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L’era del Fairmark. Nel mondo post-Covid la lealtà sarà l’arma vincente dei brand

L’era del FairmarkNel mondo post-Covid la lealtà sarà l’arma vincente dei brand

Il Covid, fungendo da catalizzatore su tanti cambiamenti in atto nella società, ha dato un forte impulso anche all’evoluzione del brand.

La pandemia ha colto il marchio nel bel mezzo di un profondo processo di trasformazione e per cogliere l’effettiva portata del quale è bene dare, in modo sintetico, uno sguardo a largo raggio sulla sua storia.

Il marchio, come è stato autorevolmente ricordato, «ha origini antichissime. Se ne trovano tracce agli albori della storia dell’umanità, nei primordiali atti di marcatura di animali, manufatti, gioielli e vasellame. Il marchio esiste da quando esiste l’uomo» (Claudio Parisi Presicce).

Sviluppatosi in modo pieno nel corso dell’Ottocento, sull’onda del capitalismo industriale, dalla metà del Novecento ha assunto la moderna conformazione di un segno distintivo, atto a «consentire al pubblico dei consumatori di distinguere i prodotti e servizi di un imprenditore da quelli (simili) di un altro imprenditore» (Adriano Vanzetti e Vincenzo Di Cataldo).

Negli ultimi lustri del secolo scorso, poi, il marchio si è sempre più andato affrancando da questa sua funzione tecnica di indicatore di origine, diventando anche e soprattutto uno strumento di «comunicazione, informazione e concorrenza» (Giuseppe Sena).

Il brand, infatti, sul finire del Novecento ha progressivamente assunto la conformazione di un vettore, idoneo a veicolare messaggi e suggestioni dall’azienda al consumatore, diventando – prendendo spunto da una celebre decisione giudiziaria– «il significante (strumento di comunicazione) che racchiude e comunica valori, conoscenze, qualità, almeno in parte autonome, rispetto al significato (il prodotto o servizio)« (Tribunale di Napoli, caso Henkel).

Negli anni Duemila il marchio è andato perdendo questa impronta unilaterale e monodirezionale, divenendo per il consumatore un compagno di viaggio per «dichiarare pubblicamente una serie di credo e di valori emblematici» (Douglas Atkin), uno strumento per costruire «un orizzonte di senso che aiuta a rendere più luminosi, o quanto meno più sopportabili, la sua vita quotidiana, le sue ambizioni e i suoi desideri» (Andrea Semprini), un interlocutore in grado di generare «quel fremito di senso, tanto vibrante e vitale da suscitare i nostri meccanismi di proiezione o d’identificazione» (Giampaolo Fabris e Laura Minestroni).

Così, in un saggio del 2015, ho avuto modo di definire il brand come «un Indicatore di Senso, nella duplice accezione di Senso come Direzione e Senso come Significato», sottolineando che esso «sviluppa i suoi effetti sia lungo un versante assiologico, ponendosi a simbolo di un determinato contesto valoriale (Senso come Significato), sia lungo un versante progettuale, fungendo da indicatore di un determinato percorso esistenziale (Senso come Direzione) »(Il Design Crisalide).

La pandemia ha dunque colto il brand in mezzo a un guado, quando aveva già acquisito una centralità dai tratti largamente inediti nella vita delle persone e nell’ambito della società, ma mentre ci si stava ancora interrogando su quali fossero le implicazioni che questa sua nuova realtà avrebbe comportato.

Dopo lo shock del 2020 e l’attraversamento del 2021, il primo vero anno di esperienza piena e consapevole della vita al tempo del Covid, oggi – all’alba del 2022 – possiamo tentare di tirare a riva le reti di qualche ragionamento e provare a delineare i tratti del brand post-pandemia.

All’inizio del 2020, quando il Covid, ancora non aveva invaso le nostre esistenze, diversi studiosi avevano già individuato e descritto alcune tendenze in atto.

Kevin Roose, sul New York Times, aveva posto l’accento su come il rapporto tra brand e consumatore fluisse con una facilità mai vista, «frictionless», senza attrito, interrogandosi sulle conseguenze in termini di privacy e sicurezza e chiedendosi provocatoriamente: «Dall’ordinare una pizza con Just Eat al prenotare una stanza su AirBnb la tecnologia è diventata troppo facile da usare?».

Sulla medesima falsariga, ma in un’ottica decisamente positiva, si muovevano le riflessioni di Giuseppe Stigliano, Ceo di Spring Studios: «Il trend più significativo che percorrerà il 2020 sarà proprio all’insegna di questa semplificazione: siamo arrivati ad uno stadio di maturità del consumatore e delle aziende. Perciò emerge l’esigenza di semplificare, forse frutto di una crescente entropia e di un sovraccarico di stimoli, app, servizi. Questo delirio ci ha portato ad una fase nuova. Abbiamo avuto una sbornia di novità e siamo ad una evoluzione, soprattutto sui mercati più evoluti».

