IL CASO DI ELISA ESPOSITO E LA CULTURA NEL MONDO DEGLI INFLUENCER
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Elisa Esposito, l’influencer che ha guadagnato notorietà come “professoressa del corsivo” grazie alla sua imitazione esagerata della cadenza milanese, è stata ospite di una trasmissione radiofonica che ha rapidamente acceso un dibattito acceso sulla cultura nel mondo degli influencer. Durante la trasmissione, Elisa è stata invitata a leggere uno dei versi più celebri della Divina Commedia di Dante Alighieri, ma la sua reazione ha lasciato molti allibiti: non ha riconosciuto il testo, manifestando una sorprendente mancanza di familiarità con uno dei pilastri della letteratura italiana.
L’incidente ha sollevato una domanda cruciale: quanto è importante per un influencer essere colto? E, d’altro canto, quanto invece vengono premiati coloro che, pur non avendo solide competenze culturali, possiedono altre qualità, come talento nell’intrattenimento e capacità comunicativa?
Elisa Esposito ha costruito la sua fama su un personaggio che sfrutta l’accento milanese in modo caricaturale, guadagnando un vasto seguito sui social media. Il suo successo dimostra come oggi, in un’epoca dominata dall’intrattenimento rapido e immediato, l’autenticità o l’abilità di far sorridere possano avere un impatto ben maggiore della conoscenza culturale tradizionale. Tuttavia, il suo scivolone sulla Divina Commedia ha fatto emergere i limiti di questa forma di popolarità.
Da un lato, molti ritengono che un’influencer come Elisa, che ha un seguito ampio e variegato, dovrebbe possedere almeno una conoscenza di base delle opere e delle figure culturali più importanti del proprio paese. Essere un volto pubblico comporta una responsabilità verso i propri follower, e la mancanza di consapevolezza culturale può essere vista come un esempio negativo, soprattutto per i più giovani, che spesso si ispirano ai loro idoli online.
Dall’altro lato, la realtà del mondo degli influencer mostra che le competenze culturali non sono sempre essenziali per ottenere successo. In molti casi, ciò che conta di più è la capacità di intrattenere, creare contenuti virali e costruire un personaggio accattivante. Questa dinamica premia coloro che, come Elisa Esposito, riescono a catturare l’attenzione del pubblico attraverso mezzi non convenzionali, anche a costo di sacrificare la profondità culturale.
Il caso di Elisa Esposito evidenzia un cambiamento significativo nella società moderna, dove la cultura e l’istruzione formale non sono più gli unici criteri per il successo. Al contrario, il carisma, l’abilità di comunicazione e l’originalità possono essere sufficienti per costruire una carriera di successo online. Tuttavia, questo solleva interrogativi su quali valori stiano realmente guidando la società e su come i nuovi modelli di ruolo influenzino la percezione della cultura tra le nuove generazioni.
In conclusione, mentre il mondo degli influencer continua a evolversi, il caso di Elisa Esposito ci ricorda l’importanza di un equilibrio tra intrattenimento e cultura. Anche se il successo può essere raggiunto attraverso vie non convenzionali, la conoscenza e l’apprezzamento del patrimonio culturale restano valori fondamentali, non solo per chi aspira a essere un modello di riferimento, ma per la società nel suo insieme.
Perché ci ricordiamo tutti dove eravamo e cosa stavamo facendo l’11 settembre 2001
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Ci sono date e immagini che segnano più di altre la storia. Senza dubbio una di queste è l’11 settembre 2001, giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. Negli Stati Uniti erano le 8.45 (in Italia le 14.45) quando il primo aereo si schiantò contro una delle torri del World Trade Center a New York. Venti minuti più tardi un secondo aereo fece lo stesso. Sono passati esattamente 21 anni; ma pensateci bene, vi ricordate tutti con precisione – pochissimi esclusi – cosa stavate facendo e dove eravate in quel momento. E c’è un perché.
