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Amplifon,130mln batterie risparmiate con apparecchi ricaricabili

Amplifon,130mln batterie risparmiate con apparecchi ricaricabili

La vendita e l’utilizzo di apparecchi acustici ricaricabili ha permesso di risparmiare oltre 130 milioni di batterie che altrimenti sarebbero state utilizzate e smaltite. E’ uno dei traguardi di sostenibilità raggiunti da Amplifon che ha lanciato da un anno il piano ‘Listening Ahead’ e che ha di recente presentato il suo Report di Sostenibilità 2021 con cui presenta i progressi raggiunti in questo ambito.“Un altro traguardo importante – ha spiegato Francesca Rambaudi, IR – Sustainability Senior Director di Amplifon – è l’offerta di test dell’udito gratuiti che solo nel 2021 ha generato un risparmio economico pari a circa 200 milioni di euro per i clienti e la collettività in generale”.

Per una gestione sempre più responsabile della catena di fornitura, è stato adottato poi un nuovo Codice di Condotta dei Fornitori, che si inserisce all’interno di un nuovo framework globale di valutazione dei fornitori sulla base dei principali rischi Esg. Sul fronte della formazione sono invece previste 300 mila ore all’anno per i dipendenti, oltre al piano di attrazione dei talenti, l’Amplifon Records Graduate Program, che è giunto alla seconda edizione. Inoltre, il Gruppo ha promosso il volontariato dei suoi dipendenti in alcuni progetti della Fondazione Amplifon, come quelli a favore degli anziani, come è accaduto a Milano lo scorso 12 maggio. Un gruppo di 80 dipendenti di Amplifon ha svolto una giornata di servizio nella Rsa, residenza per anziani, Gerosa Bricchetto, che ospita oltre 120 anziani, dedicandosi alla realizzazione degli arredi esterni per il giardino. 

“Sono giornate che tecnicamente si chiamano di team building ma, oltre a lavorare insieme, le persone di Amplifon hanno costruito le premesse per rendere più piacevoli i momenti da trascorrere in questo giardino – ha sottolineato Susan Carol Holland, presidente di Fondazione Amplifon -. Oltre a costruire una squadra di lavoro, si sono costruiti dei sorrisi sui volti delle ospiti della Rsa Sorrisi che sono la prova più concreta della bontà di questa azione comune”.




Il leader gentile, che progetta e accompagna decisioni migliori senza imposizioni

Il leader gentile, che progetta e accompagna decisioni migliori senza imposizioni


Una scienza delle decisioni: perché ne abbiamo bisogno in contesto lavorativo?

Prendere decisioni è la principale attività quotidiana di qualunque essere umano. Le nostre giornate sono un susseguirsi continuo di decisioni, di scelte. Se consideriamo solo l’ambito lavorativo, ogni giorno ci viene richiesto di prendere un numero di decisioni ampissimo: a partire dalla semplice decisione di stampare o meno un documento, fino ad arrivare a decisioni più complesse come, per esempio, decidere quale candidato assumere.

Se è la nostra principale attività quotidiana, perché c’è bisogno di aiutare le persone a scegliere, in particolar modo in contesto lavorativo?

A differenza di quello che ci suggerisce il senso comune, la nostra abilità di prendere decisioni è tutt’altro che perfetta. Oggi sappiamo che i nostri processi decisionali sono prevalentemente irrazionali: sono guidati da euristiche, scorciatoie di pensiero automatiche che attiviamo spesso inconsapevolmente; sono soggetti a bias, errori sistematici di giudizio; sono influenzati dall’ambiente, dal contesto in cui ci troviamo, da ciò che è appena accaduto nelle nostre vite e dal coinvolgimento emotivo del momento. Insomma, siamo ben lontani dalla razionalità e capacità di calcolo di una macchina.

Spesso però, in contesto lavorativo, ciò che viene richiesta è proprio l’efficienza di una risposta che si avvicini il più possibile all’oggettività, ovvero la capacità di prendere decisioni razionali, intelligenti, strategiche. Le decisioni che leader, manager e perfino dipendenti prendono sul luogo di lavoro hanno un grande impatto su benessere, performance e motivazione propri, di chi gli sta intorno e dell’intera azienda. Ogni piccola decisione conta e può fare la differenza per l’organizzazione.

