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Bilancio di sostenibilità, lo strumento più efficace per comunicare l’impegno sociale e ambientale dell’impresa

Bilancio di sostenibilità, lo strumento più efficace per comunicare l'impegno sociale e ambientale dell'impresa

Non ha nulla a che fare con la contabilità e le scritture. Non è obbligatorio ma piace sempre più alle imprese e agli enti. Si tratta del bilancio di sostenibilità ovvero la prassi di comunicare periodicamente (ogni anno), in modo totalmente spontaneo, i riflessi dell’attività dell’azienda sull’ecosistema socio-ambientale in cui è inserita. L’obiettivo è promuovere una visione più completa dell’operato dell’organizzazione, che tenga conto non solo dei risvolti economico-finanziari ma anche dell’impatto sulla società e il territorio in cui è immersa.

In un’economia che è sempre più globale e interconnessa, consumatori e investitori sono alla ricerca di maggior trasparenza, in particolare per quel che riguarda tematiche che toccano da vicino la sensibilità personale dei cosiddetti stakeholder, i portatori di interesse verso l’azienda, che si tratti di soci, dipendenti clienti o investitori. I dati dell’ultimo Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile di LifeGate evidenziano come ben 36 milioni di italiani, ovvero il 72% della popolazione maggiorenne del nostro Paese (era il 67% lo scorso anno), ritengono la sostenibilità un tema sentito o molto sentito. Il 26% dei consumatori, inoltre, si dice disponibile a pagare un sovrapprezzo per l’acquisto di un prodotto o di un servizio con caratteristiche di maggior sostenibilità. A parità di rendimento, poi, anche l’89% dei finanziatori è più incline a privilegiare un investimento sostenibile rispetto a uno che non offre queste garanzie.

Cos’è il bilancio di sostenibilità o report di sostenibilità

“L’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate”. È questa la definizione che l’Unione Europea dà del bilancio di sostenibilità nel 2001, citandolo all’interno del Libro Verde della Commissione UE. Cinque anni dopo, il Ministero dell’Interno italiano ha messo nero su bianco una definizione nazionale di questo documento aziendale. “Il Bilancio Sociale è l’esito di un processo in cui l’amministrazione rende conto delle scelte, attività, risultati e dell’impiego di risorse in un dato periodo, in modo da consentire ai cittadini e ai diversi interlocutori di conoscere e formulare un proprio giudizio su come l’amministrazione interpreta e realizza la sua missione istituzionale e il suo mandato”. In parole semplici, è il documento di carattere informativo con cui l’azienda comunica il proprio impegno (in gergo si chiama accountability o assunzione di responsabilità), gli obiettivi che intende raggiungere e i traguardi già ottenuti in tre aree chiave della relazione con il suo ecosistema di riferimento:

  • Ambiente ecologico: come utilizza le risorse naturali e qual è il suo impatto ambientale
  • Ambiente economico: come genera e ridistribuisce ricchezza, aiuta a far progredire il Paese e ridurre la disoccupazione
  • Ambiente sociale: come tutela i diritti dei lavoratori, si impegna a ridurre i divari di genere e favorire la crescita del territorio in cui opera

Caratteristiche del bilancio di sostenibilità

Oggi consumatori e investitori sono sempre più attenti agli aspetti della riduzione dell’impatto ambientale delle attività e attribuiscono a questo valore un peso crescente nelle proprie decisioni di consumo e finanziarie. Il bilancio di sostenibilità rappresenta, quindi, un incentivo allettante per le aziende che non sono obbligate per legge a redigere la dichiarazione non finanziaria ma che vogliono comunque pubblicizzare l’impegno dimostrato nel ridurre l’impatto ambientale e socio-economico della propria attività. Scegliere di rendicontare la sostenibilità significa promuovere un modo di operare più trasparente e responsabile per l’azienda, che assicura vantaggi evidenti.

  • Migliorare la Brand Reputation dimostrando un impegno concreto sulle tematiche ESG (Environmental, Social e Governance), superando i limiti del Greenwashing.
  • Costruire un modello di business più solido e improntato alla resilienza operando un Risk Management più efficace che tiene conto degli effetti delle dinamiche socio-ambientali sulla Supply Chain e, più in generale, su tutta l’attività.
  • Impegnare l’azienda nella rilevazione periodica dei dati relativi all’andamento della gestione aziendale, con la conseguenza di attuare un monitoraggio più granulare e un miglioramento continuo delle performance aziendali.
  • Identificare e ridurre inefficienze e sprechi, a vantaggio dei risultati economico-finanziari.
  • Aiutare a identificare minacce e opportunità di business attraverso una più attenta valutazione dell’ecosistema socio-ambientale di riferimento.
  • Accedere un più ampio ventaglio di finanziamenti, per esempio quelli che rientrano nell’ambito dell’Impact Investing.
  • Ridurre gli oneri finanziari potendo contare su iniezioni di risorse pubbliche (stanziamenti PNRR) e operando una gestione dei rischi più completa.
  • Ampliare la platea dei clienti affacciandosi a nuovi mercati o nicchie di consumatori più attenti all’impatto ambientale e sociale dei propri comportamenti.
  • Realizzare un elemento di differenziazione solido e duraturo rispetto alla concorrenza. L’attenzione ai temi della sostenibilità è, infatti, un denominatore comune alla maggior parte delle aziende di successo in questo periodo storico.
  • Motivare, attrarre e fidelizzare i migliori talenti. I giovani lavoratori dimostrano una sensibilità sempre più alta rispetto alla dimensione etica dell’operato delle organizzazioni presso cui operano.

