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Nuovo scandalo ESG: Deutsche Bank nella bufera

Nuovo scandalo ESG: Deutsche Bank nella bufera

La cronaca: Deutsche Bank nella bufera

Martedì scorso una cinquantina di funzionari dell’ufficio del Pubblico ministero, dell’Autorità di vigilanza finanziaria BAFIN e dell’Ufficio Federale di Polizia criminale (BKA) hanno “occupato”, con un regolare mandato, la sede della Deutsche Bank di Francoforte e l’edificio della controllata del fondo Deutsche Bank “DWS”, con l’ipotesi di sospetta frode sugli investimenti. In realtà il faro delle autorità di vigilanza si era acceso sull’istituto finanziario già da mesi, e – come in molti celebri precedenti – le avvisaglie c’erano tutte, anche considerando che Deutsche Bank – colosso tedesco definito a più riprese da diversi analisti “spacciatrice di titoli tossici” – non è certo nuovo a questo tipo di scandali.

Il gestore patrimoniale DWS oggi è formalmente accusato di aver venduto “prodotti finanziari verdi” certificati ESG (da chi, sarà da appurare…) come ben più “sostenibili” di quanto non fossero in realtà, sovraposizionando scientemente nelle sue comunicazioni alla clientela il (presunto) basso impatto ambientale degli stessi, al fine di convincere gli investitori ad acquistarli. Una banca che mente, quale inedita novità: che il settore sia tra i più avidi e con la peggiore reputazione sul mercato, in poco nobile gara con i big del pharma e altre “selezionate” multinazionali, è cosa notissima.

In ogni caso, il primo immediato effetto sono state le dimissioni del CEO di DWS Mr. Asoka Wöhrmann: i tedeschi, che tanto si piccano di rigore a Bruxelles, sono invece esperti in dimissioni inutili e di facciata, come già vedemmo nel corso del vergognoso scandalo Dieselgate di Volkswagen, quando l’allora CEO di VW presentò le proprie dimissioni passando però a ritirare alla cassa oltre 60 milioni di euro di buonuscita.

Con un tempismo degno di miglior causa, la SEC – Securities and Exchange Commission, l’ente di controllo USA – aveva proprio poche settimane fa dichiarato che stava pianificando iniziative per reprimere le affermazioni ESG ingannevoli, e anche l’Unione Europea – finalmente – si sta muovendo in questa direzione con precise e più stringenti regolamentazioni. Le nuove regole specificherebbero le informazioni che devono essere fornite dai fondi di investimento quando menzionano termini come “ESG”, “a basse emissioni di carbonio” o “sostenibili” nel loro marketing, e via discorrendo, a maggiore tutela dei cittadini che potranno quindi fare scelte più informate e consapevoli. Era ora, verrebbe da dire, perché mai una moda nel mondo della sostenibilità è stata più pervasiva: i criteri ESG – ovvero gli standard secondo i quali si definisce la compliance sotto il profilo etico riguardo a Environment (impatto ambientale), Social (preoccupazioni sociali) e Governance (sistemi di governo delle organizzazioni) – paiono ormai essere apparentemente irrinunciabili da parte di qualunque azienda.

Ecco cosa succede nei fondi di investimento

Semplicemente – e il caso DWS non fa che confermarlo una volta di più – il procedimento è il seguente: gli analisti selezionano potenziali investimenti attraverso delle analisi puramente finanziarie, che in realtà ignorano le questioni ESG; successivamente, usano – in conclusione di analisi – la performance ESG generale della società come screening finale per la riduzione del rischio, come una specie di “foglia di fico” utile per giustificare scelte già fatte.

La verità è che un metodo così poco personalizzato e così tanto centrato su un fuorviante concetto di materialità, è nel migliore dei casi un’indicazione utile per “prendere le misure” a un intero settore, ma raramente è utile per fotografare al meglio una specifica azienda.

Si tratta infatti di un approccio “burocratico” ad un tema importante e complesso, che – tra l’altro, mi piace ricordarlo – spesso viola i fondamentali stessi del Reputation management, uno dei quali, com’è noto, è quello dell’autenticità, ovvero della correlazione tra identità e immagine. Con il modello basato sugli ESG com’è attualmente inteso ci si concentra – appunto – solo sull’immagine. Questo è, a miei occhi, uno dei limiti principali di questo genere di strumenti: contraddicono l’approccio “tailor-made” che dovrebbe sempre contraddistinguere il lavoro del reputation manager.

Tornando però allo scandalo DWS, le analisi dell’osservatorio di Bloomberg sui flussi income/outcome dei fondi ESG parlano chiaro: nel mese appena concluso sono stati registrati per la prima volta negli anni recenti valori fortemente negativi causato dai disinvestimenti da questo genere di strumenti.

Un “effetto panico” del tutto emotivo, generato dalla contingenza, si dirà, e quindi destinato in parte a rientrare: molto probabile, ma il tema di come riuscire a setacciare le iniziative serie da quelle corrotte dal greenwashing resta comunque più che mai attuale.

Gli strumenti – e le aziende – certificate ESG sono più affidabili e performanti?

