Il progetto di Calvin Klein per scoprire giornalisti di musica emergenti
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Calvin Klein ha collaborato con la rivista musicale Wax Poetics, nata nel 2001 come magazine dedicato al contemporary jazz, funk, soul, Latin, hip-hop, reggae, blues, and R&B, per celebrare una nuova generazione di giornalisti che hanno ridefinito il panorama musicale contemporaneo attraverso un approccio innovativo e personale. Intitolato Plugged In, l’iniziativa fa luce su quattro scrittori musicali emergenti a cui è stata data la possibilità di condividere le loro storie, lo stile e il linguaggio individuale con il pubblico di Calvin Klein, sulla scia dell’acclamato progetto dello scorso anni, Self Published, in collaborazione con Dazed per presentare le migliori riviste emergenti di tutta Europa. Selezionati tra oltre 100 candidati, a ciascuno dei giornalisti sono state offerte risorse educative, tutoraggio da esperti e commissioni pagate per creare un lungometraggio sul loro argomento musicale preferito.
I talent selezionati provengono da tutto il mondo e comprendono la scozzese Maeve Hannigan, giornalista musicale e creativa, che esplora la scena jazz emergente di Glasgow, Vuyokazi Mtukela, poetessa e critica culturale sudafricana, Violeta Arango, ricercatrice, fotografa, visual artist e scrittrice basata tra Londra e le Isole Canarie, la scrittrice musicale Amelia Fearon che riflette sulla scena post-punk di Manchester. Sulla partnership Brian DiGenti, Editor-in-Chief di Wax Poetics, ha dichiarato: “Dal nostro rilancio, abbiamo deciso di fornire quanto più supporto possibile agli scrittori e ai content creator più giovani. Calvin Klein è stato un partner straordinario nell’aiutare a realizzare tutto questo. Siamo stati sopraffatti dalla qualità e dall’energia che i candidati e i vincitori hanno portato e non vediamo l’ora di vedere cosa riserva loro il futuro”.
Le storie uniche e i video ritratti dei giovani scrittori sono da oggi disponibili su calvinklein.it e su waxpoetics.com.
I cripto-attivisti raccolgono 54 milioni di dollari per la liberazione di Assange
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Un collettivo di cripto-attivisti ha lanciato una campagna per raccogliere fondi in favore del fondatore di Wikileaks, Julian Assange, e impedirne l’estradizione negli Stati Uniti, raccogliendo in pochi giorni – con la partecipazione di 10 mila persone – la cifra di 54 milioni di dollari. A parte l’ammontare della cifra si dirà che non c’è nulla di straordinario. Ma questa campagna potrebbe essere uno spartiacque nella storia dell’impegno politico in rete per diversi motivi. Intanto è stata lanciata via Telegram, “il collettore fognario di Internet”, come lo chiamano i suoi detrattori, ma stavolta l’app di messaggistica è stata usata con uno scopo etico e un intento collaborativo; la seconda è che a lanciarla sono stati dei crypto-attivisti, cioè programmatori e ingegneri, esperti di finanza decentralizzata con un’uguale passione per il mondo delle criptomonete, cioè le valute digitali elettroniche come Bitcoin, Ether, Litecoin, eccetera; la terza è che il progetto è una Dao basata su Blockchain.
Per capirci subito e usando un linguaggio semplificato, una Dao è una “Organizzazione autonoma decentralizzata” e nel mondo delle cripto è un’organizzazione a rete il cui orientamento e potere esecutivo (la “governance”) sono ottenuti e gestiti attraverso regole codificate da programmi per computer chiamati Smart contract. E questi contratti sono detti smart perché entrano in vigore solo a certe condizioni, in genere se si ottiene ciò per cui si “firma” il contratto, senza far uso di intermediari. Ma soprattutto significa che tutte le transazioni finanziarie Dao, insieme alle regole, sono conservate in una base dati di tipo blockchain, un libro mastro digitale irrevocabile e distribuito che ne tiene traccia e ne impedisce le falsificazioni grazie al concetto di marca temporale.