Quando è obbligatorio il report di sostenibilità

Il bilancio socio ambientale non è una prassi vincolante per le organizzazioni. L’obbligo di rendicontare iniziative e obiettivi legati alla responsabilità sociale d’impresa (CSR, Corporate Social Responsibility) riguarda infatti come già sottolineato la sola dichiarazione non finanziaria. La materia è disciplinata dalla Direttiva UE 95/2014 (Direttiva sull’informativa non finanziaria NFRD), recepita a fine 2016 dal Consiglio europeo e dal Parlamento Europeo, che ha reso la DNF un documento obbligatorio per alcune categorie di imprese ed enti. La stesura di questo documento riguarda al momento le sole aziende di grandi dimensioni, con un attivo di stato patrimoniale superiore ai 20 milioni di euro oppure con ricavi netti superiori ai 40 milioni di euro; i gruppi che impiegano oltre 500 dipendenti su base consolidata e gli enti di interesse pubblico, come le case madri di grandi gruppi industriali. Le informazioni da includere nel documento sono quelle relative ad ambiente, rispetto dei diritti umani e parità di genere, anticorruzione e contrasto alla concussione. Tutte le altre organizzazioni potranno comunque decidere di stilare su base volontaria un report di sostenibilità o bilancio di sostenibilità. La situazione sembra però destinata a cambiare presto. Il 21 aprile 2021, infatti, la Commissione europea ha approvato una proposta di rettifica della Direttiva sulla Rendicontazione della Sostenibilità Aziendale (CSRD), che modifica gli attuali obblighi di rendicontazione contenuti nella NFRD. La proposta estende il campo di applicazione dell’obbligatorietà di stilare la dichiarazione non finanziaria a tutte le grandi aziende e alle società quotate in Borsa a prescindere dalla loro dimensione (con l’eccezione delle sole microimprese). Inoltre, istituisce l’obbligo di verifica (assurance) delle informazioni documentate nel rapporto di sostenibilità e richiede di etichettare digitalmente (taggare) i dati indicati, in modo che possano confluire in un macro database gestito a livello europeo. Infine, introduce una maggior granularità nei requisiti di rendicontazione, prevedendo quindi l’indicazione di informazioni più dettagliate, oltre all’obbligo di uniformarsi a standard validi nella zona della UE.

La differenza tra bilancio di sostenibilità e bilancio sociale

Quando si parla di reportistica relativa alle informazioni di carattere non finanziario, non ci si deve confondere. Diversi sono, infatti, i documenti che è possibile produrre, ciascuno con contenuti e scopi differenti. Vediamo i principali:

  1. Bilancio ambientale (rendiconto di sostenibilità ambientale): questo report informativo redatto su base volontaria si concentra sulle strategie adottate nell’ambito della gestione aziendale per ottenere risultati tangibili in tema di tutela ambientale ed efficienza ecologica, così da ridurre riducendo la cosiddetta carbon footprint.
  2. Bilancio sociale (rendiconto della responsabilità sociale): documento aggiuntivo al tradizionale bilancio d’esercizio, che rappresenta un trait d’union tra la rendicontazione economico-contabile e quella sociale. Il report offre una valutazione a 360° degli effetti che l’attività dell’azienda produce sulla società in cui opera ed è stilato su base esclusivamente volontaria, fatta eccezione per le imprese sociali e per quelle che operano nel terzo settore
  3. Bilancio integrato (report integrato): comunicazione sintetica che illustra le come l’organizzazione intende creare valore per il contesto in cui opera distinguendo obiettivi e azioni di breve, medio e lungo periodo. ll documento si ottiene allineando processi di reportistica esterni e interni all’azienda e copre le stesse aree del bilancio di sostenibilità esponendole, però, in una logica di capitale (umano, economico-finanziario…).
  4. Dichiarazione non finanziaria (dichiarazione consolidata non finanziaria): documento che trova origine nelle disposizioni della direttiva UE 95/2014. Utile per rendicontare le informazioni inerenti l’impatto ambientale e socio-economico dell’attività aziendale, in modo che siano facilmente accessibili e confrontabili da parte di investitori e clienti.
  5. Bilancio di sostenibilità (report di sostenibilità o rapporto di sostenibilità): prospetto che nasce come evoluzione del bilancio sociale e fa parte della categoria di reportistica di carattere non finanziario redatta su base volontaria. Questo strumento permette di rendicontare gli impegni presi sul fronte delle prestazioni economiche, sociali e ambientali, documentando i progressi fatti e i risultati ottenuti. Lo stesso documento illustra anche il sistema di governance a cui va soggetta l’organizzazione.

Come si redige un bilancio di sostenibilità

Ma come si redige in concreto un report di sostenibilità? Non esiste allo stato attuale un riferimento normativo unico, a livello europeo, che indichi la documentazione da produrre, uno schema di organizzazione dei contenuti o una procedura specifica per la sua stesura. Uno schema valido può essere questo.

  • Spiegare i valori fondanti dell’azienda, i principi che ispirano l’operato dei suoi manager, la sua mission.
  • Inquadrare le aspettative degli stakeholder (in primis soci, finanziatori e clienti).
  • Identificare strumenti e dati idonei a supportare il top management nella definizione delle strategie sociali e ambientali.
  • Indicare le prestazioni ottenute sotto il profilo socio-ambientale.
  • Quantificare il contributo sociale e ambientale netto dell’azienda nei confronti dei diversi portatori di interesse.
  • Verificare la coerenza tra obiettivi fissati e risultati ottenuti e valutare i gap.
  • Indicare gli obiettivi di miglioramento nel lasso temporale identificato.

