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Bufere Social, crisi reputazionali, GenZ e l’#Influcirco: a un anno dal Pandoro-Gate, ancora guai “sotto l’albero” degli Influencer

Influencer: crisi di reputazione per il comparto?

Influencer: crisi di reputazione per il comparto?

Il Natale, lo sappiamo, può essere un periodo un po’ “tricky”, come direbbero i giovani della GenZ: c’è chi si lascia trasportare dallo scintillio delle luci natalizie, dalle grandi mangiate con amici e parenti, dai momenti di convivialità e dallo scambio dei regali; e chi, preso dallo sconforto e dall’ansia sociale, non ama l’eccessivo fasto, ne critica il lato meramente consumistico e magari teme le rimpatriate familiari, con il loro carico di insidie e di immancabili “domande-trappola” degne del lungometraggio Parenti Serpenti di Mario Monicelli: “Il fidanzatino? E i figli? Ma quando vi sposate…?”. Per gran parte del tessuto imprenditoriale, invece, il periodo natalizio rappresenta un’occasione irripetibile per spingere sulle vendite e chiudere l’anno con risultati auspicabilmente positivi. E, su intuizione dei marketer, gli influencer sono stati a lungo considerati degli alleati indispensabili per sfruttare al meglio questo momento: trasformandosi nei volti e nelle voci delle festività, i professionisti del digitale hanno dato forma a campagne promozionali con risultati spesso significativi.

Una dimensione del fenomeno la dà la recente analisi di Pulse Advertising ed Eumetra, condotta nell’ambito dell’Osservatorio InSIdE[1]. Lo studio sottolinea come le piattaforme Social siano ancora oggi fondamentali non solo per far conoscere un prodotto, ma anche per accompagnare l’utente fino alla conclusione del funnel di acquisto. Sono 29 milioni gli italiani che attualmente seguono almeno un creator, e di questi ben il 57% – cioè più di 21 milioni di persone – dichiara di prendere in considerazione un prodotto consigliato da un influencer, confermando il ruolo strategico di queste figure nelle decisioni d’acquisto. Un’industria, quella dell’influencer marketing, che sul piano internazionale vale 16,4 miliardi di dollari nel 2022, con previsione di arrivare a quota 22,2 miliardi entro il 2025[2].

Come discusso nel nostro volume #INFLUENCER. Come nascono i miti del web, edito da Lupetti, negli ultimi anni gli influencer – o content creator, come molti di loro preferiscono definirsi (le due categorie presentano alcune lievi differenze nel rispettivo posizionamento digitale, ma in questo articolo divulgativo li considereremo come sinonimi) – hanno assunto un ruolo centrale nelle strategie di marketing dei brand. Grazie alla loro capacità di catturare l’attenzione, influenzare le scelte d’acquisto e costruire connessioni apparentemente autentiche con il pubblico, sono diventati il motore di numerose operazioni di successo. Non a caso, durante il periodo che va dal Black Friday a Capodanno, le pagine Social di molti beniamini del web si trasformano in autentici canali di televendite digitali h24: un flusso incessante di unboxing, esperienze accattivanti e “consigli per gli acquisti”.

Eppure, quello che sembrava un matrimonio perfetto tra marketing e Social-media pare iniziare a scricchiolare vistosamente: il periodo natalizio, un tempo favorevole per re e regine del web, si sta trasformando invece in un terreno minato, con sovraesposizioni inopportune, accuse di mancanza di autenticità e un pubblico sempre più scettico, tutti elementi che hanno reso le festività un banco di prova assai insidioso per gli influencer.

Cosa sta succedendo? Riavvolgiamo il nastro e tentiamo di fare chiarezza.

La genesi: Chiara Ferragni e il Pandoro-Gate

A un anno di distanza, il Pandoro-Gate si conferma un caso emblematico di come una campagna di influencer marketing che non includa preoccupazioni sul fronte del reputation management, possa trasformarsi in un vero e proprio boomerang reputazionale, in grado di distruggere completamente un’azienda e il suo valore. Soprattutto, quel case-study dimostra come una gestione di crisi digitale non efficace possa mettere la parola fine a un business di successo, a ulteriore conferma – semmai ve ne fosse bisogno – che il modo nel quale si gestisce la crisi (o – nel caso di Ferragni e dell’agenzia milanese che la affiancava – non la si gestisce) può pesare più della crisi stessa.

Un rapidissimo recap per i pochissimi che si fossero persi il caso di crisi reputazionale più “pop” del 2023/24 e più emblematico degli ultimi 10 anni: nel 2022 Chiara Ferragni e Balocco lanciano l’operazione commerciale Pandoro Pink Christmas, presentata come un progetto dal doppio appeal che si prefiggeva l’obiettivo di unire glamour e solidarietà per le feste natalizie. Una promessa, quella di devolvere parte dei proventi delle vendite all’Ospedale Regina Margherita, tutt’altro che trasparente: la donazione di 50.000 euro, effettuata mesi prima del lancio, in realtà non era in alcun modo legata alle vendite del prodotto, e ha trasformato quella che doveva essere una campagna solidale in una vera e propria operazione percepita dal pubblico come “ingannevole”.

Non è dovuto passare molto tempo finchè l’opinionista Selvaggia Lucarelli[3] – particolarmente attenta alla condotta degli influencer, e in particolar modo dei Ferragnez, la coppia Ferragni/Fedez – accendesse i riflettori sulla vicenda. Siamo nel dicembre 2023, esattamente un anno fa, quando l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) infligge una multa di oltre 1,4 milioni di euro a Fenice, la società di Chiara Ferragni, per pubblicità ingannevole[4], facendo esplodere pubblicamente il caso.

Nei mesi successivi, il tentativo di gestire la crisi non ha fatto che peggiorare la situazione. Il video di “non scuse” confezionato con l’aiuto di una nota agenzia milanese di relazioni pubbliche, con il celebre maglione grigio e la frase “si è trattato di un errore di comunicazione”, con quindi implicite accuse al pubblico di “non aver capito” quanto accaduto, è diventato l’esatto simbolo di ciò che non si dovrebbe fare in una crisi reputazionale.

 Su TikTok, il maglione grigio e “l’errore di comunicazione” sono un vero e proprio tormentone

Apparizioni successive dell’imprenditrice digitale, come la tardiva e poco efficace intervista al Corriere della Sera e la partecipazione a Che Tempo Che Fa, con Fazio totalmente piegato sulla narrazione dell’influencer, lungi dal permettere un recupero del dialogo con gli stakeholder, non hanno sortito l’effetto desiderato, anzi, hanno a tratti peggiorato la situazione, venendo percepite dal pubblico, sempre più attento alle carenze di autenticità, come mosse artificiose, rafforzando quindi l’idea del distacco ormai incolmabile tra Ferragni e i suoi follower.

Eppure, i segnali della crisi erano tutto tranne che deboli o difficili da intercettare: erano lì, visibili e lampeggianti come un’insegna al neon su una strada buia, tanto che uno degli autori di questo articolo ne scrisse con un anno di anticipo, parlando di “personal branding vacillante”.

L’apertura di un’indagine da parte dell’Antitrust avrebbe dovuto essere il campanello d’allarme per intervenire e programmare un’azione tempestiva di crisis communication: un piano strategico avrebbe potuto mitigare l’impatto della crisi, ma nulla di tutto ciò è stato fatto, nonostante l’intervento più che sollecito del socio di maggioranza Alchimia. L’improvvisazione, lato Ferragni, ha preso il sopravvento, e il risultato è stato disastroso: una comunicazione percepita come opaca e una gestione assai superficiale della crisi, tale da accelerare il declino, anzichè fermarlo o rallentarlo.