Perché ci ricordiamo tutti dove eravamo e cosa stavamo facendo l’11 settembre
A spiegarci questo curioso fenomeno sono le neuroscienze, che svelano cosa accade nel nostro cervello una volta che siamo sottoposti a eventi di altissimo impatto emotivo. Ed è innegabile che – sebbene avvenuto dall’altra parte del mondo – l’attacco alle Twin Towers lo sia stato.
Responsabile di questo meccanismo è un ormone chiamato cortisolo e prodotto dal surrene su “richiesta” del cervello. In pratica, nei momenti di maggiore stress emotivo determina l’aumento di glicemia e grassi nel sangue, mettendo a disposizione del nostro corpo tutta l’energia di cui ha bisogno per sostenere lo sforzo emotivo.
Ci sono date e immagini che segnano più di altre la storia. Senza dubbio una di queste è l’11 settembre 2001, giorno dell’attentato alle Torri Gemelle. Negli Stati Uniti erano le 8.45 (in Italia le 14.45) quando il primo aereo si schiantò contro una delle torri del World Trade Center a New York. Venti minuti più tardi un secondo aereo fece lo stesso. Sono passati esattamente 21 anni; ma pensateci bene, vi ricordate tutti con precisione – pochissimi esclusi – cosa stavate facendo e dove eravate in quel momento. E c’è un perché.
Perché ci ricordiamo tutti dove eravamo e cosa stavamo facendo l’11 settembre
A spiegarci questo curioso fenomeno sono le neuroscienze, che svelano cosa accade nel nostro cervello una volta che siamo sottoposti a eventi di altissimo impatto emotivo. Ed è innegabile che – sebbene avvenuto dall’altra parte del mondo – l’attacco alle Twin Towers lo sia stato.
Responsabile di questo meccanismo è un ormone chiamato cortisolo e prodotto dal surrene su “richiesta” del cervello. In pratica, nei momenti di maggiore stress emotivo determina l’aumento di glicemia e grassi nel sangue, mettendo a disposizione del nostro corpo tutta l’energia di cui ha bisogno per sostenere lo sforzo emotivo.
Nel libro del giornalista Luca Poma “Il sex appeal dei corpi digitali” compare un intervento illuminante sul tema – dello svedese Lars Olov Bygren, specialista di medicina preventiva al Karolinska Institute – in cui si ricorre proprio all’esempio della memoria legata all’11 settembre.
“Se viviamo un un momento altamente emozionante, e quindi stressante per il cervello, l’ormone cortisolo fa da mediatore in un processo che porta alla fortissima impressione di quell’evento nella memoria. E’ per questo che tutti ci ricordiamo cosa stavamo facendo e dove fossimo l’11 settembre 2001.”
Occhio ai ricordi distorti, però…
Occhio, però, perché può darsi che se chiediamo a qualcuno dove era e cosa stava facendo potrebbe anche dirci una bugia inconsapevole. Uno studio pubblicato sul Journal of Experimental Psychology, bimensile dell’Associazione Psicologica Americana, ha dimostrato che alcuni vantano ricordi dei quali sono convinti – in relazione a dove fossero e cosa stessero facendo l’11 settembre 2001 – ma non è affatto detto si tratti della verità.
Lo studio dice che di fronte a eventi particolarmente traumatici il cervello umano sia in grado di distorcere i fatti confondendoli con percezioni emotive. E va così che nel nostro subconscio costruiamo un nuovo ricordo che si mischia con quanto realmente accaduto. Il tutto in assoluta buona fede.
Cosa accadde l’11 settembre 2001
L’11 settembre 2001 quattro attacchi aerei suicidi, realizzati mediante dirottamento aereo, causarono la morte di oltre 2.996 persone, ferendone oltre 6.000. A capo della strage un gruppo di terroristi aderenti ad al-Qāʿida. Tre su quattro raggiunsero il bersaglio designato: le Torri Nord e Sud del World Trade Center di New York – che si sgretolarono in poche ore imprimendo un quadro apocalittico nella memoria collettiva – e il Pentagono. Si riuscì a evitare soltanto l’impatto contro l’ultimo possibile obiettivo a Washington ovvero la Casa Bianca o il Campidoglio. Anche il quel caso, però, per i passeggeri del volo dirottato non ci fu scampo: andarono incontro a uno schianto mortale in un campo della Pennsylvania.
