1

IN CINA E ASIA – LA CINA COMPLETERÀ GOVERNANCE DIGITALE ENTRO IL 2035

IN CINA E ASIA – LA CINA COMPLETERÀ GOVERNANCE DIGITALE ENTRO IL 2035

“Linee guida per rafforzare la costruzione del governo digitale”: è il documento programmatico pubblicato giovedì scorso dal Consiglio di Stato cinese per costruire un sistema di governo completamente informatizzato. Obiettivo: aiutare il governo a elaborare politiche di governance accurate ed efficienti entro il 2035. Sebbene il documento non fornisca dettagli, Pechino sembrerebbe voler utilizzare la tecnologia per ottenere migliori risultati nella governance. Un obiettivo chiave sarà l’analisi dei “big data” per migliorare la gestione macroeconomica dell’economia nazionale. Sebbene esistano dibattiti sulla misura in cui i governi possono prevedere le attività e le tendenze economiche sulla base dei dati, il governo cinese è stato da sempre ben disposto ad applicare i big data al suo modello di governance economica.

Un’altra area chiave della governance digitale sarà poi la sicurezza e il controllo sociale: la Cina renderà il suo sistema “più intelligente” e rafforzerà la sua piattaforma di big data di pubblica sicurezza per “prevedere” e “prevenire” i rischi sociali. La Cina mira anche a potenziare ulteriormente il programma “Sharp Eyes“, o Xueliang Project, un enorme sistema di sorveglianza guidato dallo stato. Infine, sarà rafforzato l’uso da parte del governo cinese delle tecnologie digitali in aree come la sorveglianza e il credito sociale sarà rafforzato, già motivo di critiche in patria e all’estero per la violazione della privacy dei cittadini cinesi da parte del governo.

Su questo secondo aspetto fa luce un’inchiesta pubblicata ieri dal New York Times. Il quotidiano della Grande Mela riporta i dettagli di queste tecnologie di sicurezza emergenti, che sono descritte principalmente come software di polizia, dotati di intelligenza artificiale, in grado di sfruttare le riserve di dati a livello nazionale per consentire alla polizia di operare con opacità e impunità. Tra le tecnologie più utilizzate dalle autorità cinesi vi sono quelle basate sulla geolocalizzazione ed il riconoscimento facciale: Megvii, una startup di intelligenza artificiale, ha dichiarato ai media statali cinesi che il suo sistema di sorveglianza potrebbe fornire alla polizia un motore di ricerca per il crimine, analizzando enormi quantità di filmati per intuire modelli comportamentali e avvertire le autorità di comportamenti sospetti. Ad esempio, se le telecamere rilevassero una persona che trascorre troppo tempo in una stazione ferroviaria, il sistema la segnalerebbe alle autorità come possibile borseggiatore. Tecnologie simili sono già in uso: nel 2022, la polizia di Tianjin ha acquistato da Hikvision un sistema per prevedere le proteste basandosi sulla localizzazione dei petizionisti cinesi, un termine generico che descrive le persone che tentano di sporgere denuncia contro i funzionari locali alle autorità centrali.

CINA: CAMPAGNA DI 100 GIORNI PER MIGLIORARE LA SICUREZZA PUBBLICA

La Cina ha lanciato una campagna di 100 giorni che, secondo il ministero della Pubblica Sicurezza, dovrebbe migliorare la sicurezza pubblica. L’annuncio arriva due settimane dopo il brutale attacco contro un gruppo di donne per le strade della città di Tangshan, nel nord della Cina, che ha suscitato proteste a livello nazionale. Le autorità “massimizzeranno la presenza delle forze di polizia a livello di municipale e di comunità” per rafforzare la protezione di donne, bambini e anziani, ha annunciato sabato il dicastero, nella speranza di placare la microcriminalità in vista del 20° Congresso del Partito Comunista. Il ministero ha affermato in un avviso che collegherà la polizia e le pattuglie della polizia armata attraverso un meccanismo di risposta rapida che permetterà di intervenire in cinque minuti. I poteri civili saranno inoltre mobilitati per prendere di mira i crimini di strada tipici del periodo estivo, mentre verranno intensificati anche i pattugliamenti notturni e i controlli su armi ed esplosivi.

La campagna sarà guidata dal nuovo ministro della Sicurezza Pubblica, Wang Xiaohong. Stella nascente della politica cinese, Wang promuoverà la visione della sicurezza nazionale di Xi Jinping, dando nuova forza alla lotta alla corruzione tra le forze dell’ordine. Wang è il primo ufficiale di polizia professionista a guidare il ministero in 24 anni e, a differenza dei suoi quattro predecessori, non è mai stato un alto funzionario provinciale. Vicinissimo al presidente cinese, Wang era a capo di un sottodistretto dell’ufficio di polizia a Fuzhou, la capitale della provincia del Fujian, quando Xi era segretario del partito locale. Dopo un avanzamento di carriera, Wang è diventato vice capo della pubblica sicurezza del Fujian, proprio mentre Xi era governatore della provincia, tanto che fonti del SCMP sostengono sia stato anche responsabile della sicurezza personale del leader. Nel 2015, Wang è diventato il capo della polizia di Pechino, per poi essere rapidamente promosso vice ministro della pubblica sicurezza.

La nomina di Wang, ufficializzata venerdì, era ampiamente prevista dopo che a novembre era già stato nominato capo del partito del Ministero della Pubblica Sicurezza. Come i precedenti capi della pubblica sicurezza, anche Wang dovrebbe diventare consigliere di stato dopo le “due sessioni”, o lianghui, gli incontri politici di marzo.