Tutti possono partecipare alla Dao per Assange, e coloro che contribuiscono al progetto ricevono il token di governance “$Justice”, che conferisce loro potere sulla direzione futura della Dao. Scopo finale del progetto è quello di utilizzare il denaro raccolto per fare un’offerta su una collezione Nft, i Non Fungible Token che certificano in maniera univoca la proprietà di un file digitale, realizzata dall’artista di musica elettronica “Pak”, proprio in collaborazione con Assange e intitolata “Censored”. Il progetto, chiamato AssangeDao, ha già raccolto 54 milioni di dollari in moneta Ethereum (Eyh) da quando è stato lanciato il 3 febbraio come si può vedere da Juicebox, un sito dedicato alla creazione di finanziamenti per questo tipo di progetti.
È la più grande raccolta fondi di Juicebox Ethereum nella storia, avendo superato sia la ConstitutionDao creata per acquistare una copia originale della costituzione degli Stati Uniti, che ha accumulato 11.613 Eth sia FreeRossDao che ha cercato di raccogliere fondi per assicurare il rilascio di Ross Ulbricht, il fondatore del mercato online Silk Road che all’epoca, raccolse oltre 12 milioni di dollari in Eth. Scopo dichiarato di AssangeDao è però “ispirare una potente rete di solidarietà e combattere per la libertà di Julian Assange” col fine di aumentare la consapevolezza pubblica della sua lotta e per “le implicazioni sulla libertà di parola che il suo caso rappresenta”.
Il gruppo di attivisti delle cripto, cypherpunks come lo era Assange da giovane (di lui si disse che partecipò alla nascita di Bitcoin, ma senza prove), ha incominciato a parlarne su Telegram il 10 dicembre scorso, quando gli Stati Uniti hanno vinto l’appello contro la sentenza di un tribunale britannico che impediva l’estradizione di Assange in America. L’AssangeDao ha iniziato a riunirsi su Telegram lo stesso giorno perché “Se estradato negli Stati Uniti, Assange rischia 175 anni di prigione per aver pubblicato informazioni veritiere”, quelle sui crimini di guerra americani in Iraq e Afghanistan.
La decisione sull’estradizione dell’hacker attivista di origine australiana è stata nel frattempo ribaltata da un’altra corte inglese e pochi giorni fa Julian Assange è stato candidato al Nobel per la pace dal deputato tedesco Martin Sonnenborn. Ma è tuttora detenuto nel carcere inglese di Belmarsh dove si è seriamente ammalato. Di lui l’inviato speciale delle Nazioni Unite contro la tortura, Nils Melzer, ha detto che “è stato torturato psicologicamente” visto che per sfuggire alla cattura per un reato che non aveva commesso si è dovuto rifugiare per sette anni nei 20 metri quadrati della stanza a lui assegnata nell’ambasciata ecuadoriana a Londra prima di esserne espulso dal presidente ecuadoriano Lenin Moreno che gli aveva ritirato l’asilo.
Secondo l’hacker artivista (crasi delle parole art più activism) e cypherpunk italiano Denis “Jaromil” Rojo, “l’evento ricorda il grande successo di Wikileaks nel raccogliere donazioni già nel 2010. Fu proprio sull’onda di tale successo che Bitcoin crebbe a partire dalla sua adozione come canale di finanziamento indipendente per l’organizzazione. Oggi l’iniziativa AssangeDao propone una dimensione partecipativa aggiuntiva: oltre a supportare le spese processuali per la difesa di Julian Assange l’iniziativa metterà in campo una piattaforma decentralizzata decisionale per l’amministrazione dei beni condivisi come l’Nft acquistato, di fatto costituendosi come un’organizzazione guidata dal volere di migliaia di investitori”.
Politico Sud Corea diventa avatar, spopola in vista elezioni
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n Corea del Sud esperimento tecnologico in vista delle elezioni del 9 marzo.
Il team del candidato del People Power Party, il conservatore Yoon Suk-yeol, 61 anni, ha sviluppato un avatar digitale.