Le aziende possono anche riferirsi ad alcuni framework internazionali e il più diffuso è il GRI (Global Reporting Initiative). L’ente ha pubblicato 36 linee guida da seguire nella stesura dei bilanci di sostenibilità, in modo che siano il più possibile omogenei e trasparenti nei contenuti, così da fornire informazioni facilmente confrontabili. Le organizzazioni che decidono di seguire queste indicazioni – in modo assolutamente volontario e non vincolante – hanno la garanzia di pubblicare documenti dettagliati sotto il profilo dei temi trattati e completi nella disamina dei diversi ambiti di intervento (politiche sociali e del lavoro, consumo di energia, impronta idrica, emissioni di gas serra…). Uniformandosi a questi standard, l’azienda dichiara un livello di reporting basandosi sull’autovalutazione delle proprie prestazioni e obiettivi rispetto ai criteri definiti dal GRI. In aggiunta a questa autodichiarazione, poi, l’organizzazione potrà scegliere anche di:

  • Richiedere al GRI di verificare i contenuti dell’autodichiarazione

Oppure (o in aggiunta)

  • Avvalersi di una società di audit per ottenere un giudizio professionale sull’autodichiarazione

Esempi di bilancio sostenibile

Il rapporto di sostenibilità è ormai una prassi consolidata per molti brand globali. Da diversi anni anche alcune multinazionali e grandissimi gruppi industriali italiani rendono pubblica questa informativa. Tra le realtà più attive nel rendicontare l’impegno assunto sul fronte della circolarità e dell’inclusione troviamo:

  • Barilla ha investito nella riduzione del contenuto di grassi dei propri prodotti, oltre a donare alimenti alle comunità locali e a promuovere un packaging più sostenibile. L’azienda si è impegnata a ridurre progressivamente l’uso della plastica nelle confezioni dei propri prodotti privilegiando carta e cartone provenienti da foreste gestite responsabilmente. Dal 2010 a oggi, poi, il gruppo di Parma ha ridotto le emissioni di CO2 del 31% e ottenuto la neutralizzazione totale (100% delle emissioni di CO2 compensate) per i brand Mulino Bianco e Wasa. Nella filiera, sono circa 10mila le aziende agricole coinvolte in progetti di agricoltura sostenibile.
  • Enel ha presentato nel 2019 il Piano di Sostenibilità 2020-2022, che si focalizza sulla lotta al cambiamento climatico attraverso la crescita delle rinnovabili e la progressiva fuoriuscita del carbone dal mix energetico. Il gruppo misura i propri obiettivi di circolarità, equità e inclusione sociale sulla base di quattro dimensioni significative: energia pulita, lotta al cambiamento climatico, innovazione in infrastrutture più sostenibili, città e comunità più sostenibili. Enel si è impegnata a ridurre dell’80% le emissioni dirette di gas serra per kWh entro il 2030 rispetto ai livelli del 2017, mentre entro il 2040 punta alla completa decarbonizzazione, giocando d’anticipo di 10 anni rispetto agli obiettivi della COP 26 (Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite) e dell’Accordo di Parigi.
  • Esselunga rendiconta i risultati delle iniziative di spesa solidale promosse in collaborazione con la Caritas Italiana e il Banco Alimentare. Sul fronte ambientale, ha introdotto diverse innovazioni utili a migliorare l’efficienza energetica negli stabilimenti di lavorazione, che oggi sono in grado di autoprodurre energia elettrica e termica dal gas naturale attraverso due impianti di trigenerazione. L’impegno sociale si esprime, invece, soprattutto attraverso la volontà dell’azienda di sostenere i produttori e le eccellenze nostrane nell’ambito dell’iniziativa Rinascita Italia, per cui l’84% dei prodotti a marchio proprio è interamente prodotto nel Belpaese.
  • Ferrero: protezione dell’ambiente, valorizzazione delle persone, promozione di un consumo più responsabile e approvvigionamenti più sostenibili sono i quattro macro obiettivi che il colosso internazionale del food si propone di raggiungere nei prossimi anni. La scadenza fissata è quella del 2030, quando l’azienda di Alba (CN) conta di dimezzare le emissioni derivanti dalle proprie attività prendendo come riferimento i dati del 2018. Già oggi tutti gli stabilimenti europei utilizzano energia elettrica 100% rinnovabile e gli imballaggi riciclabili, compostabili o riutilizzabili già nel 2020 (i dati 2021 non sono ancora stati pubblicati) rappresentavano l’82,9% del totale.
  • Lavazza: l’iniziativa che porterà il Gruppo a neutralizzare la propria impronta ecologica entro il 2030 è stata battezzata “Roadmap to Zero”. Il piano si concretizza in tre linee di azione: monitoraggio delle emissioni inquinanti, introduzione progressiva di processi di efficientamento e compensazione delle emissioni non riducibili. Già a fine 2020 il gruppo ha raggiunto il traguardo dell’azzeramento dell’impatto delle emissioni dirette di CO2, quelle generate da punti vendita, stabilimenti, uffici e veicoli aziendali, oltre che quello delle emissioni indirette generate dall’energia acquistata e consumata. Entro il 2030, invece, è previsto il raggiungimento della piena compensazione delle emissioni indirette lungo tutta la Supply Chain.
  • Salvatore Ferragamo: la nota casa di moda punta molto sui temi dell’inclusione. Ha aderito infatti alla campagna globale “The Hiring Chain” e avviato un’iniziativa di inclusione lavorativa che ha portato all’inserimento in organico di risorse con sindrome di Down. Nel 2021, inoltre, alla società è stato assegnato un punteggio pari alla categoria massima (“A”) nella prestigiosa “A List” del CDP (Carbon Disclosure Project) relativamente alle azioni di riduzione delle emissioni CO2.