Le opportunità di una maggiore crescita in termini di redditività e vantaggio competitivo derivanti dal inserimento dei problemi sociali e ambientali come parte integrante dei piani strategici di una azienda sono confermate da una crescente mole di evidenze scientifiche, a partire dall’antico ma sempre attualissimo lavoro di Robert G. Eccles, Ioannis Ioannou, and George Serafeim: il tema casomai è saper distinguere tra il grano e la gramigna, ovvero – e non è facile – individuare con precisione il greenwashing.

Opinione attualmente diffusa vuole che le società che hanno posizioni migliori in classifica sulla base di metriche ESG, otterranno – già solo per questo – migliori rendimenti per gli azionisti. Come avevo scritto ripetutamente già in passato, anche richiamando il bel lavoro di Porter, Serafeim e Kramer dal titolo “Where ESG fails”, pubblicato nel lontano 2019 sulla rivista Institutional Investor, questa convinzione è semplicemente errata, ed è basata su un castello di carte: metaforicamente, è un gigante dai piedi d’argilla.

Le azioni, quelle si, possono certamente fare la differenza; non altrettanto, di per sé, le “classifiche”: aziende in alta posizione in quelle classificazioni non necessariamente garantiscono over-performance agli investimenti, né un profilo di sostenibilità più elevato.

Il problema però è che molti analisti finanziari considerano il posizionamento rispetto agli indici ESG come un modo per attirare – solo grazie all’apposizione di un “bollino” – investitori socialmente responsabili, nonché come uno strumento per ridurre i rischi di reputazione di una società.

Senza timore di smentita, mi sento di affermare – come già sostenuto autorevolmente dai colleghi che ho citato sopra – che il modello basato sugli indici ESG è centrato su di uno sguardo del tutto generale, avulso dal particolare, che può generare effetti imprevisti e preoccupanti: si tratta in poche parole di una vera e propria mania classificatoria, l’ennesima, tipica del mondo anglosassone e degli USA in particolare.

Quale straordinario effetto rassicurante garantiscono le griglie classificatorie: ne abbiamo un esempio assai calzante nel DSM, il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali, elaborato da una certa psichiatria organicista americana, che classifica minuziosamente – quanto superficialmente – una miriade pressoché infinita di disturbi mentali, perché per i nostri amici oltreoceano ogni cosa deve avere una sua propria casella ben precisa, quindi c’è un disturbo mentale per ogni minima variazione di temperamento e comportamento. Esattamente come per gli indici ESG: semplici, binario-sequenziali e molto rassicuranti, specie per i bulimici fondi di investimento che centrano convintamente i propri processi di analisi sul modello culturale made in USA.

Per comprendere meglio, facciamo alcuni esempi pratici. L’impatto ambientale di una banca, per esempio, non è rilevante per la performance economica della stessa: una corretta politica di contenimento delle emissioni in atmosfera, otterrebbe un alto punteggio sugli indici ESG, ma non influenzerebbe significativamente le emissioni di carbonio globali. Al contrario, l’emissione, da parte della banca, di prestiti subprime che i clienti non saranno in grado di ripagare, potrebbe avere devastanti conseguenze sociali e finanziarie, come le cronache di pochi anni fa hanno dimostrato; nonostante ciò, il reporting ESG ha dato credito alle banche per la prima questione, e allo stesso tempo ha tralasciato la seconda.

Un secondo esempio? Walmart e Amazon dipendono entrambi da sistemi di distribuzione a uso intensivo di carbonio, ma Amazon ha esternalizzato i costi della distribuzione, della consegna e degli imballaggi, quindi, il suo impatto ambientale risulta essere molto minore di Walmart, nonostante l’impatto per l’alto contenuto di carbonio derivante della spedizione di singoli articoli nelle abitazioni sia enorme. Al contrario, Walmart ha deciso di ridurre fortemente l’impatto ambientale del proprio sistema di distribuzione, integrando nei negozi le spedizioni di grandi volumi, con imballaggi riprogettati, un fleet management innovativo, e investendo miliardi di dollari nella riduzione dei costi. In realtà, il modello esternalizzato di Amazon è molto più vulnerabile alle normative sul carbonio e ai costi del carburante, nonostante l’impatto ambientale della società risulti essere – apparentemente – minore. Come per i corrieri espressi, che in base agli indici ESG presentano un elevato impatto ambientale a causa delle copiose immissioni di Co2 in atmosfera (ma no…? Con migliaia di automezzi in viaggio ogni giorno…) suggerendo così l’opportunità laddove possibile di esternalizzare l’impatto appaltando le consegne a padronicini esterni, e sfuggendo così all’analisi ESG (ovvero alterandone gli indici…).