Il romanzo di una scrittrice cinese è stato censurato mentre era ancora in bozza sul suo computer
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Una scrittrice cinese che si firma con lo pseudonimo di Mitu si è vista negare l’accesso al romanzo a cui stava lavorando mentre era ancora in bozze sul suo computer. Cercando di aprirlo compariva un avviso che diceva che il file era stato bloccato per “contenuti sensibili”.
Il testo, da circa un milione di parole, era salvato sul programma WPS, un’alternativa cinese a un word processor in stile Google Docs e Office che funziona con il cloud. La scrittrice ha raccontato l’accaduto su forum di letteratura cinese, Lkong, e il suo post è stato poi rilanciato da alcuni influencer di Weibo, il Twitter locale, come ricostruisce la Mit Technology Review, la rivista del celebre istituto americano. La denuncia ha aperto una discussione su che controllo possono operare per conto del governo le compagnie tecnologiche.
La risposta è semplice: non ci sono limiti. Pechino ha più volte bacchettato le sue aziende digitali per la gestione dei dati degli utenti, ma il concetto di privacy non esiste quando è applicato alla censura governativa, che è sempre più preventiva. A giugno 2022, l’agente regolatore del web ha reso pubblica la bozza di un aggiornamento della direttiva vigente che obbligherebbe le piattaforma social e le aziende ad applicare una censura preventiva sui contenuti e i commenti degli utenti ancor prima che vengano pubblicati. Il che significa verificarli mentre vengono scritti o tenerli in attesa prima che vadano online per vagliarli. La notizia era stata data in Occidente da Insider.
Durante il durissimo lockdown di Shangai la censura era così soffocante che gli artisti, per aggirarla, hanno dovuto usare gli Nft, quella forma di arte digitale certificata che grazie alla blockchain può essere tanto ufficiale quanto anonima.
Alla fine, la scrittrice cinese, Mitu, è riuscita ad accedere di nuovo al suo romanzo, secondo il South China Morning Post. La software house WPS ha negato di aver escluso l’autrice dal file, ma ha anche ribadito di essere obbligata dalla legge cinese a controllare ogni documento. Il che, nel caso di Mitu, è sorprendente se si considera che si trattava di un testo da più di un milione di parole. Su Weibo, intanto, altri scrittori hanno raccontato di esperienze simili. In un caso le loro testimonianze sono state persino riprese da media statali come l’Economic Observer, che ha riportato la storia di Liu Hui, sempre uno pseudonimo, tagliata fuori da un documento di 10 mila parole a luglio. L’incidente di Mitu risale invece a giugno (il romanzo era comunque accessibile con altri programmi).
Una delle ragioni per cui i documenti cloud non sono sicuri è l’assenza della crittografia end-to-end tra utente e aziende, il che permette a quest’ultima, volendo, di spiare il contenuto del cliente.
La tecnologia garantisce a un regime avanzato e autoritario come quello cinese di imporre forme di controllo che non hanno nulla da invidiare al Grande Fratello di Orwell e che sono anzi ben più subdole e precise. Per aggirare la censura preventiva digitale gli autori finiranno per tornare alla classica macchina per scrivere.