Su questa immediatezza e semplicità dei rapporti tra brand e consumatore, dai tratti largamente indediti, poneva l’accento anche Giuseppe Mayer, di Antifragile: «In questo 2020 […] assisteremo all’affermazione dei contenuti acquistabili sui social media e in particolare su Instagram, che promettono di rendere molto più semplice l’acquisto d’impulso direttamente dal feed. Una funzionalità già disponibile sulla piattaforma e che a breve sarà integrata anche in Italia con il servizio di Checkout che renderà i social una valida alternativa ai market place più noti come Amazon o Shopify».

Il profilo dell’immediatezza caratterizzava profondamente anche l’opinione di Valentino Cagnetta, di Media Italia: «La parola d’ordine di questo 2020 sarà l’instant marketing, con la gestione dei dati più veloce e con una capacità di azione e reazione accelerata rispetto agli ultimi dieci anni. D’altronde le aziende stanno mettendo a sistema l’utilizzo dei dati in modo più strutturato e la velocità è essenziale». Luisa Bagnoli, Beyond International, era lapidaria: «La trasparenza sarà la nuova moneta di scambio, ne sono convinta».

Anche Bruno Bertelli, Publicis Groupe Italia, focalizzava la propria attenzione su questa inedita vicinanza tra cittadino e marchio: «Stiamo vivendo una sorta di umanizzazione del brand e possiamo parlare di “friend brand”: la marca diventa sempre più un’entità fisica e la gente ci si relaziona come se fosse una persona».

Appariva dunque evidente che le distanze tra i brand e i consumatori si erano andate sostanzialmente annullando.

Una tale originale e inesplorata prossimità non poteva non influire sui rapporti tra le persone e i marchi: aumentavano le aspettative degli utenti nei confronti dei loro “friend” brand, chiamati a sempre maggiori assunzioni di responsabilità. Affermava acutamente Bruno Bertelli. «Oggi i brand oltre a parlare devono fare qualcosa di più. Ecco perché parlo spesso di storyacting, associato allo storytelling. Non è più il momento per declamare, ma occorre passare alle azioni, facendo qualcosa di tangibile e partendo dalla sostenibilità».

Già alla vigilia della pandemia, insomma, vi era un’ampia consapevolezza che il rapporto tra il brand e il consumatore stava diventando mano a mano più diretto, più profondo, più personale, più amicale.

Paolo Iabichino, Osservatorio Civic Brands, d’altronde, da tempo spiegava come si dovesse passare da un concetto di Fedeltà a uno di Fiducia: «Non devo più fidelizzare all’acquisto, ma stabilire un rapporto fiduciario con la persona. Quella persona, mi sceglie, mi compra, perché sono credibile e rilevante nei contenuti che offro».

Poi è arrivato lo tsunami del Covid.

Oggi, quando le acque sembra che si stiano sostanzialmente ritirando, malgrado ancora il susseguirsi di nuove ondate pandemiche, pare evidente – guardando al panorama circostante – che la pandemia fondamentalmente ha acuito due trend preesistenti e concomitanti.

Da un lato, i brand erano andati assumendo un ruolo sempre più diretto e centrale nella vita delle persone, diventandone dei veri e propri elementi identitari, atti a segnalarne l’universo valoriale di riferimento.

Come è stato acutamente scritto, «nella nostra contemporaneità il consumo è diventato ontologico. Consumiamo qualsiasi cosa, soggetti e oggetti, ma non per avere qualcosa o fare colpo su qualcuno: è passato il tempo dello shopping per status. Piuttosto consumiamo per essere qualcosa e qualcuno. Per esprimere parti delle nostre identità frammentate e pervase dall’incertezza» (Andrea Fontana).

Dall’altro lato, senza dubbio, il Covid ha portato ad una ridefinizione nella gerarchia dei valori, dei bisogni e delle esigenze, con una maggiore attenzione alle questioni di sostanza ed una più elevata diffidenza verso gli elementi di facciata.

I concetti della sostenibilità (ambientale, economica e sociale) e della CSR (Corporate Social Responsability), per fare due importanti esempi, in breve tempo sono scesi dall’empireo dei discorsi tra tecnici ed iniziati: sono entrati nella vita delle persone comuni, hanno preso posto tra la gente, sono diventati driver fondamentali nelle scelte di acquisto.

Michele Tesoro-Tess, The Reptrak Company, ha recentemente affermato che «viviamo ormai in un’era dove “ciò che sono” è più importante del “prodotto o servizio che offro” […]. La pandemia ha esasperato un trend che era già parte del business, ossia la necessità per le aziende di avere uno scopo nel mondo oltre a vendere i propri prodotti e servizi e a fare soldi».

Il corto circuito tra queste due tendenze può essere telegraficamente riassunto con le celebri parole di Ben Parker, lo zio dell’Uomo Ragno: «From great power comes great responsability», da un grande potere derivano grandi responsabilità.

Il brand, nella tragedia del Covid, ha consolidato la propria straordinaria importanza nella vita delle persone, stringendo con la propria comunità un rapporto eccezionalmente immediato e personale.

Al tempo stesso, i consumatori hanno collocato al centro del proprio universo interiore quelli che possiamo definire i valori più fondamentali dell’esistenza, bandendone – in una certa misura – superficialità, falsità ed esteriorità.