Usa un linguaggio sviluppato dall’Intelligenza Artificiale con lo scopo di attrarre gli elettori più giovani. Da quando ha debuttato, il 1 gennaio, l’avatar che si chiama ‘AI Yoon’ (AI sta per intelligenza artificiale) ha attirato milioni di visualizzazioni e decine di migliaia di persone hanno posto domande. E’ la prima volta al mondo che un deepfake, cioè un video generato artificialmente, è ufficiale. Ci sono stati in passato esempi, come il video di Barack Obama che insulta Donald Trump, ma erano dei falsi.
ll vero candidato Yoon ha registrato più di 3.000 frasi — 20 ore di audio e video — per fornire dati sufficienti ad un’azienda di tecnologia locale a creare l’avatar. Quello che l’avatar dice è scritto dal team del politico. L’approccio ha dato i suoi frutti. Le dichiarazioni di AI Yoon hanno fatto notizia nei media sudcoreani e sette milioni di persone hanno visitato il sito “Wiki Yoon” per fare domande all’avatar.
“L’establishment politico è stato troppo lento di fronte a una società in rapida evoluzione”, spiega Baik Kyeong-hoon, a capo dello staff del politico, che contempla molti giovani tra i 20 e i 30 anni.
#OpRussia, Anonymous dichiara guerra al Cremlino: siti russi sotto attacco
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Che la guerra in Ucraina non si sarebbe svolta solo a terra o nei cieli era chiaro fin dalle prime ore: un triplice attacco informatico era stato lanciato contro le istituzioni ucraine il 23 febbraio, poche ore prima dell’annuncio di Putin. E se le minacce ora riguardano anche il controllo dello Spazio, prosegue l’offensiva lungo le dorsali dei cavi che traportano Internet. Si chiama cyberwarfare. E mentre gruppi hacker di una fazione o dell’altra continuano la propria parte di guerra, da ieri è sceso in campo il gruppo di cyberattivisti conosciuto come Anonymous. Con
una chiamata alle armi contro Mosca rivolta agli «hacker di tutto il mondo», sotto l’ombrello-hashtag #OpRussia. Quindi su Anonymous Tv è arrivata una dichiarazione di guerra ufficiale: da questo pomeriggio (ieri) «intensificheremo i nostri attacchi sul Cremlino». All’ora di cena di venerdì un altro tweet annunciava la violazione del database del ministero della Difesa russo. Con tanto di link poi rimosso – da Twitter stesso, per violazione della policy della piattaforma – per poterlo scaricare. Nella notte, l’attacco è stato quindi definito un «falso» da parte di un portavoce del ministero stesso.
Seguendo i profili twitter legati al collettivo, in particolare Anonymous Tv, si può ricostruire una sorta di percorso degli attacchi portati a segno. O almeno, dichiarati tali. Dopo quello alla tv russa RT News, si è passati al sito di Gazprom e a quello della azienda bielorussa di armamenti Tetraedr. Nel momento in cui stiamo scrivendo, sul profilo invece di Anonymous si dichiara che le operazioni di attacco – svolte con la tecnica chiamata Ddos (Distributed Denial of Service), ossia quella di caricare di false chiamate i server allo scopo di bloccarli – sono in pieno svolgimento. Con lo scopo di «trasmettere informazioni al popolo russo in modo che possa essere libero dalla macchina della censura statale di Putin». Il comunicato prosegue: «Abbiamo anche operazioni in corso per mantenere il popolo ucraino online nel miglior modo possibile».
Nel pomeriggio di sabato un attacco sempre di tipo DdoS è stato lanciato contro il sito dell’Agenzia spaziale russa da Leopoli, in Ucraina. Lo rende noto la stessa agenzia sul proprio profilo Telegram, aggiungendo che l’attacco è stato effettuato «utilizzando una rete di bot dislocati su server in diversi Paesi del mondo». Secondo quanto dichiarato dall’Agenzia Roscosmos, «i tecnici sono in grado di identificare l’autore dell’attacco». Stessa sorte anche per il sito del Cremlino – Kremlin.ru – che al momento risulta inaccessibile. È lo stesso addetto stampa della Presidenza russa a raccontarlo alla Tass, l’agenzia di stampa di Mosca: «Gli attacchi sono tuttora in corso, il sito viene continuamente bloccato».