Elisabetta Canalis nella polemica per lo spot San Benedetto: “Un invito a saltare la colazione”, “Fatti un favore, non fare più pubblicità”
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Elisabetta Canalis beve solo acqua a colazione. Sullo spot della San Benedetto scoppiano feroci polemiche. “È diet culture”. “Un messaggio che si può interpretare come invito a saltare il pasto più importante della giornata”. Ecco la story della pubblicità incriminata. La showgirl si è appena alzata tutta contenta e positiva. Si stiracchia felice quando scopre, ahinoi, che la fetta di pane messa a tostare per la colazione si è bruciata. Allora che fa? Prende la sua bottiglietta d’acqua, sorride ed esce. Non per andare al bar ma in ufficio, dove la vediamo felice di aver scoperto la sua acqua ricca di minerali per colazione. Sulla scrivania c’è la rivista Vanity Fair. In copertina c’è proprio lei: Elisabetta, la star.
Qual è il segreto del suo benessere? Questo le chiede il suo clona dalla pagina patinata. L’acqua ovviamente. Le critiche sul web scoppiano violente. Non solo saltare per la protagonista dello spot la colazione sarebbe salutare ma addirittura un esempio per raggiungere la bellezza. Quella da giornale di moda su cui svettano top model e attrici. Fra i contestatori in prima linea c’è Aestetica Sovietica, la rivista di analisi del linguaggio della politica sociale e stereotipi di genere, che su Instagram pubblica un post dal titolo “Il problematico spot con Elisabetta Canalis”. E scrive: “Magari è devianza? O magari Agcom (l’autorità per la garanzia nelle comunicazioni) dovrebbe intervenire?”. Tanti gli stereotipi nello spot. Richiamano uno standard di bellezza femminile assunto a modello per tutte. Ma nel caso specifico l’impegno per il suo raggiungimento sarebbe assurdamente incoerente: “Hai fame? Bevi”.
La showgirl è testimonial di tutta la linea San Benedetto, dall’acqua minerale ai succhi di frutta alle bevande zero. E questo non è l’unico spot a gettarla al centro di critiche pesanti. In quasi tutti però risponde alla domanda: “Qual è il tuo segreto?” con la bottiglietta del prodotto da bere. “Un’acqua leggera con tanti nutrienti preziosi!” E lo fa da bellissima, dall’alto dei suoi tacchi e del suo fisico statuario. È automatico pensare che il prodotto pubblicizzato possa essere interpretato come un sostituto della colazione. E’ questo il messaggio che fa capolino anche negli altri spot di prodotti San Benedetto che la vedono testimonial. Ecco un esempio: “Quanto conta per te la colazione?”. E lei: “Da uno a dieci? Zero. Succoso zero!”. La Canalis risponde con un gioco di parole che fa il verso al nome del succo di frutta, no zuccheri, sponsorizzato.
Secondo Aestetica sovietica, che invoca anche l’intervento di Iap (l’istituto di autodisciplina pubblicitaria) sarebbe l’ennesimo messaggio negativo inneggiante alla ‘diet culture’. La cultura della privazione del cibo che infuoca ancora di più il dibattito sui disturbi alimentari, di cui l’anoressia è argomento di studio e sensibilizzazione da decenni.
Insiste: “Impossibile non mettere in correlazione il fatto che abbia saltato la colazione con le indicazioni specifiche sulle sostanze nutrienti che l’acqua contiene”. Mica la si vede andare al bar a prendere cappuccino e brioche. Da casa sua va direttamente in ufficio, nello spot, con la sua bottiglietta d’acqua. E parla con l’immagine della rivista. “La fame causata dalla mancata colazione la porta a uno stato di delirio nel quale parla con la prima pagina di una rivista” chiosa un follower su Instagram. Attacca un altro: “Probabilmente sente le voci. Allucinazioni da stenti”. Infine: “Si è persa in un bicchier d’acqua”, ironizza un commentatore. “Elisabetta, fai un favore a te stessa: non fare più pubblicità o scegli un agente che ti consigli meglio!” si legge in un altro intervento.
