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Perché i “Trusted Flaggers” europei interessano (anche) ai comunicatori

Perché i “Trusted Flaggers” europei interessano (anche) ai comunicatori

Contrastare la disinformazione. Dall’infodemia ai Trusted Flaggers” è un webinar promosso da FERPI con il supporto non condizionato di Pfizer Italia. L’incontro – in programma venerdì 20 giugno 2025, dalle 16:00 alle 18:00 – offrirà cinquanta crediti CASP e verrà registrato per consentirne la fruizione anche in differita.

L’appuntamento online approfondirà i seguenti temi:

  • Il ruolo delle professioni della comunicazione nella prevenzione della disinformazione scientifica e sanitaria.
  • L’impatto crescente dell’intelligenza artificiale nella costruzione dell’informazione medico-scientifica
  • Le prime ricadute del Digital Services Act sulla strategia di contenuto delle imprese e sulla tutela dei minori online.
  • Il funzionamento pratico del bollino di segnalatore di fiducia: requisiti, iter di certificazione, obblighi per le piattaforme.

Relatori di ambiti diversi – fact‑checking, industria farmaceutica, relazioni pubbliche e giornalismo scientifico – presenteranno casi di studio e strumenti immediatamente applicabili.

Chi sono i Trusted Flaggers

Il Digital Services Act (DSA) dell’Unione europea – la regolamentazione europea sulla regolamentazione delle piattaforme digitali come Google e Meta – istituisce un canale di segnalazione privilegiato: i soggetti del terzo settore che dimostrano competenza specialistica, indipendenza e rapidità operativa possono ottenere la certificazione di “segnalatore di fiducia” (Trusted Flagger) dal Coordinatore nazionale per i servizi digitali (AgCom in Italia). Le piattaforme di grandi dimensioni – fra cui Meta, X, TikTok e YouTube – sono obbligate a esaminare con priorità le loro segnalazioni di contenuti illegali.

In Italia, i Trusted Flaggers sono Argo Business Solutions S.r.lBarzanò & Zanardo S.p.A.Telefono Azzurro e la Federazione contro la pirateria musicale e multimediale (FPM). (Qui una lista con i contatti e le competenze).

Perché i Trusted Flaggers contano per i comunicatori e i giornalisti

  • Difesa della reputazione e del marchio. Collaborare con un Trusted Flagger accelera la rimozione di falsità che danneggiano la credibilità di un’azienda o di un ente.
  • Report annuale sulle segnalazioni. Come parte del DSA, i Trusted Flaggers devono produrre un report annuale dei loro lavori, indicando quanti e quali segnalazioni hanno fatto. Per i giornalisti, questi report rappresentano una fonte di informazioni sui contenuti illegali online.
  • Conformità normativa e riduzione del rischio. Conoscere il meccanismo di segnalazione consente di anticipare richieste di adeguamento provenienti da autorità o piattaforme.
  • Valore ambientale, sociale e di governance. Integrare la lotta alla disinformazione nelle strategie di sostenibilità rafforza la dimensione sociale della responsabilità d’impresa.
  • Early‑warning e intelligence. I Trusted Flaggers rappresentano sensori sul territorio digitale e possono segnalare trend ostili prima che diventino crisi reputazionali.
  • Crescita della credibilità personale. Dimostrare familiarità con gli standard europei di moderazione accresce l’autorevolezza professionale e la fiducia degli stakeholder.

Programma in breve

  • Filippo Nani, Presidente FERPI
  • Biagio Oppi, Direttore Comunicazione Esterna Pfizer Italia
  • Luca Alfieri, Task Force FERPI
  • Massimo Alesii, Coordinatore comitato scientifico progetto “A DIRE IL VERO”
  • Angelica Giambelluca, Giornalista medico-scientifica
  • Noemi Urso, Debunker & Fact Checker – BUTAC
  • Lorenzo Canu, Università di Amsterdam
  • Matteo Forte, CEO Mosai.co
  • Sessione domande e risposte

Iscrizioni e materiali

L’iscrizione è possibile qui.

