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Tigotà: con lo scontrino digitale 2mila Km di carta in meno

Tigotà: con lo scontrino digitale 2mila Km di carta in meno

Tigotà, drugstore specializzato nella vendita di prodotti per la cosmesi, cura della persona e pulizia della casa con oltre 650 store in tutta Italia, ha deciso di introdurre lo scontrino digitale. Un’email al posto della carta termica, un materiale che non è possibile riciclare. Un segnale forte in termini di tutela e rispetto dell’ambiente.

Nel 2019 tutti i Tigotà della Penisola hanno emesso oltre 20mila Km di scontrini, pari alla distanza tra Polo nord e Polo sud. Nel 2021, grazie all’introduzione dello scontrino digitale, il consumo di carta termica si è ridotto di circa 2mila chilometri. Pericle Ciatto, Responsabile marketing di Tigotà, spiega: “Abbiamo intrapreso questa strada con convinzione e vediamo grandi potenzialità. Siamo solo agli inizi, il nostro augurio è che sempre più persone scelgano di aderire a questa iniziativa. Gestire correttamente i rifiuti, soprattutto quelli che non possono essere riciclati, permette alle nostre comunità di fare importanti passi in avanti per l’ambiente”.

Ottenere lo scontrino digitale è semplicissimo: i clienti con carta fedeltà possono richiederlo direttamente in cassa, a quel punto i commessi inviano lo scontrino digitale all’indirizzo di posta elettronica comunicato.

Questa non è l’unica iniziativa a favore dell’ambiente messa in atto da Tigotà. Da 4 anni, infatti, la catena ha intrapreso un’operazione di relamping dei pdv che prevede la sostituzione di tutte le vecchie lampadine con led di nuova generazione, meno impattanti dal punto di vista energetico. L’obiettivo per il 2022 è completare i lavori, arrivando così a coprire il 92% del totale dei punti vendita Tigotà. Lo scorso 11 marzo, in occasione dell’iniziativa ‘M’illumino di meno’ prevista per la ‘Giornata del risparmio energetico e degli stili di vita sostenibili’, tutti i negozi dell’insegna hanno abbassato le luci per dare il loro contributo alla tutela dell’ambiente.




Quale “capitalismo responsabile” di fronte all’enigma cinese?

Quale "capitalismo responsabile" di fronte all'enigma cinese?

Cosa richiede oggi un capitalismo “responsabile” agli investitori e alle aziende che si impegnano con la Cina?

La Cina è la seconda economia più grande del mondo, un vasto mercato per i beni di consumo ma è anche un anello critico nella catena di approvvigionamento globale. La Cina rappresenta una quota significativa dei ricavi annuali di giganti aziendali come Apple, Intel e Starbucks.

Date le opportunità di trarre profitto dall’impegno con la Cina, il saggio cinquantennaledi Milton Friedman dal titolo A Friedman doctrine – The Social Responsibility Of Business Is to Increase Its Profits fornisce una risposta chiara: coinvolgi!

Inizia così un post di Curtis J. Milhaupt, esperto riconosciuto a livello internazionale di corporate governance comparata, sistemi legali dell’Asia orientale e di capitalismo di stato pubblicato sulla rivista ecgi.

Ma la Cina, ci ricorda l’autore, è anche il maggior contributore mondiale di emissioni di gas serra, è governata da un regime autoritario repressivo che rinchiude i suoi oppositori, censura assiduamente il discorso ed è impegnata in un programma su larga scala di pulizia etnica. Pechino ha represso le voci democratiche a Hong Kong con l’imposizione di una draconiana legge sulla sicurezza nazionale ed è sempre più sfacciata nelle sue minacce di prendere Taiwan con la forza.

Ed in effetti, da questo punto di vista, il continuo impegno del capitalista occidentale con la Cina sembra, oggi, notevolmente meno responsabile, in particolare in un’era di fascinazione per le questioni ESG (Environmental, Social and Governance) nel governo societario e negli investimenti.

