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Lo spettacolare disastro di Chanel su TikTok

Lo spettacolare disastro di Chanel su TikTok

immaginate spendere più di 800 dollari (825 per la precisione) per un calendario dell’avvento, magari del vostro marchio preferito, e ritrovarci dentro un paio di campioncini, qualche sticker (con il logo!), un braccialetto e un sacchetto (sempre con il logo!) di quelli che si usano per incartare le borse, le scarpe o i profumi costosi, ma senza le borse, le scarpe e i profumi costosi, chiaramente. Immaginate di essere una ragazza che sta su TikTok e di trasformare questa piccola grande delusione, il vostro battesimo nel mondo del lusso, probabilmente la prima volta che acquistate qualcosa di prezioso o presunto tale, in una serie di video (ben otto) che esprimono il vostro dispiacere e incredulità, ma anche tutto il sano trolling di cui sono capaci le generazioni digitali. È andata più o meno così per Elise Harmon, tiktoker californiana che questa settimana si è ritrovata suo malgrado al centro di una polemica che ha coinvolto Chanel e il suo ormai celebre calendario dell’avvento, grazie alla sua video-recensione che ha collezionato più di 50 milioni di visualizzazioni sulla piattaforma. «Sono pazza? Non ho mai visto un calendario dell’avvento di Chanel, vediamo se vale l’hype», dice la ragazza che evidentemente, prima di acquistare il calendario a forma di bottiglia di Chanel N°5 realizzato per celebrare il centenario della fragranza, non aveva controllato cosa ci fosse dentro (sul sito era possibile farlo, ma perché rovinarsi la sorpresa? Appunto).

@eliseharmon

 

Worth the hype? Probably not but it is pretty

♬ It’s Beginning to Look a Lot like Christmas – Michael Bublé

Risultato: erano perlopiù sciocchezzuole pensate apposta per glorificare il logo dalla doppia C e tutto il suo immaginario e allo stesso tempo per permettere, a chi non ha i soldi per comprare una borsetta, di possedere almeno il sacchetto che di solito la contiene. Il trucco più vecchio dei marchi del lusso, quello che una volta si chiamava brand extension, lo stesso che oggi porta i brand a sperimentare nel metaverso o negli universi dei videogiochi, un escamotage utilissimo a crescere una nuova generazione di consumatori che in questo modo si abituano a considerare quel determinato logo, tramite la sua estensione, qualcosa di desiderabile. Se non fosse che questi nuovi consumatori sono cresciuti sui social e sono piuttosto schizzinosi, e volubili, nello scegliere cosa merita la loro venerazione: Chanel, mi stai prendendo in giro? C’è poi anche il fatto che pochi possono permettersi di essere sfacciatamente ricchi sui social. Se hai comprato un oggetto di lusso e te ne stai vantando online, è opportuno che qualcosa vada storto, così tutt* insieme possiamo prendercela con i veri cattivi: i marchi da ricchi.

In uno dei suoi video, mentre i suoi follower continuavano ad aumentare, Harmon dice di essere stata bloccata dall’account ufficiale di Chanel su TikTok, che però non esiste, cioè c’è, ma è inattivo e impostato come profilo privato, così gli appassionati della saga del calendario dell’avvento si sono riversati, arrabbiatissimi, per chiedere giustizia sull’Instagram del marchio, quasi 48 milioni di follower, proprio mentre quelli erano occupati a promuovere la sfilata Métiers d’Art che si teneva a Parigi lo scorso 7 dicembre. A nessuno di questi commentatori fregava niente della sfilata, e tanto meno dei video pensati per raccontarla, volevano solo sapere perché il calendario dell’avvento da 825 dollari aveva solo un paio di campioncini e qualche adesivo, Chanel deve rispondere.