Mi piace anche ricordare che Volkswagen prima dello scandalo del Dieselgate era prima in molte classifiche ESG, e che Jeff Bezos, con il suo Bezos Earth Fund, ha deciso sì di destinare 10 miliardi di dollari a borse di studio e finanziamento di idee sulla sostenibilità (senza peraltro curarsi di verificare poi il buon fine dei progetti finanziati…) ma ben si guarda dallo spendere un solo dollaro per migliorare realmente la qualità della vita lavorativa e gli standard retributivi all’interno del proprio colosso. E potremmo continuare a lungo…

Morale: l’adozione diffusa dei reporting ESG ha avuto, come effetto indiretto, l’aver “tranquillizzato” gli investitori e i cittadini, ma, al contempo, ha distratto le aziende dall’attrezzarsi per causare un impatto sociale rilevante riguardo alle questioni realmente centrali per i propri business.

Esistono soluzioni?

In questa direzione si sta muovendo in modo assai professionale l’associazione Diligentia ETS[1], che ha redatto un position paper dal titolo “Asserzioni etiche di sostenibilità: criteri di scelta per dichiarazioni affidabili, accurate e credibili”, molto ben costruito, e anche a tratti provocatorio rispetto allo scenario attuale.

La scelta di un’asserzione etica (e questo include anche le certificazioni ESG, sulle quali si è scatenato un assai redditizio mercato della consulenza) dovrebbe essere effettuata in base a criteri di accuratezza, affidabilità e credibilità degli elementi e metriche di valutazione, di competenza di chi effettua le verifiche e, soprattutto, di credi­bilità e affidabilità di chi verifica e valida tali asserzioni, possibilmente in conformità a norme riconosciute a livello internazionale: in molti, moltissimi casi purtroppo – e lo scandalo DWS lo dimostra un’ennesima volta – non è così.

Il Position Paper di Diligentia è frutto di un esercizio di scrittura collettiva cui hanno partecipato numerosi soci dell’associazione e special invitees in rappresentanza di organismi istituzionali e del mondo accademico, ed è articolato in 3 parti: la prima parte è focalizzata sull’analisi del­la domanda di informazioni sulle prestazioni etiche delle organizzazioni proveniente dal quadro normativo emergente e dai diversi Sta­keholders; la seconda parte contiene i 16 criteri proposti da Diligentia per scegliere un’asserzione etica accurata, credibile, affidabile con una verifi­ca e validazione di una terza parte indipendente; la terza parte, infine, mette in evidenza il modo in cui i diversi Stakeholders possono adottare nei propri processi i criteri elencati nella parte 2 e i relativi conseguenti vantaggi.

Tempo addietro, aggiungo, in un articolo per l’Harvard Business Review avevo proposto di considerare le false dichiarazioni in campo ambientale e sociale al pari del falso in bilancio, reato punito penalmente: francamente, mai come ora se ne sente la necessità.

Conclusioni

La domanda è solo apparentemente scontata: ci vuole davvero così tanto impegno per essere autentici? Più autenticità e meno bulimia classificatoria, verrebbe da dire, sarebbe d’aiuto: si abbatterebbe il profilo di rischio e si massimizzerebbero i profitti sul medio-lungo periodo semplicemente facendo le cose per bene, ovvero generando dei cambiamenti concreti all’interno dell’organizzazione e poi comunicandoli all’esterno, stimolando maggior stakeholder engagement, e quindi aumentando il valore del marchio, come la letteratura scientifica dimostra in modo ormai solidissimo.

Come convincere allora gli investitori a uscire dalla zona di confort di un sistema di classificazione “standard”? La domanda è ambiziosa, forse è possibile tentare di indicare delle risposte: una strategia realmente innovativa e in linea con la dottrina del reputation management richiederebbe che le aziende comunichino e misurino rigorosamente le metriche quantitative concrete che collegano direttamente i fattori etici con la performance economica, abbandonando un approccio meramente schematico qual è quello tipico degli ESG come sono ad oggi intesi.

Ad esempio, una società d’investimento non può delegare la considerazione delle questioni sociali e ambientali ad un singolo analista ESG ex post: l’intero team d’investimento dovrebbe combinare la comprensione dei fattori e dell’impatto sociale con la competenza finanziaria e industriale, ad esempio inserendo esperti in questioni ambientali e sociali all’interno dei team che valutano gli investimenti. Gli investitori dovranno iniziare, piuttosto che terminare, le proprie analisi con il passare in rassegna tutte le questioni sociali e ambientali salienti che influenzano le aziende, come i cambiamenti climatici, il crescente interesse per una sana nutrizione, le esigenze della classe media globale emergente, la diffusione di malattie trasmissibili, la bassa produttività dei piccoli agricoltori, il cambiamento dei dati demografici di dipendenti e clienti, gli effetti della carenza idrica e via discorrendo.

Inoltre, analizzare e comprendere queste dinamiche sociali e ambientali aiuterà gli investitori ad anticipare i cambiamenti nel proprio settore industriale e a identificare le opportunità per la creazione di valore condiviso nel futuro: Summa Equity, un fondo d’investimento azionario scandinavo, ha deciso ad esempio – come ricordano Porter, Serafeim e Kramer nel loro paper – di muoversi proprio in questa direzione. Sarebbe interessante analizzare con attenzione e nel dettaglio le procedure seguite dai più importanti fondi di investimento green per verificarne l’aderenza alle buone prassi seguite da Summa e da pochi altri.