Abbiamo, quindi, bisogno di una scienza dedicata interamente alla presa decisionale umana. L’Economia Comportamentale, o Behavioral Economics, è la disciplina scientifica che si occupa proprio di studiare il modo in cui le persone prendono decisioni in diversi contesti (privati, sociali, finanziari e professionali). Il padre dell’Economia Comportamentale è lo scienziato israeliano Daniel Kahneman, vincitore del Premio Nobel per l’Economia nel 2002 per i suoi studi sulla presa di decisione umana in ambito di rischio e incertezza.

Nel 2017 il premio Nobel per l’Economia è stato assegnato a Richard Thaler, fautore di alcuni importanti studi nell’ambito dell’Economia Comportamentale. Thaler ha dato un contributo fondamentale a questa materia sviluppando il concetto di Nudge o “spinta gentile1: un nudge è un intervento che modifica l’ambiente per aiutare le persone, con un approccio gentile, a prendere decisioni migliori.

Prendere decisioni efficaci: come aiutare i leader a fare scelte

Quindi, ricapitolando: le decisioni che prendiamo sul luogo di lavoro sono tantissime, decidere ci costa spesso un certo grado di fatica, l’esito delle nostre decisioni impatta la nostra vita e quella di chi ci sta intorno. Abbiamo bisogno di qualcosa che supporti il nostro processo decisionale. 

Le scienze cognitive e le scienze comportamentali, che negli ultimi decenni hanno messo in luce molti aspetti delle nostre tendenze all’errore, hanno sviluppato anche delle strategie d’intervento per potenziare le nostre abilità decisionali. Si parla di Architettura delle Scelte, ovvero di interventi progettati per prevenire il rischio d’errore ed aggirare le barriere che si frappongono tra noi ed il comportamento virtuoso. Agendo sul contesto – interno ed esterno – in cui i lavoratori si muovono e prendono decisioni possiamo accompagnare verso il cambiamento comportamentale e sostenere scelte più efficaci.

Le evidenze scientifiche derivanti dalle scienze del comportamento e dall’Architettura delle Scelte devono essere messe a servizio di leader, manager e datori di lavoro affinché questi diventino autonomi nel modellare ambienti di lavoro che promuovano benessere, motivazione e produttività a tutti i livelli. Vediamo assieme come.

Prendere decisioni in gruppo: il contributo dell’Architettura delle Scelte

L’Architettura delle Scelte ha ampie potenzialità in campo lavorativo. Un esempio può aiutarci a comprendere meglio ciò di cui parliamo.

Nelle decisioni prese in gruppo, ad esempio nel corso di una riunione, accade spesso che i team di lavoro incorrano nel bias dell’eccessivo ottimismo. La discussione e le riflessioni si concentrano sulle risorse a disposizione: sulla base di queste, viene formulato un progetto e ne vengono stimate probabilità di successo e tempi di realizzazione. Ciò che il gruppo tende a trascurare sono invece i rischi, le carenze, tutto ciò che mette a rischio l’effettivo completamento del progetto, nei modi e nei tempi previsti. Il bias dell’eccessivo ottimismo ci porta a dedicare minore attenzione a questi aspetti “negativi”, perché comportano pensieri ed emozioni meno gradevoli.

Una tecnica di architettura delle scelte (chiamata tecnica “pre-mortem”, perché previene una fine ingloriosa del progetto) prevede allora che il team dedichi la fase conclusiva di ogni riunione a mettere a fuoco ciò che potrebbe causare un fallimento del progetto, seguendo un questionario predeterminato. È dunque il team leader, il manager, a organizzare il contesto di lavoro in modo da prevedere questo spazio di contrasto al bias.

Perché un approccio “gentile”?

Il leader che adotta questo tipo di interventi con il proprio team di lavoro è un professionista che sviluppa conoscenze specifiche riguardo al modo in cui le persone ragionano e decidono. Una delle conoscenze fondamentali riguarda proprio la differenza fra imposizioni e spinte gentili. Le punizioni, le minacce (anche velate) e l’imposizione di regole, portano le persone a ridurre l’iniziativa, osare meno ed essere meno innovative.

