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Intervista a Daniele Cobianchi CEO di McCann Worldgroup Italy, Presidente Mediabrands Italy e Sustainability Advocate del gruppo in Italia.

Intervista a Daniele Cobianchi CEO di McCann Worldgroup Italy, Presidente Mediabrands Italy e Sustainability Advocate del gruppo in Italia.

Come si posiziona McCann Worldgroup in questo scenario e in che modo Responsabilità sociale e rispetto dell’ambiente sono perseguiti all’interno della nuova strategia “One operation”?

Il nostro gruppo vuole aprire la strada ad un’economia più sostenibile e meno dispendiosa per l’ambiente anche in ambito pubblicitario. Abbiamo intrapreso un percorso attivo in questa direzione, da almeno un anno e mezzo, e possiamo dire di aver fatto la scelta giusta. Siamo consapevoli che, per anni, l’industria pubblicitaria abbia contribuito ad aumentare le occasioni di consumo, a destagionalizzare prodotti, a rendere desiderabile a volte anche il superfluo riuscendoci peraltro molto bene. Ma ora il mondo è cambiato e la sostenibilità è un fattore che non può né deve passare in secondo piano.

Siamo il primo network pubblicitario ad aver pubblicato il report SASB definendo lo standard nell’industry di riferimento e fornendo informazioni trasparenti in materia di ESG. Questo rappresenta un primo importantissimo passo sia nell’ottica della responsabilità sociale che nel rispetto dell’ambiente. IPG è anche la prima holding di comunicazione ad aver siglato The Climate Pledge, il programma di Amazon e Global Optimism per raggiungere emissioni nette di carbonio pari a zero entro il 2040. Grazie all’input dell’agenzia Initiative, il gruppo ha aderito a questo progetto che ci coinvolge tutti al fine di raggiungere l’obiettivo prestabilito.

Stiamo indubbiamente muovendo dei passi concreti sia internamente con le persone del nostro gruppo nello sviluppo di una maggior coscienza verso queste tematiche che all’esterno con i progetti e le strategie che seguiamo per i nostri clienti.

È un commitment non da poco: azzerare la carbon footprint entro il 2040 è un obiettivo ambizioso. Vi è capitato di incontrare delle resistenze, palesi o celate, o delle antipatie in questo vostro ruolo di guida al cambiamento tra gli attori del vostro ring competitivo, e che cos’è per contro che – secondo lei – trattiene altre realtà dall’impegnarsi così attivamente?

Possiamo dire di essere dei concreti first-mover su queste tematiche all’interno dell’industry pubblicitaria e creativa. Non abbiamo mai incontrato delle nette e rigide resistenze dai nostri interlocutori. Fin dall’inizio abbiamo riscontrato, invece, molta curiosità da parte di partner e clienti rispetto a un approccio sostenibile che ha poi lasciato il passo a grande fiducia da parte loro. Da qui sono nati progetti di rilievo su queste tematiche. Progetti in cui possono e possiamo dare un contributo, smuovere le persone e determinare un cambiamento nei loro comportamenti, che è poi ciò che facciamo come McCann nell’aiutare i brand a dare un contributo meaningful alla vita delle persone. L’impatto che possono avere i grandi gruppi sarà fondamentale nei prossimi anni ed è bellissimo poterli affiancare in questa rivoluzionaria sfida.

L’attenzione alla sostenibilità è un asset che per perdurare ha bisogno della convinzione non solo del gruppo dirigente, ma di tutti i componenti dell’azienda. Quali sono le iniziative che state organizzando in quest’ottica e quali avete in programma per i prossimi mesi? Qual è il riscontro tra i dipendenti?

Nell’ultimo anno, il gruppo sta localmente adottando delle green practices volte a creare una cultura della sostenibilità partendo da noi, i nostri spazi e le nostre dinamiche d’agenzia. Poi cerchiamo di riflettere tutto questo nel rapporto con i clienti e nelle campagne pubblicitarie. Pensiamo, per esempio, ai progetti ideati nel corso dell’ultimo anno che promuovono il consumo sostenibile, solo per citarne alcune: “The Taste of no waste” di Buitoni, la campagna corporate di Nestlé “Il buono che ci auguriamo” o ancora “Eroi dell’impegno” di Mutti.

A livello internazionale c’è una Sustainability Task Force attraverso la quale condividiamo le best practices già adottate per i nostri clienti. È appena stata lanciata la ricerca globale Truth about Sustainability di cui avremo i risultati locali a breve. Uno studio che traccia le linee da seguire nel prossimo futuro e che si interroga sulle implicazioni della sostenibilità nella vita di tutti i giorni, individuando le verità intorno a questo grande filone. Non smettiamo mai di studiare…

Abbiamo creato delle partnership con piattaforme innovative come AWorld che collabora con le Nazioni Unite. E, più in generale, il nostro approccio, come One Operation, ci vede impegnati più concretamente, si è creato volontariamente un team dedicato che ha a cuore la sostenibilità e si metterà alla prova nel corso del 2022.