Come riporta Vanessa Friedman sul New York Times, nonostante non ci sia stata una risposta ufficiale del marchio all’incresciosa vicenda, Gregoire Audidier – che è International Communication and Client Experience Strategy Director di Chanel Fragrance and Beauty – ci ha tenuto a specificare in una mail che no, loro non hanno mai bloccato nessuno su TikTok, neanche la fastidiosa signorina del calendario dell’avvento (attenzione, non è una traduzione letterale), perché il loro «non è un account attivo e non è stato mai pubblicato nessun contenuto sulla piattaforma», aggiungendo anche che il marchio si sarebbe impegnato a «condividere le nostre creazioni con i nostri follower su tutti i social network su cui siamo attivi. Le nostre pagine sono aperte a tutti e i nostri follower sono liberi di esprimere i propri sentimenti e le proprie opinioni, siano esse entusiaste o critiche». Il che potrebbe significare che Chanel non sbarcherà tanto presto su TikTok o magari che sta già lavorando con la stessa Hermon a una serie video con cui ribaltare la débâcle del maledettissimo calendario dell’avvento, e riconquistare così il favore della Generazione Z. A dire la verità, più di un mese fa erano stati i clienti cinesi ad accorgersi che questo calendario era un po’ una mezza pippa e se ne erano lamentati anche loro, come riporta JingDaily, come spesso succede da quelle parti, dove le collaborazioni e le attivazioni speciali dei brand, che siano anniversari o collezioni pensate per le festività cinesi, sono sempre sotto scrutinio da parte di un consumatore medio che, a differenza di Harmon, è tutt’altro che estraneo al lusso.

Ma perché tanto risentimento per un oggetto di questo tipo? Cosa rende un prodotto virale in questo momento storico, nel bene e nel male? Le ipotesi sono molteplici, a partire dal fatto che sì, il calendario di Chanel era effettivamente costoso per quello che offriva – il prezzo dei calendari degli altri marchi si aggira tra i 300 e i 500 dollari in media – ma era anche la prima volta che la maison francese ne realizzava uno, e si sa che tipo di attaccamento c’è, nell’utente medio di internet più che nel consumatore finale vero e proprio, verso il logo di Chanel. Quell’attaccamento, quella desiderabilità, è ora un’arma a doppio taglio, perché se c’è una cosa che i social ci hanno insegnato è che, qualsiasi cosa si pubblichi, ci sarà sempre qualcuno scontento. L’episodio, intanto, ha generato una discussione sulla piattaforma su cosa significa oggi “lusso”, come dimostra il delizioso video realizzato da Charles Gross, 26enne appassionato di moda con una voce che meriterebbe un podcast, che in risposta a Bryanboy – il quale sosteneva che in questi casi si paga il brand e non il contenuto – ha parlato di qualità, di aspettative e standard. Una diatriba in realtà piuttosto vecchia, ma che oggi si riformula grazie al potere di espressione di cui ogni consumatore, abituale o no, esperto o no, sincero o no, gode sui social: ci sarà sempre una Elise Harmon per ogni Chanel.




Consob, stabile in numero di società che pubblica la DNF, ma cresce il ruolo dei Cda sui temi ESG

Consob, stabile in numero di società che pubblica la DNF, ma cresce il ruolo dei Cda sui temi ESG

Nel 2020 il numero di società che ha presentato una Dichiarazione non finanziaria (DNF) è rimasto invariato rispetto al 2019 a 151, ma è aumentata la loro consapevolezza sui temi ESG e il loro impegno nell’attuazione e nell’integrazione nelle strategie aziendali anche con il coinvolgimento dei consigli di amministrazione. Sono questi i risultati dell’analisi effettuata dalla Consob sulla rendicontazione non finanziaria delle imprese, con l’obiettivo di valutare i comportamenti delle società quotate che possono segnalare progressi nel processo di trasformazione culturale legato alla considerazione dei fattori ESG nella definizione dei modelli di business, dei piani operativi e della corporate governance.

Un quadro che indica un miglioramento dell’integrazione dei fattori ESG nelle strategie delle società quotate a piazza Affari, come sintetizza il “III Rapporto CONSOB sulla rendicontazione non finanziaria delle società quotate italiane”, presentato dal Commissario Consob Carmine Di Noia in un webinair in cui è stato anche fornito il risultato di una surveysulla “Consapevolezza degli amministratori verso i temi ESG” realizzata da Nedcommunity, l’associazione italiana degli amministratori non esecutivi e indipendenti, su board leadership e business sostenibile.