PECHINO RIVEDE LA LEGGE ANTITRUST

I legislatori cinesi hanno approvato modifiche alla legge antitrust del paese, entrata in vigore nel 2008. Sebbene il testo integrale della legge non sia ancora stato reso pubblico, stando all’ultima bozza datata ottobre 2021, le modifiche rimetteranno i giganti della tecnologia cinese sotto lo scrutinio della leadership cinese, che si era inizialmente dimostrata disposta ad allentare la pressione sulle aziende tech. Gli emendamenti proposti aumenteranno significativamente le sanzioni per le società che non segnaleranno fusioni e acquisizioni alle autorità di regolamentazione. Nei casi in cui la mancata divulgazione danneggi l’ambiente competitivo, la multa più alta sarà equivalente al 10% delle entrate dell’anno precedente, superando così la barriera dei 500 000 yuan prevista dalla legge del 2008. Anche se si ritiene che la mancata segnalazione non danneggi la concorrenza, il tetto della sanzione viene comunque aumentato di dieci volte a 5 milioni di yuan. Già l’anno scorso Alibaba, insieme a Tencent Holdings, Baidu e Didi, era stata multata per non aver riportato le sue acquisizioni, ed ora le autorità applicheranno un controllo più approfondito su tutte le operazioni di M&A che coinvolgono i settori del benessere pubblico, la finanza, la scienza e la tecnologia ed i media.

Mentre imbriglia le big tech, Pechino cerca di sostenere le piccole e medie imprese nell’ambito dell’iniziativa di “prosperità comune”, baluardo delle politiche socioeconomiche del presidente Xi Jinping. Le imprese la cui quota di mercato scenderà al di sotto di una certa soglia saranno infatti esentate dalla normativa antitrust e potranno fissare prezzi di rivendita se tale pratica non pregiudica la concorrenza. Le multe per aver violato la legge antimonopolio sono salite ad un record di 23,5 miliardi di yuan nel 2021, rispetto ai soli 400 milioni di yuan nel 2020. I nuovi emendamenti, adottati dal Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo, entreranno in vigore il 1° agosto, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa Xinhua.

WASHINGTON E ALLEATI LANCIANO UN’INIZIATIVA PER AIUTARE LE ISOLE DEL PACIFICO

“Partners in Blue Pacific”: così si chiama il programma lanciato da Washington ed i suoi alleati nel Pacifico per aiutare le piccole nazioni insulari della regione. Lo schema di cooperazione mira a fornire supporto contro i problemi legati ai cambiamenti climatici ed alla pesca illegale, ma rappresenta anche l’iniziativa chiave di Giappone, Australia, USA, Regno Unito e Nuova Zelanda per contrastare le iniziative cinesi nel Pacifico.

Intervistato dal Financial Times, un alto funzionario americano ha dichiarato che il patto di collaborazione include una serie di misure mirate al rafforzamento delle presenze diplomatiche alleate nella regione, nonché un accordo per inviare giovani leader della regione a corsi di formazione diplomatica e manageriale negli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’aspetto della sicurezza, i funzionari americani dichiarano che il coinvolgimento navale americano nella regione pacifica aumenterà e non si esclude una cooperazione strategica e di difesa “un po’ più permanente”. In un contesto in cui la presenza americana è in declino mentre l’assertività cinese aumenta, il programma “Partners in Blue Pacific” si configura dunque come lo strumento chiave per permettere a Washington ed i suoi partner nel Pacifico di aumentare la propria presenza regionale in campi che spaziano dalla diplomazia e la sicurezza fino al cambiamento climatico e alla salute.

Il programma è stato accolto positivamente dalle Samoa, ed anche altri paesi, tra cui Corea del Sud, Canada e Germania, hanno espresso interesse per l’iniziativa. La Francia si è unita ai colloqui di Washington, ma per ora ha deciso di sospendere la partecipazione al programma in attesa di approfondire i legami con la regione prima di impegnarsi. Non sono invece mancate le reazioni a caldo della Cina: Liu Pengyu, portavoce dell’ambasciata cinese negli Stati Uniti, ha affermato che le nazioni insulari del Pacifico meridionale “non sono il cortile di casa di nessun paese, tanto meno un’arena per giochi geopolitici”. Pechino ritiene infatti di adottare nella regione una politica di apertura e inclusività, senza cercare alcuna sfera di influenza. Tuttavia, il patto di sicurezza firmato con le isole Salomone ha suscitato preoccupazione sul fatto che la Cina possa costruire una base navale in un’area più vicina a Canberra e alle Hawaii, dando all’esercito cinese stanziato nel Pacifico una capacità militare e strategica molto maggiore.




Alcol e consenso: una tiktoker scatena il dibattito

Alcol e consenso: una tiktoker scatena il dibattito

Una ragazza in stato di ebbrezza è in grado di esprimere un consenso valido ad un rapporto sessuale? Il quesito, recentemente lanciato su TikTok dall’influencer Linda Stabilini, ha acceso un acceso dibattito online, dividendo l’opinione pubblica e riaccendendo i riflettori su un tema tanto complesso quanto delicato.

Da una parte, la tiktoker sostiene l’autonomia di scelta anche sotto l’influenza di sostanze alcoliche. Secondo la sua opinione, una donna, seppur inebriata, manterrebbe la facoltà di decidere autonomamente in merito alla propria sessualità. L’idea di base è che l’alcol, pur alterando il giudizio e le inibizioni, non elimini del tutto la capacità di discernimento.