Per approfondire il tema dei Trusted Flaggers e cosa FERPI sta facendo sul tema della disinformazione

Contrastare la disinformazione è un gioco di squadra che coinvolge istituzioni, piattaforme, media e professionisti della comunicazione. Conoscere i Trusted Flaggers è il primo passo per giocare bene la partita.




La reputazione è davvero l’asset più importante per un’azienda?

La reputazione è davvero l’asset più importante per un’azienda?

Non un solo specialista in comunicazione d’impresa o marketer metterebbe oggi in dubbio che la reputazione è l’asset più importante per un’azienda, complici anche le, ormai frequentissime, crisi reputazionali che, una settimana sì e l’altra anche, generano distruzione di valore per gli azionisti. Parole come identità, coerenza, autenticità, sono tornate di moda, e hanno acquistato nuovi significati: è infatti da tempo dimostrato che le aziende che producono i maggiori utili sono quelle che inseriscono preoccupazioni di carattere etico nel proprio business a livello strategico, e che le organizzazioni con questa sensibilità sono le più resilienti e quindi le più interessanti per gli investitori.
A parole, quindi, tutti sono d’accordo: gli interventi ai congressi si sprecano, come anche gli articoli agiografia sulle eccezionali performance ESG di questa o quell’altra azienda, in qualunque comparto, di produzione industriale, finanziaria o di servizi.

L’apparire continua a essere più rilevante dell’essere

La verità, invece, dobbiamo esser schietti, è che l’apparire continua a essere più rilevante dell’essere: i manager e gli imprenditori continuano, nel concreto, a mirare a un vantaggio competitivo nel breve periodo, e la nostra è l’epoca dei “false ESG”, che si moltiplicano del tutto fuori controllo. Il modello “Enviromental, Social and corporate Governance”, tanto di moda negli ultimi anni – seppure messo in parte in crisi dalla raccapricciante svolta Trumpiana – restano al centro di crescenti speculazioni da parte di una vasta platea di professionisti che vendono a caro prezzo consulenze per poter ottenere le ambite certificazioni, delle quali aziende medie e grandi, in preda a una specie di bulimia compilativa tipica del framework americano, paiono non poter fare a meno.

Come ho scritto nella prefazione a un fascicolo di recente pubblicazione a cura della Scuola Etica Leonardo, opinione diffusa vuole che le società con le posizioni migliori in classifica sulla base di metriche ESG, otterranno – già solo per questo – migliori rendimenti per gli azionisti: questa convinzione è errata, per tutta una serie di ben documentati motivi.

Gli indici ESG, per come sono oggi intesi, sono centrati su uno sguardo del tutto generale, avulso dal particolare, che può generare effetti imprevisti e preoccupanti: si tratta di una vera e propria mania classificatoria, l’ennesima, tipica del mondo anglosassone. Ad esempio, l’impatto ambientale di una banca non è necessariamente rilevante per la sua performance economica: una corretta politica di contenimento delle emissioni nocive in atmosfera otterrebbe un punteggio alto sugli indici ESG, ma non influenzerebbe significativamente le emissioni di carbonio globali; al contrario, l’emissione da parte della banca di prestiti subprime che i clienti non saranno in grado di ripagare o la commercializzazione di titoli tossici, potrebbe(ro) avere devastanti conseguenze sociali e finanziarie, come le cronache di pochi anni fa hanno dimostrato. Nonostante ciò, il reporting ESG ha dato credito alle banche per la prima questione e, allo stesso tempo, ha tralasciato colpevolmente – o dolosamente? – la seconda.

L’adozione diffusa del reporting ESG ha indirettamente “tranquillizzato” gli investitori e i cittadini, ma, al contempo, ha distratto le aziende dall’attrezzarsi per causare un impatto sociale rilevante riguardo alle questioni centrali per i propri business: come se, assolti gli obblighi ESG, si potesse tirare un respiro di sollievo, con la certezza di aver fatto bene “i compiti a casa”.