Le aspettative degli utenti nei confronti del brand, conseguentemente, oggi diventano quanto mai alte e sfidanti: le persone dal marchio prescelto si attendono onestà, coerenza, correttezza, trasparenza.

Il concetto che in questa fase meglio identifica il rapporto tra il consumatore e il marchio, a mio giudizio, è: lealtà.

Le persone certamente scelgono il brand per il prodotto che offre, per il messaggio che trasmette, per i valori che sostiene; però poi pretendono onestà e comportamenti conseguenti.

Che il marchio non si limiti ad una narrazione affascinante, ad uno storytelling ammaliante, ma che effettivamente agisca, ed agisca in piena coerenza con l’immagine che ha proposto, con i valori che sostiene di avere abbracciato

Paolo Iabichino, con la consueta lucidità, in una recente intervista si è fatto portatore del punto di vista del cittadino più contemporaneo il brand: «Basta che ti comporti civilmente sul mercato. Mi basta che rispetti le persone che lavorano con te. Che rispetti il consumatore e lo tratti da interlocutore, entri nella dialettica di scambio e non lo consideri un cretino. Mi basta che non sia la crescita l’unico obiettivo che ti poni come impresa».

Lo stesso autore ha cristallizzato questo nuovo approccio dei consumatori, sempre più severi ed esigenti, con parole nette: «La narrazione senza azione non è consentita: abbiamo di fronte pubblici sempre più attenti, critici e consapevoli».

Il brand, dunque, nella società post-pandemia è più che mai chiamato ad un dovere di lealtà verso i consumatori, ad andare oltre la semplice conquista emozionale e la mera intesa emotiva, mettendo in campo azioni concrete, misurabili e condivise.

La lealtà della quale parliamo, si noti bene, non è un mero concetto astratto: essa, anche giuridicamente, configura un concreto paradigma valoriale e comportamentale, che comporta dei veri doveri e deviando dal quale si incorre in effettive sanzioni.

Ha recentemente fatto scalpore una recente pronuncia di un tribunale italiano che, tra i primi in Europa, ha censurato il comportamento di un’azienda che – secondo l’opinione del magistrato (la vicenda giudiziaria è ancora in corso) – aveva comunicato ingannevolmente sul mercato le qualità dei propri prodotti dal punto di vista ambientale, mettendo così in atto una pratica di greenwashing.

Orbene, tale condotta è stata ritenuta censurabile come un formale atto di concorrenza sleale (appunto), ponendo in essere un caso di pubblicità ingannevole e mancando di rispetto ad «un principio generale di verità del messaggio».

È mia opinione che siamo solo agli albori di un nuovo trend, anche giuridico, dalla portata ampia e dal significato profondo, che vedrà al centro i concetti di lealtà, correttezza e verità.

E comunque nessuna condanna giudiziaria potrà mai irrogare alle aziende sleali condanne più pesanti quelle che verranno inflitte dal disappunto, dalla delusione e dall’abbandono da parte dei consumatori.

Così, nella società segnata dal Covid, il brand si avvia a vivere una nuova fase della propria vita: dopo la nascita come Trademark e l’evoluzione in Lovemark (copyright di Kevin Roberts, Saatchi & Saatchi), ecco l’era del Fairmark.




Chi sono e quanto guadagnano i baby influencer

Come ogni anno, Forbes ha pubblicato la lista degli youtuber più retribuiti del 2021. Al primo posto figura il 23enne Jimmy “MrBeast” Donaldson, stuntman e acrobata. Ma i dati più interessanti arrivano scorrendo il sesto e settimo posto, occupati rispettivamente da Nastya, bambina di 6 anni, diventata una star scartando giocattoli (unboxing), e da Ryan Kaji, un influencer di 10 anni che guadagna 30 milioni l’anno.

Ryan diventa un marchio

Ryan, all’anagrafe Ryan Haruto Nguyen, nato nel 2011, è un bambino di origini asiatiche nato da una mamma vietnamita e un papà giapponese. Vive in Texas con la famiglia e nel marzo 2015 ha iniziato a realizzare video su YouTube, stimolato dalle immagini di altri coetanei che sponsorizzavano giochi. La madre ha deciso di lasciareil suo lavoro di insegnante di chimicaal liceo per lavorare a tempo pieno sul canale YouTube del figlio. Un account, Ryan World’s, ricco delle riprese di tutte le attività che può fare un bambino alla sua età: dai pomeriggi al parco giochi a ingenue sfide con amici e parenti.

Nel 2019, un video in cui mostrava un esperimento per dimostrare come le piante e gli alberi potessero catturare acqua dalle radici ha totalizzato 10 milioni di visualizzazioni. Ma le più seguite sono le clip in cui Ryan fa divertenti recensioni di giocattoli e videogiochi, seguite da oltre 26 milioni di iscritti.

