fasi. Un modello secondo cui, al dilatarsi del tempo, si riduce proporzionalmente l’efficacia raggiunta. Quando un tema inizia ad emergere per la prima volta in una comunità è quasi sempre minoritario, scomodo, controverso, talvolta disturbante per la maggioranza e dunque divisivo. In questa fase, per una azienda che ambisce ad avere un pubblico di riferimento più vasto del target che sostiene quel tema, supportarlo rappresenta un azzardo, un rischio, significa esporsi tra i primi dalla trincea, rischiando il fuoco nemico delle polemiche. Ma rappresenta altresì un enorme patrimonio di autenticità e di credibilità da cogliere. Essere stati tra i primi e tra i pochi, a compiere una scelta (in quel momento) difficile, resterà nella storia di quella marca, forgiandola.
Proseguendo, in una fase successiva, all’affermarsi della sensibilità su quel tema, questo diventerà gradualmente maggioritario nella società e scegliere di schierarsi a suo favore verrà percepito come una scelta che prevede un rapporto costo/opportunità adeguato. Ma esattamente per questa ragione, risulterà altresì minore il profitto generato in termini di reputazione conseguita. Una scelta meno rischiosa, meno pura, è più conveniente dunque “vale” meno. In questa fase si assisterà probabilmente ad un costante e graduale aumento delle aziende che decideranno di schierarsi a sostegno. Tutti cercano di comprare una azione quando questa è in ascesa.
Infine la terza fase, quella che potremmo definire del “conformismo”. Il tema è ormai esploso, main stream e maggioritario nella società, la sensibilità comune lo ha eletto a bandiera di civiltà. Le aziende si affollano in scia nella speranza di coglierne ancora un valore di posizionamento, o per lo meno evitarne un pregiudizio. Ma a questo punto è tardi per cogliere un profitto vero. Questa è una scelta ormai obbligata, dettata dalla pressione critica dei consumatori. Semplicemente non si può più non farlo, perché questo potrebbe determinare un danno di reputazione di lungo periodo e significativa rilevanza. Ma proprio perché il valore marginale comunicativo conseguito in una fase di livellamento è ridotto, sarà esattamente a questo stadio che si assisterà ad alcuni degli errori più grossolani compiuti dalle aziende. Perché, per cercare di differenziarsi, per mostrare una adesione alla causa più sincera di quanto la tempistica suggerirebbe, si sarà tentati di urlare di più, di caricare i toni, con effetti talvolta controproducenti in quanto innaturali, insinceri, artefatti e persino caricaturali. Gli esempi di disastrose campagne di puro woke washing in questo senso, si sprecano. Ma non c’è solo questo. E’ chiaro che pubblici più attenti e consapevoli (pensiamo alla generazione Z, ipersensibile, che non si accontenta e soprattutto non dimentica), sanzioneranno comunque l’attendismo di aziende ritenute abitualmente più reattive a queste tematiche. Semplicemente perché, a loro parere, avrebbero potuto e dovuto agire prima, senza un eccessivo calcolo opportunistico.. Il delicato obbiettivo da raggiungere è dunque la percezione che la propria scelta di adesione alla causa sia autenticamente generata da ragioni etiche, in quanto mediata il meno possibile da eccezioni di convenienza economica. E tornado all’attualità, proprio qui risiederà la vera difficoltà per i brand che hanno scelto di dare un segnale forte alla Russia, a seguito dell’invasione. Perché la autenticità della loro scelta, dunque la loro stessa credibilità, verranno presto messe alla prova dalla durata del conflitto e dalle sue conseguenze. Perché, se il conflitto proseguirà a lungo o se terminerà asimmetricamente, raggiungendo cioè solo gli obiettivi di chi lo ha iniziato, sarà difficile tornare in quel mercato mantenendo una coerenza con le posizioni iniziali. In particolare, per le aziende che hanno in quella specifica area un target importante. Quanto potranno reggere?