Sostenibilità non è solo clima e ambiente, è anche capitale umano e contenuti responsabili, etica del rispetto in qualsivoglia declinazione. Il vostro gruppo sta organizzando delle sessioni di deep learning sui principi della sostenibilità e della circular economy, basate sulle sue conoscenze acquisite nel Master dell’Università di Cambridge e sul Global Learning Programme delle Nazioni Unite, per aumentare la consapevolezza dei dipendenti. Vuole raccontarci qualcosa al riguardo? 

Sì, personalmente mi sono reso conto che si tratta di temi molto complessi che vanno approfonditi per cui, in pieno lockdown, sono diventato un Learner del programma di Strategie della Sostenibilità, basato sul Global learning Program delle Nazioni Unite, e ho frequentato un master alla Judge Business School di Cambridge. Ho capito quanto fosse importante trasferire quanto appreso agli altri così ne è nato un percorso di deep learning sui principi della sostenibilità e della circular economy, seguito da oltre 60 dei nostri talenti. È stato un momento formativo, le persone hanno preso consapevolezza dell’urgenza di agire e farlo in fretta. Ci siamo confrontati sul tema ed è nato un percorso di approfondimento che è andato oltre alle nostre consuete attività lavorative.

Nel mercato della pubblicità e della comunicazione è il cliente che detta le regole. Qual è la vostra politica quando un vostro cliente richiede una menzione alla sostenibilità, ma non attua in realtà alcuna strategia concreta per mitigare i propri impatti ambientali o migliorare le policy sociali? 

Ci poniamo sempre nella posizione di dare dei consigli ai clienti e cerchiamo di far capire loro che le campagne pubblicitarie hanno un grande risalto e possono smuovere le coscienze delle persone per cui è necessario un impegno reale e concreto. Finora abbiamo sempre lavorato con realtà in cui strategia e concretezza andavano di pari passo. Parlare di consumo critico è un obiettivo che le aziende devono cominciare a considerare.

È importante essere sostenibili, ma lo è altrettanto che gli stakeholder ne abbiano contezza. In che modo comunicate i vostri sforzi di sostenibilità al vostro pubblico di riferimento?

Noi comunichiamo per lo più attraverso il nostro lavoro, dunque tramite le nostre campagne pubblicitarie, per intenderci abbiamo ideato tante delle pubblicità che vedete in Tv, sentite alla Radio o vedete sulle piattaforme digitali. Poi abbiamo un canale preferenziale e diretto che è quello dei social, soprattutto LinkedIn con cui esterniamo le nostre azioni, progetti e campagne anche in ambito sostenibilità. Non c’è vanità nel raccontare questi progetti ma solo il desiderio di essere un buon esempio per gli altri.

Molti sembrano faticare ad accettare che le azioni di CSR e una miglior Corporate Reputation in generale producano migliori performances finanziarie. Può darci la sua esperienza in merito?

La Corporate Social Responsibility nutre la Corporate Reputation. Chiunque rinunci a questo nutrimento avrà ben poca reputation da rivendicare




Un’azienda di Bergamo incentiva i dipendenti a leggere. E il fatturato sale

Un’azienda di Bergamo incentiva i dipendenti a leggere. E il fatturato sale

“La cultura è di tutti”: non è solamente una frase fatta, e una azienda del bergamasco lo sta dimostrando da oltre un anno. Al centro della vicenda c’è la Vanoncini Edilizia Sostenibile, che dal 2020 – in pieno lockdown, in un momento drammatico, soprattutto per Bergamo – ha lanciato un’iniziativa culturale rivolta ai propri dipendenti. Si tratta di un Club del Libro in pieno stile (o Book Club), un’attività collettiva pensata non in termini di dopo-lavoro, bensì che avviene durante le ore lavorative. Con adeguata retribuzione extra. “Io credo fortemente nel valore della cultura e della formazione: sono il primo che si impegna a leggere e studiare”, così parla Danilo Dadda, 52enne, Amministratore delegato di Vanoncini. “So però che, alle volte, la stanchezza o, forse, un pochino di pigrizia allontanano le persone dalla lettura, così ho pensato di incentivare i miei collaboratori a leggere e creato due occasioni al mese in cui possono presentare o partecipare alla presentazione di un libro. L’adesione che ho ottenuto è stata completa e anche più entusiastica di quanto mi potessi aspettare”.