Il piccolo è subito diventato una star del web e un marchio: nel 2011 ha anche lanciato un suo brand, Ryan’s World, realizzato in partnership con PocketWatch e Bonkers Toys. Target e Walmart vendono il suo merchandising, durante il Macy’s Thanksgiving Day Parade, una parata annuale a New York, a Ryan è stato dedicato un carro. Il suo nome è su disparati oggetti, vestiti, giocattoli, spazzolini, e anche in tv. Sul canale Cartoonito, conduce il format “Ryan e l’ospite misterioso” in cui, tra prove fisiche e coinvolgimento della famiglia, presenta ogni volta un ospite dal mondo dello spettacolo e dello sport. Tra di loro, anche Dave Grohl della band rock, Foo Fighters

Nastya, dall’unboxing di giocattoli a baby modella

Nastya ha sette anni. Nata in Russia, a Tuapsè, nel Territorio di Krasnodar (1510 chilometri a sud di Mosca) ha una nascita travagliata, segnata da una grave forma di paralisi cerebrale infantile. I medici erano sicuri che la bambina non sarebbe mai stata in grado di camminare e parlare. Invece, Nastya ce l’ha fatta. Da quel momento, la madre e il padre hanno deciso di valorizzare lo spirito recitativo della bambina aprendo un canale su Youtube dedicato all’unboxing di giochi, la pratica di scartare regali in video, molto seguita dai teenager. Ma non solo, perché sul suo account Youtube, seguito da 85 milioni di iscritti, si vedono anche riprese di un viaggio fatto dalla bambina con i genitori.

Durante i 9 mesi, trascorsi tra ThailandiaMalesia e Indonesia, Nastya è inquadrata nei vari momenti della vacanza come una influencer. I video hanno superato il milione di visualizzazione. Per i genitori l’account della figlia è diventato un vero e proprio business che, nel 2021, ha fruttato – secondo Forbes – 28 milioni di dollari. La madre scrive le sceneggiature di storie il cui costo si aggira tra 1.000 e i 2.000 dollari e in cui Nastya indossa capi forniti dai brand, come le scarpe, o è vicina a una macchinaLa prima azienda. a investire sui video della piccola russa è stata una multinazionale del settore alimentare.

La baby influencer italiana

Anche dietro l’account di Gaia Buru Buru, che su Instagram conta più di 30mila followers, c’è dietro la mano della mamma. Mary Ciavotta gestisce la pagina di una delle baby influencer italiane più seguite e racconta: “Ho iniziato a pubblicare sul mio profilo le foto di mia figlia che ricevevano numerosi commenti. Ritraevano foto di Gaia durante lo svezzamento, mentre mangiava una pappina: le gente le ricondivideva”, racconta Ciavotta.

Dopo poco tempo, i follower della pagina di Ciavotta crescevano sempre più. “Le altre mamme mi chiedevano tutto su mia figlia, erano curiose di cosa facesse”, aggiunge. E le aziende non sono rimaste a guardare: “Alcuni brand di pannolini – prosegue la madre della baby influencer – mi hanno chiesto di pubblicare foto di Gaia con i prodotti. Poi sono arrivate altre richieste da diversi marchi”. In quel periodo Gaia aveva solo un anno. Dalla pagina Instagram è poi nato un blog dove vengono dati consigli alle mamme. “Le richieste promozionali sono aumentate, alcune collaborazioni sono gratuite, altre molto remunerative. Gaia è una piccola modella a cui le è stato dato il primo telefonino mentre sedeva nel passeggino”. La bambina frequenterà una scuola di recitazione per “valorizzare – conclude sua madre – la sua capacità espressiva”. 

Dilemmi etici e rischi pedagogici

La signora Ciavotta non sembra farsi alcuno scrupolo a seguire, come se fosse una manager, l’attività social della piccola figlia. Ma per Ivano Zoppi, segretario generale di Fondazione Carolina, ente che si occupa di cyberbullismo e benessere digitale degli adolescenti, si tratta di un fenomeno preoccupante. “Il gioco di un bambino – spiega – è  usato come merce, perché tutto possa diventare denaro, visualizzazioni, like. Quel gioco che dovrebbe essere spensierato, libero, fonte di creatività, strumento per lo sviluppo cognitivo dei bambini, ridotto a conteggio di visualizzazioni. Quel gioco che spesso ci faceva immaginare a cosa volevamo fare da grandi – l’astronauta, il veterinario, il meccanico – oggi si riduce a “voglio fare lo youtuber”.

Ecco che il social, da strumento diventa problema che annulla l’infanzia del bambino e propone, online e non, un modello distorto per la presenza dei minori sul web. Uno scenario artificiale, in grado di fare scuola e creare illusioni, rischiando di spegnere pensiero e creatività; tutti i bimbi schierati davanti allo schermo sognando di essere Ryan. Perché lui ha tanti giochi, e poco importa se non ne vive davvero la gioia”, conclude l’esperto.