Il report parte dall’analisi dei documenti pubblicati dalle società come DNF, concentrandosi sulle informazioni concernenti l’analisi di materialità, e sui Piani strategici presentati agli investitori con l’obiettivo di comprendere, come rileva Giovanna Di Stefano, Consob, se l’informativa non finanziaria possa giocare un ruolo come leva di trasformazione. Nel 2020, le società con azioni ordinarie quotate sull’MTA che hanno pubblicato una DNF sono 151, incluse 3 imprese non obbligate. In continuità con gli anni precedenti, la maggior parte delle imprese ha pubblicato la sola DNF (137 casi), anche attraverso un Bilancio di Sostenibilità.

Undici società (9 nel 2018) hanno integrato l’informazione finanziaria con le informazioni non finanziarie richieste dalla disciplina, mediante rispettivamente un Rapporto Integrato (8 casi), un Rapporto Integrato insieme a un Rapporto di sostenibilità (2 casi) e la diffusione di un Rapporto Integrato in aggiunta alla DNF (in 1 caso). Inoltre 3 società hanno pubblicato, oltre alla DNF, un Rapporto di sostenibilità. Nel complesso, il 22% delle DNF sono state incluse nella relazione sulla gestione delle imprese.

Fonte: Consob

Quanto al coinvolgimento degli organi di amministrazione nelle tematiche di sostenibilità si nota un incremento della partecipazione del cda. Il numero di società che ha coinvolto il board nell’analisi di materialità è aumentato a 39 società, dalle 21 del 2019. Inoltre sono state 32 quelle che nel 2020 hanno fatto formazione del board attraverso specifiche sessioni di induction su temi di sostenibilità, contro le 28 del 2019, anche se non viene dettagliato il grado di approfondimento.

Inoltre, come sottolinea Angela Ciavarella, Consob, tra le imprese che pubblicano la DNF, ben 73 società hanno costituito un comitato di sostenibilità, con un incremento significativo rispetto alle 54 nell’anno precedente. In particolare 6 imprese hanno istituito uno specifico comitato, mentre 70 hanno assegnato le funzioni in materia di sostenibilità a un comitato con altre competenze, in prevalenza nell’area controlli e rischi.

Ma quando si tratta di attuare le dichiarazioni di intenti, come le aziende integrano i valori ESG nelle strategie? I temi non finanziari e obiettivi di lungo periodo sono stati citati in 28 casi all’interno di Piani Strategici presentati alla comunità finanziaria (su un totale di 59 società), gli SDGs dell’Onu sono ricordati in 15 casi7 società hanno integrato le considerazioni finanziarie e non finanziarie, 1 società ha indicato la materialità come elemento della pianificazione strategica.

Anche i board utilizzano in misura maggiore le tematiche non finanziarie come parametro di riferimento. Elementi ESG sono richiamati in 19 linee guida del board uscente su 50 (38% dei casi vs il 21% del 2018); in 37 autovalutazioni del board (13 nel 2018) e in 32 programmi di induction. I temi più citati sono la sostenibilità in generale e l’innovazione digitale; emergono anche nuove voci relative all’ambiente e alle relazioni con gli stakeholders.

Fonte: Consob

I fattori non finanziari sono inoltre entrati a pieno titolo nei parametri per definire le politiche di remunerazione degli amministratori e dei manager. E’ quasi raddoppiato a 63 società il numero di quelle che correlano la remunerazione dei CEOs a fattori ESG (33 nel 2018), in 53 casi per valutazioni di breve periodo e 29 casi di lungo periodo. La quota di compensi legata a variabili ESG è in media pari al 17% per quanto riguarda le remunerazioni di breve, mentre è del 16% la media di quelle legate a fattori ESG lungo periodo.

Le remunerazioni parametrate a obiettivi sostenibili sono presenti in prevalenza nelle società di maggiori dimensioni, 27 casi per il Ftse Mib e 16 per il Mid Cap. Le imprese finanziarie prevedono parametri ESG in 17 casi, contro i 34 casi de settore industriale e i 12 casi dei servizi. I compensi sostenibili sono più frequenti nelle società a controllo pubblico. Nel breve periodo i compensi sono in prevalenza legati a fattori sociali (34 casi) mentre nel lungo periodo prevalgono i fattori ambientali. 