Fare meno, ma fare meglio

Sono le politiche aziendali di alta sostenibilità che devono riflettere la cultura di fondo dell’organizzazione, e non deve essere la cultura dell’organizzazione a dover essere “piegata” al servizio dell’immagine per far apparire l’organizzazione più green e quindi più appetibile agli occhi di Clienti e investitori; così facendo, le aziende tradiscono i fondamentali del reputation management, la fiducia dei cittadini e bruciano valore, come veri e propri Giani Bifronte che – tristemente — fanno della comunicazione effimera condita da scarsa autenticità una delle peculiarità del proprio posizionamento.

Fare meno, ma fare meglio, è un paradigma che nel nostro mondo, quello della costruzione e difesa della reputazione, è considerato scontato da anni, ma evidentemente, e inspiegabilmente, ancora non lo è nella pratica d’impresa. La verità è che – al netto dell’agiografia pubblicitaria – solo una esigua minoranza di aziende dimostra di aver davvero a cuore il valore dei propri azionisti, e ogni giorno opera con la convinzione di poter fare bene, e di poter cambiare in meglio qualcosa nell’ecosistema sociale nel quale opera, consapevoli che questo cambiamento non si può improvvisare, e richiede tempo, fatica, risorse, non riducendosi a un certificato da appendere dietro alla scrivania, frutto magari dell’auto-compilazione di questionari o di analisi non sollecitate svolte dall’esterno da auditor compiacenti e benevoli.

Non c’è più tempo da perdere

L’economista italiano Antonio Genovesi (1713-1769), in pieno Illuminismo, “predicava” inascoltato sul tema dell’importanza della costruzione di una “economia civile”, ovvero finalizzata alla responsabile felicità delle persone, sostenibile in quanto capace di coniugare crescita economica ed equità sociale, all’insegna di parole chiave come reciprocità, fiducia e mutuo vantaggio.

Oggi, tre secoli dopo, le imprese sono chiamate a nuove responsabilità: non c’è più tempo da perdere, e non si può continuare a ingannare ancora a lungo il mercato. L’ora della coerenza, dell’autenticità, della responsabilità, è qui, ora.




La nuova norma UNI 11961:2024 sulla compliance a supporto dei sistemi integrati ISO ed i modelli 231

La nuova norma UNI 11961:2024 sulla compliance a supporto dei sistemi integrati ISO ed i modelli 231

Premesse

I sistemi di gestione volontari vedono oggi come unico punto di correlazione col D. Lgs. ​ 231/2001, l’art. 30 del D. Lgs. ​81/08 per i reati in tema di salute e sicurezza sul lavoro. ​I sistemi di gestione sono ormai ampiamente diffusi nelle organizzazioni e permettono di strutturare un sistema integrato aziendale per dare evidenza dell’effettiva ed efficace attuazione delle misure adottate dall’azienda in tema di compliance.

Per potere chiarire e valorizzare tali misure di correlazione con i dettami previsti dal D.Lgs. ​ 231/2001 è stata redatta una norma nazionale, la UNI 11961:2024 “Linee guida per l’integrazione del sistema di gestione per la compliance UNI ISO 37301:2021 a supporto dei Modelli Organizzativi di Gestione e Controllo e degli Organismi di Vigilanza in conformità al D.Lgs.231/2001” pubblicata in data 17 dicembre 2024.

Contesto nazionale in tema di Compliance 

A più di vent’anni dall’introduzione del D. ​ Lgs. 231/2001 relativo alla cosiddetta “responsabilità amministrativa degli Enti”, si assiste ancora oggi ad una variabilità molto ampia nell’applicazione dei dettami legislativi. ​ Le linee guida delle associazioni di categoria sono un importantissimo strumento di indirizzo per le imprese ma permane un’incertezza di fondo sulle modalità operative di attuazione per fare in modo che un Ente virtuoso che voglia dotarsi di un Modello di Gestione, Organizzazione e Controllo conforme ai dettami legislativi, possa svilupparlo e mantenerlo nel tempo secondo modalità e approcci solidi e sistemici, anche al fine di garantire i principi di adeguatezza ed effettività necessari per poter dimostrare il valore esimente del Modello per l’Ente stesso. ​