Che la situazione dei siti istituzionali russi sia critica viene confermato anche da Netblocks, organizzazione che monitora costantemente i flussi mondiali della Rete. In un tweet si mostra un grafico dove è evidente il picco in discesa per quanto riguarda l’accesso ai siti governativi del Paese.
Le relazioni possono ridefinire l’identità degli individui e delle organizzazioni complesse?
Non ho mai mancato, nell’attività professionale come in quella accademica, di sottolineare ed evidenziare quanto siano preziose le contaminazioni trasversali tra discipline solo apparentemente lontane, e torno a farlo oggi prendendo spunto da un bell’articolo pubblicato qualche mese fa sulla rivista inglese Aeon, a firma di Kathleen Wallace, docente di filosofia all’Università di Hempstead (New York), dal titolo You are a network, che ha indagato il rapporto tra la nostra identità come esseri umani e il peso della relazioni che ci connettono agli altri, o meglio, di come le seconde possono – senza alcuno sforzo – condizionare la prima.
La filosofia si è da sempre interrogata su questi temi, e più recentemente ha iniziato a farlo anche la scienza, dopo secoli nei quali l’ottuso riduzionismo, modello dominante per lungo tempo nel pensiero scientifico, e sorprendentemente ancora di riferimento per qualcuno, ha condizionato il mondo della medicina e della biologica, sostenendo che un sistema complesso poteva venir suddiviso in più parti, ognuna a sé stante, praticamente indipendente, o quasi, dalle altre.
Dal primo trattato di anatomia umana, il De Humani Corporis Fabrica, di Andrea Vesalio, pubblicato nel 1543, dobbiamo attendere la seconda metà degli anni Ottanta del XX secolo per poter apprezzare lo sviluppo di nuovi paradigmi tali da determinare un cambiamento di prospettiva nell’ interpretazione delle funzioni biologiche dell’ organismo umano e delle sue malattie, permettendo il passaggio da una visione di tipo organicistico a quella di network cellulare, per arrivare al riconoscimento dell’ importanza del continuo dialogo – cross talk, appunto – tra cellule, organi e sistemi: secondo questi filoni di ricerca, ogni patologia è sistemica, e i sistemi biologici hanno alcuni aspetti in comune tra loro, che includono – tra le altre caratteristiche – l’ auto-organizzazione, la stabilità intrinseca, la robustezza e la resilienza.
Come ricordavo in un mio saggio pubblicato un paio d’anni fa, in termini di auto-organizzazione, la medicina dei sistemi – che è l’ applicazione della teoria dei sistemi alla medicina – assimila la complessità del corpo umano a una rete di reti, composta da genoma, molecole, cellule, organi, microbiota, andando oltre, fino all’ ambiente che circonda l’ organismo e alla potenziale influenza sul corpo umano delle reti create dagli individui nella società.
Ad esempio, più che dall’istinto materno – che, come ci ricorda la filosofa francese Elisabeth Badinter, è un vero e proprio mito costruito a tavolino, di moda nel ‘700 e ’800 e tanto caro anche a Russeau – oggi i più recenti studi dimostrano che il legame tra madre e figlio viene costruito nei primi periodi di vita in virtù della relazione tra i due soggetti, ma anche tra il bimbo e la cultura e la società che lo circonda, e con la quale egli entra in contatto, in un intreccio che vede nell’elemento ormonale ma anche cognitivo i suoi due principali pilastri. Gli studi su modelli animali di Ioana Carcea, allieva del Prof. Robert Froemke della NYU Grossman School of Medicine di New York, dimostrano infatti che una cavia vergine posta a contatto con una mamma con cuccioli assume a sua volta un comportamento materno e “accudente”, grazie all’attivazione della produzione di ossitocina, il cosiddetto ormone dell’amore, ma anche di progesterone e dopamina, responsabile quest’ultima del circuito della gratificazione, come ci ricorda Paola Palanza, Professore ordinario di biologica all’Università di Parma, in una recente intervista su Repubblica Salute. Più banalmente, ci è sufficiente osservare il tipo di relazione materna che madre adottiva e figlio adottato costruiscono nel tempo, certamente non meno importante di quello tra genitori e figli biologici. Anche i padri registrano cambiamenti cerebrali misurabili mediante risonanza magnetica, ma più lentamente, e tanto più marcatamente tanto più tempo passano con il bambino e tanto più si dedicano al suo accudimento. Potremmo arrivare provocatoriamente a dire, con le parole di Paola Rigo, docente di psicologia all’Università di Padova, che “il genitore non è quello biologico, bensì quello che si occupa di te”; in poche parole, il rapporto genitoriale è costruito su una relazione ambientale, sociale e culturale di valore.