IL BOOK CLUB DI VANONCINI: QUALI SONO LE REGOLE

Il “Club dei muratori” – così ormai è stato rinominato in via informale – è un gruppo aperto a tutti i dipendenti, ma l’adesione non è obbligatoria. Il collaboratore può scegliere un libro a piacere, dai romanzi di Dostoevskij e Dumas, ai manuali di automiglioramento, fino ai saggi. Una volta che lo ha letto, prepara una scheda di presentazione e si propone alla dirigenza per presentarlo ai colleghi durante le due riunioni mensili che vengono fatte. Ma che cosa ottiene in cambio? A ogni presentazione gli viene riconosciuto un buono d’acquisto di 100 euro, che raddoppia e triplica alla seconda e terza presentazione, e cresce ulteriormente se il libro che viene presentato è in inglese. “Abbiamo fornito un primo elenco di 60 libri ai quali i nostri collaboratori possono attingere, ma nulla osta che ognuno scelga in autonomia il testo da leggere e proporre”, prosegue Dadda. “Il risultato che abbiamo ottenuto in appena un paio di mesi sono persone felici di dedicare parte del proprio tempo alla lettura e ancor più felici di condividere le loro ‘scoperte’ letterarie con i colleghi”.

IL BOOK CLUB DI VANONCINI: INVESTIRE SULLA CULTURA

Un’iniziativa non totalmente nuova per Vanoncini Spa, che da sempre crede fortemente e investe sulla formazione. Tanto da aver lanciato il progetto “Academy”, attraverso il quale organizza seminari e convegni su diversi temi dell’edilizia, spesso in collaborazione con il Politecnico di Milano. Ma in questo caso, il Book Club vira totalmente dal settore in cui è coinvolta l’azienda, focalizzandosi sul senso di coesione, di condivisione delle idee, del piacere della scoperta e della valorizzazione delle potenzialità personali e intellettuali dei suoi dipendenti. E i numeri? Vengono di conseguenza, dato che la Vanini ha chiuso il 2020 – un anno non certo favorevole per la crescita economica – con un fatturato di 28 milioni di euro, ovvero il 10% in più rispetto all’anno precedente. Si potrebbe definire un “effetto team building” ma con un riscontro sulla persona ben più a lungo termine. Nonché, dati alla mano, un esempio da seguire.




Valentino, Anatomy of Couture: l’equilibrio dei corpi secondo Pierpaolo Piccioli

Valentino, Anatomy of Couture: l'equilibrio dei corpi secondo Pierpaolo Piccioli

Quando si pensa alla Haute Couture, si immagina qualcosa che riguarda le donne e le donne soltanto. La nozione stessa di Couture, o di Alta Moda, è spesso fonte di malintesi. Non è raro, anche sulla stampa, leggere di ‘capi d’alta moda’ che in realtà di Alta Moda non sono, perché semplicemente c’è un’errata traduzione del termine inglese High Fashion.

Per fare chiarezza una volta per tutte, quello che in inglese viene definito High Fashion, da noi si traduce con mercato o moda del lusso.

Ed è a grandi linee il circuito che un tempo veniva anche definito prêt-à-porter. Abiti pensati per l’anno successivo e prodotti in serie che, pur con qualche eccezione, vengono presentati con delle sfilate divise per genere e per stagionalità. L’Autunno-Inverno a gennaio per l’uomo e a febbraio per la donna, mentre la Primavera-Estate a giugno per l’uomo e a settembre per la donna. Il tutto su quattro piazze principali, in ordine di calendario: New York, Londra, Milano e Parigi. Anche se esistono infinite realtà minori, come Copenhagen o Baku, che rendono virtualmente il ciclo di presentazioni delle nuove collezioni perpetuo e globale.

L’Haute Couture, o Alta Moda, a seconda di dove venga realizzata e presentata, se a Parigi o in Italia, è invece un circuito in cui vengono presentati abiti che sono pezzi unici, che non vengono venduti nei negozi, che impiegano materiali preziosi, sono realizzati interamente a mano con anche centinaia di ore di lavoro per un singolo capo e hanno prezzi che possono tranquillamente superare i centomila euro.

La Couture ha radici antiche, nasce nel 1850 a Parigi quando i sarti organizzavano per le celebrities del tempo presentazioni private delle creazioni più speciali perché lussuose, innovative o uniche.
Se questo ha riguardato per oltre un secolo solo le donne e il corpo femminile, negli ultimi anni all’interno delle collezioni couture di sempre più marchi sono presenti versioni maschili dello stesso approccio sia mentale che costruttivo all’abito: Dolce & Gabbana, Fendi, Balenciaga, Valentino sono tutti brand che realizzano abiti Couture anche per l’uomo.

Valentino Anatomy of Couture

Mercoledì nelle sale della sede parigina della maison, è andata in scena la collezione Haute Couture Spring Summer 2022, disegnata da Pierpaolo Piccioli per Valentino. La terza per il brand ad includere anche outfit maschili, dopo la collezione Valentino Des Atelier presentata a Venezia e Code Temporal presentata alla Galleria Colonna di Roma
In questo capitolo, dal titolo esplicativo Anatomy of Couture, è il corpo al centro del discorso. Il corpo come modello, come spazio sufficiente e necessario attorno a cui l’abito viene costruito. Spazio che nella Couture è anche l’unico spazio possibile. Corpo a cui il vestito viene letteralmente cucito addosso. 
Scardinare le forme -l’anatomia- del corpo come archetipo sacro e intoccabile è nella couture un’operazione che significa mettere in discussione oltre un secolo di storia. E in questo c’è concettualmente un’azione molto diversa rispetto a quella che ormai conosciamo come ‘inclusività’.