Secondo i dati dell’agenzia Arcadia[5] nell’ultimo anno Chiara Ferragni ha perso oltre 1 milione di follower su Instagram, pari al 3,45% del totale, e registrato un calo di circa 50 milioni di interazioni rispetto all’anno precedente. Anche se i suoi numeri complessivi rimangono notevoli – 28,6 milioni di follower e post che raccolgono centinaia di migliaia di like (seppure non siano mancate le accuse di follower falsi acquistati sul mercato indiano) l’erosione della fiducia del pubblico è quanto mai evidente, e ancora più indicativo è stato il crollo delle collaborazioni sponsorizzate: brand un tempo in competizione per associarsi al suo nome, hanno preferito defilarsi, intimoriti dal rischio di accostarsi a un’immagine pubblica ormai ben più problematica che remunerativa. Chiara è diventata “radioactive”, come dicono in USA.

In ogni caso, il Pandoro-Gate ha lasciato un’eredità pesante, non solo per Chiara Ferragni, ma per l’intero settore dell’influencer marketing. Se la comunicazione non è – da tempo, anche se qualcuno pare non essersene accorto – solo marketing, ma anche e soprattutto reputazione, questo caso ne è l’esempio più lampante.

Ogni crisi contiene segnali premonitori, e ignorarli significa permetterne la deflagrazione, e in un panorama in cui il pubblico è sempre più critico e consapevole, la fiducia è una risorsa tanto preziosa quanto volatile. Ferragni ha scelto di non affrontare i segnali di crisi, e, così facendo, ha deciso il corso di un declino che non si misura solo in termini di numeri, ma anche di capitale reputazionale perso e quindi di valore aziendale distrutto: perché nel suo mondo, quello delle influenze digitali, la credibilità è tutto.

Tuttavia, la domanda più intrigante è ancora un’altra: qual è stato – se vi è stato – l’impatto di un episodio così eclatante sull’intera categoria degli influencer? Scorrendo i commenti sui principali Social network, la risposta sembra chiara: l’aria è cambiata.

Nasce l’hashtag #InfluCirco

La verità – lampante agli occhi dei più attenti tra gli addetti ai lavori – è che milioni di utenti italiani, dai giovanissimi ai più esperti, hanno iniziato a manifestare una crescente insofferenza verso un sistema percepito come artefatto, ipocrita e disconnesso dalla realtà.

Questa enorme massa critica si è consolidata, ad esempio, attorno all’hashtag #Influcirco[6], diventato un simbolo per chi critica apertamente uno stile di vita fatto di lusso sfrenato, ostentazione e consumismo. Gli influencer sono infatti sempre più spesso rappresentati – specie agli occhi della GenZ – come “clown”, figure grottesche che, dietro le narrazioni patinate, alimentano un distacco insopportabile dalla realtà di coloro che vivono dall’altro lato dello schermo, caratterizzata – in particolar modo dagli anni post pandemia – da crescenti difficoltà economiche, polarizzazione e disuguaglianze sociali.

Sotto #Influcirco si raccolgono quindi critiche sempre più frequenti, soprattutto da parte dei giovanissimi, consapevoli del potere di un loro “click”. Con spirito di denuncia, molti rappresentanti della GenZ smontano pezzo per pezzo le narrazioni patinate degli influencer, evidenziandone le contraddizioni.

La reputazione di un’intera categoria può davvero sgretolarsi in così poco tempo? Difficilmente, perché come discusso nel volume #Influencer[7], il percorso per essere riconosciuti come professionisti, e non come “fannulloni con un cellulare in mano”, è stato lungo e complesso, e non crollerà in un periodo di mesi o poco più; tuttavia, anni di eccessi, sponsorizzazioni poco trasparenti e comportamenti percepiti come decisamente opportunistici, hanno danneggiato il legame di fiducia tra gli influencer e il pubblico, alla ricerca – quest’ultimo – di narrazioni più autentiche e sincere.

L’exploit di questo fenomeno può essere ricondotto proprio al caso Pandoro-Gate deflagrato in casa Ferragni: l’episodio ha infatti spinto molti a interrogarsi non solo sul valore reale del lavoro degli influencer, ma anche sulla credibilità di un’intera industria.

La crescente attenzione agli hashtag come #supplied, #gifted e #invitedby riflette una consapevolezza collettiva sempre più marcata: termini che, pur obbligatori per legge, vengono spesso astutamente nascosti nelle storie o nei post, alimentando un senso di sfiducia e indignazione da parte del pubblico.

Domande come “Perché regalare beni e vacanze a chi potrebbe tranquillamente permetterseli?” hanno sempre più spazio tra le critiche digitali, portando alla luce questioni che, sebbene latenti da tempo, trovano oggi un’espressione più esplicita e pungente. Non è un caso che #Influcirco venga spesso associato alla parola “scrocconi”[8].

Quindi, sono moltissimi gli influencer che, nell’ultimo anno, sono finiti sotto la lente di utenti sempre più attenti e smaliziati: da Paolo Stella, criticato per aver accettato un soggiorno omaggiato in un hotel di lusso in seguito a un guasto al condizionatore di casa[9], a Carlotta Fiasella, bersagliata per video in cui apre decine di pacchi regalo inviati dai brand[10], fino a Paola Turani, travolta dai commenti dopo aver ammesso candidamente di aver completamente dimenticato per un mese una borsa di lusso, ancora imballata, nell’armadio[11].

Casi come questi sono ormai all’ordine del giorno: piccole (e meno piccole) crisi reputazionali online che non fanno che alimentare lo scontento e la sfiducia degli utenti in rete, rafforzando l’idea che molti influencer siano sempre più “lontani dal proprio pubblico”. Un 2024 quindi sdrucciolevole per chi si piccava di influenzare decine di milioni di persone. Fino ad arrivare, oggi, alla “gogna Social”

Gli “eventi per gli influencer” e le tempeste reputazionali online

Natale, come abbiamo scritto nelle prime righe di questo articolo, pare essere un periodo critico per Influencer e creator digitali. Cosa sta accadendo quindi in questi giorni alle nostre beneamate star del web?

TikTok, proprio mentre state leggendo, sta ospitando quella che potremmo ribattezzare una “civil-war” degli influencer italiani: una vicenda con tanto di schieramenti, video di replica al vetriolo, critiche asprissime, e una vera e propria levata di scudi, che sta intrattenendo gli utenti a suon di gossip e “rivelazioni”.

Se frequentate TikTok, difficilmente non vi sarete imbattuti in un video che tratta, più o meno direttamente, la storia legata alle famose “Feste degli influencer”[12]; se invece non amate il Social prediletto dalla GenZ, preparatevi con pazienza (e magari un po’ di popcorn) perchè persino il noto Accorciabro[13] ha dedicato due minuti per spiegare la situazione[14].