E già. Non è la prima volta che gli spot interpretati da Elisabetta Canalis scatenano polemiche. Il recente “La mia Liguria” con cui lei sponsorizza le bellezze del territorio per Regione Liguria è stato molto chiacchierato. La showgirl apre così. Dopo aver pronunciato lo slogan “La Liguria è di tutti”, presenta la sua personale scelta: piazzetta di Portofino, calice di bollicine in barca, vista dalle vetrate di un grattacielo dello skyline come fosse a New York. Sono intervenuti pure i Pirati dei Caruggi con un contro-spot. Ovviamente comico. Si parla di rumenta, di spiagge affollate, di traffico per raggiungere i lidi promessi.
Criptovalute di Stato, tra presente e scenari futuri
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Le criptovalute di Stato potrebbero prendere corpo nell’America Centrale, nel Sudamerica e in Asia, senza, però, passare dall’Europa. In quest’ultimo caso, la Banca centrale europea intende rafforzare i controlli ed invita alla prudenza rispetto alla diffusione delle criptovalute.
Il punto di partenza della nostra disamina riguarda i dati concernenti l’adozione delle valute digitali, che, sin dall’anno scorso, ha registrato una sempre maggiore diffusione a livello internazionale, tale da indurre ad un affinamento della regolamentazione dei mercati. La società ChainAlysis ha rilevato che dal 2019 al 2021 l’utilizzo delle criptovalute è aumentato del 2500% con le piccole economie emergenti a guidare la speciale classifica delle economie nazionali. In testa troviamo il Vietnam, seguito da India, Pakistan, Ucraina e Kenya. Gli Stati Uniti, tra le economie avanzate, si piazzano all’ottavo posto, mentre la Cina al tredicesimo. Prima dello scoppio della guerra, l’Ucraina si è dotata di una serie di norme volte a regolamentare i mercati delle criptovalute.
Da cosa dipende l’accentuata diffusione delle valute digitali nei Paesi in via di sviluppo? La risposta risiede nella scarsa diffusione di infrastrutture bancarie e finanziarie. Le criptovalute sono un surrogato dei conti di deposito e con le stablecoin sono, nei Paesi in via di sviluppo, lo strumento più idoneo per trasferite valuta da e per l’estero con costi abbordabili, senza i paletti delle limitazioni previsti dalle autorità monetarie. In Sudamerica, come in Venezuela e Argentina, le criptovalute mirano a proteggere, non senza rischi e falle, il risparmio dai tassi di inflazione molto alti e dalla svalutazione della divisa domestica.
Il caso El Salvador
Qualche settimana fa Galoy, la piattaforma bancaria di El Salvador, attiva già dal novembre del 2020 con il lancio del Bitcoin Beach Wallet, si è detta pronta a far conoscere una nuova stablecoin legata al dollaro. Una modalità che ha come primo obiettivo la riduzione della volatilità rispetto alle criptovalute non ancorate come i Bitcoin. Le stablecoin sono nate per fronteggiare i rischi delle cripto-attività non garantite. Il loro valore è legato ad un’attività o ad un portafoglio a basso rischio. Tale contesto, però, richiede adeguata regolamentazione onde evitare che le stablecoin siano tali solo sulla carta e solo di nome. Le nuove monete, gli Stablesats, non hanno bisogno di token per funzionare e avrebbero il pregio di essere facilmente spendibili.
Galoy per sostenere questo nuovo progetto ha effettuato un aumento di capitale di 4 milioni di dollari. Il progetto intende essere autosufficiente al massimo. Per questo motivo il Centro-America si prefigge l’ambizioso traguardo di diventare un vero e proprio laboratorio per le cripto-attività. La piattaforma è stata aperta, oltre che in Costa Rica, a Panama con uno sguardo sempre più interessato ad altri Paesi del Sudamerica. Perno di Galoy la rete Lightning Network, con la quale ci si sgancia da soggetti terzi per svolgere controlli, con la possibilità per i Paesi con forte inflazione e grande esposizione in dollari americani di dotarsi di uno strumento gestibile solo da essi e la possibilità di avere un dollaro sintetico in grado di mantenere il proprio valore al di là del tasso di cambio di riferimento.