Courtesy Maison Valentino
Courtesy Maison Valentino giovanni_giannoni_photo

In questa sfilata il modello passa dall’ideale al reale, e quindi i corpi sono molteplici e diversi, per volumi, forme, età e per quelle specificità che per tradizione e cultura siamo soliti attribuire a un genere o all’altro.
Uno show che è un esempio di sfilata che riduce gli elementi spettacolari al minimo, e si rifà invece alla tradizione più classica: un tappeto bianco, nessuna scenografia, nessuna performance che non sia quella della moda stessa.

È interessante notare come le donne esprimano una consapevolezza dello spazio, del movimento e del colore con una presenza che appare corale e condivisa. 
Gli uomini invece risultano affascinanti perché eterei, leggeri, quasi spaesati e carichi di una bellezza lucente e delicata che per abitudine attribuiremmo al femminile.

Courtesy Maison Valentino
Courtesy Maison Valentino giovanni_giannoni_photo
Courtesy Maison Valentino
Courtesy Maison Valentino giovanni_giannoni_photo

Ogni sfilata è la proposta di un mondo possibile e auspicabile e il senso di una sfilata couture è quanto di più teorico la moda possa offrire, non presentando abiti che sono pensati per diventare appetibili al grande pubblico.
È un racconto che, per la stragrande maggioranza di noi, esiste solo nel territorio della sfilata. Qualcosa da osservare come un corto cinematografico o uno spettacolo teatrale.

Vale quindi la pena non concentrarsi solo sugli abiti, ma sul senso della rappresentazione intesa come un intero.
Nel mondo messo in scena qui da Piccioli gli uomini, in outfit morbidi e neri, oppure neutri come quelli color cipria, oppure trasparenti e luccicanti perché coperti di pietre funzionano da contrappunto al succedersi di donne che si sono riappropriate del ruolo del loro corpo nel discorso della moda.

Non sono uomini privati della propria mascolinità, ma che hanno scelto la consapevolezza del proprio ruolo invece dell’affermazione del proprio potere.
C’è un senso di pace e di equilibrio tra i generi e i corpi. Forse tutta la sfilata parla di equilibrio a ben vedere, di uomini che cedono il passo e di donne con corpi reali e non più ideali che avanzano senza rabbia, che non hanno bisogno di sgomitare.

Courtesy Maison Valentino
Courtesy Maison Valentino giovanni_giannoni_photo
Courtesy Maison Valentino
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Courtesy Maison Valentino
Courtesy Maison Valentino giovanni_giannoni_photo

Ma cosa c’entra tutto questo con vestiti, maglie, pantaloni? Poco, forse niente. Ma come si diceva, nessuno di noi comprerà quei vestiti, ma una sfilata può essere lo spunto per una riflessione. I temi che vengono messi in campo nei 15 minuti di una sfilata, con un linguaggio che non è narrativo e non è quello di un saggio o di un editoriale, riguardano tutti. Ed è interessante provare a interpretarli e tradurli, anche nel quotidiano, nelle cose che anche noi, maschi, ci chiediamo quando la mattina ci guardiamo allo specchio e ci interroghiamo su quanto il nostro corpo, il nostro peso, la nostra età influisca su come gli altri si relazionano con noi e sul nostro ruolo di maschi nel mondo.

Courtesy Maison Valentino
Courtesy Maison Valentino Andre’ Lucat – AndreKina Photography



Il giorno della Tassonomia verde Ue: che cosa è, perché è importante, le divisioni politiche su nucleare e gas, la bocciatura dei tecnici e la strategia dell’Italia

Il giorno della Tassonomia verde Ue: che cosa è, perché è importante, le divisioni politiche su nucleare e gas, la bocciatura dei tecnici e la strategia dell’Italia

E venne il giorno. Quello in cui la Commissione europea adotterà il secondo e attesissimo atto delegato che, insieme a una serie di altri atti delegati, dovrebbe definire nel dettaglio il regolamento sulla Tassonomia verde europea, che dice agli investitori privati cosa sia ‘sostenibile’ e cosa non lo sia. Solo che questo secondo atto ha spaccato l’Europa, divisa tra i Paesi che sostengono l’inclusione di gas e nucleare nella Tassonomia e quelli che vi si oppongono. In realtà da mesi si assiste a una diatriba tra la Germania, sfavorevole all’inserimento dell’energia dell’atomo e la Francia, che ricava dai reattori nucleari quasi il 70% dell’energia. Nei giorni scorsi, la commissaria Ue responsabile del dossier, l’irlandese Mairead McGuinness, ha già anticipato che saranno possibili solo “piccole modifiche” rispetto alla bozza inviata il 31 dicembre ai Paesi membri. Nelle ultime ore la conferma: “Vi sarà una modifica, non una riscrittura” della bozza che ha aperto le porte sia al gas (“combustibile fossile, ma molto meglio del continuo uso di carbone sporco”) sia al nucleare. Con dei paletti, ritenuti però insufficienti anche dal Gruppo sulla finanza sostenibile (Platform for Sustainable Finance), il gruppo di esperti istituito dall’Unione europea per stilare la lista di attività green.