Tutto è iniziato con un video [15] pubblicato da Eleonora Arcidiacono, creator con oltre 425mila follower su TikTok: nel contenuto, che ha già superato i 5,3 milioni di visualizzazioni, Eleonora ha raccontato la sua esperienza al primo “evento per influencer” a cui abbia partecipato. “Gli eventi degli influencer sono così terribili come tutti dicono? Sì, e ora vi racconto tutta la verità”, ha esordito la giovane, descrivendo l’evento come un’esperienza “traumatica” e puntando, appunto, il dito sulla centralità dell’apparenza: “Mi sono ritrovata in una stanza piena di ragazze iper truccate, super pettinate, vestite benissimo, con tacchi alti. Tutte così, e sinceramente io mi sono sentita fuori posto”. Eleonora, che aveva scelto un abbigliamento più pratico, ha spiegato: “Non è che non mi interessasse l’evento, ma non volevo prendere freddo o svegliarmi con la bronchite. Non sto dicendo di essere migliore di loro, ma mi ha impressionato questa ossessione per un canone di perfezione irraggiungibile”.

L’influencer ha poi fatto luce, provocatoriamente, sulle contraddizioni tra quanto mostrato online e il comportamento nel privato:

“Posso capire che sui social mostriamo la nostra parte migliore, ma non puoi fare finta di essere Maria Goretti quando in realtà sei una snob altezzosa che per tre foto venderebbe anche sua madre”.

Ha quindi approfondito la sua riflessione, sottolineando quanto questo ambiente rischi di essere deleterio per giovanissime e giovanissimi: “Io ho 21 anni e ho lavorato su me stessa, ma non oso immaginare cosa potrebbe succedere a una ragazza di 16 o 14 anni buttata in questo mondo”.

Ebbene, il video ha innescato un vero e proprio terremoto[16] nel mondo degli influencer, spaccandolo letteralmente in due. Alcuni creator di spicco, come Gaia Bianchi (3,6 milioni di follower), Gianmarco Zagato (2,1 milioni di follower) e Nicole Pallado (1,4 milioni di follower) si sono schierati a sostegno di Eleonora, condividendo le sue riflessioni e lodando il suo coraggio nel voler far luce sulle dinamiche tossiche che contraddistinguono il settore.

Di tutt’altra opinione, invece, alcuni altri “big” della categoria, che hanno reagito con stizza e indignazione, accusandola di generalizzare. Tra questi, Carlotta Fiasella[17] (2,1 milioni di follower) e Sasy Cacciatore. Quest’ultimo si è lanciato in un lungo video critico[18], intimando a Eleonora di moderare il proprio malcontento:

“Non è un bel modo di integrarsi nella categoria. Questo video, come l’ho visto io, l’hanno visto le altre ottocento influencer ipotetiche. Se veramente hai visto questa cosa cafona che non si è capito di Maria Goretti, la prossima volta non saranno felici di fare amicizia con te”.

Il video però, a giudicare dalle reazioni del pubblico, si è trasformato in un vero e proprio boomerang, attirando a sua volta fortissime critiche, tanto che è stato alla fine cancellato e sostituito con un altro all’apparenza più riflessivo; ma il danno ormai era fatto.

Dal momento che i numeri contano sempre più delle opinioni, o quanto meno le giustificano e sostengono, sottolineiamo come – secondo un’analisi pubblicata da Il Messaggero[19] – il calo di follower per gli influencer che hanno attaccato Eleonora sia stato evidente: Carlotta Fiasella ha perso a brevissimo tempo circa 100mila follower (passando da 2,2 a 2,1 milioni), Sasy Cacciatore è sceso da 859mila a 770mila, e Francesca Amara è passata da 510mila a 460mila. Nel frattempo, per contro, Eleonora ha visto crescere il suo seguito in modo significativo, passando da 280mila a oltre 425mila follower in pochi giorni.

Inoltre il danno non pare essersi limitato alla perdita di follower: sono diversi i brand che per tentare di tutelare la propria reputazione e non rimanere schiacciati dall’onda d’urto di questa crisi digitale, stanno ritirando i propri ADV dai profili degli influencer interessati dalla vicenda, come Coccolino, la cui ADV è stata sospettosamente rimossa dai contenuti in evidenza della home page di Sasy Cacciatore, dopo una moltitudine di commenti negativi (sapientemente cancellati, violando ulteriormente una delle regole fondamentali del reputation management).

E le scuse? Non pervenute.

Goffi tentativi di recupero: parte seconda

Si sa, in questi casi la cosa più importante da fare – come suggerisce la migliore letteratura sulla gestione delle crisi reputazionali – è applicare il “solvente universale” di ogni crisi: scuse non condizionate. 

Potrà sembrare paradossale, ma negli ultimi anni – con l’affermarsi del web 2.0 e il conseguente elevato grado di partecipazione/interazione tra gli utenti – questa si è dimostrata in moltissimi casi la strategia più profittevole in caso di crisi. Le scuse sincere smorzano le polemiche, smussano le armi ai giornalisti, costruiscono un ponte di empatia con il pubblico, preservano quanto più possibile la reputazione e riducono le eventuali richieste di risarcimento danni in sede giudiziale. Questa strategia può essere utilizzata come prima risposta a una crisi, in fase di post-crisi, o in entrambi i momenti. Tuttavia, pare qualcosa di assodato solo in teoria, perché nella pratica questa semplice regola viene purtroppo raramente applicata.

Sasy Cacciatore e Francesca Amara, entrambi sotto contratto con la stessa agenzia e utilizzando (guarda caso) le stesse parole – come ricorda astutamente Accorciabro[20] – hanno pubblicato, a poca distanza l’uno dall’altra, un video che rientra nella categoria delle ormai celebri “non scuse” di Ferragniana memoria: un sintomo evidente di come molti influencer – e le agenzie che li seguono, con i loro Social media manager – continuino a sottovalutare l’importanza strategica di scuse sincere e non condizionate per gestire al meglio una crisi reputazionale, e in generale dimostrino ignoranza per le regole fondamentali che governano la costruzione e la gestione della reputazione. 

@accorciabro

L’agenzia di influencer gestisce una crisi d’immagine. #accorciabro

♬ suono originale – accorciabro

Anche se le scuse rappresentano una opportunità per l’influencer, offrendo la possibilità di mostrare la propria umanità “ricucendo” il rapporto con il pubblico, è infatti sorprendentemente frequente osservare, anche per strutture assistite da professionisti (o presunti tali), una riluttanza quasi patologica nel chiedere scusa; al contrario, si preferiscono cavalcare improbabili e inconcludenti giustificazioni, pur di non incrinare quella – falsa e irreale – immagine di perfezione che si desidera continuare ad ostentare al mondo esterno. 

Eleonora Arcidiacono, invece, ha scelto una strada diversa. “Non potevo immaginare tutto questo, voglio dire grazie a tutti voi per il grande supporto”, ha dichiarato in un secondo video, esprimendo sorpresa per il sostegno ricevuto. Un caso che va ben oltre una semplice scaramuccia tra giovani creator, ma che si è trasformato in un sintomo evidente di una frattura più ampia nel rapporto tra influencer e pubblico.

È ancora presto per capire se questa sarà una svolta significativa per il settore, ma una cosa è certa: il terreno per le star del web è sempre più sdrucciolevole, non solo in Italia ma su scala globale.

Un altro esempio emblematico è il caso di Matilda Djerf[21], influencer svedese con oltre 2,7 milioni di follower su Instagram e fondatrice del brand Djerf Avenue, che si è trovata al centro di accuse pesanti: secondo le denunce di alcuni ex dipendenti, diventate rapidamente virali sui Social media, l’influencer avrebbe creato un ambiente lavorativo tossico, caratterizzato da pressioni psicologiche e da una cultura aziendale percepita come lontana dai valori sostenibili e inclusivi promossi dal suo brand. Inutile evidenziare come la polemica sia montata online fino a diventare incontrollabile.