META HA REALIZZATO IL SUPERCOMPUTER PIÙ POTENTE AL MONDO PER IL METAVERSO, DA 5 EXAFLOPS

META HA REALIZZATO IL SUPERCOMPUTER PIÙ POTENTE AL MONDO PER IL METAVERSO, DA 5 EXAFLOPS

Con un annuncio pubblicato sul proprio account ufficiale Facebook, Mark Zuckerberg ha comunicato che Meta sta costruendo il più grande supercomputer per l’intelligenza artificiale al mondo, per alimentare la ricerca sull’apprendimento automatico che darà vita al Metaverso su cui sta puntando Meta.

Il Research Super Computer (RSC), questo il nome del supercomputer, conterrà 16.000 GPU NVIDIA A100 e 4.000 processori AMD Epyc Rome 7742. Ogni nodo di calcolo sarà basato sul sistema NVIDIA DGX-A100 contenente otto chip GPU e due microprocessori Epyc, per un totale di 2.000 nodi.

Secondo le previsioni, RSC raggiungerà un picco di prestazioni di 5 exaFLOPS con mixed precision FP16 ed FP32, e sarà in grado di gestire 16 terabyte di informazioni al secondo con un massimo di 1 EB di storage.

Lo sviluppo, ha spiegato Zuckerberg, sta avvenendo insieme a Penguin Computing, che fornirà l’infrastruttura e si occuperà di sicurezza. “Lo chiamiamo RSC per AI Research SuperCluster e sarà completato entro la fine dell’anno. Le esperienze che stiamo costruendo per il metaverso richiedono un’enorme potenza di calcolo – quintilioni di operazioni al secondo – e RSC consentirà nuovi modelli di intelligenza artificiale in grado di apprendere da trilioni di esempi, ma potrà comprendere centinaia di lingue e altro ancora” ha spiegato il CEO di Meta in una dichiarazione rilasciata a The Register.

L’RSC è già esistente, ma in una forma meno potente e si ferma a 1.895 PFLOPS di prestazioni TF32. Attualmente è composto da 760 chip invidia DGX-A100 contenenti 1.520 processori AMD Rome 7742 e 6.080 GPU, ognuna delle quali collegata tramite Quantum InfiniBand di NVIDIA che può trasferire i dati a 200 gigabyte al secondo. Nel corso dell’anno però saranno aggiunti sempre più nodi per raggiungere la potenza annunciata da Meta.

Secondo le stime degli esperti, il nuovo supercomputer sarà 9 volte più veloce del precedente cluster di ricerca di Meta, composto da 22.000 GPU V100 di vecchia generazione, e sarà 20 volte più veloce degli attuali sistemi che si occupano dell’intelligenza artificiale.FONTE:THE REGISTER

Meta ha realizzato il supercomputer più potente al mondo per il metaverso, da 5 exaFLOPS



Se il greenwashing contamina anche gli indici ESG

Se il greenwashing contamina anche gli indici ESG

La cavalcata trionfale della finanza ESG (cioè quella che prende in considerazione le istanze ambientali, sociali e di governance) è senza dubbio una buona notizia. Perché fa passare un messaggio ben chiaro: chiunque, dall’asset manager che smuove miliardi al risparmiatore che ha messo da parte qualche migliaio di euro, ha una responsabilità nei confronti del Pianeta. E può esercitarla con le sue scelte di investimento. Ora che pressoché tutti i grandi nomi cercano di salire sul carro della sostenibilità, però, all’orizzonte si profila un rischio molto concreto. Quello di annacquare gli indici ESG fino a farci finire un po’ di tutto, dai fast food alle banche che finanziano il petrolio.

Quando l’ESG diventa un fattore competitivo

Ormai qualsiasi banca o società di gestione del risparmio propone una o più linee di prodotti finanziari ESG. C’è chi lo fa per sincera vocazione e chi, semplicemente, perché sono i clienti a chiederlo. La Global Sustainable Investment Alliance (GSIA), nel suo ultimo report relativo al 2020, parla di un mercato da 35mila miliardi di dollari tra Usa, Canada, Giappone, Oceania ed Europa. Secondo Bloomberg, a livello globale si arriverà a 53mila miliardi entro il 2025: è come dire che un dollaro su tre sarà investito secondo criteri ambientali, sociali e di governance.

A leggere gli studi allarmanti sulla crisi climatica in corso e sulle disuguaglianze che spaccano in due la società, però, c’è qualcosa che non torna. Ad ammetterlo è lo stesso Eurosif, il Forum europeo per gli investimenti sostenibili e responsabili: «Nonostante una crescita astronomica degli investimenti sostenibili e responsabili (SRI) e delle iniziative legate alla sostenibilità negli ultimi anni, la scienza ci dice che le condizioni della Terra sono in peggioramento», scrive nel suo ultimo studio. Lanciando un messaggio ben preciso: non è più sufficiente mettere l’etichetta «sostenibile» sui propri investimenti. Bisogna anche saper garantire che le strategie adottate abbiano un’efficacia tangibile sul mondo reale.

Come vengono composti gli indici ESG

Per indagare su questo apparente paradosso, è il caso di chiedersi come si crea un fondo sostenibile. I colossi della finanza, da BlackRock in giù, spesso e volentieri si affidano agli indici ESG, composti da titoli di emittenti che dimostrano elevate performance ambientali, sociali e di governance. Esistono dunque società che si occupano di assegnare un rating ESG alle aziende, un po’ come fanno le tradizionali agenzie di rating quando valutano la loro solvibilità e solidità. Con una fondamentale differenza.