Al contrario, l’approccio delicato dell’Architettura delle Scelte salvaguarda la libertà di ognuno di esprimersi, intervenire, acquisire maggior consapevolezza dei propri errori ed adottare, con convinzione, strategie correttive. 
L’Economia Comportamentale ce lo ha dimostrato ormai con chiarezza: se miriamo all’aumento della performance decisionale, e dunque professionale, la strada da percorrere è questa. È necessario che leader e manager diventino Architetti delle Scelte della propria organizzazione.

Applicare i principi delle scienze del comportamento e del Nudging in ambito organizzativo significa, tra le altre cose, migliorare i processi decisionali di chi si trova al vertice, prendendo consapevolezza dell’importanza che il disegno del contesto lavorativo ha per la performance ed il benessere di tutti i livelli sottostanti.

Le persone sono la risorsa su cui si fonda il lavoro del leader: capire come commettono errori, da sole o in team, significa anche essere in grado di prevenire gli errori, sostenere le corrette abitudini e favorire un team working efficiente ed efficace.

Il manager architetto delle scelte conosce a fondo i processi decisionali umani e li sa gestire per il meglio. La chiave di volta è lo sviluppo di una leadership gentile, che accompagna le scelte delle persone senza limitarne la creatività.

FONTI

1Thaler, H.R. & Sunstein. C.R. (2009). Nudge. La nuova strategia per migliorare le nostre decisioni su denaro, salute, felicità. Feltrinelli.




Nuovo scandalo ESG: Deutsche Bank nella bufera

Nuovo scandalo ESG: Deutsche Bank nella bufera

La cronaca: Deutsche Bank nella bufera

Martedì scorso una cinquantina di funzionari dell’ufficio del Pubblico ministero, dell’Autorità di vigilanza finanziaria BAFIN e dell’Ufficio Federale di Polizia criminale (BKA) hanno “occupato”, con un regolare mandato, la sede della Deutsche Bank di Francoforte e l’edificio della controllata del fondo Deutsche Bank “DWS”, con l’ipotesi di sospetta frode sugli investimenti. In realtà il faro delle autorità di vigilanza si era acceso sull’istituto finanziario già da mesi, e – come in molti celebri precedenti – le avvisaglie c’erano tutte, anche considerando che Deutsche Bank – colosso tedesco definito a più riprese da diversi analisti “spacciatrice di titoli tossici” – non è certo nuovo a questo tipo di scandali.

Il gestore patrimoniale DWS oggi è formalmente accusato di aver venduto “prodotti finanziari verdi” certificati ESG (da chi, sarà da appurare…) come ben più “sostenibili” di quanto non fossero in realtà, sovraposizionando scientemente nelle sue comunicazioni alla clientela il (presunto) basso impatto ambientale degli stessi, al fine di convincere gli investitori ad acquistarli. Una banca che mente, quale inedita novità: che il settore sia tra i più avidi e con la peggiore reputazione sul mercato, in poco nobile gara con i big del pharma e altre “selezionate” multinazionali, è cosa notissima.

In ogni caso, il primo immediato effetto sono state le dimissioni del CEO di DWS Mr. Asoka Wöhrmann: i tedeschi, che tanto si piccano di rigore a Bruxelles, sono invece esperti in dimissioni inutili e di facciata, come già vedemmo nel corso del vergognoso scandalo Dieselgate di Volkswagen, quando l’allora CEO di VW presentò le proprie dimissioni passando però a ritirare alla cassa oltre 60 milioni di euro di buonuscita.