Esperienze e criticità rilevate

Gli “addetti ai lavori” e le imprese più “illuminate” chiedono da tempo di potere riconoscere gli sforzi delle aziende nell’ambito della Compliance Integrata ma, purtroppo, né la legislazionené la giurisprudenza in più di 20 anni di applicazione del D. Lgs.231/2001 hanno aiutato a riconoscere tale sforzo se non con degli accenni ad assunzione di esimenza di Modelli sviluppati secondo le best practice del settore – tra tutti, ma non le sole, citiamo le “Linee guida di Confindustria(1) -.

In tale alea di incertezza, si è rilevata inoltre un approccio a “macchia di leopardo” delle procure italiane che si sono mosse e si muovono con sensibilità molto diverse tra loro, vedendo una penalizzazione o agevolazione delle imprese con processi in corso ex-D.Lgs.231 dipendenti dall’area geografica in cui il processo è svolto.

Infine, in un contesto molto incerto e con poche sentenze giurisprudenziali a supporto delle imprese illuminate che attuano da anni una Compliance Integrata,  l’assenza di norme attuative più chiare hanno agevolato la proliferazioni di Modelli “cut and paste con una dubbia utilità per le imprese che li hanno implementati se non, addirittura, controproducenti per l’Ente in sede di giudizio.

La norma di collegamento tra ISO e D.Lgs. ​ 231/2001

La predisposizione di un documento normativo nazionale è stato ritenuto un utile compendio per creare una diretta correlazione:

  • tra gli strumenti sistemici forniti dalle norme ISO e i Modello 231,

sulla base del riconoscimento già avvenuto dal legislatore nell’ambito dei reati antinfortunistici (art. ​ 30 del D.Lgs. ​ 81/2008). ​

Questa correlazione permette di integrare il sistema di gestione con i protocolli e gli strumenti attuativi del Modello stesso, in linea con i principi già espressi nella recente revisione di Linee guida associative e dall’Harmonized Structure (ex-HLS) dell’ISO. ​

Progetto di normazione: cronoprogramma dei lavori 

  • Marzo 2022: Avvio inchiesta pubblica preliminare e approvazione del progetto di norma. ​
  • Aprile 2022: Approvazione avvio lavori progetto di norma (15 sì, 1 astensione). ​
  • Novembre 2023: Redazione del draft della norma. ​
  • Marzo 2024: Finalizzazione del final draft della norma. ​
  • Giugno 2024: Chiusura inchiesta pubblica finale. ​
  • Luglio 2024: Recepimento commenti da inchiesta pubblica finale e finalizzazione della norma. ​
  • Dicembre 2024: Pubblicazione della nuova norma UNI 11961:2024. ​

La nuova norma nazionale in tema di Compliance 

La norma nazionale UNI 11961:2024 è un importante novità nel panorama della Compliance Integrata in quanto:

  • per la prima volta, in Italia abbiamo una norma volontaria di collegamento tra il mondo dei sistemi di gestione ISO e il mondo dei reati amministrativi ex-D.Lgs.231/2001.

Questa rivoluzione copernicana permetterà alle aziende di aggiungere, tra le misure esimenti in sede processuale, che la stessa:

  1. ha adottato un Modello 231;
  2. ha insediato un OdV con poteri di vigilanza e controllo e,
  3. ha “integrato” il sistema aziendale con un sistema di gestione per la Compliance conforme alla UNI ISO 37301:2021, meglio ancora, se certificato con organismo di certificazione sotto accreditamento (e quindi controllo) di ACCREDIA.

Questo approccio integrato dovrà riflettersi anche in una revisione dei Modelli 231 e sarà di ausilio al lavoro degli Organismi di Vigilanza in conformità al D.Lgs. ​ 231/2001”.