In definitiva, l’autenticità, ora più che mai, non pare più essere un’opzione: è una necessità.

Cosa dicono i numeri: il modello di influencer marketing è a rischio?

Nonostante le polemiche e i cambiamenti nel panorama digitale, parlare di una “morte” del modello dell’influencer marketing appare quantomeno prematuro. I dati, infatti, raccontano una storia più complessa. Come evidenziato da Matteo Pogliani, specialista in digital marketing, che nella sua newsletter Digital Scenario fa una analisi sull’influencer marketing[22], il settore non sta collassando, bensì sta vivendo una fase di trasformazione strutturale.

Un esempio emblematico è rappresentato dai numeri delle attivazioni pubblicitarie su Instagram: nel primo semestre del 2023 si sono registrate 112.900 collaborazioni #ad, mentre nello stesso periodo del 2024 il numero è salito a 120.100 (+6,3%). Non solo: anche le interazioni generate da questi contenuti sono aumentate, passando da 60,4 milioni a 68,8 milioni (+13,9%). Questi dati dimostrano che, nonostante gli scivoloni reputazionali di alcuni big, il pubblico pare quindi non aver abbandonato l’influencer marketing.

Secondo uno studio presentato all’evento Digital Marketing 2024 di UPA[23], il valore del mercato dell’influencer marketing in Italia ha raggiunto i 352 milioni di euro nel 2024, segnando un incremento del +9% rispetto all’anno precedente. Questa crescita è parte di un trend più ampio che vede la creator-economy italiana raggiungere un giro d’affari di 4,06 miliardi di euro, con Instagram che guida il settore generando 3,3 miliardi di euro.

Tuttavia, questa crescita non può essere interpretata come un segnale di stabilità definitiva, e come sottolinea Pogliani stiamo assistendo a un cambio di paradigma: i content creator – quei professionisti che centrano le proprie uscite più sui contenuti che su loro stessi – stanno gradualmente acquisendo più rilevanza rispetto agli influencer tradizionali, molto più auto-riferiti. Non è un caso che il termine influencer sia spesso associato a un sentiment negativo, mentre creator mantiene una percezione più positiva, legata alla produzione di contenuti autentici o quanto meno di valore. “L’ultimo anno – ha dichiarato Pogliani alla nostra redazione – ha visto andare in crisi un sistema che si era si consolidato più per spinta del mercato e hype, e che in modo improprio si autososteneva. In molti casi, come abbiamo visto questo anno, mancavano però delle solide fondamenta capaci di sostenere il meccanismo nel medio-lungo periodo. Mancanze che, col tempo, hanno lasciato il segno sia lato brand che lato utenti, portando il sistema ad una sorta di cortocircuito. Le stesse mancanze che hanno portato a criticità e scarso approccio etico da parte di molti, e che devono spingere tutti i player del settore ad una maggiore attenzione su questo fronte”

Stimola però delle riflessioni la circostanza che un Manifesto per la comunicazione etica nel settore dell’Influencer marketing, redatto dall’ONIM – Osservatorio Nazionale Influencer Marketing in collaborazione con alcune delle più note boutique di comunicazione italiane, dopo essere stato messo a punto sull’onda lunga dello scandalo Ferragnez nella primavera 2024, sia poi completamente sparito dai radar: non risulterebbe infatti né sul sito dell’ONIM né altrove in rete, se non – puntualmente ripreso dalla nostra redazione – sul sito della nostra rivista. La domanda è una: il settore degli Influencer e dei Content creator ha desiderio di aderire a stringenti linee guida di carattere etico, per evitare il ripetersi di disastri quali quelli, numerosi, già saliti all’onore delle cronache, o è invece intenzionato a continuare a macinare denaro senza alcuna regola, e mantenendo le mani completamente libere? (NOTA: alcuni giorni dopo la pubblicazione di questo articolo, l’OISM ha reso pubblico il testo del Manifesto, pubblicandolo sul proprio sito web).

Influencer “rimandati a settembre” in gestione delle crisi reputazionali?

La verità è che gli influencer sono, prima di tutto, esseri umani, e, come tali, non immuni agli errori. Tuttavia, ciò che li rende particolarmente vulnerabili pare essere una diffusa e preoccupante scarsissima alfabetizzazione in tema di reputation management.

Le crisi reputazionali – per definizione, una situazione operativa che, se non affrontata adeguatamente e risolta, potrebbe avere conseguenze negative sui rapporti con uno o più stakeholder e sulla business continuity – rappresentano una delle sfide più complesse per chi vive di immagine e di consenso.

Non basta certamente un semplice “mi dispiace” per risolvere una crisi. Le scuse non sono solo una questione di buone maniere, ma uno strumento strategico e sofisticato che, se utilizzato con sincerità e competenza, può trasformare un momento di vulnerabilità in un’opportunità di riscatto. Come insegna la letteratura sul tema[24], il perdono del pubblico non è garantito, ma può essere conquistato attraverso un percorso ben preciso: ammettere l’errore in modo sincero, chiedere scusa senza condizioni, risarcire (materialmente o anche solo moralmente) gli eventuali danneggiati, promettere di non ripetere l’errore e compiere azioni concrete che dimostrino il proprio impegno a cambiare.

Eppure, il 2024 ha messo in luce una realtà desolante: molti influencer, pur supportati da agenzie che dovrebbero guidarli, si ostinano a ignorare questi fondamentali. I casi emblematici analizzati nell’articolo, dal Pandoro-Gate alle faide su TikTok, fino al caso internazionale di Matilda Djerf, non sono altro che la punta dell’iceberg di una crisi più ampia che coinvolge l’intero settore dell’influencer marketing.

Un esempio paradigmatico è quello delle “non scuse”, diventate ormai un classico del repertorio digitale: nonostante l’evidente delusione del pubblico, spesso si preferisce adottare improbabili giustificazioni pur di mantenere intatta quella facciata di perfezione che, paradossalmente, è proprio ciò che aliena il pubblico.

In un’era in cui la partecipazione e l’interazione sono alla base del successo digitale, la reputazione rappresenta un asset strategico da tutelare e presidiare con cura attraverso azioni concrete e, soprattutto, con un comportamento autentico; le bufere Social e gli scivoloni reputazionali sono diventati un vero e proprio banco di prova per chi vive del consenso del pubblico, e la lezione appare chiara: non è tanto l’errore a determinare il destino di un influencer, ma il modo in cui l’influencer sceglie di affrontarlo.

La crisis communication è una scienza sociale, e la competenza in questi delicati meccanismi non può essere improvvisata. Inoltre, l’autenticità, ora più che mai, non è un “accessorio” parte di una strategia di influencer marketing, ma è invece un requisito imprescindibile per sopravvivere in un panorama digitale in cui il pubblico pare essere sempre più attento, critico, difficilmente manipolabile, e, soprattutto, intransigente verso chi cerca di costruire la propria fortuna ignorando il potere – e le aspettative – di chi sta dall’altra parte dello schermo dello Smartphone.