Fonte Consob

Livia Piermattei, Methodos e NedCommunity, ha presentato un’analisi focalizzata sui consigli di amministrazione per valutare consapevolezza, coinvolgimento, percezioni e aspettative dei membri degli organi di amministrazione e controllo in merito ai profili non finanziari. La ricerca evidenzia come il 76% dei rispondenti, in crescita rispetto al 41% dello scorso anno, sia pienamente convinto che le strategie integrate ESG abbiano un un impatto positivo sulla performance finanziaria.

L’81% dei rispondenti ritiene che gli amministratori indipendenti dovrebbero svolgere un ruolo attivo nell’integrazione degli ESG nelle strategie di lungo periodo, tuttavia solo il 59% dei rispondenti ritiene che in realtà lo facciano. La quota di rispondenti (52%) che ha descritto orientamenti “leading”, proattivi del Cda sulle strategie di lungo termine, è per la prima volta superiore alla quota “lagging” (36%)

Fonte: Nedcommunity survey-Consob

Sara Lovisolo di Borsa Italiana, nella sua presentazione “Reporting di sostenibilità di nuova generazione: Verso la costruzione di una “Equity story” di lungo termine?”, ha identificato i trend più importanti a livello internazionale legati al tema del reporting di sostenibilità. Il primo trend è quello legato a un processo di reporting che si è trasferito da rendicontazione di input a risultati e impatti. Il secondo trend identifica il focus dei mercati su informazioni forward looking. Il terzo trend è quello legato alla standardizzazione.




L’agricoltura è più sostenibile grazie al digitale

L’agricoltura è più sostenibile grazie al digitale

Il comparto agricolo è stato per lunghi anni la principale voce di spesa e di finanziamento (attraverso la Politica Agricola Europea) della CEE prima e dell’Unione Europea poi.

Col passaggio di investimenti, interessi e occupati da questo ad altri settori come quelli facenti parte del secondario e, ancora di più del terziario e del terziario avanzato, l’agricoltura ha progressivamente perduto parte significativa della sua importanza rimanendo però per molti paesi, tra cui l’Italia, un punto di eccellenza e di riferimento per l’intero sistema produttivo.

Attualmente, anzi l’industria primaria e quella dei servizi potrebbero contaminarsi reciprocamente. Con la rivoluzione digitale, infatti, vi è la possibilità di rilanciare un settore attraverso la congiunzione di una delle più antiche attività umane con le tecniche produttive più avanzate e innovative.   

Anche in questo caso, come spesso accade quando ci troviamo di fronte ad una fase di rottura tecnologica e culturale, vi è il confronto fra tradizione e innovazione che però potrebbe portare a significativi sviluppi positivi per tutto il genere umano.

L’innovazione digitale in agricoltura è, soprattutto, un grande incentivo al miglioramento della competitività e, come tale, richiede un approccio adeguatamente consapevole delle necessità di un sistema tecnologico più orientato alla concorrenza sul mercato e più attento al soddisfacimento dei consumatori. Il mercato agricolo 4.0 nel 2020 è valso per l’Italia circa 540 milioni (circa il 4% del mercato globale), registrando una crescita del 20% rispetto all’anno precedente, in linea con l’andamento pre-pandemia.

La spesa è trainata dalle soluzioni di Agricoltura di Precisione – gli strumenti a supporto delle attività in campo – come i sistemi di monitoraggio e controllo di mezzi e attrezzature (36% del mercato), ed i macchinari connessi (30%). Sono 538 le soluzioni di Agricoltura 4.0 disponibili per il settore agricolo in Italia (oltre 100 in più rispetto al 2019), che usano prevalentemente sistemi di Data Analytics, piattaforme o software di elaborazione e Internet of Things, e trovano applicazione nelle fasi di coltivazione, semina e raccolta dei prodotti in diversi comparti, fra i quali emergono l’ortofrutticolo, il vitivinicolo e il cerealicolo.

I fattori che frenano la crescita sono, tuttavia, diversi, tra questi vi è anche l’assenza di connessione internet nelle campagne e la mancanza di adeguate infrastrutture a sostegno delle attività più avanzate. Il problema relativo alle infrastrutture è piuttosto diffuso in Italia e riguarda anche altri contesti oltre a quello agricolo.

A questo proposito, tutto il nostro Paese necessiterebbe di un piano strutturato relativo alle connessioni veloci indirizzato a coprire l’intero territorio nazionale in maniera capillare, dando seguito all’assioma secondo il quale una connessione internet efficiente è a tutti gli effetti anche uno strumento di cittadinanza.