Dall’altra parte, numerose voci si levano contro questa posizione, evidenziando i rischi e le criticità che ne derivano. L’alcol, infatti, agisce sul sistema nervoso centrale, abbassando la guardia e rendendo più vulnerabili a pressioni esterne e manipolazioni. In uno stato di alterazione, il consenso prestato potrebbe non essere realmente libero e consapevole, esponendo la persona a potenziali abusi e violenze.

La questione è complessa e sfaccettata, non riducibile a un semplice “sì” o “no”. Diversi fattori entrano in gioco, come il grado di intossicazione, le circostanze in cui si verifica l’incontro e le dinamiche relazionali tra le persone coinvolte.

È fondamentale ricordare che il consenso deve essere sempre esplicito, entusiasta e privo di coercizioni. In caso di dubbi, la prudenza dovrebbe sempre indurre a desistere da qualsiasi contatto intimo.

Il dibattito acceso da Linda Stabilini, seppur con toni accesi, ha il merito di riportare l’attenzione su un tema cruciale. È necessario promuovere una cultura del consenso basata sul rispetto reciproco, sulla consapevolezza dei propri limiti e sulla responsabilità individuale. Solo attraverso un’educazione adeguata e un dialogo aperto sarà possibile prevenire abusi e violenze, tutelando la libertà di scelta di ogni persona.

Oltre alle posizioni sopracitate, è importante sottolineare alcuni aspetti cruciali del dibattito:

  • la legge: in molti paesi, incluso l’Italia, la sussistenza di un reato sessuale dipende dalla dimostrazione della mancanza di consenso. L’alcol, seppur non escludendo automaticamente la capacità di discernimento, può essere considerato un elemento rilevante ai fini della valutazione del consenso stesso.
  • il rispetto: indipendentemente dal proprio punto di vista, è fondamentale mantenere un atteggiamento rispettoso verso tutte le opinioni e le esperienze personali. Le vittime di abusi sessuali non devono mai essere colpevolizzate o invalidate.
  • il supporto: esistono numerose risorse e servizi di supporto per le vittime di violenza sessuale. In caso di bisogno, è importante non esitare a chiedere aiuto.

In conclusione, la questione del consenso in stato di ebbrezza è complessa e non ha risposte facili. È necessario un approccio multidisciplinare che coinvolga esperti di diritto, medicina, psicologia e sociologia per approfondire il tema e individuare soluzioni efficaci per prevenire abusi e violenze. Il dibattito innescato dalla tiktoker, seppur con toni accesi, rappresenta un’occasione per sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere una cultura del rispetto e della responsabilità.




Bilancio di sostenibilità, lo strumento più efficace per comunicare l’impegno sociale e ambientale dell’impresa

Bilancio di sostenibilità, lo strumento più efficace per comunicare l'impegno sociale e ambientale dell'impresa

Non ha nulla a che fare con la contabilità e le scritture. Non è obbligatorio ma piace sempre più alle imprese e agli enti. Si tratta del bilancio di sostenibilità ovvero la prassi di comunicare periodicamente (ogni anno), in modo totalmente spontaneo, i riflessi dell’attività dell’azienda sull’ecosistema socio-ambientale in cui è inserita. L’obiettivo è promuovere una visione più completa dell’operato dell’organizzazione, che tenga conto non solo dei risvolti economico-finanziari ma anche dell’impatto sulla società e il territorio in cui è immersa.

In un’economia che è sempre più globale e interconnessa, consumatori e investitori sono alla ricerca di maggior trasparenza, in particolare per quel che riguarda tematiche che toccano da vicino la sensibilità personale dei cosiddetti stakeholder, i portatori di interesse verso l’azienda, che si tratti di soci, dipendenti clienti o investitori. I dati dell’ultimo Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile di LifeGate evidenziano come ben 36 milioni di italiani, ovvero il 72% della popolazione maggiorenne del nostro Paese (era il 67% lo scorso anno), ritengono la sostenibilità un tema sentito o molto sentito. Il 26% dei consumatori, inoltre, si dice disponibile a pagare un sovrapprezzo per l’acquisto di un prodotto o di un servizio con caratteristiche di maggior sostenibilità. A parità di rendimento, poi, anche l’89% dei finanziatori è più incline a privilegiare un investimento sostenibile rispetto a uno che non offre queste garanzie.

Cos’è il bilancio di sostenibilità o report di sostenibilità

“L’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. È questa la definizione che l’Unione Europea dà del bilancio di sostenibilità nel 2001, citandolo all’interno del Libro Verde della Commissione UE. Cinque anni dopo, il Ministero dell’Interno italiano ha messo nero su bianco una definizione nazionale di questo documento aziendale. “Il Bilancio Sociale è l’esito di un processo in cui l’amministrazione rende conto delle scelte, attività, risultati e dell’impiego di risorse in un dato periodo, in modo da consentire ai cittadini e ai diversi interlocutori di conoscere e formulare un proprio giudizio su come l’amministrazione interpreta e realizza la sua missione istituzionale e il suo mandato”. In parole semplici, è il documento di carattere informativo con cui l’azienda comunica il proprio impegno (in gergo si chiama accountability o assunzione di responsabilità), gli obiettivi che intende raggiungere e i traguardi già ottenuti in tre aree chiave della relazione con il suo ecosistema di riferimento:

  • Ambiente ecologico: come utilizza le risorse naturali e qual è il suo impatto ambientale
  • Ambiente economico: come genera e ridistribuisce ricchezza, aiuta a far progredire il Paese e ridurre la disoccupazione
  • Ambiente sociale: come tutela i diritti dei lavoratori, si impegna a ridurre i divari di genere e favorire la crescita del territorio in cui opera

Caratteristiche del bilancio di sostenibilità

Oggi consumatori e investitori sono sempre più attenti agli aspetti della riduzione dell’impatto ambientale delle attività e attribuiscono a questo valore un peso crescente nelle proprie decisioni di consumo e finanziarie. Il bilancio di sostenibilità rappresenta, quindi, un incentivo allettante per le aziende che non sono obbligate per legge a redigere la dichiarazione non finanziaria ma che vogliono comunque pubblicizzare l’impegno dimostrato nel ridurre l’impatto ambientale e socio-economico della propria attività. Scegliere di rendicontare la sostenibilità significa promuovere un modo di operare più trasparente e responsabile per l’azienda, che assicura vantaggi evidenti.

  • Migliorare la Brand Reputation dimostrando un impegno concreto sulle tematiche ESG (Environmental, Social e Governance), superando i limiti del Greenwashing.
  • Costruire un modello di business più solido e improntato alla resilienza operando un Risk Management più efficace che tiene conto degli effetti delle dinamiche socio-ambientali sulla Supply Chain e, più in generale, su tutta l’attività.
  • Impegnare l’azienda nella rilevazione periodica dei dati relativi all’andamento della gestione aziendale, con la conseguenza di attuare un monitoraggio più granulare e un miglioramento continuo delle performance aziendali.
  • Identificare e ridurre inefficienze e sprechi, a vantaggio dei risultati economico-finanziari.
  • Aiutare a identificare minacce e opportunità di business attraverso una più attenta valutazione dell’ecosistema socio-ambientale di riferimento.
  • Accedere un più ampio ventaglio di finanziamenti, per esempio quelli che rientrano nell’ambito dell’Impact Investing.
  • Ridurre gli oneri finanziari potendo contare su iniezioni di risorse pubbliche (stanziamenti PNRR) e operando una gestione dei rischi più completa.
  • Ampliare la platea dei clienti affacciandosi a nuovi mercati o nicchie di consumatori più attenti all’impatto ambientale e sociale dei propri comportamenti.
  • Realizzare un elemento di differenziazione solido e duraturo rispetto alla concorrenza. L’attenzione ai temi della sostenibilità è, infatti, un denominatore comune alla maggior parte delle aziende di successo in questo periodo storico.
  • Motivare, attrarre e fidelizzare i migliori talenti. I giovani lavoratori dimostrano una sensibilità sempre più alta rispetto alla dimensione etica dell’operato delle organizzazioni presso cui operano.

Quando è obbligatorio il report di sostenibilità

Il bilancio socio ambientale non è una prassi vincolante per le organizzazioni. L’obbligo di rendicontare iniziative e obiettivi legati alla responsabilità sociale d’impresa (CSR, Corporate Social Responsibility) riguarda infatti come già sottolineato la sola dichiarazione non finanziaria. La materia è disciplinata dalla Direttiva UE 95/2014 (Direttiva sull’informativa non finanziaria NFRD), recepita a fine 2016 dal Consiglio europeo e dal Parlamento Europeo, che ha reso la DNF un documento obbligatorio per alcune categorie di imprese ed enti. La stesura di questo documento riguarda al momento le sole aziende di grandi dimensioni, con un attivo di stato patrimoniale superiore ai 20 milioni di euro oppure con ricavi netti superiori ai 40 milioni di euro; i gruppi che impiegano oltre 500 dipendenti su base consolidata e gli enti di interesse pubblico, come le case madri di grandi gruppi industriali. Le informazioni da includere nel documento sono quelle relative ad ambiente, rispetto dei diritti umani e parità di genere, anticorruzione e contrasto alla concussione. Tutte le altre organizzazioni potranno comunque decidere di stilare su base volontaria un report di sostenibilità o bilancio di sostenibilità. La situazione sembra però destinata a cambiare presto. Il 21 aprile 2021, infatti, la Commissione europea ha approvato una proposta di rettifica della Direttiva sulla Rendicontazione della Sostenibilità Aziendale (CSRD), che modifica gli attuali obblighi di rendicontazione contenuti nella NFRD. La proposta estende il campo di applicazione dell’obbligatorietà di stilare la dichiarazione non finanziaria a tutte le grandi aziende e alle società quotate in Borsa a prescindere dalla loro dimensione (con l’eccezione delle sole microimprese). Inoltre, istituisce l’obbligo di verifica (assurance) delle informazioni documentate nel rapporto di sostenibilità e richiede di etichettare digitalmente (taggare) i dati indicati, in modo che possano confluire in un macro database gestito a livello europeo. Infine, introduce una maggior granularità nei requisiti di rendicontazione, prevedendo quindi l’indicazione di informazioni più dettagliate, oltre all’obbligo di uniformarsi a standard validi nella zona della UE.