Bibliografia essenziale


NOTE NEL TESTO:

[1] Pulse Advertising e Eumetra, Report influencer marketing e social media 2024, https://www.pulse-advertising.com/it/osservatorio-report-influencer-marketing-2024/ 

[2] Ogilvy, Influence Trends You Should Care About 2023 https://www.ogilvy.com/de/eng/ideas/ogilvy-2023-influence-trends-you-should-care-about

[3] Lucarelli, S. (2024), Il vaso di pandoro. Ascesa e caduta dei Ferragnez, PaperFIRST

[4] Redazione Il Post (2023), L’Antitrust ha multato Chiara Ferragni e Balocco per 1,4 milioni di euro per la promozione ingannevole di pandori per beneficenza, Il Post https://www.ilpost.it/2023/12/15/chiara-ferragni-balocco-multa-antitrust/

[5] Redazione Rai (2024), Ferragnez a un anno dal “pandoro gate”: oltre un milione di follower polverizzati come zucchero, Rai News https://www.rainews.it/articoli/2024/12/ferragnez-a-un-anno-da-pandorogate-oltre-1-milione-di-followers-olverizzati-come-lo-zucchero-a-velo-ee9dd646-6ac2-4551-8f1f-920948f39cbd.html

[6] Redazione Il Mattino (2024), Influcirco, cosa significa il nuovo hashtag virale sui social: è finita l’era degli influencer?, Il mattino https://www.ilmattino.it/lifestyle/social/influcirco_cosa_significa_hashtag_social-8310311.html

[7] Op. cit.

[8] Benny Mirko Procopio, Dal rimprovero alla rider per aver usato il bagno alle vespe mangiate vive: le 5 più grandi assurdità degli influencer,  Il corriere https://www.corriere.it/cook/news/cards/dal-rimprovero-rider-aver-usato-bagno-vespe-mangiate-vive-cinque-piu-grandi-assurdita-influencer/influencer-no-scrocconi-internazionali.shtml

[9] Team digita, L’hotel di lusso gli regala una suite perché non ha l’aria condizionata a casa: è bufera sull’influencer, RDS https://www.rds.it/scopri/magazine/celebrities/lhotel-di-lusso-gli-regala-una-suite-perche-non-ha-laria-condizionata-a-casa-e-bufera-sullinfluencer

[10] Miguel Social Media Manager (2024), Polemica dei mega Unboxing TikTok, https://vm.tiktok.com/ZNewMuWpB/

[11] Scardi, S., Selvaggia Lucarelli contro Paola Turani, per il video sulla borsa da 3mila euro: “ancora non hanno capito”, Il Corriere https://bergamo.corriere.it/notizie/cronaca/24_giugno_19/selvaggia-lucarelli-contro-paola-turani-per-il-video-sulla-borsa-da-3-mila-euro-gli-influencer-ancora-non-hanno-capito-e9ccdd73-d532-43b3-8e0f-be5a1bd93xlk.shtml

[12] Redazione IlFattoQuotidiano, Eleonora Arcidiacono ha infranto il silenzio sul mondo degli influencer, tutto fama e perfezione, Il Fatto Quotidiano https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/12/16/eleonora-arcidiacono-influencer-perfezione-illustrazione-cusano/7806038/

[13] Con oltre 250mila follower su TikTok e circa 340mila su Instagram, Accorciabro è il profilo gestito da Rudy, 34 anni, che ha portato in Italia un format già consolidato in Europa e negli Stati Uniti. Il concept? Ridurre all’essenziale i video che affollano i social, spesso lunghi monologhi di influencer o aspiranti tali intenti a parlare del nulla per interminabili minuti.

[14] Accorciabro, Video Tiktok https://vm.tiktok.com/ZNewMbpDx/

[15] Il video di Eleonora Arcidiacono, rimosso e in seguito ripubblicato https://vm.tiktok.com/ZNewM4REq/

[16] Benzi, Video tiktok https://vm.tiktok.com/ZNewMCmaC/

[17]Carlotta Fiasella, Video tiktok https://vm.tiktok.com/ZNewMXdM8/

[18] Sasy Cacciatore, Video Tiktok https://vm.tiktok.com/ZNewMCSxh/

[19] Esposito, A., Influencer perdono migliaia di follower, da Francesca Amara a Sasy Cacciatore: cosa è successo dopo il racconto di Eleonora Arcidiacono, Il Messaggero https://www.ilmessaggero.it/persone/influencer_perdono_follower_perche_francesca_amara_sasy_cacciatore_cosa_ha_detto_eleonora_arcidiacono-8543230.html

[20] Accorciabro, Video Tiktok https://vm.tiktok.com/ZNewMm44R/

[21] Amorosini, A. (2024), Matilda Djerf nella bufera: ecco cosa è successo all’influencer e imprenditrice svedese, Vanityfair https://www.vanityfair.it/article/matilda-djerf-nella-bufera-ecco-cosa-successo-influencer-imprenditrice-svedese

[22] Pogliani M. (2024), L’influencer marketing non è morto, cambia e cambierà. Ecco come, https://matteopogliani.substack.com/p/linfluencer-marketing-non-e-morto?utm_source=post-email-title&publication_id=955517&post_id=153353287&utm_campaign=email-post-title&isFreemail=true&r=1x4o17&triedRedirect=true&utm_medium=email

[23]UPA,  Influencer Marketing 2024https://www.upa.it/it/eventi/im24.html

[24] Vecchiato G., Poma, L. (2012), Crisis management. Come comunicare la crisi: strategie e casehistory per salvaguardare la business continuity e la reputazione, Il Sole 24 Ore




MANIFESTO PER L’ETICA NELLA COMUNICAZIONEDEL SETTORE DELL’INFLUENCER-MARKETING

MANIFESTO PER L’ETICA NELLA COMUNICAZIONE DEL SETTORE DELL’INFLUENCER-MARKETING

  • Definizione di lnfluencer: qualunque persona – fisica o creata mediante sistemi di intelligenza artificiale – attiva, con una propria fan-base, per scopi commerciali come informativi o di divulgazione, su un Social network od altra piattaforma digitale similare.
  • Definizione di Content Creator: chiunque crei dei contenuti digitali online, ad esempio tramite canali Social, non obbligatoriamente per professione, e anche in forma anonima.
  • Definizione di Influencer marketing: qualunque attività svolta da un Influencer o da un Content Creator – in proprio o in partnership con aziende o anche soggetti del terzo settore – finalizzata ad orientare i comportamenti di acquisto, o – nel senso più ampio – le scelte della fan-base

MANIFESTO PER L’ETICA NELLA COMUNICAZIONE
IN AMBITO INFLUENCER-MARKETING

L’influencer e il Content Creator, consapevole della propria responsabilità nell’orientare la propria fan-base e più estesamente la cittadinanza nei propri comportamenti di acquisto e nelle scelte di tipo sociale, s’impegna a:

  • non adottare strategie finalizzate all’acquisto di followers e all’uso di Bot, evitando pratiche ingannevoli finalizzate ad aumentare artificialmente la propria popolarità e impatto;
  • redigere Social media policy improntate alle migliori prassi, renderle note, e adottare politiche di moderazione dei commenti trasparenti, specialmente quando effettuata da terzi (social media manager, “chatter”, etc);
  • divulgare con chiarezza sponsorizzazioni, affiliazioni e partnership, conformemente alle linee guida dell’AGCOM, garantendo che i partner commerciali siano sempre chiaramente identificati;
  • distinguere in modo netto tra contenuto organico e sponsorizzato, per prevenire la confusione tra pubblico e messaggi pubblicitari;
  • esporre con chiarezza come la sponsorizzazione influisce eventualmente sul contenuto, per garantire che le informazioni siano chiare e non fuorvianti;
  • applicare onestà nella presentazione dei prodotti/servizi sponsorizzati, e assicurare che la rappresentazione dei prodotti o servizi sia veritiera e non ingannevole;
  • evitare accordi pubblicitari che possano contravvenire ai valori etici di questo Manifesto e alle normative AGCOM, specialmente in relazione a prodotti potenzialmente dannosi per categorie vulnerabili come i minori;
  • promuovere solo prodotti o servizi credibili e di valore;
  • pagare tasse e imposte come previsto dalle normative vigenti nei vari Paesi e rispettare delle leggi locali e le norme internazionali;
  • evitare l’utilizzo di tattiche controversie o divisive al solo fine di generare engagement;
  • proteggere in modo adeguato la privacy dei minori, evitando di strumentalizzarne l’immagine al solo fine di creare hype ed engagement;
  • sostenere e diffondere messaggi che promuovano salute e benessere collettivo;
  • illustrare in modo trasparente e chiaro la natura e delle condizioni delle collaborazioni con entità no-profit a fini filantropici;
  • rendicontare in modo dettagliato le iniziative benefiche, con impegno a dichiarare anticipatamente le modalità, quantità di raccolta attese e le proporzioni di contribuzione propria o di terzi in caso di collaborazioni commerciali a parziale sostegno di operazioni di charity;
  • rendicontare ex post in modo esaustivo e verificabile le stesse iniziative di charity;
  • applicare chiarezza su provenienza e destinazione di tutte le donazioni raccolte;
  • formarsi periodicamente sulle ultime novità legate agli aspetti etici e sociali dell’influencer marketing;
  • promuovere l’inclusività, rappresentando al meglio la diversità nei propri contenuti, riflettendo una varietà di culture, etnie e background;
  • contrastare le fake news e la disinformazione, verificando sempre la veridicità delle informazioni condivise ed evitando la diffusione di notizie false o fuorvianti;
  • utilizzare strumenti e metriche per valutare l’impatto sociale dei contenuti pubblicati;
  • implementare sistemi di feedback per ricevere input dal pubblico e dai partner su come migliorare le pratiche etiche e la responsabilità sociale;
  • dialogare – direttamente o tramite proprie associazioni di categoria – con istituzioni, enti regolatori e organizzazioni del settore al fine di favorire un ambiente di collaborazione e di crescita condivisa;
  • dimostrarsi aperto all’adozione di nuove tecnologie e pratiche che possono migliorare la trasparenza e l’etica nel settore dell’influencer marketing;
  • adattarsi, nel rispetto di tutte le norme sopra illustrate, alle evoluzioni del mercato e alle mutate esigenze sociali del settore e della cittadinanza.

Con l’adesione al Manifesto, il singolo Influencer o Content Creator s’impegna ad introdurre concretamente queste prassi etiche nella propria attività quotidiana, e l’Agenzia di Influencer marketing a promuoverne concretamente l’adozione da parte dei propri assistiti.

L’adesione al Manifesto sarà pubblica, e l’elenco degli aderenti accessibile online: l’accesso libero e gratuito agli elenchi delle validazioni rilasciate aumenterà la fiducia nel sistema e faciliterà il monitoraggio anche da parte di terzi soggetti, fan e cittadini, agevolando nel contempo la segnalazione di eventuali non conformità, sia da parte delle aziende partner degli influencer, che da parte della loro community, che da parte della cittadinanza in senso più esteso, garantendo così la possibilità di revoca dell’adesione in qualunque momento, e contribuendo a costruire un ecosistema centrato sulla fiducia, indispensabile per il mantenimento di un ambiente digitale etico e affidabile.


A questo link, il testo del comunicato di presentazione del Manifesto




Che cos’è il packaging ecosostenibile e quali benefici porta alle aziende

Che cos’è il packaging ecosostenibile e quali benefici porta alle aziende

Cos’è un packaging ecosostenibile

Per packaging ecosostenibile, come quello prodotto e commercializzato da Volmar Packaging si intende un imballaggio realizzato in materiali riciclabili o compostabili, che possono quindi essere smaltiti in maniera sostenibile e che non impattano sull’ambiente. Un confezionamento di questo tipo è quindi attento alle esigenze dell’ambiente ed è pensato per preservarne la sicurezza e lo sviluppo, riducendo l’accumulo di rifiuti e favorendo un’economia circolare. Materiali quali carta e cellulosa risultano essere tra i più utilizzati per la creazione di questi imballaggi, ma la tecnologia ha studiato diverse particolari alternative degne d’interesse. Si pensi ad esempio alla carta traslucida, che funge da ottima alternativa alla plastica e che viene utilizzata per la produzione di sacchetti e fashion bag, oppure materiali innovativi come alghefunghimais e sostanze estratte dai vegetali, utili per conservare gli alimenti. 

I benefici portati dall’uso di packaging ecosostenibile 

Questo approccio porta a una serie di benefici molto importanti per un’azienda, che spaziano dalla riduzione degli sprechi al prestigio derivato da un’immagine virtuosa e attenta alle esigenze del pianeta. I materiali utilizzati per la creazione di questi packaging, come già anticipato, sono biodegradabili e riciclabili, quindi possono non soltanto essere smaltiti in maniera naturale dall’ambiente, ma permettono anche di poter essere riutilizzati più volte, il che riduce drasticamente gli sprechi. Da un punto di vista economico questo fattore rappresenta un potente beneficio, in grado di generare dei risparmi consistenti specialmente sul lungo periodo. 

C’è poi da considerare l’immagine dell’azienda, che viene notevolmente valorizzata dalle politiche sostenibili. Se un’attività di questo tipo adotta una filosofia votata alla sostenibilità e produce risultati in questo senso, essa sarà riconosciuta e fregiata di importanti titoli, che ne aumenteranno il prestigio e daranno una percezione mediatica molto positiva. Questa dinamica poi risulta essere un fattore profondamente incisivo in ottima marketing, in quanto permette di distinguersi per qualità dai competitor e attirare l’attenzione di una larga fascia di pubblico.

Ultimo ma non meno importante è il vantaggio qualitativo offerto da questi packaging, visto che i materiali utilizzati si presentano decisamente molto validi. L’utilizzo di questi imballaggi comporta inoltre una conservazione ottimale del prodotto, oltre che una preservazione efficace delle sue proprietà organolettiche (nel caso di prodotti alimentari). 

L’utilizzo di questi confezionamenti, infine, non altera in alcun modo la qualità dei prodotti, in quanto si tratta di elementi totalmente naturali e biodegradabili: un fattore che spinge un gran numero di persone ad adottarli ogni giorno. Un ulteriore salto di qualità potrebbe essere quello delle plastiche totalmente biodegradabili a base di PHA, il più “naturale” dei biopolimeri, che non richiedono alcuna lavorazione o compostaggio e sono smaltibili nel terreno senza il rilascio di microplastiche: l’epopea di BioOn, la regina delle bioplastiche, terminata con il crollo dell’unicorno in Borsa Milano a causa della diffusione di video malevolo e diffamatorio che ha generato panic-selling (ne abbiamo parlato qui), ha rallentato sviluppo in Italia su queste ricerche di avanguardia, ma il tema resta di eccezionale importanza e attualità.




Guerra delle acque verso l’epilogo

Guerra delle acque verso l’epilogo

PAESANA La “guerra delle acque” si è arricchita di una nuova puntata. Il 10 dicembre scorso, nel tribunale di Cuneo si è tenuta una nuova udienza del processo che vede come imputati il numero uno di Acqua Sant’Anna, Alberto Bertone, e il suo direttore commerciale Luca Cheri, accusati di diffamazione e turbata libertà del commercio e dell’industria.