La Tassonomia verde

Per raggiungere, infatti, gli obiettivi climatici che si è posta l’Ue – la riduzione del 55 per cento delle emissioni entro il 2030 e la neutralità climatica al 2050 – non bastano i fondi pubblici, come quelli del Next Generation EU, ma è necessario anche l’intervento dei privati. Da qui la necessità di un sistema di classificazione che faccia da faro alle imprese da un lato, agli investitori dall’altro. Il regolamento sulla Tassonomia Verde è entrato così in vigore il 12 luglio 2020. Sei gli obiettivi climatici: mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine, transizione verso l’economia circolare, prevenzione e controllo dell’inquinamento, protezione della biodiversità e della salute degli eco-sistemi. Per rientrare nella Tassonomia Verde, dunque, un’attività dovrebbe contribuire positivamente ad almeno uno dei sei obiettivi ambientali e non produrre impatti negativi su nessuno degli altri target (oltre a rispettare le garanzie sociali minime).

Il primo atto delegato

Il vero nodo, però, sono proprio gli atti delegati che devono fissare i criteri tecnici da seguire per stabilire quali siano le attività sostenibili. Il primo atto delegato, che riguarda gli obiettivi della mitigazione e dell’adattamento ai cambiamenti climatici, è stato pubblicato dalla Commissione il 21 aprile 2021. Dopo una prima bozza respinta da Polonia, Romania, Bulgaria, Slovacchia, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria e Malta, l’atto è stato approvato il 9 dicembre scorso. Tra i vari settori, tra cui energia, trasporti, edilizia e attività manifatturiere, include il 40% circa delle imprese quotate in borsa. Senza contare il tentativo di inserire tra le attività sostenibili anche la produzione di armi, portato avanti da Leonardo spa, la società che si occupa di tecnologie spaziali, di difesa e di armamenti, il cui maggior azionista è il ministero dell’Economia con una quota di circa il 30% e dove il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha lavorato a capo della divisione tecnologica e innovazione. Tornando all’atto delegato, il documento ha stabilito un limite alle emissioni di CO2 per le attività energetiche di 100 grammi CO2e/kWh (considerando le emissioni dirette e indirette), sospendendo la decisione su gas e nucleare, cuore del secondo atto delegato.

La spaccatura in Ue

Nel frattempo, però, sul tema si è scatenato il dibattito tra i Paesi dell’Unione. In questi mesi si è parlato anche di una sorta di patto tra Italia, interessata a far includere il gas e Francia, impegnata a promuovere il nucleare. Poi la Commissione ha iniziato a scoprire le carte. Già a ottobre 2021, la presidente Ursula von der Leyen (di cui era nota la posizione a favore dell’energia dell’atomo) ha espresso per la prima volta in modo chiaro la direzione che si stava prendendo: “Abbiamo bisogno di più rinnovabili, ma anche di una fonte stabile, il nucleare e del gas”. Negli stessi giorni 12 Paesi (Francia, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Finlandia, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Romania) hanno inviato una lettera alla Commissione Ue chiedendo l’inserimento del nucleare nella Tassonomia. Poi c’è stata la Cop 26 di Glasgow, dove Germania, Austria, Lussemburgo, Danimarca e Portogallo hanno firmato una dichiarazione congiunta contro l’inserimento dell’energia dell’atomo. Un vero e proprio scontro che non si è mai fermato.

Il secondo atto delegato

Alla fine, il 31 dicembre, è arrivata la bozza del secondo atto delegato. Per quanto riguarda il nucleare, la Commissione europea la considera una fonte energetica necessbaria durante la transizione verso la neutralità climatica. Con dei paletti: si darebbe il via libera a progetti realizzati entro il 2045 per cui si dimostri di avere un impianto di smaltimento delle scorie operativo entro il 2050 e a condizione che si rispettino i più alti standard di sicurezza, imposti dai trattati internazionali. Solo che, ad oggi, non è ancora chiaro quali siano gli impianti da considerare sicuri, senza pensare alla quarta generazione di cui molto si parla, ma che non può vantare ancora nessun reattore commerciale in funzione. Per intenderci, quello entrato in funzione a dicembre 2021 in Cina, dopo 10 anni di lavori, è un reattore dimostrativo. E anche in Italia, pur cambiando politica e inserendo l’acceleratore, i reattori commerciali non potrebbero mai entrare in funzione entro il 2030. Porte aperte anche per il gas. In questo caso, i nuovi progetti per impianti a gas dovrebbero essere approvati entro il 31 dicembre 2030. Sarebbero considerate ‘sostenibili’ le centrali a gas con un limite di emissioni (ma solo dirette) di 270 grammi di CO2 equivalente per kWh oppure che emettano sotto i 550 chilogrammi di CO2 equivalenti per kW di potenza installata, in media, nei prossimi 20 anni. In pratica, il limite non è sulla sostenibilità o meno dell’impianto in sé, ma ci si affida a un suo minore utilizzo per arrivare a una conseguente riduzione delle emissioni. Altra alternativa prevista nella bozza è la sostituzione graduale del gas fossile, come carburante della centrale, con un altro carburante a bassa intensità di carbonio, come biogas o idrogeno. Con degli step di miscelazione al 2026 e al 2030 (modificati nella versione definitiva) e la sostituzione totale entro il 2036.