Questo è l’enigma che la Cina pone al capitalismo responsabile.

Per due decenni, la risposta confortante del capitalismo all’enigma cinese è stata l’affermazione che l’impegno con la Cina non solo sarebbe stato positivo per gli affari, ma avrebbe accelerato il rafforzamento della libertà personale e dell’emancipazione politica interna, attitrando la Cina in strutture di governo globali (occidentali).

Curtis J. Milhaupt ci ricorda il famoso discorso di Bill Clinton nel 2000 alla vigilia del voto del Congresso USA sull’adesione della Cina all’OMC:

“[Abbiamo] maggiori possibilità di avere un’influenza positiva sulle azioni della Cina se accogliamo la Cina nella comunità mondiale invece di escluderla.”

E nello stesso discorso, Clinton chiese alla Cina: “Sarà la prossima grande tigre capitalista, con il mercato più grande del mondo, o l’ultimo grande drago comunista del mondo e una minaccia per la stabilità in Asia?”

Come è andata a finire è storia nota.

Ma oggi, ci ricorda l’autore del post,

è giunto il momento di riconoscere che il profondo impegno capitalista con la Cina non solo non è riuscito a portare un cambiamento a Pechino, ma ha notevolmente ridotto la leva dei governi occidentali e del settore privato per incoraggiare l’ammorbidimento del regime in Cina e l’accettazione degli standard globali di trasparenza aziendale e di governo.

Un ottimo esempio è la politica, iniziata da Trump e proseguita sotto l’amministrazione Biden, di tagliare i flussi di capitali statunitensi alle imprese cinesi legate al governo e all’esercito cinese. Un filone della politica consiste nel rimuovere dalle borse valori statunitensi le società cinesi che rifiutano di consentire le ispezioni dei loro revisori esterni da parte del Public Company Accounting Oversight Board (PCAOB). Nel 2020, il Congresso ha approvato la Holding Foreign Companies Accountable Act (HFCA Act), che richiede la cancellazione dalle borse statunitensi delle società i cui revisori dei conti non si sottopongono alle ispezioni legalmente obbligatorie da parte del PCAOB per tre anni consecutivi. Dopo un solo anno di non conformità, una società deve certificare alla SEC di non essere “posseduta o controllata da un governo straniero”.

Lo statuto è nato dalla frustrazione per le affermazioni del governo cinese secondo cui la sua legge sui segreti di Stato impedisce l’accesso ai rapporti di revisione delle società cinesi e dal sospetto al Congresso che gli investitori statunitensi stiano finanziando le società cinesi che realizzano le ambizioni tecnologiche di Pechino.

Ma l’HFCA Act è un passo troppo modesto per una maggiore divulgazione dei legami esistenti tra le società cinesi quotate negli Stati Uniti con il governo cinese ed il ruolo del Partito Comunista nella loro governance aziendale.

I regolamenti della SEC (che implementano i requisiti di divulgazione della legge) tradiscono una grave mancanza di comprensione da parte delle aziende cinesi (per via dei canali di influenza dello stato-parte cinese sulle aziende domestiche) ed è improbabile che raggiungano anche i loro obiettivi limitati, dice Milhaupt.

Inoltre, poiché il capitale è globale, gli sforzi unilaterali degli Stati Uniti per rimuovere le società cinesi dal listino saranno inefficaci nel tagliare il loro accesso ai finanziamenti, anche da parte degli investitori statunitensi.

Le aziende che rischiano il delisting negli Stati Uniti riceveranno da Pechino il benvenuto da eroe. La loro partenza dal NYSE e dal NASDAQ avrà spesso un costo per gli investitori statunitensi, poiché i loro azionisti di controllo ricollocheranno le loro società in Cina a valutazioni più elevate.