Le emissioni di CO2 continuano a crescere: le strategie in campo non funzionano
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Il rapporto dell’IPCC relativo al 2021 è passato quasi sotto silenzio, oscurato dalle notizie minacciose dall’Ucraina. Ma ci dice cose altrettanto allarmanti. In sintesi nel 2021 le emissioni di CO2 hanno raggiunto il loro picco storico. Continuano a crescere sia per la quantità annua, superiore nel 2021 a quella di qualsiasi anno precedente, sia ovviamente per il totale accumulato. Nessun segno di inversione nonostante le roboanti promesse e impegni presi dai Governi di un po’ tutto ill mondo.
Non funziona il disaccoppiamento, vale a dire la crescita economica senza quella della CO2: anzi la crescita delle emissioni supera quella del PIL. In altri termini ad ogni unità di PIL aggiunta nel mondo corrisponde un uguale o leggermente maggiore quantità di CO2 emessa. La ragione principale sta nell’aumento dell’uso del carbone nella produzione di energia elettrica. Crescono anche le fonti rinnovabili e molto, ma non in misura tale da poter compensare le nuove emissioni del carbone. Piuttosto le rinnovabili cannibalizzano la produzione elettrica da nucleare, per esempio in Germania, con il bel risultato che una fonte a emissioni zero, il nucleare, viene a mancare e non si arresta la crescita del carbone.
La parte maggiore la fanno naturalmente i Paesi in via di sviluppo, Cina e India per esempio, affamati di energia per supportare la loro crescita economica. Ma non è che nei Paesi occidentali le cose vadano molto meglio. Il fatto è che i consumi di carbone, gas e petrolio non accennano a diminuire e anzi le previsioni per l’anno in corso, nonostante il loro prezzo sia aumentato in maniera vertiginosa, fanno prevedere un nuovo incremento.
I dati impietosi mostrano con evidenza ciò che qualcuno chiamerebbe l’ipocrisia degli Stati che non rispettano le promesse fatte. Ma è una spiegazione moralista e semplicista. La verità è che non funzionano le strategie messe in campo. Non funzionano da anni e servirebbe una riflessione seria e magari politicamente un po’ più scorretta, anziché continuare a ripetere banalità inefficaci. L’uscita dai combustibili fossili, la fonte di energia in assoluto più largamente usata, non è dietro l’angolo ed è anzi un compito immane. Lasciare credere che con un po’ più di rinnovabili si risolva il problema è un evidente sottovalutazione. Lo si è visto con chiarezza anche in questa crisi e anche in Europa dove per fronteggiare la dipendenza dalla Russia e l’aumento dei prezzi si è dovuto ricorrere largamente al carbone e ci si è affannati a trovare gas ad ogni costo e da ogni parte del mondo. Possiamo continuare con narrazioni autoconsolanti e con promesse irrealizzabili. Ma ogni anno i numeri ci parlano di una realtà completamente diversa.
Prende slancio l’interesse della moda per gli NFT
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Non è una novità che NFT e blockchain siano attualmente ritenuti un investimento privilegiato da parte del crimine organizzato. L’anonimato offerto dalle transazioni operate in criptovalute fornisce il genere di privacy ideale per ripulire ogni genere di provento illecito, spaccio di stupefacenti, prostituzione o commercio di armi che sia: un click sullo smartphone risulta più comodo dei tradizionali investimenti in ristorazione, immobiliare o società calcistiche tipico delle mafie di tutto il mondo. Persino i Paesi europei – quelli che da sempre basano la loro economia sulla movimentazione della valuta – mostrano di essere all’opera nella costruzione di autostrade informatiche utili a questo tipo di scorrimento. La criminalità organizzata dunque usa l’elemento digitale per volatilizzare il surplus creato da reali attività illecite. Esattamente al contrario e senza illeciti operano i brand della moda: per questi ultimi, l’interesse per gli NFT ha l’obiettivo di pescare nel digitale clienti attirati all’esperienza fisica che viene loro abbinata. Secondo la società di investment banking Morgan Stanley, videogiochi e NFT potrebbero costituire il 10% del mercato dei beni di lusso entro il 2030, con un’opportunità di guadagno di 50 miliardi di euro.