Vediamo ora alcuni paragrafi della norma UNI per capire la correlazione tra il sistema di gestione ISO e il D.Lgs.231/2001, letto in combinato disposto con le Linee Guida di Confindustria.

Comprendere l’organizzazione e il suo contesto (§4.1) 

La comprensione dell’organizzazione e del suo contesto è uno dei passaggi iniziali fondamentali per conoscere i processi aziendali rilevanti dell’Ente al fine dell’inquadramento degli ambiti di attuazione del Modello di Gestione, Organizzazione e controllo (Modello 231) ai sensi del D. ​Lgs. 231/2001 e al fine dell’implementazione del Sistema di Gestione per la Compliance conforme alla norma UNI ISO 37301:2021. ​

Organismo di governo e Alta Direzione (§5.1.1) 

Nelle attività di progettazione di un Modello Organizzativo ai sensi del D.Lgs. ​ n. 231/2001 in linea con i requisiti della UNI ISO 37301 occorre identificare correttamente i soggetti che, secondo la norma tecnica, sono assegnatari delle principali responsabilità per la progettazione ed attuazione di un sistema di gestione della compliance. ​

Informazioni Documentate (§7.5) 

Il tema della documentabilità e della documentazione merita una particolare attenzione. ​ La norma UNI ISO 37301 e, in generale, tutte le norme UNI ISO che attuano l’HS (Harmonized structure) hanno visto demandare all’organizzazione la scelta di quali informazioni documentare con una conseguente e graduale semplificazione della burocrazia. ​

Conclusioni

La nuova norma nazionale sulla compliance rappresenta un importante passo avanti per le organizzazioni italiane, fornendo linee guida chiare e sistemiche per l’integrazione dei sistemi di gestione per la compliance con i Modelli 231. ​Questo strumento normativo non solo facilita la progettazione, attuazione e controllo dei modelli di gestione, ma contribuisce anche a dimostrare l’adeguatezza ed effettività dei presidi di controllo e prevenzione del reato, supportando le imprese nel loro percorso di conformità legislativa e miglioramento continuo. ​

Inoltre, implementare un Sistema per la Compliance Integrata aziendale che veda dialogare, conformemente alla norma UNI 11961:2024, il Modello 231 e il sistema di gestione per la Compliance, conforme alla norma UNI ISO 37301:2021, meglio ancora se quest’ultimo certificato da un organismo di parte terza accreditato,  dovrebbe permettere alle aziende di vedere rinforzata la posizione di esimenza in sede processuale.

Ora, attendiamo e speriamo che la giurisprudenza “batta un colpo”.

Intervento di Alessandro FOTI, Esperto in Compliance e HSE, Chairman dell’Organo Tecnico UNI “Governance delle organizzazioni” e Vicepresidente di AIAS – Associazione Italiana Ambiente e Sicurezza




Bari, Poma: “La reputazione è identità, non immagine”

Bari, Poma: “La reputazione è identità, non immagine”

Il volume, scritto da PomaGiorgia Grandoni e Alessio Garzina, è un’analisi puntuale e documentata delle crisi reputazionali contemporanee e offre strumenti per comprenderle, affrontarle e prevenirle. A dialogare con Poma e Grandoni è stata la giornalista Rosanna Volpe, moderatrice dell’incontro. Sono intervenuti anche l’assessore del Comune di Bari avv. Domenico Scaramuzzi (PD) e la consigliera metropolitana avv. Raffaella Casamassima (Fratelli d’Italia), a testimonianza del carattere trasversale e attuale del tema.

La reputazione è identità, non immagine

Nel corso del suo intervento, Poma ha voluto chiarire subito un equivoco diffuso: la reputazione non è la stessa cosa dell’immagine pubblica. «Se io fermassi una persona per strada e chiedessi cos’è la reputazione, il 99% mi risponderebbe: è la buona immagine di cui puoi godere nei confronti dei vari pubblici. Ma questa – ha affermato – è una definizione sbagliata, da bocciare».