La vicenda, lo ricordiamo, nasce dalla denuncia di Marco e Gualtiero Rivoira, proprietari della Fonti Alta Valle Po, che commercializza Acqua Eva, per una fake news pubblicata su internet (era il 2018) da una persona all’epoca dipendente di Sant’Anna. In essa si raccontava che Acqua Eva avrebbe avuto tra i soci occulti la catena di distribuzione Lidl (attraverso un socio tedesco). Un fatto che, se vero, avrebbe messo in difficoltà le altre catene di supermercati perché si sarebbero trovate ad acquistare e a vendere un prodotto della concorrenza. La fake news orchestrata da Sant’Anna in effetti causò problemi ad Acqua Eva, generando disdette negli ordini in oltre 560 supermarket e un pregiudizio reputazionale sul mercato: di qui la richiesta danni in Tribunale, per circa 15 milioni di euro, documentati dalle consulenze tecniche del Prof. Vannoni e del Prof. Poma.

Dopo uno stop di parecchi mesi, anche a causa del trasferimento temporaneo di Sandro Cavallo, ovvero il giudice che se ne occupava, il processo è ripreso davanti al giudice Elisabetta Meinardi.

A testimoniare (per conto della difesa), sono stati, tra gli altri, l’ex direttore di Acqua Sant’Anna (che nel 2010, quando nacque la Fonti Alta Valle Po, passò a lavorare per quest’ultima, e poi per un altro operatore ancora), e la responsabile dell’amministrazione finanziaria di Sant’Anna.

La linea di difesa di Sant’Anna pare essere il sostenere che la creazione e diffusione della fake news su Acqua Eva fosse la risposta della Sant’Anna stessa a provocazioni o pettegolezzi  che all’opposto Acqua Eva avrebbe a sua volta precedentemente messo in giro: tuttavia, nessuno dei testi fin qui chiamati a testimoniare da Sant’Anna ha riportato di aver sentito pettegolezzi ascerivibili ad Acqua  Eva che avrebbero giustificato, quasi per “ripicca”, la reazione di Sant’Anna, e questo fatto, come emerso dai contro interrogatori tenuti dall’avvocato dei Rivoira, Nicola Menardo (Studio Grande Stevens), andrebbe a sbriciolare l’alibi di Sant’Anna.

L’Ad di Sant’Anna Bertone infatti in una precedente udienza aveva sostenuto vi fossero stati attriti tra le parti (come spesso accade tra concorrenti del territorio) e anche che Acqua Eva gli avrebbe “rubato” degli agenti commerciali: dalle udienze, però, emergerebbe che nessuno dei testimoni contro interrogati ha mai confermato l’esistenza di alcun pettegolezzo o azione diffamatoria  precedente a carico dei Rivoira, patron di Acqua Eva; non un post sui Social, non una sola dichiarazione critica sulla stampa. Inoltre gli eventuali agenti passati da Sant’Anna ad Eva sarebbero stati dei liberi professionisti, non dei dipendenti, e quindi la loro mobilità sarebbe ascrivibile a normali dinamiche di opportunità. Insomma, le giustificazioni fin qui addotte da Sant’Anna potrebbero configurarsi, dunque, come circostanze inventata da Bertone: una sorta di nuova “fake news” per sostenere e dare corpo alla propria tesi difensiva e tentare di ridurre le proprie responsabilità.

Il processo proseguirà a giugno 2025 e nei prossimi giorni si conoscerà la decisione del giudice: sentire altri testimoni, oppure andare diretti alla discussione finale e, dunque, alla sentenza.




Mangione, tra cronaca e interpretazioni

Mangione, tra cronaca e interpretazioni

Il 19 novembre Kathleen Mangione presenta una denuncia al Dipartimento di polizia di San Francisco perché suo figlio, Luigi Mangione, 26 anni, è irreperibile. Non è chiaro perché si sia rivolta alle forze dell’ordine di quella città, essendo un’agiata famiglia del Maryland: forse perché lì stavano dei parenti; forse perché in passato Luigi aveva lavorato all’università di Stanford; o forse perché riteneva che lì lavorasse ancora.
Il suo ultimo indirizzo noto era a Honolulu dove però non sono state depositate segnalazioni di scomparsa del giovane. Risulta solo una multa di 100 dollari a suo carico per essere entrato in un’area interdetta di un parco. E i suoi amici delle Hawaii, dove viveva in un scintillante centro di co-living e co-working, dicono di averlo perso di vista intorno all’estate scorsa.

Kathleen Mangione, stando alla denuncia, non sente il figlio dal primo luglio, e riferisce che Luigi lavorava per TrueCar, una startup che promette di rivoluzionare la compravendita di auto, che aveva una sede secondaria a 124 New Montgomery Street di San Francisco, sede che appariva permanentemente chiusa. In verità, TrueCar, con gli uffici principali a Santa Monica, ha specificato che dal 2023 Mangione non era più un dipendente. E, secondo altri resoconti, avrebbe lavorato per l’azienda, nel team di engineering e data analytics, dalle Hawaii.

La madre non avrebbe raccontato di alcuna minaccia specifica o di altre ipotesi sulla scomparsa del figlio e avrebbe detto di non sapere quali fossero i luoghi frequentati in città dallo stesso. Sui suoi profili social la scorsa estate c’erano post (alcuni cancellati) lasciati da amici che si chiedevano dove fosse finito.
In pratica, “sembra che nessuno sia sicuro di dove Mangione abbia vissuto negli ultimi 6-12 mesi o più”, scrive Sfist, ed è questo buco uno degli aspetti più oscuri, e forse la chiave di cifratura di una vicenda certamente tragica ma anche così stupefacente, e insieme così intrisa di luoghi comuni (nel senso più ampio del termine, anche geografico), da sembrare generata da un’intelligenza artificiale generativa addestrata su anni di culture e sottoculture di internet, contraddizioni della società e della politica americana, serie tv distopiche o implausibili, e il mondo patinato delle startup tech.

Ad ogni modo, queste sono le ultime informazioni disponibili prima che Luigi Mangione riappaia una mattina seduto con una mascherina e un laptop in un angolo di un McDonald’s sulla Interstate 99 di Altoona, una cittadina di 40mila abitanti della Pennsylvania, riconosciuto da un cliente che ha messo in allerta un dipendente che ha chiamato la polizia. Un McDonald’s a cui la BBC ha dedicato un servizio e per cui Google è dovuta intervenire contro un “review bombing”, un flusso di recensioni negative lasciate dopo l’arresto di Mangione da persone che evidentemente non erano contente di quanto avvenuto e ritenevano il locale responsabile.
“In questa sede ci sono topi in cucina che vi faranno ammalare e la vostra assicurazione non li coprirà”, si leggeva in una recensione. Abbiamo visto il review bombing usato a volte a sfondo sociale o politico, ad esempio è stato usato da sostenitori dell’Ucraina contro ristoranti e attività russe all’inizio della guerra. Ma questo è forse il primo, o uno dei pochi casi, in cui sia associato a un omicidio negli Usa.