Il capitalismo, quando introduce preoccupazioni di carattere etico nel business, può rappresentare una leva potentissima di sviluppo: ma i cittadini chiedono concretezza e autenticità, non solo promesse e greenwashing. Gli investitori possono scegliere di guadagnare denaro e nel contempo di contribuire a una comunità più sana, prospera e sostenibile, o possono decidere di ricavare alti rendimenti ma in modi distruttivi per la società stessa.

È ora di scegliere: è tempo di fare qualcosa di concreto, non solo di compilare checklist.

PS: sugli ESG per ora ci fermiamo qui, ma in giugno porremo l’attenzione su un altro tema caldissimo, ovvero la blockchain, venduta come garanzia di totale affidabilità nelle asserzioni di carattere etico e anch’essa ultimamente molto di moda. È sempre così? In realtà abbiamo individuato e analizzato i primi casi – abili e diabolici! – di greenwashing anche sulla blockchain, che dovrebbe essere lo strumento di trasparenza per eccellenza. Purtroppo, ne vedremo – e leggeremo – ancora delle belle…

Breve bibliografia:

  • Cappucci, M. (2018), The ESG integration paradox, Journal of Applied Corporate Finance, 30(2), 22-28.
  • Cornell, B., & Damodaran, A. (2020), Valuing ESG: Doing good or sounding good?, NYU Stern School of Business.
  • Eccles, R. G., Ioannou, I., & Serafeim, G. (2014), The impact of corporate sustainability on organizational processes and performance, Management Science, 60(11), 2835-2857.
  • Gartenberg, C., Prat, A., & Serafeim, G. (2019). Corporate purpose and financial performance. Organization Science, 30(1), 1-18.
  • Hafner, M., Pollard, J., & Van Stolk, C. (2020), Incentives and physical activity: An assessment of the association between Vitality’s Active Rewards with Apple Watch benefit and sustained physical activity improvements, Rand Health Quarterly, 9(1).
  • Ioannou, I., & Serafeim, G. (2015), The impact of corporate social responsibility on investment recommendations: Analysts’ perceptions and shifting institutional logics, Strategic Management Journal, 36(7), 1053-1081.
  • Lierop W. V. (2020), Most ESG Investing Makes A Charade Of Fighting Climate Change, Forbes.
  • Lierop W. V. (2021), Accusations Of ESG Greenwashing Miss The Point, Forbes.
  • Porter, M., Serafeim, G., & Kramer, M. (2019), Where ESG fails, Institutional Investor, 16.
  • Yu, E. P. Y., Van Luu, B., & Chen, C. H. (2020), Greenwashing in environmental, social and governance disclosures, Research in International Business and Finance, 52, 101192.

[1] Disclaimer sul conflitto di interessi: sono tra i co-fondatori dell’associazione, e membro, pro-bono e senza fine di lucro, del comitato scientifico della stessa, dal maggio 2022




Ladri di nft

Ladri di nft

Il sito funzionava seguendo una logica piuttosto semplice. Venivano venduti nft one-to-one, cioè token unici e non replicabili, relativi a brani musicali anche molto famosi. In questo modo si replicava l’aspetto che più di tutti è in voga nel mondo degli nft, ossia quello del mercato dell’arte.Gli nft infatti non servono tanto a consentire la non replicabilità di qualunque elemento digitale, quanto a tracciarne la proprietà. Che poi è quel che da sempre succede con l’arte: tutti possono riprodurre o acquistare riproduzioni di famosi capolavori della pittura o della scultura, ma il proprietario dell’originale rimane sempre e solamente un’unica persona.Hitpiece – in quel momento ancora in versione beta – consentiva ai propri utenti di partecipare a delle aste al termine delle quali si vinceva l’nft di uno o più brani. Tra le canzoni messe all’asta vi è anche un brano famoso come Can you feel the love tonight, colonna sonora del Re Leone scritta e interpretata da Elton John. Sulla vecchia versione del sito si leggeva che gli utenti avevano modo di costruirsi la propria playlist di pezzi preferiti e avere accesso ad attività esclusive, talvolta anche in compagnia degli artisti. Peccato che tutto questo avvenisse senza autorizzazioni da parte degli artisti, che all’improvviso hanno trovato un’azienda pressoché sconosciuta che staccava dividendi importanti utilizzando le loro creazioni. Anche perché a un certo punto si è ipotizzato che dietro ai costanti rilanci delle aste ci fossero bot.

 (Foto: Getty Images)Su Twitter la reazione è stata particolarmente furiosa. La rock band Eve 6 ha scritto di non aver mai dato l’autorizzazione e ha diffidato i gestori del sito chiamandoli “bastardi” e aggiungendo che “gli nft sono una truffa”.Il gruppo hip hop Clipping ha commentato con un direttissimo (e intraducibile) “Fuck this scam shit”.Dopo le proteste, HitPiece ha fatto marcia indietro. Oggi l’homepage del sito è vuota. Rimane solo lo sfondo nero, il logo e una sola frase: “abbiamo avviato la conversazione e ora siamo in ascolto”.I pulsanti social rimandano a Twitter e Instagram. Su Twitter ci sono poco più di 1200 follower. L’ultimo post risale proprio a febbraio. Si tratta di una nota in cui l’azienda scrive di “aver toccato un nervo scoperto” e sottolinea sia di pagare gli artisti dei quali vengono venduti gli nft e sia di essere una versione beta che – in quanto tale – è nella fase di ascolto della domanda di mercato e dei feedback.