La tecnica dell’Envisioning nell’Orientamento professionale

La tecnica dell'Envisioning nell'Orientamento professionale

Cos’è l’Envisioning

Il termine Envisioning viene dal verbo inglese “to envision” e ci porta a concepire una situazione che sia possibile realizzare in futuro. Envisioning significa, con accezione più ampia, crearsi una visione chiara e lungimirante di qualcosa che ci riguarda, esprimendola attraverso un’immagine vivida.
La nostra capacità di envisioning può essere davvero un talento da esprimere che ci porta a “vedere oltre” per darci la possibilità di un futuro più vicino alle fonti della nostra auto-realizzazione. È fondamentale nella ricerca e scelta in ambito di studio e professionale, e come tale diventa una leva orientativa molto potente.

Esperienza di Envisioning nell’orientamento professionale

In questo articolo, vorrei riportare la mia esperienza di utilizzo dell’Envisioning nel lavoro di Orientatore. Il percorso di orientamento dedicato allo sviluppo dell’Envisioning è particolarmente indicato per gli utenti che vogliano sviluppare capacità di costruzione e definizione di un’idea professionale riferibile al mondo del lavoro autonomo ed imprenditoriale. 
Nel caso di percorsi per utenti dei CPI (Centri per l’Impiego), laddove sono emerse dal bilancio di competenze o dai colloqui orientativi attitudini imprenditoriali, propongo le seguenti modalità di “allenamento”orientativo, ognuna con un focus particolare.

1. Comprendere il passato

Il passato è il percorso che abbiamo fatto, sono le cose accadute che ricordiamo. Gli eventi sono localizzati nel tempo rispetto ad un dato momento, possono precederlo o seguirlo, subire salti improvvisi ma identificabili in relazione alla nostra linea del tempo. 
Troviamo il senso di quello che è successo attraverso, ad esempio, la narrazione del nostro percorso professionale, partendo dagli studi realizzati ed attraverso le esperienze lavorative, ciascuna con il suo significato.

Possiamo così rivedere il percorso personale/professionale e pensare ad azioni da sviluppare in modo diverso dal passato, orientandoci verso il cambiamento.

2. Guardare l’insieme

Saper guardare alla complessità delle esperienze fatte è l’espressione della nostra capacità di coglier la trama delle cose, avendo una visione allargata, espansa. Peter Senge è uno dei primi ad aver parlato della competenza del pensiero sistemico. Il lavoro con l’Orientatore  può aiutare a interpretare in modo sistemico il percorso realizzato.
Per l’utente è molto utile, ai fini della scelta orientativa, sviluppare la competenza di saper mettere in relazione gli eventi, le situazioni, i luoghi, i comportamenti, in una unica trama interconnessa. 

3. Essere in relazione con gli altri

Nei contesti sociali e di lavoro costruiamo reti di relazioni, sviluppando le nostre abilità comunicative e la capacità di usare strategie di apprendimento e correzione dei nostri comportamenti. 
Empatia e assertività, comunicazione in gruppo, negoziazione, ecc. sono soft skills fondamentali, da allenare con l’Orientatore, per stabilire relazioni attraverso un giusto equilibrio fra razionalità ed intelligenza emotiva

4. Scorgere il flusso in noi

Il concetto di “Flow” (fluire, scorrere), lo dobbiamo al ricercatore americano Mihaly Csikszentmihalyi, all’inizio degli anni ’70 presso la Claremont Graduate University.

Scorgere in noi il flusso, vederci dentro un’esperienza ottimale, vuol dire percepire la felicità/realizzazione, trovandola ogni volta in cui siamo completamente coinvolti nella situazione che davvero ci piace, sia essa un hobby, un lavoro, lo studio di una materia. 
Arrivare quindi a valorizzare la consapevolezza di quei momenti in cui l’utente ha sperimentato quel particolare stato di grazia in cui è immerso nelle attività che lo coinvolgono, arrivando a perdere la cognizione del tempo. 

5. Immaginare il futuro

Non si può costruire il futuro se non siamo ben radicati nel presente, ovvero nel cosa c’è adesso, è quello che stiamo vivendo nella nostra vita quotidiana, quello che siamo capaci di cogliere ora.
Il percorso orientativo porta ad immaginare il futuro come il mondo delle possibilità, l’unica dimensione dove c’è il cambiamento da attuare, dove si sviluppa il percorso e la trasformazione da compiere. 

Per l’utente Envisioning significa trovare la strada da intraprendere, vederne le tappe, immaginare come sarà, cosa proverà, chi avrà accanto, di cosa avrà bisogno per realizzare, ad esempio, un’idea imprenditoriale, tenendo conto dei vari elementi (il modello personale di business).




Il metaverso non esiste

Il metaverso non esiste

Ogni giorno mi sveglio e so che nella mia casella email ci sarà almeno un comunicato stampa di un’azienda che annuncia il suo “ingresso nel metaverso”. C’è un solo problema: il metaverso non esiste. E allora come fanno le aziende a entrarci? E come fanno – stando a una miriade di articoli pubblicati in ogni angolo del globo – le persone a sposarsi nel metaverso? A speculare nel metaverso? A partecipare a eventi nel metaverso? A lavorare nel metaverso e addirittura a subire molestie nel metaverso?