Debole, quanto agli effetti, è anche il secondo filone della politica USA, che vieta il commercio (da parte di soggetti statunitensi) con società inserite in un elenco di “Società complesse militari-industriali cinesi” tenuto dall’OFAC, l’ufficio sanzioni del Dipartimento del Tesoro.

Sebbene l’elenco abbia comportato la rimozione di diverse società cinesi dai principali indici azionari, l’impatto della politica è ancora una volta limitato dalla mobilità aziendale globale e dalla pianificazione strategica.

Un esempio recente: appena prima della prevista IPO di Cayman, il leader dell’intelligenza artificiale SenseTime Group Inc. a Hong Kong, la sua consociata interamente controllata di Hong Kong, SenseTime Group Limited, è stata designata come CMICC (la tecnologia di SenseTime è ampiamente utilizzata da Pechino nella sorveglianza interna).

Secondo il parere legale del consulente esterno di SenseTime Group Inc., dice Milhaupt, la designazione della consociata interamente controllata non avrebbe alcun impatto sulla negoziazione delle azioni della società madre da parte di soggetti statunitensi: la società madre è un’entità separata e, secondo l’interpretazione dell’OFAC, le conseguenze della designazione come CMICC non fluiscono verso l’alto o verso il basso alle società collegate.

La famosa dichiarazione di Milton Friedman, secondo cui la responsabilità sociale delle imprese consiste nel massimizzare i profitti entro i limiti della legge e delle norme sociali, non fornisce molte indicazioni ai capitalisti in un mondo in cui il capitalismo stesso si è frammentato in varianti di mercato e statali, ciascuna con le proprie norme e istituzioni. Né Friedman immaginava un mondo in cui le società fossero profondamente intrecciate nelle politiche di sicurezza nazionale dei loro governi nazionali, uno sviluppo guidato dalla natura indispensabile della tecnologia (e degli investimenti nella ricerca di base) sia per il valore economico che per la potenza militare – e per la centralità dei dati – praticamente ad ogni aspetto della vita del ventunesimo secolo.

Forse più fondamentalmente, prosegue l’autore, la dottrina di Friedman si basa sulle precarie fondamenta intellettuali dell’altra sua opera altamente influente, Capitalismo e Libertà. Friedman non è riuscito a riconoscere che ogni forma di capitalismo è suscettibile, a modo suo, di gravi patologie di corruzione (o dei suoi parenti stretti, cattura normativa e lobbying), esternalità aziendali non affrontate e accelerazione della disuguaglianza sociale. Affinché il capitalismo sia una condizione necessaria di libertà, deve essere abbinato a meccanismi efficaci di governo pubblico democratico, ma i mercati non producono tali meccanismi da soli.

Potrebbe essere già troppo tardi per risolvere l’enigma cinese, avverte però Milhaupt.

Vent’anni di ingenuità, e di silenzio, sulla traiettoria che la la Cina ha preso, partendo dal comunismo fino ad arrivare al capitalismo di stato e alla repressione delle libertà, hanno gravemente indebolito gli strumenti dell’Occidente nei confronti di Pechino. Una cosa è chiara: senza il coordinamento tra i governi del mondo democratico, le borse valori, le società – e forse la cosa più importante, gli investitori istituzionali – sarà quasi impossibile esercitare un’influenza su Pechino attraverso politiche che cercano leva dai mercati globali.

L’enigma cinese persisterà, irrisolto, mentre alcuni dei più accesi sostenitori dell’ESG continueranno a crogiolarsi con la retorica del capitalista responsabile.

Curtis J. Milhaupt è William F. Baxter, Visa International Professor of Law presso la Stanford Law School e membro della ricerca ECGI.

Qui il post originale.