La differenza tra bilancio di sostenibilità e bilancio sociale

Quando si parla di reportistica relativa alle informazioni di carattere non finanziario, non ci si deve confondere. Diversi sono, infatti, i documenti che è possibile produrre, ciascuno con contenuti e scopi differenti. Vediamo i principali:

  1. Bilancio ambientale (rendiconto di sostenibilità ambientale): questo report informativo redatto su base volontaria si concentra sulle strategie adottate nell’ambito della gestione aziendale per ottenere risultati tangibili in tema di tutela ambientale ed efficienza ecologica, così da ridurre riducendo la cosiddetta carbon footprint.
  2. Bilancio sociale (rendiconto della responsabilità sociale): documento aggiuntivo al tradizionale bilancio d’esercizio, che rappresenta un trait d’union tra la rendicontazione economico-contabile e quella sociale. Il report offre una valutazione a 360° degli effetti che l’attività dell’azienda produce sulla società in cui opera ed è stilato su base esclusivamente volontaria, fatta eccezione per le imprese sociali e per quelle che operano nel terzo settore
  3. Bilancio integrato (report integrato): comunicazione sintetica che illustra le come l’organizzazione intende creare valore per il contesto in cui opera distinguendo obiettivi e azioni di breve, medio e lungo periodo. ll documento si ottiene allineando processi di reportistica esterni e interni all’azienda e copre le stesse aree del bilancio di sostenibilità esponendole, però, in una logica di capitale (umano, economico-finanziario…).
  4. Dichiarazione non finanziaria (dichiarazione consolidata non finanziaria): documento che trova origine nelle disposizioni della direttiva UE 95/2014. Utile per rendicontare le informazioni inerenti l’impatto ambientale e socio-economico dell’attività aziendale, in modo che siano facilmente accessibili e confrontabili da parte di investitori e clienti.
  5. Bilancio di sostenibilità (report di sostenibilità o rapporto di sostenibilità): prospetto che nasce come evoluzione del bilancio sociale e fa parte della categoria di reportistica di carattere non finanziario redatta su base volontaria. Questo strumento permette di rendicontare gli impegni presi sul fronte delle prestazioni economiche, sociali e ambientali, documentando i progressi fatti e i risultati ottenuti. Lo stesso documento illustra anche il sistema di governance a cui va soggetta l’organizzazione.

Come si redige un bilancio di sostenibilità

Ma come si redige in concreto un report di sostenibilità? Non esiste allo stato attuale un riferimento normativo unico, a livello europeo, che indichi la documentazione da produrre, uno schema di organizzazione dei contenuti o una procedura specifica per la sua stesura. Uno schema valido può essere questo.

  • Spiegare i valori fondanti dell’azienda, i principi che ispirano l’operato dei suoi manager, la sua mission.
  • Inquadrare le aspettative degli stakeholder (in primis soci, finanziatori e clienti).
  • Identificare strumenti e dati idonei a supportare il top management nella definizione delle strategie sociali e ambientali.
  • Indicare le prestazioni ottenute sotto il profilo socio-ambientale.
  • Quantificare il contributo sociale e ambientale netto dell’azienda nei confronti dei diversi portatori di interesse.
  • Verificare la coerenza tra obiettivi fissati e risultati ottenuti e valutare i gap.
  • Indicare gli obiettivi di miglioramento nel lasso temporale identificato.

Le aziende possono anche riferirsi ad alcuni framework internazionali e il più diffuso è il GRI (Global Reporting Initiative). L’ente ha pubblicato 36 linee guida da seguire nella stesura dei bilanci di sostenibilità, in modo che siano il più possibile omogenei e trasparenti nei contenuti, così da fornire informazioni facilmente confrontabili. Le organizzazioni che decidono di seguire queste indicazioni – in modo assolutamente volontario e non vincolante – hanno la garanzia di pubblicare documenti dettagliati sotto il profilo dei temi trattati e completi nella disamina dei diversi ambiti di intervento (politiche sociali e del lavoro, consumo di energia, impronta idrica, emissioni di gas serra…). Uniformandosi a questi standard, l’azienda dichiara un livello di reporting basandosi sull’autovalutazione delle proprie prestazioni e obiettivi rispetto ai criteri definiti dal GRI. In aggiunta a questa autodichiarazione, poi, l’organizzazione potrà scegliere anche di:

  • Richiedere al GRI di verificare i contenuti dell’autodichiarazione

Oppure (o in aggiunta)

  • Avvalersi di una società di audit per ottenere un giudizio professionale sull’autodichiarazione

Esempi di bilancio sostenibile

Il rapporto di sostenibilità è ormai una prassi consolidata per molti brand globali. Da diversi anni anche alcune multinazionali e grandissimi gruppi industriali italiani rendono pubblica questa informativa. Tra le realtà più attive nel rendicontare l’impegno assunto sul fronte della circolarità e dell’inclusione troviamo:

  • Barilla ha investito nella riduzione del contenuto di grassi dei propri prodotti, oltre a donare alimenti alle comunità locali e a promuovere un packaging più sostenibile. L’azienda si è impegnata a ridurre progressivamente l’uso della plastica nelle confezioni dei propri prodotti privilegiando carta e cartone provenienti da foreste gestite responsabilmente. Dal 2010 a oggi, poi, il gruppo di Parma ha ridotto le emissioni di CO2 del 31% e ottenuto la neutralizzazione totale (100% delle emissioni di CO2 compensate) per i brand Mulino Bianco e Wasa. Nella filiera, sono circa 10mila le aziende agricole coinvolte in progetti di agricoltura sostenibile.
  • Enel ha presentato nel 2019 il Piano di Sostenibilità 2020-2022, che si focalizza sulla lotta al cambiamento climatico attraverso la crescita delle rinnovabili e la progressiva fuoriuscita del carbone dal mix energetico. Il gruppo misura i propri obiettivi di circolarità, equità e inclusione sociale sulla base di quattro dimensioni significative: energia pulita, lotta al cambiamento climatico, innovazione in infrastrutture più sostenibili, città e comunità più sostenibili. Enel si è impegnata a ridurre dell’80% le emissioni dirette di gas serra per kWh entro il 2030 rispetto ai livelli del 2017, mentre entro il 2040 punta alla completa decarbonizzazione, giocando d’anticipo di 10 anni rispetto agli obiettivi della COP 26 (Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite) e dell’Accordo di Parigi.
  • Esselunga rendiconta i risultati delle iniziative di spesa solidale promosse in collaborazione con la Caritas Italiana e il Banco Alimentare. Sul fronte ambientale, ha introdotto diverse innovazioni utili a migliorare l’efficienza energetica negli stabilimenti di lavorazione, che oggi sono in grado di autoprodurre energia elettrica e termica dal gas naturale attraverso due impianti di trigenerazione. L’impegno sociale si esprime, invece, soprattutto attraverso la volontà dell’azienda di sostenere i produttori e le eccellenze nostrane nell’ambito dell’iniziativa Rinascita Italia, per cui l’84% dei prodotti a marchio proprio è interamente prodotto nel Belpaese.
  • Ferrero: protezione dell’ambiente, valorizzazione delle persone, promozione di un consumo più responsabile e approvvigionamenti più sostenibili sono i quattro macro obiettivi che il colosso internazionale del food si propone di raggiungere nei prossimi anni. La scadenza fissata è quella del 2030, quando l’azienda di Alba (CN) conta di dimezzare le emissioni derivanti dalle proprie attività prendendo come riferimento i dati del 2018. Già oggi tutti gli stabilimenti europei utilizzano energia elettrica 100% rinnovabile e gli imballaggi riciclabili, compostabili o riutilizzabili già nel 2020 (i dati 2021 non sono ancora stati pubblicati) rappresentavano l’82,9% del totale.
  • Lavazza: l’iniziativa che porterà il Gruppo a neutralizzare la propria impronta ecologica entro il 2030 è stata battezzata “Roadmap to Zero”. Il piano si concretizza in tre linee di azione: monitoraggio delle emissioni inquinanti, introduzione progressiva di processi di efficientamento e compensazione delle emissioni non riducibili. Già a fine 2020 il gruppo ha raggiunto il traguardo dell’azzeramento dell’impatto delle emissioni dirette di CO2, quelle generate da punti vendita, stabilimenti, uffici e veicoli aziendali, oltre che quello delle emissioni indirette generate dall’energia acquistata e consumata. Entro il 2030, invece, è previsto il raggiungimento della piena compensazione delle emissioni indirette lungo tutta la Supply Chain.
  • Salvatore Ferragamo: la nota casa di moda punta molto sui temi dell’inclusione. Ha aderito infatti alla campagna globale “The Hiring Chain” e avviato un’iniziativa di inclusione lavorativa che ha portato all’inserimento in organico di risorse con sindrome di Down. Nel 2021, inoltre, alla società è stato assegnato un punteggio pari alla categoria massima (“A”) nella prestigiosa “A List” del CDP (Carbon Disclosure Project) relativamente alle azioni di riduzione delle emissioni CO2.



La tecnica dell’Envisioning nell’Orientamento professionale

La tecnica dell'Envisioning nell'Orientamento professionale

Cos’è l’Envisioning

Il termine Envisioning viene dal verbo inglese “to envision” e ci porta a concepire una situazione che sia possibile realizzare in futuro. Envisioning significa, con accezione più ampia, crearsi una visione chiara e lungimirante di qualcosa che ci riguarda, esprimendola attraverso un’immagine vivida.
La nostra capacità di envisioning può essere davvero un talento da esprimere che ci porta a “vedere oltre” per darci la possibilità di un futuro più vicino alle fonti della nostra auto-realizzazione. È fondamentale nella ricerca e scelta in ambito di studio e professionale, e come tale diventa una leva orientativa molto potente.

Esperienza di Envisioning nell’orientamento professionale

In questo articolo, vorrei riportare la mia esperienza di utilizzo dell’Envisioning nel lavoro di Orientatore. Il percorso di orientamento dedicato allo sviluppo dell’Envisioning è particolarmente indicato per gli utenti che vogliano sviluppare capacità di costruzione e definizione di un’idea professionale riferibile al mondo del lavoro autonomo ed imprenditoriale. 
Nel caso di percorsi per utenti dei CPI (Centri per l’Impiego), laddove sono emerse dal bilancio di competenze o dai colloqui orientativi attitudini imprenditoriali, propongo le seguenti modalità di “allenamento”orientativo, ognuna con un focus particolare.

1. Comprendere il passato

Il passato è il percorso che abbiamo fatto, sono le cose accadute che ricordiamo. Gli eventi sono localizzati nel tempo rispetto ad un dato momento, possono precederlo o seguirlo, subire salti improvvisi ma identificabili in relazione alla nostra linea del tempo. 
Troviamo il senso di quello che è successo attraverso, ad esempio, la narrazione del nostro percorso professionale, partendo dagli studi realizzati ed attraverso le esperienze lavorative, ciascuna con il suo significato.

Possiamo così rivedere il percorso personale/professionale e pensare ad azioni da sviluppare in modo diverso dal passato, orientandoci verso il cambiamento.

2. Guardare l’insieme

Saper guardare alla complessità delle esperienze fatte è l’espressione della nostra capacità di coglier la trama delle cose, avendo una visione allargata, espansa. Peter Senge è uno dei primi ad aver parlato della competenza del pensiero sistemico. Il lavoro con l’Orientatore  può aiutare a interpretare in modo sistemico il percorso realizzato.
Per l’utente è molto utile, ai fini della scelta orientativa, sviluppare la competenza di saper mettere in relazione gli eventi, le situazioni, i luoghi, i comportamenti, in una unica trama interconnessa. 