Come in tanti altri poi, vista anche la sua enorme versatilità, la blockchain rappresenta un capitolo importante per quanto riguarda il settore agricolo, in particolare, per quanto concerne la possibilità di raccogliere, registrare, analizzare, validare e certificare in modo sicuro dai, informazioni e documentazione relativa ad ogni fase dalla supply chain attraverso le sue numerose sfaccettature.

Le tecnologie geo-spaziali possono fornire una connessione importante tra mondo digitale e mondo reale fornendo una più vasta e globale capacità di analisi, che si avvale di una visione complessiva dei fenomeni in corso, mantenendo la possibilità effettuare più minuziosi esami.

Il mercato agricolo italiano, insomma, ha un enorme potenziale di crescita e sviluppo, soprattutto grazie all’intervento della tecnologia. Come per tutti gli altri settori in cui l’innovazione è fondamentale, anche in questo il prerequisito è il possesso di adeguate competenze professionali, in un contesto caratterizzato da un livello di cultura aziendale e processi operativi basati più sul trasferimento di competenze che sull’innovazione e ottimizzazione dei processi produttivi.

Le sfide anche in ambito agricolo non mancheranno di certo in futuro e per l’agricoltura 5.0 queste saranno rappresentate in particolare dall’ingresso della robotica, dalla intelligenza artificiale, e dalla tracciabilità avanzata. Dovremo, però, verificare se la visione di sviluppo italiana sarà in grado di sostenere le prospettive ambiziose che sono necessarie per riuscire ad accrescere in termini competitivi il ruolo del nostro Paese nei confronti degli altri competitor. Questa, nel complesso, sarà la sfida che determinerà le sorti di un importantissimo comparto produttivo che deve riuscire a confrontarsi con avversari sempre più numerosi e agguerriti.




Intelligenza artificiale e metaverso: abbiamo responsabilità verso esseri che creeremo?

Intelligenza artificiale e metaverso: abbiamo responsabilità verso esseri che creeremo?

Personaggi intelligenti nei metaversi

In effetti l’applicazione dei progressi che stiamo vedendo nell’applicazione dell’intelligenza artificiale nella creazione di personaggi o comunque entità distinte all’interno di un mondo virtuale come un metaverso risulterebbe una di quelle ideali. Tuttavia, come fa notare Bartle, creare dei “personaggi” (spesso detti NPC, Non-Player Character, personaggi non giocanti) che poi, con l’avanzamento stesso delle tecniche di intelligenza artificiale, risulteranno sempre più complessi fino a diventare intelligenti almeno quanto un essere umano produce considerazioni che dovremmo fare già da ora.

Personaggi virtuali intelligenti quanto gli umani

Secondo il ricercatore, un giorno potremmo produrre dei mondi virtuali i quali, al di là della loro complessità o vastità, potrebbero contenere al loro interno dei personaggi altrettanto virtuali ma intelligenti quanto gli esseri umani. Se si arriverà a quel punto, questi personaggi saranno praticamente capaci di pensare come noi e comunque avranno un loro libero arbitrio.
Ne consegue che probabilmente avremmo delle responsabilità nei loro confronti in quanto, come creatori, possiamo controllare la fisica dei loro mondi e quindi la loro stessa esistenza.

Potremmo condannare “creature” intelligenti alla non esistenza

Se gli esseri umani creano dei personaggi che pensano liberamente, allora dovremmo trattarli come tali in maniera indipendente da come possano apparire agli osservatori esterni. In sostanza se spegniamo uno dei metaversi che creeremo e se al loro interno ci sono dei personaggi con un’intelligenza artificiale pari all’intelligenza umana, sostanzialmente condanneremo miliardi di queste “creature” intelligenti alla non esistenza.

Domande ancora senza risposta

Salvare una copia di backup di un mondo virtuale prima della sua terminazione forzata, magari perché quel metaverso prodotto da una determinata azienda non ha avuto il successo sperato a livello commerciale, basterebbe a non condannare questi esseri alla non esistenza?
La sola possibilità di riattivare quel mondo riportandolo allo stato in cui era esattamente nel momento in cui lo stesso mondo veniva terminato basterebbe per non “uccidere” questi personaggi? E se il software che è alla base di quel metaverso non fosse più disponibile?
Sono tutte domande che Bartle si fa e che, come lascia intendere, dovremmo farci anche noi se riteniamo immorale far soffrire individui o entità che possono pensare liberamente.