Le ultime prese di posizione

La bozza non ha fatto che alimentare polemiche e accuse. Intanto il dossier del gruppo di esperti istituito dall’Unione europea per stilare la lista di attività green (Platform for Sustainable Finance), ha bocciato il secondo atto delegato, come ha spiegato a ilfattoquotidiano.it Luca Bonaccorsi, direttore della Finanza Sostenible dell’ong Transport&Enviroment e tra gli autori del rapporto. Oltre alla Germania, in una lettera pubblica hanno ribadito il loro “no al nucleare” anche Spagna, Danimarca, Lussemburgo e Austria. Questi ultimi due Paesi hanno anche minacciato di ricorrere alla Corte di giustizia dell’Ue. Nel frattempo, l’Italia (che non si è mai esposta ufficialmente sul gas, limitandosi a strizzare l’occhio a Parigi con diverse dichiarazioni) ha inviato a Bruxelles un documento, concentrandosi sugli affari più cari a Roma, quelli legati al gas. Nel documento, il governo Draghi ha valutato come troppo stringenti i limiti previsti nel secondo atto delegato per riconoscere come ‘verdi’ gli impianti. Secondo l’Italia, la soglia di emissione di Co2/kWh dovrebbe essere alzata a 340 grammi, oppure si dovrebbe consentire di mantenere una media annuale di 750 chilogrammi di Co2/kWh calcolata su vent’anni. Non la pensa così, evidentemente, il presidente della Banca europea per gli investimenti, Werner Hoyer. “Il fatto che alcuni investimenti siano possibili non vuol dire che occorra farli” ha detto, ribadendo che non c’è alcuna intenzione di investire sul nucleare e manifestando perplessità anche sui criteri inseriti per il gas. In Italia, sulla stessa linea, Banca Etica. “Mai ci saremmo aspettati una soluzione finale così al ribasso che inserisce tra le attività finanziabili anche gas e nucleare” ha commentato la presidente Anna Fasano, annunciando che “il gruppo continuerà a distinguersi con politiche di investimento più rigorose e selettive per portare un vero cambiamento nel sistema economico”.

Cosa accadrà

Dopo l’adozione da parte della Commissione, toccherà a Parlamento e Consiglio Ue pronunciarsi sul testo. I due organi avranno tra i quattro e i sei mesi di tempo per approvarlo o respingerlo (non potranno emendarlo). Per bloccare l’atto delegato al Consiglio è necessaria una maggioranza qualificata di Paesi contrari, ossia almeno 20 stati rappresentanti il 65 per cento della popolazione europea. Al Parlamento Ue, invece, servirebbe la maggioranza assoluta dei suoi componenti, vale a dire 353 europarlamentari. Il verdetto finale, quindi, è atteso per luglio 2022.




7 domande da porsi per sapere se un fondo d’investimento è sostenibile

7 domande da porsi per sapere se un fondo d’investimento è sostenibile

Cos’è un “investimento sostenibile”? L’Unione europea ha stabilito che un investimento è sostenibile quando finanzia attività economiche che contribuiscono a raggiungere obiettivi ambientali e/o sociali. Queste attività, inoltre, non devono danneggiare altri fattori ambientali e sociali. Vale a dire: non è sostenibile produrre energia a zero emissioni e contemporaneamente riversare rifiuti tossici nell’ambiente. Terzo punto: un investimento sostenibile sceglie aziende che rispettano codici di buona gestione, per esempio sulla remunerazione del personale e sul rispetto degli obblighi fiscali.

Passando dalla teoria alla pratica, significa investire il proprio denaro scegliendo prodotti finanziari (come fondi d’investimento o fondi pensione) che seguono questo approccio. Lo possono fare adottando diverse strategie. Per esempio, ci sono fondi tematici che si concentrano sulle energie rinnovabili. Fondi che investono solo nelle imprese che promuovono con maggiore successo la parità di genere. O che lavorano con le aziende per aiutarle a produrre in modo più sostenibile.

Come si individuano questi fondi? Ecco alcun riflessioni che possono essere utili quando ci si trova di fronte a un prodotto finanziario che dice di essere “sostenibile” o “ESG” (Environmental, social and governance).

1. Al di là di classificazioni ed etichette, dove investe il fondo?

I fondi possono ottenere certificazioni di sostenibilità, cioè delle “etichette” che provano che la politica d’investimento rispetta una serie di criteri. Per esempio, i fondi con il marchio francese Greenfin non investono in aziende attive nel settore dell’energia nucleare, insieme ad altre caratteristiche.