Il punto è che tutto ciò non avviene nel metaverso, ma su singole piattaforme molto diverse tra loro. La speculazione e gli eventi brandizzati sono per esempio la specialità di Decentraland, il matrimonio di cui ha parlato la stampa è avvenuto tramite la piattaforma di collaborazione da remoto Virbela, mentre le riunioni di lavoro si tengono su piattaforme come Horizon Workrooms di Meta (ancora in fase beta). Le aziende che “entrano” nel metaverso, solitamente, si limitano ad adottare una di queste piattaforme per organizzare eventi o fare riunioni; in altri casi acquistano qualche piattaforma ad hoc che consente loro di fare team building o formazione in realtà virtuale (o cose simili).

Ha senso che in tutti questi casi si parli di metaverso? Per capirlo, dovremmo prima sapere esattamente che cosa il metaverso sia, e già qui la faccenda si complica. Secondo la definizione del venture capitalist Matthew Ball (che in tempi non sospetti ha dedicato un lungo saggio al tema), il metaverso è “un network interoperabile di mondi virtuali creati in 3D”. In parole semplici, il metaverso dovrebbe essere un vasto ambiente digitale in cui è possibile spostarsi senza soluzione di continuità da una piattaforma 3D all’altra, portando con noi i nostri avatar, i nostri beni digitali e il nostro denaro. 

Tutto questo, oggi, non esiste. E, come vedremo meglio più avanti, non è nemmeno chiaro se e quando prenderà davvero forma. Perché un videogioco multiplayer in realtà virtuale come Population One dovrebbe essere definito metaverso? E perché dovrebbe esserlo un ambiente sociale come Horizon Worlds di Meta o dei simil-Second Life (ma con una forte impronta speculativa legata alle criptovalute) come Decentraland o The Sandbox

Realtà virtuale

Metaverso, metaversi o…

In tutti questi casi, e in molti altri ancora, non solo non ha senso menzionare “il metaverso”, ma nemmeno parlare di “metaversi”, al plurale. Si tratta di singole piattaforme, a volte in realtà virtuale e altre no, in alcuni casi dedicate al lavoro, in altri alla speculazione, ai videogiochi, alla socialità. In più, nessuna di queste piattaforme comunica con un’altra: ciascuna di esse richiede di creare uno specifico avatar, che non possiamo trasportare da una piattaforma all’altra, e di acquistare beni che rimangono confinati al suo interno. 

Non è il metaverso (termine coniato dallo scrittore Neal Stephenson nel 1991 per indicare una sorta di “gemello virtuale” del mondo in cui viviamo): sono tante piattaforme che hanno in comune tra loro solo l’enfasi sulla possibilità di socializzare, al loro interno, con altri utenti. È come se avessimo chiamato “gameverso” il mondo dei videogiochi multiplayer o “socialverso” l’intero ecosistema dei social network. 

Ecco, immaginatevi se negli anni in cui le aziende o i politici iniziavano ad avere la loro pagina su Facebook non avessimo parlato del loro “approdo su Facebook”, ma invece annunciato il loro “ingresso nel socialverso”, se le molestie e l’hate speech non si fossero verificati su Twitter ma nel socialverso, se le teorie del complotto non si fossero diffuse su Reddit e YouTube ma nel socialverso. 

schermata da Horizon Worlds

La mossa di Zuckerberg

Ma se non esiste, perché si insiste così tanto a utilizzare il termine metaverso? Da un certo punto di vista, l’intera faccenda è una colossale operazione di marketing. Il principale responsabile è Meta/Facebook, che da quando nel 2014 ha acquistato Oculus, la più importante società produttrice di visori per la realtà virtuale, sta cercando in tutti i modi di aumentare l’interesse per la realtà virtuale. Finora, il successo è stato piuttosto scarso: secondo le stime (Meta non diffonde numeri ufficiali), dal 2014 a oggi tutti i visori Oculus hanno venduto circa 10 milioni di unità. Nello stesso lasso di tempo, sono state vendute quasi 150 milioni di Playstation, 110 milioni di Nintendo Switch e 50 milioni di Xbox One.

Con la trovata del “metaverso”, Mark Zuckerberg non ci ha solo segnalato che per il futuro punta a farci trascorrere sempre più tempo all’interno di ambienti immersivi e virtuali, ma anche quale sia lo stratosferico potere del marketing, in grado di incanalare l’attenzione dei media e della massa su qualcosa che fino al giorno prima suscitava ben poco interesse. Secondo i dati Factiva riportati dal Washington Post, solo in novembre e dicembre 2021 (ovvero subito dopo l’annuncio del rebranding di Facebook in Meta) sono apparsi sul web 12mila articoli in lingua inglese che contenevano il termine metaverso; in qualunque altro anno precedente non si era mai andati oltre i 400 nel corso di 12 mesi. Articoli più letti

Ad approfittare del gran parlare che si fa del metaverso è anche una miriade di società di consulenza e simili, che hanno trovato una gallina dalle uova d’oro che permette di offrire i loro servizi ad aziende che vogliono capire come si fa a “entrare nel metaverso” (che suona molto meglio di “aprire un negozio in Decentraland” o “lavorare in realtà virtuale”, anche se poi proprio di questo si tratta). “Chiunque vi dica che sta facendo qualcosa ‘nel metaverso’ o non ha idea di cosa stia parlando oppure vi sta volontariamente fuorviando”, ha perentoriamente scritto James Whatley, esperto di videogiochi, su The Drum

Se a questo si aggiunge che il “metaverso” viene spesso accostato ad altre complesse innovazioni – come il web3, gli nft o la realtà aumentata, con cui in realtà si sovrappone solo parzialmente – si capisce perché in giro ci sia così tanta confusione. Il complottista che è in me sospetta che tutta questa confusione sia in gran parte indotta: meno le persone hanno le idee chiare, più è facile far loro pensare che davvero esista un grande mondo virtuale – una sorta di replica digitale del nostro mondo fisico – in cui a breve tutti trasferiremo almeno una parte delle nostre esistenze. 