Con un tempismo degno di miglior causa, la SEC – Securities and Exchange Commission, l’ente di controllo USA – aveva proprio poche settimane fa dichiarato che stava pianificando iniziative per reprimere le affermazioni ESG ingannevoli, e anche l’Unione Europea – finalmente – si sta muovendo in questa direzione con precise e più stringenti regolamentazioni. Le nuove regole specificherebbero le informazioni che devono essere fornite dai fondi di investimento quando menzionano termini come “ESG”, “a basse emissioni di carbonio” o “sostenibili” nel loro marketing, e via discorrendo, a maggiore tutela dei cittadini che potranno quindi fare scelte più informate e consapevoli. Era ora, verrebbe da dire, perché mai una moda nel mondo della sostenibilità è stata più pervasiva: i criteri ESG – ovvero gli standard secondo i quali si definisce la compliance sotto il profilo etico riguardo a Environment (impatto ambientale), Social (preoccupazioni sociali) e Governance (sistemi di governo delle organizzazioni) – paiono ormai essere apparentemente irrinunciabili da parte di qualunque azienda.

Ecco cosa succede nei fondi di investimento

Semplicemente – e il caso DWS non fa che confermarlo una volta di più – il procedimento è il seguente: gli analisti selezionano potenziali investimenti attraverso delle analisi puramente finanziarie, che in realtà ignorano le questioni ESG; successivamente, usano – in conclusione di analisi – la performance ESG generale della società come screening finale per la riduzione del rischio, come una specie di “foglia di fico” utile per giustificare scelte già fatte.

La verità è che un metodo così poco personalizzato e così tanto centrato su un fuorviante concetto di materialità, è nel migliore dei casi un’indicazione utile per “prendere le misure” a un intero settore, ma raramente è utile per fotografare al meglio una specifica azienda.

Si tratta infatti di un approccio “burocratico” ad un tema importante e complesso, che – tra l’altro, mi piace ricordarlo – spesso viola i fondamentali stessi del Reputation management, uno dei quali, com’è noto, è quello dell’autenticità, ovvero della correlazione tra identità e immagine. Con il modello basato sugli ESG com’è attualmente inteso ci si concentra – appunto – solo sull’immagine. Questo è, a miei occhi, uno dei limiti principali di questo genere di strumenti: contraddicono l’approccio “tailor-made” che dovrebbe sempre contraddistinguere il lavoro del reputation manager.

Tornando però allo scandalo DWS, le analisi dell’osservatorio di Bloomberg sui flussi income/outcome dei fondi ESG parlano chiaro: nel mese appena concluso sono stati registrati per la prima volta negli anni recenti valori fortemente negativi causato dai disinvestimenti da questo genere di strumenti.

Un “effetto panico” del tutto emotivo, generato dalla contingenza, si dirà, e quindi destinato in parte a rientrare: molto probabile, ma il tema di come riuscire a setacciare le iniziative serie da quelle corrotte dal greenwashing resta comunque più che mai attuale.

Gli strumenti – e le aziende – certificate ESG sono più affidabili e performanti?

Le opportunità di una maggiore crescita in termini di redditività e vantaggio competitivo derivanti dal inserimento dei problemi sociali e ambientali come parte integrante dei piani strategici di una azienda sono confermate da una crescente mole di evidenze scientifiche, a partire dall’antico ma sempre attualissimo lavoro di Robert G. Eccles, Ioannis Ioannou, and George Serafeim: il tema casomai è saper distinguere tra il grano e la gramigna, ovvero – e non è facile – individuare con precisione il greenwashing.

Opinione attualmente diffusa vuole che le società che hanno posizioni migliori in classifica sulla base di metriche ESG, otterranno – già solo per questo – migliori rendimenti per gli azionisti. Come avevo scritto ripetutamente già in passato, anche richiamando il bel lavoro di Porter, Serafeim e Kramer dal titolo “Where ESG fails”, pubblicato nel lontano 2019 sulla rivista Institutional Investor, questa convinzione è semplicemente errata, ed è basata su un castello di carte: metaforicamente, è un gigante dai piedi d’argilla.

Le azioni, quelle si, possono certamente fare la differenza; non altrettanto, di per sé, le “classifiche”: aziende in alta posizione in quelle classificazioni non necessariamente garantiscono over-performance agli investimenti, né un profilo di sostenibilità più elevato.

Il problema però è che molti analisti finanziari considerano il posizionamento rispetto agli indici ESG come un modo per attirare – solo grazie all’apposizione di un “bollino” – investitori socialmente responsabili, nonché come uno strumento per ridurre i rischi di reputazione di una società.