Le Big Three del rating, cioè Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s, bene o male, danno punteggi molto simili o addirittura identici, perché si basano su dati finanziari standardizzati. Al contrario, ogni agenzia di rating ESG usa la sua metodologia proprietaria, i suoi algoritmi e i suoi criteri per passare in rassegna una serie di informazioni non finanziarie che, in molti casi, sono fornite dalle imprese stesse. Di conseguenza, nulla vieta che un’azienda riceva score totalmente diversi a seconda di chi la valuta.

Lo strapotere di MSCI

C’è un nome che domina incontrastato nel campo degli indici ESG: è quello di MSCI. La società newyorkese ha cinquant’anni di storia alle spalle ma ha vissuto la sua vera svolta nel 2019, quando Henry Fernandez – che ne è presidente e amministratore delegato da due decenni – ha annunciato in pompa magna che la sua missione, da allora, sarebbe stata quella di «aiutare gli investitori globali a costruire portafogli migliori per un mondo migliore». Proprio in un momento storico in cui le big della finanza vanno a caccia di opportunità per etichettare come «verdi» e «sostenibili» i propri prodotti, MSCI offre loro esattamente ciò di cui hanno bisogno.

Il business è fiorente, come dimostrano i suoi 1,6 miliardi di dollari di fatturato nel 2020. D’altra parte, si stima che il 60% del denaro investito in modo sostenibile dai risparmiatori sia finito in un fondo costruito grazie agli indici ESG di MSCI. Il calcolo è di Bloomberg Businessweek che, pur essendo indirettamente collegato alla stessa MSCI (la capogruppo Bloomberg LP ne è competitor per alcuni servizi e partner per altri) le dedica un articolo di fuoco.

https://twitter.com/Ian_Fraser/status/1482297380703805440

Premiate le performance ambientali di… McDonald’s

Sulle 500 società statunitensi a maggiore capitalizzazione, ben 155 si sono meritate un upgrade (cioè un aumento di rating) da parte di MSCI tra gennaio 2020 e giugno 2021. I giornalisti di Bloomberg sono andati a controllare questi casi uno per uno. Scoprendone alcuni che destano qualche perplessità.

Tra i promossi per esempio c’è nientemeno che McDonald’s. Nel 2019 ha generato oltre 54 milioni di tonnellate di gas serra, più di Stati come il Portogallo o l’Ungheria. Emissioni che per giunta sono aumentate del 7% nell’arco di quattro anni; per la precisione, calano quelle dei ristoranti (Scope 1) e dell’energia acquistata (Scope 2), ma quelle legate alla filiera (Scope 3) viaggiano su un ordine di grandezza nettamente superiore e continuano ad aumentare. D’altra parte, per portare sul piatto un solo etto di carne bovina si emettono fino a 6 chilogrammi di CO2, contro i 90 grammi di un etto di piselli. E non c’è alcuna altra catena di ristoranti che si avvicini nemmeno lontanamente a McDonald’s, in termini di quantità di hamburger sfornati ogni singolo giorno. Eppure, il gigante dei fast food è stato premiato per le sue performance ambientalipassando da BB a BBB. Cioè perfettamente nella media, su una scala che va da un minimo di CCC a un massimo di AAA.

È troppo facile finire negli indici ESG

Com’è possibile? È la stessa MSCI a metterlo bene in chiaro. Il rating, spiega, «è progettato per misurare la resilienza di un’azienda ai rischi ambientali, sociali e di governance (ESG) a lungo termine del settore». In altre parole, MSCI non valuta l’impatto dell’azienda sul Pianeta bensì l’opposto, cioè l’impatto che le questioni ESG hanno – o avranno – sul suo modello di business. Nel caso di McDonald’s, ha semplicemente ritenuto che l’aumento delle emissioni non incida sul futuro dell’azienda. Escludendolo, così, dal proprio processo di calcolo. Questo meccanismo fa sì che, su tutti gli upgrade esaminati, soltanto uno sia dovuto al taglio delle emissioni. Uno su 155.

ristorante mcdonald's
Un ristorante di McDonald’s © Amandine Lerbscher/Unsplash

Questa è la prima, macroscopica falla messa in luce dall’approfondimento di Bloomberg. Ma non è l’unica, perché il diavolo sta nei dettagli. Tra i criteri per la promozione di McDonald’s, per esempio, c’è anche l’installazione di bidoni per la raccolta differenziata nei ristoranti statunitensi e francesi. Peccato però che siano obbligatori per legge. È qualcosa che capita molto spesso soprattutto nella dimensione della governance, a cui è legato addirittura il 42% degli upgrade. Ben 51 aziende hanno guadagnato punti per aver adottato policy contro la corruzione, procedure antiriciclaggio o altri codici etici con cui – di fatto – non fanno altro che impegnarsi a rispettare le normative vigenti.