Bilancio di sostenibilità: ecco le aziende che si raccontano meglio

Bilancio di sostenibilità: ecco le aziende che si raccontano meglio

L’obiettivo del Premio Bilancio di Sostenibilità, frutto dell’iniziativa comune di Corriere della Sera e Bologna Business School con Aiccon è valutare e premiare le aziende che sanno raccontare meglio impegni e prestazioni non finanziarie. Sotto la lente c’è stato il processo di redazione del bilancio di sostenibilità e della sua capacità di essere trasparente, chiaro e capace di comunicare efficacemente la strategia di sostenibilità a tutti gli stakeholder.

L’iniziativa, a cui è dedicato l’intero inserto di Buone Notizie in edicola domani, è stata presentata con evento in streaming oggi al Corsera. La prima sessione dell’incontro era dedicata alle linee guida dell’indagine, divisa in tre settori – Energia, Food, Fashion -, sulle quali sono intervenuti i professori Matteo Mura, Leticia Canal Vieira e Mariolina Longo della Bologna Business School.

Ospiti della seconda sessione dell’appuntamento sono stati poi tre esperti di queste tematiche. Ermete Realacci, presidente di Fondazione Symbola, ha sottolineato il valore e la forza della sostenibilità: «Essere buoni conviene. Le aziende che fanno investimenti in campo ambientale e sociale sono più forti, producono, esportano e ottimizzano di più». Ed è un dato che coinvolge anche il consumatore «che percepisce le imprese sostenibili come soggetti di qualità maggiore».

Quindi Stefano Granata, presidente Aiccon, l’Associazione Italiana per la Promozione della Cultura della Cooperazione e del Non Profit, ha spiegato come «sia importante lavorare sull’aspetto sociale. Le aziende stanno capendo come le vecchie logiche non servono più per massimizzare il profitto». Per soffermarsi poi sulla necessità del superamento delle disuguaglianze, sulla coesione con il territorio e sul valore dei giovani come elementi fondamentali per la crescita.

Infine i temi dela governance e delle pari opportunità sono stati affrontati da Daniela Bernacchi, segretario generale del Global Compact Network delle Nazioni Unite: «Su alcuni temi che favoriscono la parita di genere l’Italia è in forte ritardo rispetto all’Europa, soprattutto per quanto riguarda le società non quotate. E la governance è un sfida importante quando si tratta di sostenibilità».




Il futuro delle relazioni pubbliche: la public diplomacy quale declinazone fondamentale per le democrazie

Il futuro delle relazioni pubbliche: la public diplomacy quale declinazone fondamentale per le democrazie

Non è solo una questione definitoria, è la capacità di cogliere gli ambiti e i perimetri della professione e di conseguenza della creazione di senso e significato delle attività strategiche ed operative che sostanziano la pratica della professione. Come ci ricorda James Grunig: «le relazioni pubbliche sono una professione complessa, svolta da persone preparate e competenti che sono consapevoli di doversi mettere al servizio degli interessi delle persone coinvolte a vario titolo dall’attività dell’organizzazione per la quale lavorano».

Tutti noi sappiamo che nel nostro Paese, per motivi ancora tutti da indagare, abbiamo dato maggiore importanza alle tecniche della professione piuttosto che alla costruzione di un percorso accademico e scientifico. Forse, complice inconsapevole, la distinzione fra il significato e il corpus accademico riferito alle relazioni pubbliche e alla comunicazione – e forse anche la forza del marketing rispetto alle relazioni pubbliche – non siamo stati capaci di indagare a fondo la portata, l’ampiezza e la frequenza della nostra professione, che ha sempre avuto delle declinazioni rilevanti, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo. Anche oggi, mentre il legislatore al Senato, analizza la legge sulla rappresentanza di interessi in seconda lettura, non abbiamo ancora avuto la possibilità di “raccontare” quanto tutto questo appartenga ad un’unica disciplina, codificata ed organizzata, e che oggi potrebbe trovare nella definizione di public diplomacy il suo più efficace perimetro.