La reputazione, spiega l’esperto, «non nasce dall’immagine, quindi dai social, dal marketing o dalla comunicazione. Nasce invece dall’identità, cioè da quello che noi siamo realmente». E per rendere l’idea, Poma ha offerto un’immagine semplice quanto efficace: «Pensate a un palazzo in ristrutturazione. L’identità è il palazzo e l’immagine è l’impalcatura che lo circonda. Se l’impalcatura si allontana troppo dal palazzo, crolla. È esattamente quello che accade nelle crisi reputazionali: quando l’immagine proiettata verso l’esterno non corrisponde a ciò che siamo realmente, il sistema collassa».

Crisi reputazionali: un rischio per chiunque

Durante l’incontro è emerso con forza un altro concetto chiave: la reputazione riguarda tutti. «Parliamo di brand, politici, influencer, ministri, aziende, ma anche singoli cittadini», ha sottolineato Poma. «Un calciatore oggi può avere 30 dipendenti, è una piccola impresa. Chiunque, nel momento in cui si relaziona con un pubblico, costruisce – o danneggia – la propria reputazione».

Un’osservazione condivisa anche da Giorgia Grandoni, coautrice del volume, che ha ribadito come spesso le crisi si generino non per errori clamorosi, ma per disallineamenti progressivi e sottovalutati tra l’identità e la narrazione pubblica. “Crash Reputation” si propone proprio di colmare questo divario, offrendo strumenti di lettura, analisi e gestione delle crisi.

Un libro per capire il nostro tempo

La presentazione del libro alla Fondazione Tatatrella è stata anche l’occasione per una riflessione ampia sulla società contemporanea, dove l’immagine e la visibilità sembrano contare più della sostanza. Crash Reputation è un invito a non confondere la comunicazione con la verità, e a lavorare affinché ciò che mostriamo agli altri sia il più possibile vicino a ciò che siamo davvero.




Il crescente ruolo del foresight in tempi d’incertezza

Il crescente ruolo del foresight in tempi d’incertezza

È crescente, nella stampa, nella ricerca e nell’opinione pubblica, l’interesse per i trend futuri. Si vuole capire, di fronte a un mondo sempre più denso di incertezze e rischi potenziali, ciò che potrà accadere nei prossimi anni per potercisi preparare. Un desiderio che è nato con i primi uomini e donne sul pianeta, e che si è cercato di soddisfare con i mezzi più strani, dall’esame delle viscere degli animali ai vaticini di santoni e santone o supposti tali, alla palla di cristallo. E poi Cassandra, la Pizia e Nostradamus, e altri meno noti ma spesso assai seguiti come il Mago di Torino e altri personaggi di grande, per quanto di norma infondata, popolarità.

Ma se è vero che prevedere il futuro è scientificamente impossibile, guardare al futuro in modo razionale e scientifico non lo è, e per anticipare i trend del futuro è più che possibile utilizzare le tecniche di foresight che si basano su un attento studio del passato e del presente, sul ragionamento interdisciplinare e sulla proiezione di scenari con diversi gradi di realismo e possibilità.

Come i lettori di Harvard Business Review Italia sanno, il Rapporto Macrotrends da noi pubblicato ogni anno nel mese di novembre (quest’anno giunto alla nona edizione) è uno strumento ideato, elaborato e dedicato ai decision maker del mondo economico, ma anche politico, qualora i politici decidessero di dare uno sguardo al futuro distogliendosi dalle abituali visioni legate al breve termine. Il rapporto viene scritto in collaborazione con circa 30 autori ogni anno e copre tendenze dei diversi settori a largo raggio. Ed è un esempio di foresight tra i più rappresentativi nel nostro Paese: è infatti diffuso in oltre 15.000 copie ogni anno, oltre ad essere presentato e discusso in numerose sedi in Italia e all’estero.