Senza timore di smentita, mi sento di affermare – come già sostenuto autorevolmente dai colleghi che ho citato sopra – che il modello basato sugli indici ESG è centrato su di uno sguardo del tutto generale, avulso dal particolare, che può generare effetti imprevisti e preoccupanti: si tratta in poche parole di una vera e propria mania classificatoria, l’ennesima, tipica del mondo anglosassone e degli USA in particolare.

Quale straordinario effetto rassicurante garantiscono le griglie classificatorie: ne abbiamo un esempio assai calzante nel DSM, il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali, elaborato da una certa psichiatria organicista americana, che classifica minuziosamente – quanto superficialmente – una miriade pressoché infinita di disturbi mentali, perché per i nostri amici oltreoceano ogni cosa deve avere una sua propria casella ben precisa, quindi c’è un disturbo mentale per ogni minima variazione di temperamento e comportamento. Esattamente come per gli indici ESG: semplici, binario-sequenziali e molto rassicuranti, specie per i bulimici fondi di investimento che centrano convintamente i propri processi di analisi sul modello culturale made in USA.

Per comprendere meglio, facciamo alcuni esempi pratici. L’impatto ambientale di una banca, per esempio, non è rilevante per la performance economica della stessa: una corretta politica di contenimento delle emissioni in atmosfera, otterrebbe un alto punteggio sugli indici ESG, ma non influenzerebbe significativamente le emissioni di carbonio globali. Al contrario, l’emissione, da parte della banca, di prestiti subprime che i clienti non saranno in grado di ripagare, potrebbe avere devastanti conseguenze sociali e finanziarie, come le cronache di pochi anni fa hanno dimostrato; nonostante ciò, il reporting ESG ha dato credito alle banche per la prima questione, e allo stesso tempo ha tralasciato la seconda.

Un secondo esempio? Walmart e Amazon dipendono entrambi da sistemi di distribuzione a uso intensivo di carbonio, ma Amazon ha esternalizzato i costi della distribuzione, della consegna e degli imballaggi, quindi, il suo impatto ambientale risulta essere molto minore di Walmart, nonostante l’impatto per l’alto contenuto di carbonio derivante della spedizione di singoli articoli nelle abitazioni sia enorme. Al contrario, Walmart ha deciso di ridurre fortemente l’impatto ambientale del proprio sistema di distribuzione, integrando nei negozi le spedizioni di grandi volumi, con imballaggi riprogettati, un fleet management innovativo, e investendo miliardi di dollari nella riduzione dei costi. In realtà, il modello esternalizzato di Amazon è molto più vulnerabile alle normative sul carbonio e ai costi del carburante, nonostante l’impatto ambientale della società risulti essere – apparentemente – minore. Come per i corrieri espressi, che in base agli indici ESG presentano un elevato impatto ambientale a causa delle copiose immissioni di Co2 in atmosfera (ma no…? Con migliaia di automezzi in viaggio ogni giorno…) suggerendo così l’opportunità laddove possibile di esternalizzare l’impatto appaltando le consegne a padronicini esterni, e sfuggendo così all’analisi ESG (ovvero alterandone gli indici…).

Mi piace anche ricordare che Volkswagen prima dello scandalo del Dieselgate era prima in molte classifiche ESG, e che Jeff Bezos, con il suo Bezos Earth Fund, ha deciso sì di destinare 10 miliardi di dollari a borse di studio e finanziamento di idee sulla sostenibilità (senza peraltro curarsi di verificare poi il buon fine dei progetti finanziati…) ma ben si guarda dallo spendere un solo dollaro per migliorare realmente la qualità della vita lavorativa e gli standard retributivi all’interno del proprio colosso. E potremmo continuare a lungo…

Morale: l’adozione diffusa dei reporting ESG ha avuto, come effetto indiretto, l’aver “tranquillizzato” gli investitori e i cittadini, ma, al contempo, ha distratto le aziende dall’attrezzarsi per causare un impatto sociale rilevante riguardo alle questioni realmente centrali per i propri business.

Esistono soluzioni?