3. Essere in relazione con gli altri

Nei contesti sociali e di lavoro costruiamo reti di relazioni, sviluppando le nostre abilità comunicative e la capacità di usare strategie di apprendimento e correzione dei nostri comportamenti. 
Empatia e assertività, comunicazione in gruppo, negoziazione, ecc. sono soft skills fondamentali, da allenare con l’Orientatore, per stabilire relazioni attraverso un giusto equilibrio fra razionalità ed intelligenza emotiva

4. Scorgere il flusso in noi

Il concetto di “Flow” (fluire, scorrere), lo dobbiamo al ricercatore americano Mihaly Csikszentmihalyi, all’inizio degli anni ’70 presso la Claremont Graduate University.

Scorgere in noi il flusso, vederci dentro un’esperienza ottimale, vuol dire percepire la felicità/realizzazione, trovandola ogni volta in cui siamo completamente coinvolti nella situazione che davvero ci piace, sia essa un hobby, un lavoro, lo studio di una materia. 
Arrivare quindi a valorizzare la consapevolezza di quei momenti in cui l’utente ha sperimentato quel particolare stato di grazia in cui è immerso nelle attività che lo coinvolgono, arrivando a perdere la cognizione del tempo. 

5. Immaginare il futuro

Non si può costruire il futuro se non siamo ben radicati nel presente, ovvero nel cosa c’è adesso, è quello che stiamo vivendo nella nostra vita quotidiana, quello che siamo capaci di cogliere ora.
Il percorso orientativo porta ad immaginare il futuro come il mondo delle possibilità, l’unica dimensione dove c’è il cambiamento da attuare, dove si sviluppa il percorso e la trasformazione da compiere. 

Per l’utente Envisioning significa trovare la strada da intraprendere, vederne le tappe, immaginare come sarà, cosa proverà, chi avrà accanto, di cosa avrà bisogno per realizzare, ad esempio, un’idea imprenditoriale, tenendo conto dei vari elementi (il modello personale di business).




Il metaverso non esiste

Il metaverso non esiste

Ogni giorno mi sveglio e so che nella mia casella email ci sarà almeno un comunicato stampa di un’azienda che annuncia il suo “ingresso nel metaverso”. C’è un solo problema: il metaverso non esiste. E allora come fanno le aziende a entrarci? E come fanno – stando a una miriade di articoli pubblicati in ogni angolo del globo – le persone a sposarsi nel metaverso? A speculare nel metaverso? A partecipare a eventi nel metaverso? A lavorare nel metaverso e addirittura a subire molestie nel metaverso?

Il punto è che tutto ciò non avviene nel metaverso, ma su singole piattaforme molto diverse tra loro. La speculazione e gli eventi brandizzati sono per esempio la specialità di Decentraland, il matrimonio di cui ha parlato la stampa è avvenuto tramite la piattaforma di collaborazione da remoto Virbela, mentre le riunioni di lavoro si tengono su piattaforme come Horizon Workrooms di Meta (ancora in fase beta). Le aziende che “entrano” nel metaverso, solitamente, si limitano ad adottare una di queste piattaforme per organizzare eventi o fare riunioni; in altri casi acquistano qualche piattaforma ad hoc che consente loro di fare team building o formazione in realtà virtuale (o cose simili).

Ha senso che in tutti questi casi si parli di metaverso? Per capirlo, dovremmo prima sapere esattamente che cosa il metaverso sia, e già qui la faccenda si complica. Secondo la definizione del venture capitalist Matthew Ball (che in tempi non sospetti ha dedicato un lungo saggio al tema), il metaverso è “un network interoperabile di mondi virtuali creati in 3D”. In parole semplici, il metaverso dovrebbe essere un vasto ambiente digitale in cui è possibile spostarsi senza soluzione di continuità da una piattaforma 3D all’altra, portando con noi i nostri avatar, i nostri beni digitali e il nostro denaro. 

Tutto questo, oggi, non esiste. E, come vedremo meglio più avanti, non è nemmeno chiaro se e quando prenderà davvero forma. Perché un videogioco multiplayer in realtà virtuale come Population One dovrebbe essere definito metaverso? E perché dovrebbe esserlo un ambiente sociale come Horizon Worlds di Meta o dei simil-Second Life (ma con una forte impronta speculativa legata alle criptovalute) come Decentraland o The Sandbox

Realtà virtuale

Metaverso, metaversi o…

In tutti questi casi, e in molti altri ancora, non solo non ha senso menzionare “il metaverso”, ma nemmeno parlare di “metaversi”, al plurale. Si tratta di singole piattaforme, a volte in realtà virtuale e altre no, in alcuni casi dedicate al lavoro, in altri alla speculazione, ai videogiochi, alla socialità. In più, nessuna di queste piattaforme comunica con un’altra: ciascuna di esse richiede di creare uno specifico avatar, che non possiamo trasportare da una piattaforma all’altra, e di acquistare beni che rimangono confinati al suo interno. 

Non è il metaverso (termine coniato dallo scrittore Neal Stephenson nel 1991 per indicare una sorta di “gemello virtuale” del mondo in cui viviamo): sono tante piattaforme che hanno in comune tra loro solo l’enfasi sulla possibilità di socializzare, al loro interno, con altri utenti. È come se avessimo chiamato “gameverso” il mondo dei videogiochi multiplayer o “socialverso” l’intero ecosistema dei social network. 