Scale di importanza

Naturalmente, come fa notare il ricercatore, probabilmente ci saranno scale di importanza ma ciò non eliminerebbe il problema. Salvare un bambino reale, per esempio, uno in carne ed ossa, probabilmente sarà sempre più importante del salvataggio di un personaggio in un metaverso, qualsiasi sia il suo livello di intelligenza e di libero arbitrio, così come è più importante oggi del salvataggio di un cane.
Tuttavia oggi viene considerato riprovevole non porre attenzione alla sofferenza di animali come i cani: i personaggi intelligenti all’interno dei metaversi del futuro dovrebbero poter avere un livello di considerazione perlomeno pari?
Una domanda che probabilmente presto dovremo cominciare a porci.




Djokovic, gli sponsor vacillano. Lacoste chiede incontro urgente al tennista

Djokovic, gli sponsor vacillano. Lacoste chiede incontro urgente al tennista

Nei giorni scorsi, mentre il caso Djokovic prendeva forma, scrivevamo di come gli sponsor della stella serba non avessero preso posizione. Una situazione abbastanza anomala. Anche perché l’immagine di un brand, associata ad un personaggio catalogato ormai no vax a livello globale, non ne esce sicuramente rafforzata. Anzi.

Lacoste con Nole dal 2017

E allora il silenzio degli sponsor di Djokovic era sembrato a tutti abbastanza maldestro. Almeno fino a lunedì 17 gennaio. Perché proprio ieri, la Lacoste – azienda francese fra i main sponsor del tennista serbo – ha fatto sapere di voler parlare con Djokovic «il prima possibile».Il brand transalpino, fondato nel 1933 proprio da due tennisti, è con Djokovic dal 2017. Il tennista numero 1 al mondo indossa, in ogni competizione, il kit da gioco firmato Lacoste: maglia, polsini, pantaloncini e calzini. E anche il berretto, quando ne fa uso. Rimangono fuori solo le scarpe, per le quali Djokovic sceglie da sempre il marchio Asics.

Gli altri sponsor

Altri sponsor di Djokovic includono la casa automobilistica Peugeot, il marchio di orologi di lusso Hublot e il creditore austriaco Raiffeisen Bank International. Dalle sponsorizzazioni, secondo Forbes, il leader della classifica ATP incassa circa 30 milioni di euro all’anno. Ma la storia del vaccino e il caso Australian Open, adesso, potrebbero avere un impatto importante. Dopo l’imbarazzo dei primi giorni, come dicevamo, è stata la Lacoste a infrangere il muro del silenzio. «Il prima possibile, ci metteremo in contatto con Novak Djokovic per capire analizzare quanto successo in Australia» hanno fatto sapere dall’azienda, di proprietà della svizzera MF Brands. Non è chiaro quali possano essere le conseguenze, ma è un primo sasso nello stagno.

La vicenda australiana

Djokovic, giova ricordarlo, era entrato in Australia con un’esenzione medica dall’obbligo di vaccino, ma il suo visto iniziale era stato annullato. Successivamente aveva provato, con dei ricorsi, a rimanere nel Paese per poter competere per il 21esimo titolo del Grande Slam. Ma la sua battaglia legale, alla fine, l’ha persa. Ed è stato espulso dall’Australia, uscendone anche decisamente sconfitto dal punto di vista dell’immagine, con una serie di vicissitudini legate a mancate quarantene.

Anche il Roland Garros a rischio

Ora, la sua ferrea opposizione al vaccino contro il Covid-19 (espressa già nel 2020), diventa un bel dilemma per gli sponsor. Anche in virtù del fatto che l’Australian Open potrebbe non rimanere un caso isolato. Nelle ultime ore, infatti, sta prendendo quota l’ipotesi che Djokovic possa essere escluso anche dal Roland Garros. In Francia, infatti, potrebbero vietare l’ingresso ad atleti non vaccinati. E se dopo gli Australian Open, il tennista serbo fosse costretto a saltare anche il torneo parigino, per gli sponsor non sarebbe un grande affare.