In questa direzione si sta muovendo in modo assai professionale l’associazione Diligentia ETS[1], che ha redatto un position paper dal titolo “Asserzioni etiche di sostenibilità: criteri di scelta per dichiarazioni affidabili, accurate e credibili”, molto ben costruito, e anche a tratti provocatorio rispetto allo scenario attuale.

La scelta di un’asserzione etica (e questo include anche le certificazioni ESG, sulle quali si è scatenato un assai redditizio mercato della consulenza) dovrebbe essere effettuata in base a criteri di accuratezza, affidabilità e credibilità degli elementi e metriche di valutazione, di competenza di chi effettua le verifiche e, soprattutto, di credi­bilità e affidabilità di chi verifica e valida tali asserzioni, possibilmente in conformità a norme riconosciute a livello internazionale: in molti, moltissimi casi purtroppo – e lo scandalo DWS lo dimostra un’ennesima volta – non è così.

Il Position Paper di Diligentia è frutto di un esercizio di scrittura collettiva cui hanno partecipato numerosi soci dell’associazione e special invitees in rappresentanza di organismi istituzionali e del mondo accademico, ed è articolato in 3 parti: la prima parte è focalizzata sull’analisi del­la domanda di informazioni sulle prestazioni etiche delle organizzazioni proveniente dal quadro normativo emergente e dai diversi Sta­keholders; la seconda parte contiene i 16 criteri proposti da Diligentia per scegliere un’asserzione etica accurata, credibile, affidabile con una verifi­ca e validazione di una terza parte indipendente; la terza parte, infine, mette in evidenza il modo in cui i diversi Stakeholders possono adottare nei propri processi i criteri elencati nella parte 2 e i relativi conseguenti vantaggi.

Tempo addietro, aggiungo, in un articolo per l’Harvard Business Review avevo proposto di considerare le false dichiarazioni in campo ambientale e sociale al pari del falso in bilancio, reato punito penalmente: francamente, mai come ora se ne sente la necessità.

Conclusioni

La domanda è solo apparentemente scontata: ci vuole davvero così tanto impegno per essere autentici? Più autenticità e meno bulimia classificatoria, verrebbe da dire, sarebbe d’aiuto: si abbatterebbe il profilo di rischio e si massimizzerebbero i profitti sul medio-lungo periodo semplicemente facendo le cose per bene, ovvero generando dei cambiamenti concreti all’interno dell’organizzazione e poi comunicandoli all’esterno, stimolando maggior stakeholder engagement, e quindi aumentando il valore del marchio, come la letteratura scientifica dimostra in modo ormai solidissimo.

Come convincere allora gli investitori a uscire dalla zona di confort di un sistema di classificazione “standard”? La domanda è ambiziosa, forse è possibile tentare di indicare delle risposte: una strategia realmente innovativa e in linea con la dottrina del reputation management richiederebbe che le aziende comunichino e misurino rigorosamente le metriche quantitative concrete che collegano direttamente i fattori etici con la performance economica, abbandonando un approccio meramente schematico qual è quello tipico degli ESG come sono ad oggi intesi.

Ad esempio, una società d’investimento non può delegare la considerazione delle questioni sociali e ambientali ad un singolo analista ESG ex post: l’intero team d’investimento dovrebbe combinare la comprensione dei fattori e dell’impatto sociale con la competenza finanziaria e industriale, ad esempio inserendo esperti in questioni ambientali e sociali all’interno dei team che valutano gli investimenti. Gli investitori dovranno iniziare, piuttosto che terminare, le proprie analisi con il passare in rassegna tutte le questioni sociali e ambientali salienti che influenzano le aziende, come i cambiamenti climatici, il crescente interesse per una sana nutrizione, le esigenze della classe media globale emergente, la diffusione di malattie trasmissibili, la bassa produttività dei piccoli agricoltori, il cambiamento dei dati demografici di dipendenti e clienti, gli effetti della carenza idrica e via discorrendo.