Questa, per ammissione di più o meno tutte le realtà che ci stanno puntando (a partire da Meta ed Epic Games), è invece solo l’utopistica e lontanissima ambizione finale: rendere il metaverso un ambiente unico e interoperabile, in cui tutte le realtà sono collegate tra loro. Una sorta di world wide web immersivo, in 3D e in realtà virtuale, che permette di spostarci tra Fortnite, Horizon Worlds, Decentraland e tutti gli altri con la stessa facilità con cui oggi ci muoviamo nel web con il nostro browser.

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I giardini recintati

Oltre a essere una prospettiva molto distante nel tempo e la cui fattibilità tecnica è ancora tutta da dimostrare (molti puntano sulla blockchain, ma anche qui siamo in un campo pieno di incognite), non è nemmeno chiaro se davvero ci sia la volontà di perseguirla. “Storicamente, lo sviluppo di tecnologie interoperabili come le email e il web è stato alimentato da governi, dall’accademia e dalle no-profit, non da colossi privati come Meta”, scrive ancora il Washington Post. Al contrario: realtà di questo tipo hanno semmai sempre spinto in direzione opposta, trasformando la decentralizzazione del web nei “giardini recintati delle app”, che hanno lo scopo di trattenerci quanto più tempo possibile al loro interno e non certo di aprirci alla possibilità di esplorare liberamente un ambiente aperto.

“Una versione di internet interconnessa e in 3D in cui ci scambiamo magliette sotto forma di nft mentre ci spostiamo senza difficoltà da una piattaforma all’altra è tanto realistica quanto i film di fantascienza che vengono mostrati nelle slide di apertura di ogni singola presentazione che avete visto su questo tema”, scrive ancora Whatley su The Drum. Se anche fosse possibile, bisogna capire se davvero vorremo passare le nostre giornate tappati in casa indossando dei visori che ci isolano completamente da ciò che ci circonda e che ci costringono a svolgere una parte delle operazioni quotidiane in un mondo di poligoni e popolato da avatar. La buona notizia è che, finché esisterà praticamente solo nei reparti marketing delle aziende e delle società di consulenza, non dovremo preoccuparci dei risvolti distopici del metaverso.




A Tunisi inaugurata la mostra sull’eco-design italiano

A Tunisi inaugurata la mostra sull'eco-design italiano

TUNISI, 23 GIU – I principi dell’economia circolare sono il tema della mostra dal titolo ‘3codesign 3Rs Reduce Recycle Reuse’, inaugurata oggi presso la Città delle Scienze a Tunisi dall’ambasciatore d’Italia Lorenzo Fanara.

L’esposizione, aperta al pubblico fino al 15 luglio e realizzata grazie alla collaborazione dell’Istituto Italiano di Cultura di Tunisi, ha l’obiettivo di ripercorrere l’evoluzione dell’ecodesign italiano.

La mostra, che arriva da Washington, dopo Tunisi volerà a Pristina. ‘3codesign 3Rs Reduce Recycle Reuse’ vuole sottolineare i vantaggi della riduzione degli sprechi di materie prime e del riciclaggio dei prodotti consumati, a cominciare dalla plastica, nonché l’impatto di queste pratiche sull’ambiente. Gli obiettivi principali di questa mostra sono far tornare i rifiuti materie prime e promuovere quindi l’economia circolare basata sul riciclaggio.




Il colosso della tecnologia Philips “trattiene il fiato”

La crisi dei respiratori Philips

Rasoi elettrici, tv, frigoriferi, stereo: chi non ha avuto a che fare almeno una volta nella vita in un prodotto del noto marchio di elettronica di consumo Philips? Oggi l’immagine – e le finanze – della notissima multinazionale olandese, leader del mercato tecnologico consumer, rischia di essere messa a rischio per via di una gestione di crisi che pare ignorare alcuni dei principi fondamentali del crisis management e della crisis communication.

L’avviso di sicurezza legato ai dispositivi i-Level PAP, CPAP e ventilatori meccanici

Riavvolgiamo il nastro e analizziamo quanto accaduto.  È il 14 giugno del 2021 quando Philips – dopo aver scoperto un potenziale rischio per la salute legato ad alcuni propri dispositivi CPAP (PAP a due livelli e di ventilazione meccanica) utilizzati per il trattamento dell’apnea notturna e dell’insufficienza respiratoria – pubblica un avviso volontario di sicurezza (avviso di sicurezza 2021-05-A e avviso di sicurezza 2021-06-A) per mitigare i potenziali rischi per la salute legati, appunto, alla schiuma fonoassorbente presente in alcuni dispositivi del segmento Sleep & Respiratory Care.

Questa sostanza, utilizzata per attutire il rumore del motore dell’apparecchio, e che visivamente si presenta appunto come una schiuma compatta e friabile di colore scuro, tenderebbe, nel tempo, a “sbriciolarsi”, disperdendo particelle e micro-particelle nel tubo utilizzato dai pazienti per respirare, i quali – inevitabilmente – inalerebbero i frammenti di schiuma, con rischi potenziali, pare anche gravi, per la propria salute.