Su Instagram invece c’è solo qualche reel di presentazione e pochissimo altro. In compenso però di HitPiece restano un paio di cose assai rilevanti, oltre ovviamente al nome e all’azienda potenzialmente pronta a tornare da un momento all’altro sul mercato con qualche altra idea geniale.  In primis rimane una pratica commerciale scorretta eppure molto diffusa. Intervistata dal Guardian, l’artista olandese Lois van Baarle ha raccontato di aver trovato online centinaia delle proprie opere in vendita come nft seppur lei non avesse mai autorizzato nulla di tutto ciò. Come lei, migliaia di artisti in tutto il mondo hanno lamentato nel corso degli ultimi mesi sorprese simili, a dimostrazione dell’aumento di crimini simili.

In seconda battuta, di HitPiece resta il precedente: una protesta su Twitter, una mobilitazione di nicchia, e alla fine un danno reputazionale sufficiente a far chiudere un’azienda già avviata. Potremmo definirlo il potere delle bolle




Position Paper 01 – ASSERZIONI ETICHE CRITERI DI SCELTA PER DICHIARAZIONI AFFIDABILI, ACCURATE E CREDIBILI

Position Paper 01 – ASSERZIONI ETICHE CRITERI DI SCELTA PER DICHIARAZIONI AFFIDABILI, ACCURATE E CREDIBILI

Diligentia ritiene la scelta di un’asserzione etica debba essere effettuata in base a criteri di accuratezza, affidabilità e credibilità degli elementi e metriche di valutazione, di competenza di chi effettua le verifiche e, soprattutto, di credi­bilità e affidabilità di chi verifica/valida tali asserzioni in conformità a norme riconosciute a livello internazionale.

Il Position Paper, frutto di un esercizio di scrittura collettiva cui hanno partecipato numerosi soci di Diligentia e special invitees in rappresentanza di organismi istituzionali, è articolato in 3 parti.

La prima parte è focalizzata sull’analisi del­la domanda di informazioni sulle prestazioni etiche delle organizzazioni proveniente dal quadro normativo emergente e dai diversi Sta­keholders.

La seconda parte contiene i 16 criteri proposti da Diligentia per scegliere un’asserzione etica accurata, credibile, affidabile con una verifi­ca/validazione di terza parte indipendente.

La terza parte mette in evidenza il modo in cui i diversi Stakeholders possono adottare nei propri processi i criteri elencati nella parte 2 e i relativi vantaggi.

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La comunicazione come strumento (non) ancillare ai progetti di Welfare culturale

La comunicazione come strumento (non) ancillare ai progetti di Welfare culturale

Abstract

La comunicazione dei progetti di welfare culturale – che con la sempre maggior diffusione delle piattaforme digitali 2.0 deve includere preoccupazioni inedite, e richiede padronanza e specializzazione su specifici linguaggi – perde quindi il proprio carattere “ancillare” al contenuto dei progetti stessi (un “di cui” della progettazione), ed assume invece un ruolo centrale, sostanziale e indifferibile, funzionale a garantire il buon fine degli stessi attraverso un adeguato coinvolgimento della cittadinanza, che è poi lo scopo ultimo della progettazione culturale.

Keywords: Welfare culturale, progetti di welfare, comunicazione, digitale, stakeholder engagement, citizen empowerment, rendicontazione

Testo

La letteratura più recente in materia, con particolare riferimento ad alcuni settori scientifici – segnatamente scienze della comunicazione e reputation management – conferma l’importanza della comunicazione nella costruzione delle relazioni.

Senza costruzione di relazioni, non esiste divulgazione efficace; e senza divulgazione efficace non esiste stakeholder engagement; e senza stakeholder engagement non esiste costruzione di valore mediante i progetti di welfare culturale.

Quindi, possiamo osservare come una comunicazione assente o inefficace genera scarso coinvolgimento della cittadinanza, o più specificatamente del pubblico target di un certo progetto, con conseguente mancata “messa a terra” delle iniziative.

Toni Muzi Falconi, considerato da molti il “padre” delle relazioni pubbliche italiane, già nel 2005 diede un’articolata definizione dell’unico modello di comunicazione efficace al fine di generare stakeholder engagement: parliamo del cosiddetto ”modello di Gruning”.

Questo modello prevede una comunicazione pienamente “a due vie”, nell’ambito del quale i pubblici, gli influenti e gli stakeholder sono ascoltati continuamente, mediante un dialogo che genera un effettivo allineamento e condivisione di valori e obbiettivi, anche attraverso, se necessario, il progressivo riposizionamento e la modifica degli stessi.