Ottimi voti anche per le banche nemiche del clima

Insomma, i voti appaiono un po’ troppo generosi. Anche perché le aziende sono messe a confronto con i competitor del loro settore, partendo dal presupposto per cui la media sia BBB. Nel vocabolario di Wall Street mutuato dalle agenzie di rating, BBB equivale a investment grade, cioè a un rischio accettabile (al di sotto di questo punteggio si ricade negli investimenti speculativi). In pratica è come dare per scontato che l’azienda-tipo meriti a prescindere un “6 politico” in materia di sostenibilità.

Per avere la prova del nove si può svolgere un altro esercizio. Il report “Banking on climate chaos” ci svela che, tra il 2016 e il 2020, sessanta grandi banche hanno concesso 3.800 miliardi di dollari alle compagnie attive nel comparto di carbone, petrolio e gas. Questo dopo la firma dell’Accordo di Parigi con cui la comunità internazionale si è impegnata a mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, facendo tutto il possibile per non superare gli 1,5 gradi.

L’americana JP Morgan Chase, da sola, ha stanziato un terzo di tale somma. Stiamo parlando di 317 miliardi di dollari, il doppio del Pil dell’Ungheria. Ecco, secondo MSCI JP Morgan Chase si merita una bella A ed è in linea con gli obiettivi internazionali sul clima. Promosse anche la seconda e la terza in classifica, Citi (238 miliardi investiti nelle fossili e un rating di A) e Wells Fargo (223 miliardi e un rating di BB), seppure con osservazioni più critiche in merito al clima. Certo, se nemmeno foraggiare le fossili a suon di miliardi è sufficiente, viene da chiedersi cosa si debba fare per essere esclusi dagli indici ESG.




False dichiarazioni in campo ambientale e sociale: una violazione al pari del falso in bilancio?

False dichiarazioni in campo ambientale e sociale: una violazione al pari del falso in bilancio?

Lo straordinario lavoro di Porter, Serafeim e Kramer dal titolo “Where ESG fails”, pubblicato sulla rivista Institutional Investor un paio d’anni fa, confermò da un lato che è fuori discussione l’opportunità di una maggiore crescita in termini di redditività e vantaggio competitivo derivanti dall’inserimento di preoccupazioni di carattere etico, sociale e ambientale, come parte integrante dei piani strategici di un’azienda; dall’altro lato, cosa a mio avviso più interessante, sollecitò l’attenzione sui limiti intrinsechi del modello “ESG – Enviromental, Social and corporate Governance”, tanto di moda negli ultimi anni, al centro di crescenti speculazioni da parte dei professionisti che vendono a caro prezzo consulenza per poter ottenere le ambite certificazioni, delle quali aziende medie e grandi – in preda a una specie di bulimia compilativa tipica del framework americano – paiono non poter più fare a meno.

Opinione attualmente diffusa vuole che le società che hanno posizioni migliori in classifica sulla base di metriche ESG, otterranno – già solo per questo – migliori rendimenti per gli azionisti: questa convinzione secondo Porter è semplicemente errata, “è basata su un castello di carte, un gigante dai piedi d’argilla”.

E a poco serve citare il celebre lavoro di Eccles ad Harvard, ampiamente validato da evidenze scientifiche inconfutabili: esso, infatti, è basato sul fare, non solo sul classificare, prova ne sia che aziende in alta posizione nelle classifiche ESG non necessariamente garantiscono over-performance agli investimenti, né tantomeno un profilo di sostenibilità più elevato, per motivi che ho ben dettagliato in un mio recente intervento a un webinar organizzato dall’analista finanziario indipendente Alfonso Scarano.

Senza tema di smentita, mi sento di affermare – come già sostenuto dai colleghi – che i modelli basati sugli indici ESG sono centrati su uno sguardo del tutto generale, avulso dal particolare, e che può generare effetti imprevisti e preoccupanti: si tratta in poche parole di una vera e propria mania classificatoria, l’ennesima, tipica del mondo anglosassone. Ad esempio, l’impatto ambientale di una banca non è necessariamente rilevante per la sua performance economica: una corretta politica di contenimento delle emissioni nocive in atmosfera otterrebbe un alto punteggio sugli indici ESG, ma non influenzerebbe significativamente le emissioni di carbonio globali; al contrario, l’emissione da parte della banca di prestiti subprime che i clienti non saranno in grado di ripagare, o peggio la commercializzazione di titoli tossici, potrebbe avere devastanti conseguenze sociali e finanziarie, come le cronache di pochi anni fa hanno dimostrato. Nonostante ciò, il reporting ESG ha dato credito alle banche per la prima questione e, allo stesso tempo, ha tralasciato colpevolmente – o dolosamente? – la seconda.

E non è molto differente in altri settori: Volkswagen prima dello scandalo del Dieselgate era prima in molte classifiche di RSI e ESG; e Jeff Bezos, con il suo Bezos Earth Fund, ha deciso sì di destinare 10 miliardi di dollari a borse di studio e finanziamento di idee sulla sostenibilità (senza peraltro curarsi di verificare poi il buon fine dei progetti finanziati), ma ben si guarda dallo spendere un solo dollaro per migliorare realmente i processi di sostenibilità all’interno del proprio colosso imprenditoriale.