Nell’avviso di sicurezza l’azienda affermava:

la sicurezza dei pazienti è la nostra priorità e ci impegniamo a fornire il massimo supporto a pazienti, fornitori di apparecchiature medicali durevoli (DME), distributori, partner per l’assistenza domiciliare e medici per l’intero processo di correzione. Durante l’implementazione dell’azione correttiva per questo richiamo, forniremo indicazioni e condivideremo procedure per fare in modo che tutti abbiano a disposizione le informazioni più aggiornate e accurate. Ti ringraziamo per la pazienza mentre ci impegniamo a ripristinare la tua fiducia.

L’azione è rientrata nel piano di gestione da parte dell’azienda di potenziali rischi per la salute causati da alcuni dispositivi largamente distribuiti per trattare difficoltà respiratorie, come ad esempio l’apnea del sonno, rilevati anche da studi e approfondimenti promossi dalla stessa Philips, in relazione ai reclami ricevuti dagli utenti (0,03% nel 2020), una percentuale tutto sommato bassa rispetto ai milioni di apparecchi di questo tipo venduti a privati, cliniche ed ospedali pubblici, ma comunque tale da sollevare un campanello di allarme.

In particolare, l’irritazione delle vie aeree locali (dovuta al particolato rilasciato dalla schiuma) o il potenziale rischio cancerogeno (dovuto ai componenti organici più piccoli e volatili) sono stati considerati un potenziale rischio per la salute: pertanto, Philips ha deciso di pubblicare volontariamente un avviso di richiamo per informare pazienti e clienti di potenziali impatti sulla salute e sull’uso clinico, nonché per condividere le istruzioni sulle azioni più opportune da intraprendere.

L’azienda ha inoltre intrapreso un’azione proattiva su due fronti: un’indagine approfondita circa le conseguenze legate all’inalazione delle particelle di schiuma, e il ritiro e sostituzione dei dispositivi difettosi.  

Una gestione – a prima vista – impeccabile: a seguito del rilevamento di un problema tecnico vengono messe in campo una serie di azioni utili per meglio tutelare la salute dei pazienti ed informare il personale medico sanitario. Ma recentemente è accaduto un colpo di scena.

Il plot-twist dell’FDA: mancanza di trasparenza o semplice inadeguatezza nella gestione del rischio?

In questa storia vi è un plot-twist sorprendente: a pochi mesi dall’avviso volontario di sicurezza da parte dell’azienda, la Food and Drug Administration (FDA), l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ha dichiarato – in un modulo di indagine – di aver osservato potenziali violazioni delle norme federali sulla sicurezza dei dispositivi medici durante l’ispezione di uno stabilimento di produzione Philips Respironics, organizzata nell’ambito delle operazioni di verifica per il ritiro di oltre 15 milioni di questi dispositivi respiratori.

La FDA, nel modulo 483, descrive nel dettaglio come Philips fosse in realtà consapevole già dal 2015 dei problemi legati alla schiuma fonoassorbente in poliuretano a base di poliestere (PE-PUR): il documento svela come nella revisione dei reclami dei consumatori Philips, risalenti fin al 2008, fossero inclusi più di 222.000 reclami, di cui il 3% legati proprio alla potenziale genotossicità della schiuma fonoassorbente.

L’immagine di trasparenza e la buona fede del marchio tecnologico inizia allora a vacillare: a seguito dei rilievi sollevati dall’FDA, la Philips Respironics – divisione della multinazionale – ha tentato di chiarire la sua posizione, riconoscendo di aver ricevuto: “limitati reclami relativi al degrado della schiuma (negli anni precedenti al 2021), che sono stati valutati e affrontati caso per caso.”  Tuttavia, aggiunge l’azienda olandese “I problemi relativi ai COV hanno iniziato a emergere più di recente, con test e interpretazioni che si sono successivamente svolti con esperti di terze parti certificati, portando alle azioni intraprese nella prima metà del 2021“.

Madris Kinard, ex analista della salute pubblica della FDA con esperienza nella sorveglianza post-commercializzazione, ha commentato l’accaduto affermando:

Sembra che siano stati piuttosto lenti ad agire. Questo richiamo era in ritardo, secondo me, anche a causa della preoccupazione che ci potesse essere una carenza di dispositivi CPAP disponibili sul mercato qualora fosse stato avviato un richiamo”.

Philips era davvero a conoscenza del rischio, e ha scelto di ignorare la questione o quantomeno posticipare la risoluzione del problema, ponendo a repentaglio la salute dei pazienti?

Il dossier è ancora aperto: siamo evidentemente in una zona grigia nella quale non è possibile emettere “sentenze” definitive circa la reale consapevolezza – o colpevolezza – da parte dell’azienda. Tuttavia, possiamo analizzare la vicenda dal punto di vista del Reputation management.

La crisi dei respiratori Philips e il suo impatto reputazionale

È evidente – e a questo punto non solo per gli addetti ai lavori – come l’azienda abbia ignorato quelli che in gergo tecnico vengono definiti “segnali deboli di crisi”, ovvero tutti quei segnali che in qualche modo aumentano il grado di entropia nell’azienda e nel suo ecosistema e che indicano quelle aree da monitorare con attenzione al fine di attivare un possibile intervento di gestione della crisi: appare quindi chiaro che le segnalazioni e le denunce – risalenti già al 2015 – avrebbero dovuto rappresentare per Philips un campanello di allarme sufficiente per avviare, ben prima della deflagrazione pubblica del dossier, un’azione preventiva e di indagine accurata.

“Ci sono azioni che un’azienda può intraprendere, con l’aiuto della FDA, per aiutare a mitigare problemi come questo. Non sembra che l’azienda abbia collaborato con la FDA in alcun modo collaborativo, per fare uno sforzo in buona fede per informare i consumatori 2-3 anni fa quando erano a conoscenza dei problemi“, ha commentato Kinard. Una sollecita collaborazione proattiva con l’FDA avrebbe senz’altro contribuito a mitigare gli impatti di questa debacle reputazionale della multinazionale olandese.