Inoltre, analizzare e comprendere queste dinamiche sociali e ambientali aiuterà gli investitori ad anticipare i cambiamenti nel proprio settore industriale e a identificare le opportunità per la creazione di valore condiviso nel futuro: Summa Equity, un fondo d’investimento azionario scandinavo, ha deciso ad esempio – come ricordano Porter, Serafeim e Kramer nel loro paper – di muoversi proprio in questa direzione. Sarebbe interessante analizzare con attenzione e nel dettaglio le procedure seguite dai più importanti fondi di investimento green per verificarne l’aderenza alle buone prassi seguite da Summa e da pochi altri.

Il capitalismo, quando introduce preoccupazioni di carattere etico nel business, può rappresentare una leva potentissima di sviluppo: ma i cittadini chiedono concretezza e autenticità, non solo promesse e greenwashing. Gli investitori possono scegliere di guadagnare denaro e nel contempo di contribuire a una comunità più sana, prospera e sostenibile, o possono decidere di ricavare alti rendimenti ma in modi distruttivi per la società stessa.

È ora di scegliere: è tempo di fare qualcosa di concreto, non solo di compilare checklist.

PS: sugli ESG per ora ci fermiamo qui, ma in giugno porremo l’attenzione su un altro tema caldissimo, ovvero la blockchain, venduta come garanzia di totale affidabilità nelle asserzioni di carattere etico e anch’essa ultimamente molto di moda. È sempre così? In realtà abbiamo individuato e analizzato i primi casi – abili e diabolici! – di greenwashing anche sulla blockchain, che dovrebbe essere lo strumento di trasparenza per eccellenza. Purtroppo, ne vedremo – e leggeremo – ancora delle belle…

Breve bibliografia:

  • Cappucci, M. (2018), The ESG integration paradox, Journal of Applied Corporate Finance, 30(2), 22-28.
  • Cornell, B., & Damodaran, A. (2020), Valuing ESG: Doing good or sounding good?, NYU Stern School of Business.
  • Eccles, R. G., Ioannou, I., & Serafeim, G. (2014), The impact of corporate sustainability on organizational processes and performance, Management Science, 60(11), 2835-2857.
  • Gartenberg, C., Prat, A., & Serafeim, G. (2019). Corporate purpose and financial performance. Organization Science, 30(1), 1-18.
  • Hafner, M., Pollard, J., & Van Stolk, C. (2020), Incentives and physical activity: An assessment of the association between Vitality’s Active Rewards with Apple Watch benefit and sustained physical activity improvements, Rand Health Quarterly, 9(1).
  • Ioannou, I., & Serafeim, G. (2015), The impact of corporate social responsibility on investment recommendations: Analysts’ perceptions and shifting institutional logics, Strategic Management Journal, 36(7), 1053-1081.
  • Lierop W. V. (2020), Most ESG Investing Makes A Charade Of Fighting Climate Change, Forbes.
  • Lierop W. V. (2021), Accusations Of ESG Greenwashing Miss The Point, Forbes.
  • Porter, M., Serafeim, G., & Kramer, M. (2019), Where ESG fails, Institutional Investor, 16.
  • Yu, E. P. Y., Van Luu, B., & Chen, C. H. (2020), Greenwashing in environmental, social and governance disclosures, Research in International Business and Finance, 52, 101192.

[1] Disclaimer sul conflitto di interessi: sono tra i co-fondatori dell’associazione, e membro, pro-bono e senza fine di lucro, del comitato scientifico della stessa, dal maggio 2022




Ladri di nft

Ladri di nft

Il sito funzionava seguendo una logica piuttosto semplice. Venivano venduti nft one-to-one, cioè token unici e non replicabili, relativi a brani musicali anche molto famosi. In questo modo si replicava l’aspetto che più di tutti è in voga nel mondo degli nft, ossia quello del mercato dell’arte.Gli nft infatti non servono tanto a consentire la non replicabilità di qualunque elemento digitale, quanto a tracciarne la proprietà. Che poi è quel che da sempre succede con l’arte: tutti possono riprodurre o acquistare riproduzioni di famosi capolavori della pittura o della scultura, ma il proprietario dell’originale rimane sempre e solamente un’unica persona.Hitpiece – in quel momento ancora in versione beta – consentiva ai propri utenti di partecipare a delle aste al termine delle quali si vinceva l’nft di uno o più brani. Tra le canzoni messe all’asta vi è anche un brano famoso come Can you feel the love tonight, colonna sonora del Re Leone scritta e interpretata da Elton John. Sulla vecchia versione del sito si leggeva che gli utenti avevano modo di costruirsi la propria playlist di pezzi preferiti e avere accesso ad attività esclusive, talvolta anche in compagnia degli artisti. Peccato che tutto questo avvenisse senza autorizzazioni da parte degli artisti, che all’improvviso hanno trovato un’azienda pressoché sconosciuta che staccava dividendi importanti utilizzando le loro creazioni. Anche perché a un certo punto si è ipotizzato che dietro ai costanti rilanci delle aste ci fossero bot.