La scienza, insomma, ha dimostrato una volta di più la validità delle intuizioni di Ludwig Von Bertalanffy: l’organismo umano andrebbe appunto interpretato come un sistema complesso le cui parti sono fortemente dipendenti l’ una dall’ altra e a loro volta dipendenti dalle interazioni con l’ambiente. Il celebre biologo austriaco ne diede una definizione a mio avviso straordinaria: “L’organismo vivente è un sistema di flusso in equilibrio dinamico”, ovvero un network aperto (nella ricerca contemporanea si parla di Exposoma) in comunicazione diretta con l’esterno, all’ interno del quale fluiscono continuamente fattori perturbatori e stressori, ma che è in grado di adattarsi in continuazione agli stimoli endogeni o esogeni, mantenendo un proprio equilibrio, che in medicina chiameremmo stato di salute, che dipende – in misura molto maggiore rispetto a quanto si sosteneva anche solo una decina di anni fa – dalle relazioni dell’organismo con ciò che lo circonda, siano essi altri esseri viventi come anche l’ambiente nel senso più esteso del termine.
A tal proposito, mai grafico fu più rappresentativo di questi concetti che non quello elaborato da Jacob Levi Moreno, lo psichiatra rumeno naturalizzato austriaco, fondatore della sociometria, la scienza che analizza le relazioni personali: il suo modello mette in evidenza come tutti gli elementi di un certo scenario – o buona parte di essi – siano sempre connessi tra loro, al contrario di un modello a stella tradizionale, che vede ogni elemento connesso solo con il centro della stella stessa.
Questa idea di noi, della società e del mondo, centrata sulla complessità e sulla circolarità, invece che sul banale approccio sequenziale e binario, mi ispirò già nel lontano 2008 un progetto di ricerca che prevedeva – per la mappatura degli stakeholder di una qualunque organizzazione, che fosse azienda, ONG, ente pubblico, etc. – l’applicazione, invece che della tradizionale logica Aristotelica basata sulla contrapposizione lineare vero/falso, della logica Fuzzy a insiemi sfumati, codificata dal Prof. Lotfi Zadeh all’Università di Barkley negli anni ‘60; tutti i nostri pubblici sono stakeholder, nessuno escluso, e tutti quindi devono rientrare nel nostro orizzonte di osservazione semplicemente con diversi gradi – sfumati, appunto – di coinvolgimento e correlazione. Una sfida che ci catapulta in avanti, e ci fa fare un balzo quantico dal punto di vista delle potenziali assunzioni di responsabilità, ma che una volta di più ci porta anche a tornare a riflettere sul messaggio degli antichi Veda indiani, che migliaia di anni fa ci indicavano come parti di “un Uno unico”, ovvero interdipendenti l’uno dall’altro, connessi, al di la delle distanze, molto più strettamente di quanto noi si possa sospettare, evidenziando forse l’esistenza di una “suprema rete neurale”, la rete complessa che a livello planetario pone in relazione ognuno di noi con l’altro, ogni istituzione con un’altra istituzione, ogni azienda con le altre aziende, e tutti questi elementi organicamente tra loro.