In merito all’interesse che si registra attorno alle criptovalute, nello scorso mese di maggio i rappresentanti delle banche centrali di 44 Paesi emergenti si sono riuniti a El Salvador nel corso del meeting dello “Sme Finance working group”. L’incontro a El Salvador non è stato casuale, dato che qui, neanche un anno fa, per la prima volta è stato adottato il Bitcoin come moneta a corso legale e conseguente equiparazione al dollaro statunitense.
Guardano con interesse alla svolta salvadoregna Paraguay, Argentina, Brasile, Nicaragua, Panama e Messico anche se in questi Paesi provvedimenti a livello centrale non se ne registrano ancora. Di sicuro una parte politica strizza l’occhio alle criptovalute di Stato.
L’adozione del Bitcoin nel mondo
Criptovalute al sole dei Caraibi
Restando nell’America Centrale, le Bahamas hanno aperto ai pagamenti con le monete digitali per il pagamento delle tasse. Si tratta di un inizio. La Banca centrale delle Bahamas ha emesso il Sand Dollar ed il governo ne ha autorizzato l’utilizzo. L’esempio delle Bahamas è stato definito un «disegno di criptovaluta progressista e lungimirante». Al sole dei Caraibi, dunque, potrebbe essere realizzato un vero e proprio hub crittografico, così come auspicato dalle autorità bancarie e finanziarie bahamiane.
L’approccio normativo internazionale
Se è vero che alcuni Stati stanno dimostrando interesse nei confronti delle criptovalute, è altrettanto vero che l’approccio normativo cambia da Paese a Paese. Divieto all’uso delle criptovalute da parte di Egitto, Marocco, Algeria, Bolivia, Bangladesh, Nepal. Alla Cina ci dedicheremo più avanti. Una sorta di sistema “misto” riguarda invece Nigeria, Namibia, Colombia, Ecuador, Arabia Saudita, Giordania, Turchia, Iran, Indonesia, Vietnam e Russia. In questi Paesi è limitata la possibilità per le banche di operare con cripto-attività o è vietato l’uso per effettuare pagamenti.
«Questa situazione – commenta Fabio Panetta del board della BCE – è insoddisfacente, poiché le cripto-attività rappresentano un fenomeno globale e le tecnologie sottostanti possono svolgere un ruolo importante, anche al di fuori del settore finanziario. L’azione regolamentare va coordinata a livello internazionale, al fine di far fronte a problemi quali l’uso delle cripto-attività per operazioni illecite transfrontaliere o il loro impatto ambientale. In tale ambito, la regolamentazione deve ricercare un delicato equilibrio tra rischi e benefici, evitando di soffocare innovazioni che possono innalzare l’efficienza sia nei pagamenti sia in altri comparti».
L’opera regolamentatrice sulle cripto-attività in Europa è in piena attività. Si pensi all’entrata in vigore del regolamento UE, denominato MiCA (Markets in crypto-assets).
Lo scenario mondiale
I cambiamenti in corso stanno inducendo le Banche Centrali a correre ai ripari considerato che dietro l’angolo non mancano dei rischi. Vediamo quali.
Una banconota costituisce un credito nei confronti di una Banca Centrale ed è, quindi, la forma di denaro più sicura. Bisogna però ricordare che solo le banche commerciali possono accedere alle riserve della banca centrale. Ecco, quindi, il primo rischio: una moneta digitale della Banca Centrale permetterebbe l’accesso a tutti. La conseguenza sarebbe che il pubblico potrebbe detenere conti presso la Banca Centrale. Altra conseguenza riguarderebbe la possibilità di tenere il denaro della Banca Centrale in portafogli emessi privatamente.