Come già scritto altre volte, mi piace ricordare ciò che scriveva Adam Smithne la “Teoria dei sentimenti morali” del 1759: «La preoccupazione per la nostra personale felicità ci raccomanda la virtù della prudenza: cioè la preoccupazione per la felicità degli altri». Smith, che certamente non possiamo annoverare fra i teorici dell’economia civile o della moderna sostenibilità, pur tuttavia ci ricorda che un compromesso che faccia vincere tutti gli attori può rendere più profittevole per tutti la negoziazione, con una oggettiva massimizzazione della creazione di valore. Questo è il principio e fine ultimo delle relazioni pubbliche.

Un’altra definizione di Grunig del 1984: «Le relazioni pubbliche sono la gestione della comunicazione tra un’organizzazione e i suoi pubblici». Mentre Toni Muzi Falconi scrive nel 2005: «Le relazioni pubbliche sono una disciplina della comunicazione d’impresa e fanno parte della scienza del management, che si occupa della gestione delle organizzazioni complesse. La funzione delle relazioni pubbliche è di contribuire al raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione con un’attività continuativa, consapevole e programmata di gestione e di coordinamento dei sistemi di relazione che si attivano fra la stessa organizzazione e i suoi diversi segmenti di pubblico influente. Un’attività che deve essere sempre trasparente, corretta, a due vie. In particolare, compito specifico delle relazioni pubbliche è quello di orientare opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni – anche di consumo – degli stakeholder-influenti: soggetti che possono ostacolare o agevolare il raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione perché dotati di specifici poteri decisionali o perché ritenuti in grado di influenzare i primi».

E ancora: «Costruire relazioni basate sulla fiducia con tutti i pubblici dell’organizzazione (stakeholder, pubblici influenti, destinatari finali), per rafforzare la propria credibilità sociale, ambientale e finanziaria e la propria reputazione» (Giampietro Vecchiato, 2005); «Le relazioni pubbliche sono la disciplina che si prende cura della reputazione delle organizzazioni, con l’obiettivo di accrescere la conoscenza reciproca, il sostegno e per influenzare opinioni e comportamenti. Le relazioni pubbliche sono una funzione manageriale (deliberata e pianificata) per stabilire e mantenere un reciproco e proficuo ascolto e comprensione tra un’organizzazione e il suo pubblico» (CIPR Chartered Institute of Public Relations 2020).

Non sono solo definizioni di circostanza. Le relazioni pubbliche, e oggi la public diplomacy, aiutano le organizzazioni a gestire la complessità come divenire della conoscenza. La complessità, concetto chiave del nostro tempo, mai fino in fondo indagato e capito, è un modo di approcciare la realtà e pensare per sistemi, confini, perimetri, ambiti, reti, processi, e connessioni. La crisi cognitiva nella quale ci troviamo dipende molto dalla mancanza di tempo e spazio che ci consente di trovare la giusta distanza dalle cose – materiali e immateriali – e darci il giusto sentire per aiutarci a trovare la quadra dell’eccesso di connessioni e del conseguente eccesso di disgregazioni. Le relazioni pubbliche, declinate con la nuova definizione di public diplomacy, ci consente di superare la necessità di una astrusa semplificazione e che temo possa rinchiuderci nei confini nazionali, frammentando i saperi – anziché intersecarli. Questa semplificazione non aiuta la gestione dei conflitti e la gestione delle crisi che verranno. Ecco perché è sempre più imperativo prendersi cura delle persone e delle organizzazioni senza la paura innata contro la complessità.

La public diplomacy: il punto di vista di Toni Muzi Falconi e Luca Poma

Dicevamo che la public diplomacy potrebbe diventare l’alveo naturale dello sviluppo della funzione manageriale delle relazioni pubbliche.

Per questo intervisto Toni Muzi Falconi, decano delle relazioni pubbliche italiane, e Luca Poma, allievo di Toni, come me, ed esperto di reputation management, crisis management e public diplomacy.