Come amiamo spesso ricordare in aula, la letteratura è assai robusta, come anche numerosissime sono le evidenze empiriche che correlano il danno reputazionale e la scorretta gestione di crisi ad ingenti danni economici e a distruzione del valore per gli azionisti, e questo caso pare non fare eccezione: l’azienda infatti, dopo il crollo in borsa (- 12% del proprio valore complessivo) a seguito della segnalazione di sicurezza e della prima quantificazione i costi per il ritiro e la sostituzione dei prodotti difettosi (poco meno di 200 milioni di euro di spese previsti) rischia anche di dover far fronte a risarcimenti milionari.

Per l’azienda la sottostima del rischio e la scorretta gestione di crisi potrebbe avere un costo colossale: dopo le iniziali perdite di borsa per circa 2 miliardi di dollari, il totale del valore “bruciato” potrebbe attestarsi poco sotto 1 miliardo di dollari, secondo le stime del quotidiano finanziario Wall Street Journal.

A questo si aggiunge la “corsa” per la sostituzione dei dispositivi, che ad oggi è pari al 20% di quelli in circolazione, ma che l’FDA ha intenzione di scadenziare in modo assai rigido, pena ingenti multe.

La European Respiratory Society (ERS) e il conflitto di interessi

La vicenda, di qui in avanti, prende i toni del grottesco. Secondo la FDA negli Stati Uniti solo nell’ultimo anno le segnalazioni di incidenti sono state oltre 21 mila e quelle di decessi che parrebbero correlate agli apparecchi difettosi, pur da verificare in via definitiva, 124.

Tuttavia, in base alle normative vigenti, l’indagine – spiega la collaboratrice del British Medical Journal  Jeanne Lenzer – toccherebbe in questa fase proprio a Philips, cioè al produttore indagato: secondo la regolamentazione USA, quindi, è proprio “l’imputato” a dover in prima battuta valutare il suo “grado di colpevolezza”.

Tra la fine del 2021 e gli inizi del 2022 Philips ha invero eseguito ulteriori test e ricerche per valutare il potenziale rischio derivante dalla schiuma fonoassorbente, informando le autorità sanitarie europee, incluso il Bundesinstitut für Arzneimittel und Medizinprodukte (BfArM) di Berlino, sugli esiti della ricerca. Inoltre ulteriori test sono poi stati eseguiti da laboratori di test certificati e da esperti qualificati di terze parti indipendenti, utilizzando la guida ISO 18562 ed analizzati dalla European Respiratory Society.

Il primo febbraio 2022, a seguito di questi test, la società scientifica ERS (European Respiratory Society) ha pubblicato uno statement in cui afferma che i primi risultati di ricerca inerenti alla schiuma avevano avuto esiti tutto sommato rassicuranti: l’inalazione dei COV non pareva provocare conseguenze a lungo termine rilevanti per la salute dei pazienti.

Tuttavia, il brillante servizio di Report andato in onda ieri sera su RAI 3 ha svelato un ulteriore elemento che rischia di mettere in dubbio la presunta buona fede dell’azienda e anche degli enti di controllo: il Dott. Winfred Randerath, responsabile della gestione di questo dossier per conto della ERS, alla domanda della giornalista “Ci sono conflitti di interesse tra lei e Philips?” si cimenta in una performance che ha dell’incredibile. In evidente panico, prima resta in silenzio per un tempo televisivamente interminabile, poi, con palese imbarazzo, si allontana dalla telecamera chiedendo goffamente di poter rispondere in privato sul punto alla giornalista, e – quando infine viene incalzato da essa, che sollecita una risposta – ammette l’esistenza di un conflitto di interessi, confessando di aver lavorato in passato proprio per Philips (!). Una parentesi quasi “fumettistica”, che mette in luce gli enormi spazi di miglioramento – ad esser generosi – di questi sistemi di controllo.

In ultimo, a dare ulteriore riprova della relativa fallibilità del sistema di verifica e richiamo dei dispositivi, l’ammissione da parte della stessa Philips di risultati non incoraggianti che paiono contraddire le evidenze rassicuranti riportate da BfArM e COV.

Le scuse – tardive – del Direttore medico di Philips

L’ analisi circa le strategie di crisis management e di crisi communication attuate da Philips non può non tener conto dell’intervento del direttore medico di Philips nella video intervista rilasciata proprio a Report: il Dott. Jan Kimpen “chiede scusa ai pazienti”, pur negando le insinuazioni circa la consapevolezza, già nel 2015, da parte di Philips, dei rischi legati all’inalazione della schiuma fonoassorbente. “La sicurezza dei pazienti è quello su cui si basa la reputazione di Philips”, chiosa con fermezza, pur non rispondendo in modo del tutto chiaro ed esaustivo alle domande assai precise del cronista.

Mentre scriviamo, il processo di ritiro e riparazione dei dispositivi prosegue, e non si placano le legittime paure di coloro che si vedono comunque costretti, nell’attesa, a utilizzare i dispositivi medici del colosso Olandese. Quello di Philips è un ennesimo caso nel quale la reputazione di un marchio di fama mondiale viene messo a dura prova da una gestione a tratti opaca, di certo poco conforme alle buone prassi in materia di crisis management, e fin qui inadeguata a salvaguardare il valore degli azionisti, nonché – soprattutto – la salute dei cittadini.

To be continued…