Di qui, dunque, un atteggiamento neutrale – di forza indifferenza potremmo dire – da parte delle Banche Centrali rispetto alla questione. Un approccio, in buona sostanza, volto a non caldeggiare l’uso della “moneta elettronica” per non destabilizzare la supremazia delle Banche Centrali sui mercati mondiali. A ciò si aggiungono altre preoccupazioni legate alla sicurezza, alla privacy delle transazioni e, per portare il ragionamento alle estreme conseguenze, all’esistenza e al ruolo delle stesse banche centrali.
Nel 2021 la Federal reserve statunitense ha svolto uno studio approfondito per delineare gli scenari futuri e individuare gli strumenti per intervenire in vari contesti. Anche la Banca Centrale Europea si è data da fare con l’approvazione dell’avvio «della fase di ricerca di un progetto di euro digitale». Bruxelles si è data una prospettiva temporale di breve termine per la realizzazione dell’euro digitale, facendola coincidere con l’anno 2026.
La Cina sembra essersi attrezzata meglio di tutti. La versione elettronica dello yuan è stata testata in alcune regioni e sono state messe in campo diverse iniziative per avvicinare i cittadini alla moneta digitale. Si pensi ai premi della lotteria e la creazione di un portafoglio digitale (e-CNY).
Gli Stati Uniti non hanno fatto mistero della loro preoccupazione provocata dalla creazione, già qualche anno fa, della moneta digitale cinese – lo e-yuan -, che mira ad internazionalizzare lo yuan e al tempo stesso a difendere la propria sovranità monetaria. L’esigenza è proteggersi dalle aziende tecnologiche statunitensi che a loro volta faranno leva sul dollaro. Ma non mancano iniziative volte ad arginare la diffusione delle cripto-valute stesso in Cina. La People’s Bank of China nel 2021 ha dichiarato illegali le transazioni di criptovalute, il mining e la pubblicità legata alla moneta elettronica. Considerata la corrispondenza di amorosi sensi con la Cina, anche Russia e India stanno assumendo un atteggiamento cauto.
E in Europa? In Spagna, alla fine della scorsa primavera, l’Agenzia delle Entrate ha espresso un parere vincolante secondo il quale gli NFT avranno una tassazione del 21% in relazione alle attività di creazione e compravendita degli stessi da parte di società o artisti. Il futuro sarà sicuramente caratterizzato dalla diffusione e dall’utilizzo della moneta digitale. Ciò però non fa dormire sonni tranquilli alle autorità finanziarie centrali, che si stanno attrezzando per creare una valuta digitale sostenuta da una Banca centrale (Central bank digital currency – CBDC) con il primario obiettivo di contrastare la volatilità cui sono sottoposte le criptovalute decentralizzate quali Bitcoin, Ethereum o le stablecoin. La BCE continua a rassicurare e ad affermare che la moneta digitale non manderà in pensione il contante. In gioco, dicono alcuni esperti, c’è anche la sovranità nazionale.
Nei prossimi cinque-sei anni sicuramente molte persone avranno portafogli digitali diversificati con denaro in conti bancari tradizionali e stablecoin gestiti da società private. Fare previsioni a lungo termine potrebbe comunque essere azzardato, considerato quanto accade in questi giorni. Il pensiero va subito ad alcuni programmi arenatisi. Meta (ex Facebook) intendeva lanciare la propria stablecoin; ha dovuto fare i conti con le autorità di regolamentazione statunitensi, che ne hanno bloccato il progetto. A preoccupare sono gli obiettivi di Meta e la possibilità che la stablecoin possa essere utilizzata per finanziare transazioni illecite all’interno e fuori dai confini nazionali.
Ecco perché la valuta digitale sostenuta direttamente dalle Banche Centrali (Central bank digital currency – CBDC) rappresenta, contemporaneamente, per i governi un baluardo e un trampolino per difendere e recuperare la sovranità perduta. Con l’aggiunta di bloccare la minaccia al monopolio statale presentata dalle criptovalute o quella legata ad operazioni come quelle messe in piedi da Facebook. Insomma, lo scenario è in divenire e i fatti del presente saranno preziosi per ogni iniziativa e strategia futura.