Gli interessi dell’organizzazione che promuove il progetto e dei suoi pubblici, in questo confronto continuo, si vanno quindi a sovrapporre fino a coincidere, orientando in modo armonico sia le strategie dell’organizzazione proponente, che le opinioni e i desideri dei vari pubblici coinvolti. Una vera e propria “contaminazione”, quindi, tra chi progetta l’intervento e chi ne beneficia.

Il modello di Gruning è infatti definito “simmetrico a due vie”, in quanto la comunicazione tra organizzazione e i suoi stakeholder è reciproca, e i due attori rivestono un ruolo avente sostanzialmente – in linea di principio – lo stesso potere.

Potremmo in questo caso parlare di “conversazione” con i propri pubblici: un dialogo nel quale l’organizzazione che propone il progetto ricopre il ruolo di attento ascoltatore e attivo interprete, in modo da stimolare un dialogo dinamico con i pubblici influenti, volto a far coincidere il più possibile – armonicamente – gli obiettivi di entrambi.

Solo attraverso l’ascolto attivo dei propri pubblici e la continua interazione con essi sarà possibile immaginare e “costruire scenari futuri”, aumentando il valore dell’organizzazione e dei progetti da essa proposti, e, nel contempo, prendendosi cura della società che circonda l’organizzazione stessa, integrando strategicamente preoccupazioni di carattere etico nella sua attività.

Secondo questo modello, le organizzazioni pubbliche e private non vengono più percepite come “confezionatrici/erogatrici di progetti” – atteggiamento tra l’altro di sapore vagamente auto-referenziale – bensì come “negoziatrici di obiettivi e di valori”, in un processo continuo di proficua contaminazione con la propria audience.

Anello non certamente ultimo per importanza di questo processo di engagement, è il momento della rendicontazione ex post dei progetti, che – come dimostra la letteratura in materia – è lo strumento principe di comunicazione attraverso cui passa la costruzione e lo sviluppo del capitale relazionale dell’organizzazione, pubblica o privata che sia.

Rendicontazione che non deve esaurirsi con un mero adempimento burocratico (magari al fine di sbloccare il saldo di un contributo a fondo perduto) bensì dovrebbe trasformarsi essa stessa in un momento di stakeholder engagement: una rendicontazione, quindi, attraverso la quale le organizzazioni proponenti i progetti dovrebbero rendere note le informazioni riguardanti i progetti andati a buon fine, integrate – aspetto questo non trascurabile – con la valutazione delle performance del progetto sul piano ambientale, sociale ed economico, od eventualmente – perché no – anche su quelli non andati a buon fine, o che per qualunque motivo hanno sotto-performato, analizzandone criticamente i motivi, secondo il principio del comply or explain.

Sui moderni stumenti di rendicontazione dei progetti sociali si aprirebbe un capitolo che ci porterebbe troppo lontano: il riferimento implicito è alla copiosa letteratura relativa al reporting integrato, tema sul quale tra l’altro stanno lavorando diversi framework internazionali anche in ambito professionale (segnatamente la Value Reporting Foundation, ex IIRC e SASB).

Voglio solo in questa sede evidenziare come da tempo la dottrina si sia evoluta passando da procedure di mera rendicontazione ex post dei singoli progetti (rendicontazione come “prodotto”), alla rendicontazione a flusso continuo, 365 giorni all’anno, sulle attività dell’organizzazione culturale/sociale proponente i progetti: una rendicontazione intesa quindi come un “processo”, un “flusso senza soluzione di continuità”.

In definitiva, il rispetto dei requisiti imprescindibili per un’adeguata comunicazione (sintetizzabili in: visibilità, autenticità, trasparenza, coerenza e attivo coinvolgimento della audience) può contribuire in modo decisivo al buon esito delle relazioni con i portatori di interesse, e allo sviluppo ottimale del capitale relazionale dell’organizzazione che propone progetti di welfare.

La comunicazione dei progetti di welfare culturale – che con la sempre maggior diffusione delle piattaforme digitali 2.0 deve includere preoccupazioni inedite, e richiede padronanza e specializzazione su specifici linguaggi – perde quindi il proprio carattere “ancillare” al contenuto dei progetti stessi (un “di cui” della progettazione), ed assume invece un ruolo centrale, sostanziale, indifferibile, funzionale a garantire il buon fine degli stessi attraverso un adeguato coinvolgimento della cittadinanza, che è poi lo scopo ultimo della progettazione culturale.

Mi piace concludere questa mia introduzione al panel con una riflessione di una delle “madri” del welfare culturale in Italia, Catterina Seia, quando dice (cito verbatim): Oggi sussistono le condizioni per un vero e proprio ridisegno del welfare: generativo e di comunità, non più riparativo e assistenziale. In questa cornice, si iscrivono le potenzialità della cultura come fattore abilitante trasversale per la creazione di contesti salutogenici e in grado di promuovere anche empowerment dei cittadini. Tutto ciò, non può che passare da un coinvolgimento attivo delle persone e degli attori sociali, con una negoziazione di valori che vanno co-costruiti. La stessa presenza in ogni documento di policy europeo dell’enfasi sui processi di co-costruzione si fonda proprio su questi principi”

Ecco, in questo scenario, ben disegnato da Seia, la comunicazione come ho detto deve uscire da un ruolo ancillare, addirittura percepito come “frivolo” e a volte, a tratti, svilente del contenuto progettuale, e deve diventare invece forma-mentis: non dev’essere confezionata “a valle”, ma deve diventare una risorsa centrale nell’attivazione e costruzione di un vero cambiamento culturale a favore della cittadinanza.