Acclarata l’indiscutibile potenza delle relazioni all’interno dei sistemi complessi, torniamo alla Wallace, che si chiede: “Che peso esse possono avere nella definizione e determinazione della nostra personale identità?”. Un quesito di straordinaria attualità, in questo periodo di identità fluide e – per contro – di rivendicazioni circa l’importanza della tutela della nostra precisa identità. L’osservazione, tuttavia, pare dimostrare che, ci piaccia o no, nulla è più plasmabile dell’identità, e che al centro dei vari meccanismi che regolano le modificazioni identitarie vi sono sempre loro: le relazioni.
Già Cartesio intuì secoli fa la forza delle potenziali interazioni tra mente e corpo, ma questo punto di vista appare riduttivo, se guardiamo al dibattito in corso su questi temi nella filosofia contemporanea, centrato fortemente sul concetto di sé come rete complessa, e non più solo di sé come contenitore (di coscienza, educazione, esperienze, emozioni, etc.).
Relazioni quindi fisiche (tra le cellule e tra gli organi del nostro corpo), genetiche (eredità da chi ci ha preceduto), psicologiche (tra i nostri pensieri), emotive (tra le emozioni, nostre e degli altri), ambientali (all’interno della società), e via discorrendo: tutti questi fattori possono condizionare la nostra stessa identità, che tende inevitabilmente a modificarsi nel tempo.
Mille sono i modi nei quali possiamo definirci, sulla base della nostra identità in quel certo momento: uomini o donne, di destra o di sinistra, credenti o atei, bianchi neri o di diversa etnia, cugini e fratelli di altre persone, amanti di questa o quell’altra arte, estroversi oppure timidi e via dicendo. Tu, lettore, potresti dire: “Sono un uomo di pelle nera, cristiano evangelico, fratello di Luisa, conservatore ma liberale, eterosessuale, sposato, padre di due figli, creativo ma riservato, di lingua ispanica”. Potremmo continuare a lungo, tentando di definirci in base ad alcune delle caratteristiche del nostro essere, che tuttavia possono variare nel tempo, contribuendo a ridefinire la nostra identità. Ad esempio, 25 anni dopo (passano in un istante), tu lettore potresti aver abbandonato la tua religione, aver praticato in alcune occasioni la bisessualità, essere diventato molto più estroverso e sicuro di te, tua sorella potrebbe essere venuta a mancare a causa di un incidente, ed essendoti trasferito per ragioni di lavoro in Francia il francese potrebbe essere diventata la tua lingua corrente di riferimento. Parte delle caratteristiche e delle certezze sulle quali all’epoca avevi definito la tua identità potrebbero quindi essere drasticamente cambiate, ma, non per questo, saresti meno “tu”: semplicemente, le relazioni con ciò che ci circonda hanno influenza e potere su di noi e sull’apparentemente incrollabile perimetro che siamo abituati a costruire per definire – in modo assai rassicurante – il nostro modo di percepirci e farci percepire dagli altri.
Alcuni aspetti potrebbero essere più dominanti di altri; alcuni potrebbero generare conflitti e tensioni all’individuo stesso, che potrebbe volerne nascondere o dissimulare una parte (ad esempio, quelli politici, o sessuali); alcuni potrebbero essere oggetto di discriminazione in quanto ritenuti soggettivamente più rilevanti per chi osserva (ad esempio quelli razziali, o relativi al genere); altri ancora si modificheranno con assoluta certezza (nell’esempio del lettore sopra riportato, egli da adolescente non era sposato, e magari dopo i 50 anni ha litigato con sua moglie e ha divorziato). La nostra stessa coscienza, come anche il modo nel quale interpretiamo la vita e il mondo, è effetto di questi inevitabili cambiamenti nelle nostre plurime e fluide identità, e questo non deve spaventare.