Il foresight è un processo strategico che mira a identificare e comprendere i possibili futuri scenari e tendenze con l’obiettivo di prendere decisioni informate e sviluppare strategie a lungo termine. Si tratta di una disciplina che aiuta le organizzazioni e gli individui a comprendere come l’ambiente e il contesto possono evolvere nel tempo e come ciò potrebbe influenzare le loro attività, consentendo loro di anticipare i cambiamenti e adattarsi di conseguenza. Ma cerchiamo di capire meglio di che cosa si parla.

Il processo del foresight

Per dare una definizione, si può dire che un corretto processo di foresight coinvolge una serie di attività, che vanno dalla raccolta di informazioni e dati sulla situazione attuale, all’analisi delle tendenze passate e presenti, fino alla proiezione di scenari futuri plausibili. Questi scenari vengono sviluppati in base a una combinazione di fattori che tengono presenti le innovazioni tecnologiche, i cambiamenti sociali, le dinamiche economiche e politiche, e altre forze che possono influenzare il futuro. L’obiettivo è dunque di fornire una base solida per prendere decisioni strategiche identificando le opportunità emergenti, le minacce potenziali e le sfide che potrebbero presentarsi nel tempo. Inoltre, il processo di foresight incoraggia l’immaginazione creativa e il pensiero fuori dagli schemi per generare idee innovative e soluzioni per il futuro.

Gli studi sul futuro sono da tempo utilizzati da Governi, imprese e istituti di ricerca. Attraverso l’utilizzo di metodologie e strumenti professionalmente sviluppati, il foresight aiuta a ridurre l’incertezza e a prendere decisioni informate basate su una comprensione più approfondita dei possibili futuri scenari.
Molti sono stati, nel tempo, ottimi esperti di foresight che si sono particolarmente distinti in quest’attività. Tra i principali esperti si possono citare:

Peter Schwartz, pioniere nel campo del foresight e uno dei fondatori del Global Business Network (GBN), che ha sviluppato approcci innovativi per la creazione di scenari e il pensiero strategico.

Pierre Wack: un famoso esperto di scenari e foresight presso la Royal Dutch Shell negli anni ‘70. È noto per aver introdotto l’approccio dei “mondiali ipotetici” per comprendere gli scenari futuri.

Alvin Toffler, uno dei più importanti futuristi del XX secolo. Il suo libro, Lo shock del futuro, ha influenzato profondamente il pensiero sul futuro e sulla tecnologia.

Sohail Inayatullah, accademico e consulente di foresight noto per il suo lavoro sull’analisi delle tendenze e degli scenari futuri. Ha sviluppato il metodo Causal Layered Analysis (CLA) per esplorare i diversi livelli di un problema o fenomeno.

Cynthia Selin, ricercatrice e docente di studi sul futuro presso l’Arizona State University. Si è concentrata sulla relazione tra scienza, tecnologia e futuro sostenibile.

Richard Slaughter, specializzato in teoria del futuro e metodi di analisi dei problemi complessi.

John Naisbitt, ben noto futurologo e autore di diversi libri di successo della serie Megatrends, a partire dal libro con quel titolo del 1982.

Igor Ansoff, ben noto autore dell’articolo “Ascesa e declino della pianificazione strategica”, pubblicato dalla rivista Corporate Strategy nel 1972.

Thomas Chermack, autore di Scenario Planning in Organizations: How to Create, Use, and Assess Scenarios nel 2011.

Vanno poi richiamati importanti lavori che hanno segnato fasi importanti dello sforzo di guardare al futuro come il Rapporto del MIT per il Club di Roma, o Rapporto Meadows, del 1972, I limiti dello sviluppo e il successivo studio dal titolo I nuovi limiti dello sviluppo, del 2006.

Questi sono solo alcuni degli esperti di foresight che hanno contribuito in modo significativo. È importante notare che il campo del foresight è in continua evoluzione e che ci sono molti altri professionisti e ricercatori che stanno apportando importanti contributi alla disciplina.
 