Integrando processi e strategie di buona comunicazione nei progetti, il welfare culturale – per citare sempre Seia – diventa un modo di stare al mondo, di lavorare insieme, per favorire qualità sociale, autodeterminazione dei popoli e – perché no – giustizia. 

Grazie per la vostra attenzione nell’ascoltarmi, su un tema peraltro non scontato e di stringente attualità come la comunicazione dei progetti di welfare culturale.

Passo con piacere a presentarvi il primo relatore di questo panel (segue dopo la Bibliografia)

Breve bibliografia:

  • Ang S.H., Wight M-M., Building Intangible Resources: The Stickiness of Reputation, Corporate reputation Review, Vol. 12, No. 1, pp. 21-32. 2009
  • Brioschi A., Uslenghi, A., White Space: comunicazione non convenzionale, Egea Editrice, 2009
  • Cloninger, C.R.,  Feeling Good: the Science of Well-Being, Oxford University Press, New York, 2004
  • Cuomo M. T., Tortora D., Metallo G., Misurare il contributo della comunicazione alla corporate reputation per la creazione di valore, Sinergie, n. 90, p. 168, 2013
  • Eccles G.R, Ioannou I., Serafeim G., The impact of corporate culture of sustainability on corporate behavior and performance, Harvard Business School, 2012
  • Grunig J., Two-way symmetrical public relations: past, present, and future, in R.L. Heath, Handbook of Public Relations, Sage, Thousand Oaks CA 2001, pp. 11-30; doi 10.4135/9781452220727.n1
  • Grunig, J., Two-way symmetrical public relations: past, present, and future, In R. L. Heath Handbook of public relations (pp. 11-30). Thousand Oaks, CA: SAGE Publications, Inc. 2001, doi: 10.4135/9781452220727.n1 APA
  • Lampagnano, S. P., Digital reputation management, Maggioli Editore (Apogeo), Milano, 2016
  • Morin E., Introduzione al pensiero complesso, Sperling & Kupfer, Milano, 1993
  • Muzi Falconi T., Governare le relazioni. Obiettivi, strumenti e modelli delle relazioni pubbliche, Il Sole 24Ore, Milano, 2003
  • Poma L, Grandoni G, Il reputation management spiegato semplice, Celid Edizioni, Torino, 2021
  • Poma, L, “Strumenti innovativi per la mappatura degli stakeholder
    e per la rendicontazione integrata”
    , XIX° convegno International Marketing Trends Conference, gennaio 2019
  • Romenti S., Valutare i risultati della comunicazione. Modelli e strumenti per misurare la qualità delle relazioni e della reputazione, Franco Angeli, Milano, p. 156, 2005
  • Romiti S., Corporate governance e reputazione: dallo stakeholder relationship management allo stakeholder engagement, Impresa Progetto, n. 2, p. 2. 2008
  • Salovey, P., Sluyter D., J., (a cura di) Emotional development and Emotional Intelligence: educational implications, New York: Basic Books, 1997
  • Vecchiato Giampietro, Relazioni pubbliche e comunicazione, FrancoAngeli, Milano, 2003
  • Vicari S., Verso il Resource-Based Management, in Vicari S. (a cura di), (1995), Brand Equity. Il potenziale generativo della fiducia, Egea, Milano, p. 17

PRESENTAZIONI PANELIST

  • La Dott.ssa Emanuela Reale è Dirigente di ricerca del CNR e attualmente direttrice dell’IRCRES – Istituto di Ricerca sulla Crescita Economica Sostenibile. Si occupa di politiche dell’università e della ricerca, con particolare attenzione ai problemi di governance delle università, alle politiche di finanziamento del settore pubblico della ricerca, e ai metodi e strumenti per la valutazione dei risultati della ricerca. Tra gli altri incarichi, è co-editor della rivista internazionale Research Evaluation e Presidente del Forum Europeo per la Ricerca e l’Innovazione. Tra le sue diverse pubblicazioni, possiamo ricordare il numero speciale nella rivista Welfare & Ergonomia che contiene una serie di contributi sulla struttura e l’organizzazione della ricerca pubblica in Italia, e sul passaggio verso un nuovo modello di relazioni tra scienza e società.
  • Presento ora con piacere la collega Franca Maino, dell’Università degli Studi di Milano, dove dirige il Laboratorio “Percorsi di secondo welfare”, e dove insegna “Politiche Sociali e del Lavoro”. La Prof. Maino è tra le altre cose membro del Comitato di redazione di “Stato e Mercato” e della “Rivista Italiana di Politiche Pubbliche”, è membro di autorevoli comitati scientifici di fondazioni e centri studi nonché del CdA dell’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo. Tra le numerose sue pubblicazioni, ho piacere di ricordare i cinque Rapporti biennali sul secondo welfare in Italia, assai significativi per i temi che trattiamo oggi.
    Il suo intervento verterà sul rapporto tra Welfare e cultura, con riferimento particolare alle trasformazioni in atto a livello locale, che vedono una pluralità di attori collaborare all’interno delle reti territoriali, e sulla dimensione culturale come una leva per il rinnovamento del welfare stesso.
  • La Dott. sa Alexa Pantanella, ex discente della mia stessa università, la LUMSA, ha lavorato tra Roma e Milano per importanti multinazionali, sia all’estero che in Italia (una tra tutte, Luxottica, azienda di assoluta eccellenza per la quale ha diretto il marketing e la comunicazione). Alla fine di questo mese, uscirà un suo libro, uno dei primissimi testi in Italia veramente esaustivi sul tema del linguaggio inclusivo. È fondatrice di Diversity and Inclusion Speaking, con la quale porta avanti progetti sul tema del linguaggio e dell’inclusione, argomenti sui quali si concentra il suo intervento di oggi, nel tentativo di rispondere – tra le altre – a una domanda saliente: come alcune espressioni – spesso di uso corrente – rischiano di rallentare il cambiamento culturale di cui c’è bisogno nella nostra società?