In mezzo tra il contatto con la madre del primo luglio e l’arresto il 9 dicembre c’è l’omicidio a sangue freddo di Brian Thompson, 50 anni, Ceo di UnitedHealthcare, una delle principali aziende di assicurazioni sanitarie, avvenuto nel centro di Manhattan, nella West 54th Street, a pochi passi dall’hotel Hilton Midtown, un luogo storico e simbolico di New York, che quella mattina ospitava la convention degli investitori di UnitedHealthcare Group.
Un omicidio che ha scatenato, prima e dopo che si conoscesse la presunta identità del killer, un’ondata di commenti online che sembravano, se non giustificare, comunque non condannare l’atto, a causa del diffuso risentimento e senso di ingiustizia e violenza strutturale provati nei confronti dei colossi assicurativi. “Un’analisi condotta nel 2022 (…) – scrive Il Post in un articolo sul funzionamento di quel sistema – stimò che 100 milioni di statunitensi avessero un debito legato alle cure mediche (su una popolazione di 333 milioni), e il 20 per cento riteneva che non sarebbe mai riuscita a ripagarlo del tutto”.

Certo, sebbene lo scontento per quel sistema in ampie fasce di utenza fosse risaputo, nessuno forse si sarebbe aspettato il modo in cui quello scontento si è tradotto online dopo l’assassinio di Thompson. 
“Un uomo è stato ammazzato a sangue freddo e voi ridete?”, ha titolato il New Yorker. UnitedHealthcare ha dovuto chiudere i commenti non solo su Facebook ma anche su LinkedIn, dove la stragrande maggioranza delle persone usano il proprio nome e identità professionale. Lo stesso New Yorker però, pur stigmatizzando fermamente le reazioni, affonda l’analisi nel sistema sanitario e assicurativo americano, ricordando fra le altre cose come UnitedHealthcare avese acquisito una società, NaviHealth, che implementa sistemi algoritmici per raccomandare cure per i pazienti e per gestire il suo programma Medicare Advantage. Contro questo software esiste una class action [la trovate qua, ndr], un’azione legale collettiva secondo la quale NaviHealth avrebbe un “tasso di errore noto” del novanta per cento.

Nel marzo 2024 così scriveva The Journalist’s Resource in relazione a un’inchiesta giornalistica su questo tema: “L’inchiesta, durata mesi, ha prodotto una serie di quattro puntate che hanno rivelato come le compagnie di assicurazione sanitaria, tra cui UnitedHealth Group, la più grande assicurazione sanitaria del Paese, abbiano utilizzato un algoritmo informatico difettoso e regole interne segrete per negare o limitare impropriamente le cure riabilitative a pazienti anziani e disabili gravemente malati, scavalcando i consigli dei loro stessi medici. L’indagine ha anche dimostrato che il governo federale non è riuscito a porre un freno a queste pratiche alimentate dall’intelligenza artificiale”.

In ogni caso il sistema sanitario americano e le assicurazioni sembrano essere l’unica chiave interpretativa adottata in massa non appena si è avuta notizia dell’atto, interpretazione che si è andata rafforzando mano a mano che, come briciole di pane, emergevano indizi sul movente.
“UnitedHealthcare ha il più alto tasso di rifiuto delle richieste di risarcimento di qualsiasi compagnia assicurativa privata – scrive il New Yorker – con il 32%, è il doppio della media del settore. Inoltre, sebbene il movente dell’attentatore rimanga sconosciuto, i bossoli trovati sulla scena del crimine riportavano le parole “deny” (negare), “delay” (ritardare) e forse “depose” (deporre), che riecheggiano il titolo di un libro del 2010 di Jay M. Feinman, “Delay, Deny, Defend: Why Insurance Companies Don’t Pay Claims and What You Can Do About It” (Ritardare, negare, difendere: perché le compagnie assicurative non pagano le richieste di indennizzo e cosa si può fare al riguardo), che giovedì era balzato in cima a una delle classifiche dei best-seller di Amazon”.

Il termine “depose” ha suscitato anche un certo dibattito sul suo significato. Può significare deporre in una testimonianza sotto giuramento e così è stato in genere interpretato. Ma ci sono vari post su Reddit che sottolineano anche il significato di rimuovere con la forza da una carica. Per cui i tre verbi vengono di volta in volta reinterpretati come un gioco di parole contro le tattiche assicurative: “Negare le richieste di risarcimento. Difendere le cause. Deporre (interrogare) i testimoni della causa [versus] Negare il loro potere. Difendere il popolo. Deporre i governanti”, azzarda qualcuno.

Proprio quelle parole sono costate care a Briana Boston, una madre di tre bambini, che martedì scorso il dipartimento di polizia di Lakeland, in Florida, ha accusato di minacce di strage o di atti di terrorismo. Al telefono al call center della Blue Cross Blue Shield, l’assicurazione sanitaria che le aveva appena negato una richiesta di rimborso medico, avrebbe detto:“Ritardare, negare, deporre. Voi siete i prossimi”. La stessa polizia ha riconosciuto che la donna non sarebbe però una minaccia reale.

Certo, dal giorno dell’uccisione di Thompson le compagnie assicurative hanno immediatamente alzato il livello di allerta e le richieste ai propri team di sicurezza: oltre ad aver temporaneamente chiuso le sedi, alcune hanno eliminato dai loro siti web le foto dei dirigenti e hanno intensificato le misure di protezione per quelli più esposti. Il monitoraggio delle minacce online e sui social media e le periodiche valutazioni del rischio aumenteranno, hanno riferito alcune fonti, così come la sicurezza intorno a eventi legati al settore.

Negli ultimi giorni sono anche proliferati i presunti “manifesti” ed altri video o contenuti online attribuiti a Mangione. Molti sono falsi o non confermati.
Ma Newsweek scrive che le forze dell’ordine avrebbero confermato quello pubblicato per primo dal giornalista Ken Klippenstein, dove appaiono le poche frasi diffuse dalla polizia dopo l’arresto.
Nel manifesto l’autore scrive anche: “È stato piuttosto banale: un po’ di ingegneria sociale elementare, CAD di base e molta pazienza”.

Il riferimento sembra essere all’arma utilizzata. Parte della pistola che, secondo la polizia, sarebbe stata usata per uccidere Thompson è stata realizzata con una stampante 3D utilizzando un popolare modello che si trova online, scrive il New York Times. E ora, nel continuo cortocircuito innescato da questa storia, proprio la citazione della nota ritrovata addosso a Mangione dalla polizia sarebbe già utilizzata da alcuni gruppi che pubblicano questi modelli.

Restano moltissime domande in questa storia. La parabola personale di Mangione (riassunta in modo macchiettistico nel ragazzo di buona famiglia e promessa del mondo tech che anche a causa di suoi problemi di salute e della propensione verso letture “pericolose” si rivolta contro il sistema diventando non un attivista ma addirittura un omicida a sangue freddo) resta in verità indecifrabile. E anche le sue azioni nel programmare ed eseguire omicidio e fuga hanno enormi contraddizioni, oscillando tra comportamenti da killer professionista e atti apparentemente irrazionali (perché tenersi addosso pistola, manifesto autoincriminante scritto a mano su dei fogli, e forse la stessa carta d’identità falsa usata nell’ostello, o una simile?). 

Ma soprattutto: cosa è successo e come si sono svolti i mesi in cui è di fatto scomparso dai radar?
Mangione è diventato quasi lui stesso un meme (una “memificazione” disturbante, sottolinea il WashPost), e ognuno lo sta interpretando e reinterpretando come vuole. Ma la verità è che ogni parallelo e paragone (e anche a me ne sono venuti in mente), ogni interpretazione, restano al momento un azzardo e una forzatura. E ancor di più, l’impatto di tutta questa vicenda appare al momento angosciosamente imprevedibile.