Da marzo del 2021 un regolamento dell’Ue riconosce due tipi di fondi sostenibili in base al grado di ambizione. A seconda della categoria in cui si classificano, i fondi sostenibili si definiscono come “Articolo 8” o “Articolo 9” (dal numero dei due articoli che li definiscono). Questi prodotti devono pubblicare informazioni su come gestiscono i rischi di sostenibilità, come riducono gli impatti negativi, quali obiettivi si propongono di raggiungere e come lo fanno.

Per quanto utili, classificazioni ed etichette non sono sufficienti a fare una valutazione a 360°. Per esempio, al momento i gestori danno interpretazioni molto diverse ai prodotti Articolo 8 e Articolo 9. Quindi, sotto lo stesso nome si possono trovare fondi molto diversi. Un’analisi condotta a luglio del 2021 ha evidenziato che circa il 30% dei prodotti “Articolo 9”, cioè i più sostenibili, investe in aziende attive nel settore dei combustibili fossili. Una circostanza che molti risparmiatori non si aspetterebbero, se un fondo si definisce sostenibile.

Un’idea più chiara può emergere dall’analisi del portafoglio, cioè verificando quali sono i settori e le aziende dove il fondo investe (o almeno i principali). Queste informazioni sono disponibili nelle relazioni di gestione semestrali e annuali.

2. Il fondo dialoga con le aziende?

La presenza di investimenti in settori controversi non deve necessariamente scoraggiare. Non è detto che un fondo con una carbon footprint elevata (cioè che investe in aziende che emettono molti gas ad effetto serra) non si impegni per promuovere la transizione. Il contributo può essere infatti molto efficace attraverso l’engagement.

Le istituzioni finanziarie fanno, appunto, engagement quando dialogano e collaborano con le aziende investite per aiutarle ad adottare pratiche più sostenibili. Diverse ricerche hanno dimostrato che tale approccio è uno degli strumenti più efficaci con cui gli investitori possono produrre impatti concreti e positivi sull’ambiente e sulla società. Intervenendo, cioè, sulle aziende.

Per ridurre drasticamente le emissioni di gas serra occorre sviluppare soluzioni innovative ed efficienti nei settori a maggiore impatto. Sono proprio questi ad avere bisogno di più capitali per finanziare la transizione. E di investitori che collaborano al processo. I fondi coinvolti in questa attività possono avere un’impronta elevata in termini di emissioni climalteranti. Ma altrettanto elevato è il loro contributo alla mitigazione dei cambiamenti climatici.

Secondo recenti stime, lavorare sui settori ad alte emissioni – come la produzione di acciaio e cementol’aviazione, il trasporto marittimol’agricoltura – permetterebbe di dimezzare le emissioni globali. Tuttavia, questi settori ricevono solo il 10% dei flussi ricondotti alla finanza climatica.

Per farsi un’idea accurata delle credenziali di sostenibilità di un fondo, quindi, è opportuno verificare se fa engagement, come lo fa, con quali aziende, con quali obiettivi e con quali risultati.

3. L’investitore vota in modo coerente agli obiettivi di sostenibilità?

Se un investitore ha una politica di azionariato attivo legata ai temi ESG, significa che si impegna a votare in base a determinati principi e obiettivi di sostenibilità nelle assemblee degli azionisti delle società investite. Per esempio, a maggio del 2021 durante l’assemblea della compagnia petrolifera statunitense Exxon Mobil, un gruppo di azionisti ha fatto eleggere tre consiglieri di amministrazione dalle posizioni ambientaliste.

In diversi Paesi, tra cui i membri dell’UE, gli investitori sono tenuti a pubblicare sui siti informazioni sulle politiche di engagement e di azionariato attivo. Più complicato è verificare se queste dichiarazioni vengono rispettate. L’ONG ShareAction ha analizzato il voto delle 65 principali società di gestione del mondo in merito a 146 risoluzioni su temi ambientali e sociali nel corso del 2021. Ne è emerso che proprio i membri dell’iniziativa internazionale per l’engagement Climate Action100+ hanno votato, in media, contro un terzo delle risoluzioni sui temi ambientali.

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La finanza può giocare un ruolo cruciale nel rendere il mondo sostenibile © metamoworks/iStockPhoto

4. Qual è l’obiettivo? Proteggere il patrimonio dai rischi, oppure produrre effetti positivi per il clima, per l’ambiente e per la società?

Quando i gestori di un fondo devono decidere se investire o meno nel titolo di un’azienda, nella maggior parte dei casi ne analizzano il rating ESG, cioè un giudizio sintetico sulle performance di sostenibilità, che viene elaborato da agenzie specializzate.