IL SOLE È SORTO DA TEMPO: MA NON CE NE SIAMO ACCORTI

IL SOLE È SORTO DA TEMPO: MA NON CE NE SIAMO ACCORTI

Ho letto con interesse sul vostro magazine online il pezzo dal titolo Trovare l’alba dentro l’imbrunire: ha ragione la giornalista, il passaggio da una società massificata, con una risposta preconfezionata eguale per tutti, a una società centrata sulle relazioni, è ormai una realtà. Per la stessa ragione, cresce l’interesse delle aziende per i digital-influencer in grado di parlare a una audience piccola, micro, a volte nano, ma molto mirata e realmente ingaggiata: da Chiara Ferragni, che pure mantiene il suo appeal (ma costa molti denari) a Il Giallino, ad esempio, ragazzo che parla ad altri ragazzi e fa divulgazione scientifica peer-to-peer, dialogando davvero con la propria community, e non limitandosi a pubblicare post patinati (e incassare i relativi cachet).

In buona sostanza, le aziende, in ritardo come al solito, si sono rese conto – e la pandemia c’entra molto marginalmente – che le persone, quelle vere e in carne ed ossa, preferiscono un dialogo reale con altri esseri viventi, che non solo sbavare dinnanzi a un manifesto (ancorché digitale).

Da tempo, la letteratura scientifica nel dominio delle scienze sociali ha rimesso al centro l’importanza dell’identità: specie le giovani generazioni, quelle cresciute su Tik-Tok, desiderano, cercano (e ammirano) le identità autentiche, nelle altre persone come nei brand. Preferiscono capire chi sei, rispetto a cosa hai, e facendolo ridisegnano un poco le nostre scale di valori, interrogandoci, provocandoci.

L’identità e l’autenticità corrono poi sui binari delle relazioni, si nutrono di esse: coltivando e migliorando la propria rete di relazioni, online come offline, le persone alimentano la propria sete di vero, di concreto, di autentico.

Spesso condividendo, ovvero dividendo con, sinonimo di possedere insieme, partecipare, offrire del proprio ad altri, e viceversa: nell’estenuante ricerca del giusto equilibrio che ci permetta di essere utili, e anche di trarre sopravvivenza da chi ci circonda, per proseguire nella nostra personale missione (quale che sia) nella quale coinvolgere sempre più altre persone, sempre più altre parti di noi.

La cosa curiosa è che ce ne si accorga solo ora, dal momento che in letteratura questi concetti sono una consolidata realtà da anni. Per una volta, la ricerca e l’università scavalcano la vita reale, anticipano i tempi, prevedono il sorgere di un sole che, per parafrasare il vostro titolo, è già sorto da tempo, solo che non ce ne siamo accorti: come ho raccontato nel mio ultimo volume dal titolo #Influencer, scritto a sei mani con i colleghi (e amici) Luca Yuri Toselli e Giorgia Grandoni, le relazioni autentiche sono il potentissimo solvente universale in grado di permetterci di risolvere più velocemente qualunque crisi personale e professionale, di evolverci e di gestire con successo qualunque processo di cambiamento, sul lavoro come nella vita.

Con buona pace dei vari Gianluca Vacchi, Elisabette Franchi, e via discorrendo, le varie “Milano da bere”, glamour, aggressive ed effimere, stanno – era ora – perdendo terreno dinnanzi ad aurore boreali da osservare con ritrovata calma e minor superficialità, alla ricerca non tanto di “vagonate di like” quanto della qualità del dialogo, della possibilità di porre una domanda, e del piacere di ricevere una risposta. Semplice, fin banale: oggi, nel mondo del digitale, alle porte del metaverso, con un piede immerso negli oceani digitali e uno ancora a terra piantato sulla vita reale, riscopriamo il piacere dell’essere umani.

Luca Poma