MODA E NFT
Lo scorso 8 dicembre Balmain ha lanciato il suo terzo NFT. Particolarmente coinvolgente l’articolazione del progetto che lo sorregge: il token rappresenta un paio di trainer nate in collaborazione con Dogpound, la palestra più frequentata dalle celebrities di New York e Los Angeles. La sneaker reale, denominata BBold Dogpound, è poi stata messa a disposizione in quantità limitate per l’acquisto nel webstore di Balmain e contemporaneamente in quello di Dogpound. Prezzo base: 1.069 dollari. Possedere l’NFT di questa trainer significa ottenere non solo la sua immagine digitale, ma una tessera grazie alla quale accedere a una sessione personalizzata con il fondatore di Dogpound, Kirk Myers; aggiudicarsi due biglietti per il prossimo fashion show di Balmain; addirittura ottenere due ingressi nel suo backstage. I proprietari dell’NFT naturalmente possono scegliere di rivendere questo privilegio a un prezzo a loro scelta. Ma non è questo che conta per il brand: nel progetto – sino a ora tra i più evoluti – la sovrapposizione tra digitale e fisico propone un’esperienza esclusiva (tipica del “lusso”) ma allo stesso tempo inclusiva (tipica del web). Balmain (proprietà di Mayhoola Investiments, fondo sovrano dell’emiro del Qatar, come il marchio Valentino) e il suo direttore artistico Olivier Rousteing hanno rispettivamente 11 e 7 milioni di follower su Instagram. L’intento è monetizzare questo vasto seguito digitale in modo coinvolgente: la vetrina luccicante della boutique di un centro cittadino, dopo diciotto mesi di pandemia, appare preistoria.
NFT: DA GUCCI A DOLCE & GABBANA
Balmain non è il solo a muoversi con decisione in questa direzione. Lo scorso maggio, Gucci ha messo all’asta un video NFT – Aria di Alessandro Michele e Floria Sigismondi – da Christie’s per 20mila dollari (tanto Gucci che Christie’s appartengono alla holding francese Artemis). Burberry, in collaborazione con Mythical Games, ha prodotto un NFT in-game per Blankos Block Party ad agosto. Sempre in agosto, all’interno del videogioco Louis the Game di Louis Vuitton sono stati inseriti 30 NFT dell’artista Beeple: ognuno poteva essere rinvenuto solo giocando e in ogni caso non rivenduto. A ottobre è arrivata la Collezione Genesi firmata Dolce & Gabbana: avrebbe nel suo insieme realizzato all’asta 1885,73 ethereum (circa 6 milioni di dollari al cambio attuale). Si è trattato della prima collezione moda dove sono comparse tanto creazioni fisiche che virtuali, comunque vendute secondo il modello NFT, in collaborazione con la piattaforma specializzata UNXD, appoggiata a sua volta a Plygin per facilitare la connessione con le blockchain. Givenchy il mese seguente ha lanciato la sua seconda collezione di quindici NFT dell’artista Chito, che è possibile acquistare sul marketplace specializzato OpenSea. A dicembre si è fatta viva pure Adidas: la divisione moda del colosso tedesco Adidas Originals ha lanciato una collezione NFT di prodotti sia fisici che digitali rivelata attraverso fumetti creati in collaborazione con Bored Ape Yacht Club, l’influencer NFT Gmoney e Punks Comics.
“La vetrina luccicante della boutique di un centro cittadino, dopo diciotto mesi di pandemia, appare preistoria”.
I brand che sono in grado di affrontare gli investimenti adeguati a operazioni del genere (per gli altri la competizione è sempre più ardua) considerano l’ambiente NFT come un nuovo necessario canale di distribuzione, un modo per rimanere rilevanti anche nella demografia del metaverso. Tutto questo è così vero che persino i media cartacei tentano un disperato inseguimento, e non solo quelli della moda. Vogue Singapore lo scorso settembre ha stampato al centro della sua copertina un codice QR che, una volta scansionato, rivela due immagini digitali poi messe all’asta come NFT. Fortune ha recentemente messo all’asta alcune copertine NFT raccogliendo 1,3 milioni di dollari, mentre le copertine NFT di Time Magazine a marzo sono state vendute all’asta per 435mila dollari.