Una ricerca della New York University ha rilevato che la maggior parte delle metodologie per elaborare i rating ESG è focalizzata sui rischi e non considera gli impatti. In altre parole, i rating dicono quanto il valore economico-finanziario dell’azienda sia esposto ai rischi di sostenibilità. Viceversa, non valutano se le pratiche dell’azienda producano un effetto positivo o negativo sull’ambiente o sulla società. Quindi, un’azienda con un rating climatico elevato è ben protetta dai rischi (come i danni agli impianti causati dai fenomeni atmosferici estremi), ma non è detto che sia responsabile di poche emissioni.

È quindi importante avere chiaro il proprio obiettivo d’investimento. Proteggere i risparmi dai rischi? Oppure contribuire a costruire un’economia più inclusiva e a ridurre gli impatti negativi sull’ambiente?

5. Se il fondo segue un indice climatico, quanto contribuisce ad abbassare le emissioni?

Molti fondi replicano passivamente l’andamento di indici (o benchmark), cioè insiemi di titoli che vengono selezionati e pesati tra loro in base a certi criteri, come il livello di emissioni di gas ad effetto serra, o i rating ESG. Gli indici possono includere determinate regole: per esempio una riduzione percentuale della CO2 dispersa di anno in anno nell’atmosfera.

Uno studio EDHEC Business School – Scientific Beta ha evidenziato che la maggior parte degli indici climatici porta a preferire i settori che per natura sono meno inquinanti (o le aziende meno esposte ai rischi), ma che hanno meno potenzialità di abbassare le emissioni complessive dell’economia. Al contrario, i settori che emettono più gas ad effetto serra trovano uno spazio ridotto nei portafogli. Come visto sopra, questo approccio permette di abbassare rapidamente le emissioni del fondo, ma non è molto efficace a sostenere la transizione.

6. Il disinvestimento è sempre una scelta efficace?

La risposta più istintiva a questa domanda è sì. Se si vuole investire in modo sostenibile, un’azione immediata è cercare fondi che escludono le aziende attive in settori controversi. O quelle che non forniscono garanzie adeguate sul rispetto dei diritti umani, su diversità e inclusione, o sulla tutela della salute. Sempre più istituzioni finanziarie annunciano la decisione di disinvestire dalle imprese coinvolte nella produzione di combustibili fossili.

La logica è che perdere investitori danneggia le aziende colpite e quelle con caratteristiche simili, spingendole a migliorare. Restando sull’esempio dei combustibili fossili: i fondi possono vantare un’impronta in termini di emissioni di CO2 più bassa e i risparmiatori si sentono sollevati all’idea di non finanziare aziende pericolose per il clima.

Tuttavia, gli effetti concreti sono discutibili. È stato osservato che nella maggior parte dei casi i titoli delle aziende disinvestite vengono acquisiti da altri fondi che evidentemente non hanno politiche di sostenibilità, o hanno criteri meno stringenti. E sono meno propensi a investire risorse nell’engagement.

Spinte dalla pressione degli investitori, sempre più compagnie petrolifere vendono parte delle loro operazioni. Queste attività vengono rilevate da imprese controllate dagli Stati, oppure da aziende non quotate in Borsa, che hanno meno obblighi di trasparenza. In molti casi si tratta di aziende finanziate da hedge fund, o da società di private equity.

Nel Regno Unito un terzo della produzione di petrolio del Mare del Nord è in mano a investitori privati. In sostanza, le pompe petrolifere continuano a funzionare, al riparo dallo scrutinio dei mercati e dell’opinione pubblica. A livello globale, i combustibili fossili ricevono l’80% degli investimenti in energia dei dieci più grandi fondi di private equity.

7. I criteri ESG vengono applicati a tutti gli investimenti? Il caso net-zero

È importante capire se il fondo applica criteri ESG (o persegue obiettivi di sostenibilità) per selezionare tutti i titoli in cui investe, oppure solo a una parte. Questa considerazione serve a soppesare quanto sono incisive le dichiarazioni delle istituzioni finanziarie sull’obiettivo net-zero, vale a dire l’impegno ad azzerare le emissioni nette di gas ad effetto serra nei portafogli entro il 2050. Un fondo con obiettivo net-zero implicherebbe che tutte le aziende investite abbiano piani per ridurre progressivamente le emissioni.

Nella maggior parte dei casi, la promessa vale solo per una porzione limitata dei portafogli. L’organizzazione Universal Owner ha analizzato gli impegni al 2030 di 43 società di gestione che fanno parte dell’iniziativa internazionale Net Zero Asset Managers Initiative. Ne è emerso che il 65% del patrimonio complessivo è escluso dall’obiettivo net-zero. Inoltre, le emissioni non sono distribuite in maniera omogenea tra aziende e settori. Per alcuni fondi analizzati, l’85% delle emissioni è concentrato in una piccola frazione di titoli, pari al 10% del patrimonio.

Quindi, un fondo che dice di essere allineato a net-zero può applicare questo obiettivo solo a una percentuale ridotta del portafoglio. Oppure coprire gran parte degli investimenti, ma lasciare esclusi proprio i settori che emettono di più.