 (Foto: Getty Images)Su Twitter la reazione è stata particolarmente furiosa. La rock band Eve 6 ha scritto di non aver mai dato l’autorizzazione e ha diffidato i gestori del sito chiamandoli “bastardi” e aggiungendo che “gli nft sono una truffa”.Il gruppo hip hop Clipping ha commentato con un direttissimo (e intraducibile) “Fuck this scam shit”.Dopo le proteste, HitPiece ha fatto marcia indietro. Oggi l’homepage del sito è vuota. Rimane solo lo sfondo nero, il logo e una sola frase: “abbiamo avviato la conversazione e ora siamo in ascolto”.I pulsanti social rimandano a Twitter e Instagram. Su Twitter ci sono poco più di 1200 follower. L’ultimo post risale proprio a febbraio. Si tratta di una nota in cui l’azienda scrive di “aver toccato un nervo scoperto” e sottolinea sia di pagare gli artisti dei quali vengono venduti gli nft e sia di essere una versione beta che – in quanto tale – è nella fase di ascolto della domanda di mercato e dei feedback.

Su Instagram invece c’è solo qualche reel di presentazione e pochissimo altro. In compenso però di HitPiece restano un paio di cose assai rilevanti, oltre ovviamente al nome e all’azienda potenzialmente pronta a tornare da un momento all’altro sul mercato con qualche altra idea geniale.  In primis rimane una pratica commerciale scorretta eppure molto diffusa. Intervistata dal Guardian, l’artista olandese Lois van Baarle ha raccontato di aver trovato online centinaia delle proprie opere in vendita come nft seppur lei non avesse mai autorizzato nulla di tutto ciò. Come lei, migliaia di artisti in tutto il mondo hanno lamentato nel corso degli ultimi mesi sorprese simili, a dimostrazione dell’aumento di crimini simili.

In seconda battuta, di HitPiece resta il precedente: una protesta su Twitter, una mobilitazione di nicchia, e alla fine un danno reputazionale sufficiente a far chiudere un’azienda già avviata. Potremmo definirlo il potere delle bolle




Position Paper 01 – ASSERZIONI ETICHE CRITERI DI SCELTA PER DICHIARAZIONI AFFIDABILI, ACCURATE E CREDIBILI

Position Paper 01 – ASSERZIONI ETICHE CRITERI DI SCELTA PER DICHIARAZIONI AFFIDABILI, ACCURATE E CREDIBILI

Diligentia ritiene la scelta di un’asserzione etica debba essere effettuata in base a criteri di accuratezza, affidabilità e credibilità degli elementi e metriche di valutazione, di competenza di chi effettua le verifiche e, soprattutto, di credi­bilità e affidabilità di chi verifica/valida tali asserzioni in conformità a norme riconosciute a livello internazionale.

Il Position Paper, frutto di un esercizio di scrittura collettiva cui hanno partecipato numerosi soci di Diligentia e special invitees in rappresentanza di organismi istituzionali, è articolato in 3 parti.

La prima parte è focalizzata sull’analisi del­la domanda di informazioni sulle prestazioni etiche delle organizzazioni proveniente dal quadro normativo emergente e dai diversi Sta­keholders.

La seconda parte contiene i 16 criteri proposti da Diligentia per scegliere un’asserzione etica accurata, credibile, affidabile con una verifi­ca/validazione di terza parte indipendente.

La terza parte mette in evidenza il modo in cui i diversi Stakeholders possono adottare nei propri processi i criteri elencati nella parte 2 e i relativi vantaggi.

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