La costruzione degli scenari

La fase di ricostruzione post bellica ha indotto a sviluppare negli anni ‘50 e ‘60 delle teorie economiche che ponevano il focus sulle previsioni come elemento centrale nei modelli di pianificazione strategica. L’esito delle analisi condotte in quel periodo ha portato a stabilire che le tendenze in essere potessero essere utilizzate per gli scenari a medio e lungo termine.

Le analisi, basate su dati numerici e l’accuratezza matematica delle tecniche utilizzate, hanno dato buoni risultati in applicazioni anche di lungo periodo su intervalli di tempo di relativa stabilità dell’economia, come nel decennio ‘60. Nel decennio successivo, a seguito dello shock petrolifero del 1973 e la conseguente instabilità monetaria, si è passati a proporre una rosa di possibili scenari alternativi da utilizzare a seconda dell’evoluzione reale.

È stato il decennio dei futurologi, guidati dal gruppo presso lo SRI (Stanford Research Institute), dalle analisi di Shell che negli ultimi decenni si sono concentrate sul mondo dell’energia, ma anche delle teorie di Herman Kahn (dello Hudson Institute) sugli equilibri, e squilibri, dei rapporti strategici internazionali a partire da quelli delle minacciose guerre termonucleari, che hanno spesso creato paura e pessimismo negli anni tra il ‘60 e gli ‘80. E che hanno persino influenzato grandi istituzioni sovranazionali come l’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OCSE) che, in un rapporto della fine degli anni ‘80, arrivò a descrivere la scena internazionale in termini di crescente complessità nelle relazioni internazionali, crescente competizione economica tra le nazioni, crescente incertezza e maggiore interdipendenza. In quel periodo, molte organizzazioni si sono orientate verso una pianificazione su tempi relativamente brevi, anche nel caso di realtà piuttosto complesse che hanno desistito dal cercare di elaborare piani e programmi pluriennali preferendo basarsi sui propri bilanci annuali con verifiche a intervalli anche inferiori all’anno.

La pianificazione strategica

Negli ultimi anni però, come si è detto, è riemersa una tendenza che guarda sempre più a orizzonti di medio e lungo termine e si è tornati a considerare l’opportunità del foresight anche al servizio della pianificazione strategica, le cui componenti chiave includono la comprensione della visione di un’organizzazione, la sua missione, i valori e le strategie. Nel mondo del business l’esplicitazione di una visione o le dichiarazioni d’intenti possono far parte di questo sforzo di guardare al futuro stabilendo un percorso con obiettivi definiti. Un percorso che può strutturarsi attraverso vari passaggi:

  • La visione delinea ciò che l’organizzazione vuole essere o come si vuole che sia il mondo in cui opera (una visione “idealizzata” del mondo).
  • La missione definisce lo scopo fondamentale di un’organizzazione o di un’impresa, descrivendo in modo sintetico perché esiste e ciò che fa per realizzare la sua visione.
  • valori sono le convinzioni che sono condivise tra gli stakeholder di un’organizzazione.
  • La strategia, definita in senso stretto, che rappresenta “l’arte del generale”.

Le organizzazioni a volte riassumono gli scopi e gli obiettivi in una dichiarazione d’intenti o in un “purpose”. Altri iniziano con la visione e la missione e li usano per formulare scopi e obiettivi. Un approccio emergente è quello di utilizzare lo scenario per il piano strategico all’interno di metodologie di pianificazione basate sulla teoria dei risultati. Quando si utilizza questa metodologia, il primo passo è quello di costruire un modello di risultati di alto livello e ricercare le modalità che si ritiene siano necessarie per arrivarci. La visione e la missione sono quindi solo gli strati superficiali del modello visivo. Un’altra componente legata al concetto di pianificazione strategica di fondamentale importanza è la ricerca di un vantaggio competitivo, o ancora la ricerca di una competenza distintiva, che permetta di raggiungere la mission in modo più efficiente ed efficace. Di grande importanza in quest’ambito il monumentale lavoro di Michael E. Porter, che ha posto le basi delle strategie competitive delle aziende in un arco di tempo ben superiore ai vent’anni.