La Wallace propone anche una bella riflessione sul “chiedere scusa”, che sappiamo essere uno dei pilastri del crisis management: scusarsi, suggerisce, significa anche convertirsi rispetto a qualcosa che riteniamo non debba mai più appartenerci, qualcosa che ci pentiamo di aver fatto o detto; “quando ti penti, rinunci ad essere la persona che ha agito in quel determinato modo, riconosci il tuo sé cambiato, come un sé in continuità con il sé passato autore dell’atto, ancorato a quello ma nel contempo trasformato”. In definitiva, siamo identità in continua trasformazione, e questo vale certamente tanto per gli individui quanto per le organizzazioni complesse, siano esse aziende, istituzioni, ONG o altro.
Cambiamenti che possono essere scelti come subiti, ma che non ci fanno cessare di essere ciò che siamo, semplicemente ci arricchiscono, o ci impoveriscono, ma sempre ci trasformano: il sé rete continua ad esistere, passando a una nuova fase. Questa complessità rende anche plasticamente evidente quanto sia riduttivo e stupido classificare un individuo o un’organizzazione in base ad una sola delle sue caratteristiche identitarie: “è islamico, è sposata, è una setta, è un’azienda che inquina…” (l’industria che inquina, ad esempio, è la stessa che da anche lavoro a migliaia di famiglie; questo non deve apparire come una giustificazione assolutoria, ma solo come la presa d’atto di una personalità complessa).
Cercare tra i molteplici aspetti identitari anche ciò che unisce e non solo la singola caratteristica che “divide” può essere utile per coltivare comunicazioni più efficaci, sia tra individui che tra aziende (il lettore-tipo che abbiamo utilizzato come esempio probabilmente si sentirebbe più apprezzato e comunicherebbe meglio trovandosi in un ambiente politico conservatore, ma ciò non toglie che potrebbe con un minimo sforzo individuare altre e diverse proprie caratteristiche identitarie utili per costruire un dialogo virtuoso anche con un progressista, ad esempio cristiano evangelico come lui).
Per anni ho combattuto culturalmente per rivendicare l’unicità dell’identità: ai miei discenti ho sempre spiegato che un’azienda dovrebbe saper resistere alle maligne forze (marketing e pubblicità centrate solo sull’immagine e non sulla sostanza) che all’interno e all’esterno di essa sono spesso impegnate a tentare di piegare e modificare il DNA stesso dell’organizzazione alle necessità del momento. L’identità è ciò che siamo, è scritto a più riprese e a lettere capitali nei volumi che ho pubblicato, e si riferisce alla scintilla fondativa, al pensiero di cambiamento che l’imprenditore aveva in mente quando si recò da un notaio per creare la sua nuova industria, e costruire e vendere un prodotto o servizio migliore di quelli all’epoca sul mercato, più innovativo, o a prezzo più contenuto. Come ho spiegato in una mia recente monografia, coautorata con Giorgia Grandoni, capace ricercatrice sui temi del reputation management, resto convinto della peculiarità dell’identità rispetto alla percezione costruita artificialmente, ma ho arricchito il mio punto di vista (modificando quindi in parte la mia identità) circa il fatto che l’identità possa modificarsi e arricchirsi (o depauperarsi di qualcosa) nel tempo, sulla base delle relazioni che la coinvolgono, continuando a costruire valore, solo in modo diverso.
Le relazioni ci ridisegnano ogni giorno, e – come scrivevo in un mio precedente articolo – all’interno della rete complessa che in qualche modo ci definisce, la regola per vincere dovrebbe essere quella della condivisione: quale relazione può sopravvivere se non coltivata? Dovremmo allora agire sempre dividendo con, sinonimo di possedere insieme, partecipare, offrire del proprio ad altri, e viceversa, perché solo seguendo questo modello, “nutrendo” ogni giorno la nostra rete di relazioni, potremo costruire valore in grado di sopravvivere allo scorrere del tempo, che è poi l’obiettivo di ogni saggio azionista attento ad avere un buon ritorno dai propri investimenti.
Le relazioni: il potentissimo solvente universale, in grado di permetterci di risolvere più velocemente qualunque crisi, di portare a buon fine qualunque piano di comunicazione, di gestire con successo qualunque processo di change management, sul lavoro come nella vita: mai sottovalutare il loro straordinario, dirompente potere.