Ecco, immaginatevi se negli anni in cui le aziende o i politici iniziavano ad avere la loro pagina su Facebook non avessimo parlato del loro “approdo su Facebook”, ma invece annunciato il loro “ingresso nel socialverso”, se le molestie e l’hate speech non si fossero verificati su Twitter ma nel socialverso, se le teorie del complotto non si fossero diffuse su Reddit e YouTube ma nel socialverso. 

schermata da Horizon Worlds

La mossa di Zuckerberg

Ma se non esiste, perché si insiste così tanto a utilizzare il termine metaverso? Da un certo punto di vista, l’intera faccenda è una colossale operazione di marketing. Il principale responsabile è Meta/Facebook, che da quando nel 2014 ha acquistato Oculus, la più importante società produttrice di visori per la realtà virtuale, sta cercando in tutti i modi di aumentare l’interesse per la realtà virtuale. Finora, il successo è stato piuttosto scarso: secondo le stime (Meta non diffonde numeri ufficiali), dal 2014 a oggi tutti i visori Oculus hanno venduto circa 10 milioni di unità. Nello stesso lasso di tempo, sono state vendute quasi 150 milioni di Playstation, 110 milioni di Nintendo Switch e 50 milioni di Xbox One.

Con la trovata del “metaverso”, Mark Zuckerberg non ci ha solo segnalato che per il futuro punta a farci trascorrere sempre più tempo all’interno di ambienti immersivi e virtuali, ma anche quale sia lo stratosferico potere del marketing, in grado di incanalare l’attenzione dei media e della massa su qualcosa che fino al giorno prima suscitava ben poco interesse. Secondo i dati Factiva riportati dal Washington Post, solo in novembre e dicembre 2021 (ovvero subito dopo l’annuncio del rebranding di Facebook in Meta) sono apparsi sul web 12mila articoli in lingua inglese che contenevano il termine metaverso; in qualunque altro anno precedente non si era mai andati oltre i 400 nel corso di 12 mesi. Articoli più letti

Ad approfittare del gran parlare che si fa del metaverso è anche una miriade di società di consulenza e simili, che hanno trovato una gallina dalle uova d’oro che permette di offrire i loro servizi ad aziende che vogliono capire come si fa a “entrare nel metaverso” (che suona molto meglio di “aprire un negozio in Decentraland” o “lavorare in realtà virtuale”, anche se poi proprio di questo si tratta). “Chiunque vi dica che sta facendo qualcosa ‘nel metaverso’ o non ha idea di cosa stia parlando oppure vi sta volontariamente fuorviando”, ha perentoriamente scritto James Whatley, esperto di videogiochi, su The Drum

Se a questo si aggiunge che il “metaverso” viene spesso accostato ad altre complesse innovazioni – come il web3, gli nft o la realtà aumentata, con cui in realtà si sovrappone solo parzialmente – si capisce perché in giro ci sia così tanta confusione. Il complottista che è in me sospetta che tutta questa confusione sia in gran parte indotta: meno le persone hanno le idee chiare, più è facile far loro pensare che davvero esista un grande mondo virtuale – una sorta di replica digitale del nostro mondo fisico – in cui a breve tutti trasferiremo almeno una parte delle nostre esistenze. 

Questa, per ammissione di più o meno tutte le realtà che ci stanno puntando (a partire da Meta ed Epic Games), è invece solo l’utopistica e lontanissima ambizione finale: rendere il metaverso un ambiente unico e interoperabile, in cui tutte le realtà sono collegate tra loro. Una sorta di world wide web immersivo, in 3D e in realtà virtuale, che permette di spostarci tra Fortnite, Horizon Worlds, Decentraland e tutti gli altri con la stessa facilità con cui oggi ci muoviamo nel web con il nostro browser.

article image

I giardini recintati

Oltre a essere una prospettiva molto distante nel tempo e la cui fattibilità tecnica è ancora tutta da dimostrare (molti puntano sulla blockchain, ma anche qui siamo in un campo pieno di incognite), non è nemmeno chiaro se davvero ci sia la volontà di perseguirla. “Storicamente, lo sviluppo di tecnologie interoperabili come le email e il web è stato alimentato da governi, dall’accademia e dalle no-profit, non da colossi privati come Meta”, scrive ancora il Washington Post. Al contrario: realtà di questo tipo hanno semmai sempre spinto in direzione opposta, trasformando la decentralizzazione del web nei “giardini recintati delle app”, che hanno lo scopo di trattenerci quanto più tempo possibile al loro interno e non certo di aprirci alla possibilità di esplorare liberamente un ambiente aperto.

“Una versione di internet interconnessa e in 3D in cui ci scambiamo magliette sotto forma di nft mentre ci spostiamo senza difficoltà da una piattaforma all’altra è tanto realistica quanto i film di fantascienza che vengono mostrati nelle slide di apertura di ogni singola presentazione che avete visto su questo tema”, scrive ancora Whatley su The Drum. Se anche fosse possibile, bisogna capire se davvero vorremo passare le nostre giornate tappati in casa indossando dei visori che ci isolano completamente da ciò che ci circonda e che ci costringono a svolgere una parte delle operazioni quotidiane in un mondo di poligoni e popolato da avatar. La buona notizia è che, finché esisterà praticamente solo nei reparti marketing delle aziende e delle società di consulenza, non dovremo preoccuparci dei risvolti distopici del metaverso.