L’ammontare delle somme in gioco è assai goloso anche sul fronte della raccolta degli investimenti: degli 800 miliardi previsti dal piano Next Generation UE, ben il 30% dovrà essere reperito mediante emissioni “green”. La normativa europea per il controllo di questo mercato esiste, pur in fase di aggiornamento, ma, come denunciato da diversi affidabili analisti e osservatori, non pare sufficiente a evitare il rischio di politiche scorrette e di ecologismo di facciata, con il risultato che le aziende e i fondi sulla carta più virtuosi grazie appunto alle certificazioni ESG potrebbero essere quelli in grado di raccogliere più investimenti, sulla base semplicemente di una migliore capacità di narrazione del loro – del tutto presunto – basso impatto ambientale e sociale.

Morale: l’adozione diffusa del reporting ESG ha, come effetto indiretto, l’aver “tranquillizzato” gli investitori e i cittadini, ma, al contempo, ha distratto le aziende dall’attrezzarsi per causare un impatto sociale rilevante riguardo alle questioni realmente centrali per i propri business: come se, assolti gli obblighi ESG, si potesse tirare un respiro di sollievo, con la certezza di aver fatto bene “i compiti a casa”.

Come convincere allora gli investitori a uscire dalla zona di confort di un sistema di classificazione standard, che non inserisce nell’equazione il tema dell’autenticità, ma solo quello degli ESG come adempimento sterilmente burocratico?

Una risposta in linea con la dottrina del reputation management richiederebbe che le aziende comunichino e misurino rigorosamente le metriche quantitative concrete che collegano direttamente i fattori sociali con la performance economica, abbandonando un approccio rigido e schematico quale quello tipico degli ESG. Ad esempio, una società d’investimento non può delegare la considerazione delle questioni sociali e ambientali a un singolo analista ESG in modalità ex post, al termine del processo di analisi, solo mediante un visto di conformità: l’intero team d’investimento dovrebbe combinare la comprensione dei fattori e dell’impatto sociale con la competenza finanziaria e industriale, ad esempio inserendo esperti in questioni ambientali e sociali all’interno dei team che valutano gli investimenti.

Un’altra risposta, nel cui contenuto credo profondamente, è quella di stimolare le istituzioni a applicare il già esistente regime sanzionatorio previsto per le Dichiarazioni Non Finanziarie (DNF, normate dal D.Lgs. n. 254/2016) in caso di violazioni nel processo di accountability delle imprese, specie laddove esse includano palesi violazioni del principio di fiducia verso gli stakeholder. La normativa attuale prevede un regime sanzionatorio applicabile in questi casi (per la precisione da 25.000 a 150.000 euro, a seconda dei casi).

Consob accompagna le aziende interessate a pubblicare una DNF – od obbligate per legge a farlo – con un’apprezzabile progetto pluriennale, che inizia a dare i primi risultati, seppure con ampi margini di miglioramento, e negli ultimi 3 anni ha pubblicato una rendicontazione a riguardo (qui i report in originale, dal 2018 ad oggi). L’impegno dei funzionari Consob è particolarmente rivolto, nel corso dell’attività di vigilanza, a sollecitare alle aziende verso cambiamenti strategici e riflessioni su eventuali non compliance, e nei rapporti pare essere dedicata particolare attenzione ai comportamenti – anche dei Consigli di Amministrazione – relativi alla qualità del processo di materialità.

Lato ammende, invece, non si ha alcuna notizia: pare che l’impianto sanzionatorio, che pure esiste, non sia mai stato applicato, in una specie di moratoria di fatto, forse in ossequio a una precisa strategia che prevede l’applicazione di una pressione crescente sulle aziende, o per altri motivi non dichiarati, o ancora – osservano alcuni commentatori – a causa dell’assenza di risorse professionali adeguate a esercitare una concreta ed efficace azione di controllo da parte appunto della Consob, che dovrebbe effettuare l’accertamento e l’irrogazione delle sanzioni sulla base di verifiche effettuate a campione, delle quali però, paradossalmente, la relazione annuale della Consob stessa non riporta alcunché, con il risultato che chi dovrebbe vigilare sulla corretta rendicontazione non rendiconta a sua volta, o rendiconta solo parzialmente.

In quest’ottica, la giustizia italiana ci sta mettendo del suo: è recente la prima condanna a carico di un’azienda per pubblicità scorretta in campo ambientale. A quando allora il reato di Greenwashing nelle comunicazioni sociali obbligatorie in campo ESG, e – perché no – in quelle facoltative?

Come insegnano la storia dell’economia aziendale, della ragioneria e del diritto, senza sanzione non esiste norma efficace, ed anche quando è prevista una sanzione, in assenza di applicazione puntuale della stessa le violazioni si moltiplicano. Le trasgressioni del patto etico e di trasparenza che dovrebbe legare aziende e stakeholder verranno finalmente, prima o poi, considerate alla stessa stregua dei falsi in bilancio?