Partiamo da Toni. Nel mondo si è iniziato a parlare di public diplomacy già agli inizi degli anni ’60, anche se questa declinazione delle relazioni pubbliche può essere fatta risalire agli albori dell’umanità. Oggi dopo la pandemia, la crisi economica e ora la guerra, come ritieni che noi professionisti dobbiamo e possiamo investire in un rinnovato approccio alla public diplomacy?

Toni Muzi Falconi: «E’ necessario ritrovare il giusto tempo per guardare, e studiare, i valori della cultura liberale. Non c’è più tempo per correre inutilmente dietro a mille rivoli: questa è l’ora della responsabilità e della condivisione. E la public diplomacy, un modo nuovo per definire le relazioni pubbliche, può essere lo strumento giusto per rendere il mondo un posto migliore».

Nel libro di Nick Cull, edito alle Edizioni Olivares – “Public Diplomacy, Global engagment nell’era digitale”- la prefazione è affidata a Simon Anholt che scrive: «L’Italia è in molti sensi l’emblema del “soft power nation”… e i governi italiani dovranno investire molto per mantenere e migliorare lo straordinario prestigio internazionale che può essere raggiunto con duro lavoro e una strategia seria», nei mesi scorsi abbiamo analizzato insieme la quantità di corpi intermedi presenti in Italia e soprattutto a Roma, come cambia la definizione di public diplomacy alla luce della guerra in Ucraina ma anche alla luce della crescita del consenso e delle attese nei confronti delle organizzazioni private?

Toni Muzi Falconi: «Credo di non dire una eresia se affermo che pandemia e guerra hanno prodotto ovunque un vasto e profondo ripensamento dell’acquisito in ogni ambito, settore, luogo e ispirazione. Volendo ricominciare tenendo conto dell’accaduto, delle sue ragioni e delle diverse ipotesi di prospettive la public/cultural/social/corporate diplomacy sono secondo la mia opinione, un ragionevole e sensato punto di partenza. In effetti, in primis e fin da piccolo, la diplomazia è stata sempre il mio pane quotidiano e lo è ancora oggi a 81 anni compiuti: padre italiano, in carriera diplomatica e girovago per 60 anni nel mondo; madre anglo/irlandese figlia di un diplomatico; poi moglie, poi madre (mio fratello Livio, scomparso poco tempo fa, ha passato anche lui la vita in diplomazia). Infine, prima ancora che passasse sotto il controllo di Confindustria, avevo conseguito il mio primo Master in Relazioni Pubbliche nel 1964 alla Luiss, con Padre Morlion dell’Opus Dei e una dissertazione su: sindacato, la diplomazia e le relazioni pubbliche. Mi sono insomma sempre occupato di public, cultural, social e corporate diplomacy».

Quindi Toni ci conferma che il framework del futuro delle relazioni pubbliche, di cui lui è il decano italiano, è appunto la public diplomacy.

Ora partendo dalla definizione che l’amico e collega Luca Poma fa nel suo libro: «La public diplomacy consiste in un sistema di procedure, normalmente coordinate dalle stesse istituzioni, utili per intervenire sull’opinione pubblica del proprio e degli altrui Paese, con azioni di relazioni pubbliche finalizzate ad aumentare la pressione sul proprio governo, influenzandone o legittimandone le scelte. I principi generali sui quali si basa questa strategia vennero definiti dal politologo statunitense Nye negli anni ’80, che introdusse il concetto di soft power (potere morbido) intendendo con esso la capacità di influenzare le scelte e i comportamenti di diversi attori nell’arena internazionale (stati, aziende, comunità, pubblici, ecc) attraverso l’attrazione o la persuasione, anziché la coercizione» gli chiedo: Luca come è cambiata questa definizione alla luce della guerra in Ucraina?

Luca Poma: «Non penso sia cambiata, anzi, ha trovato vieppiù conferme. Come non evidenziare ad esempio l’intensa (ed eterodiretta, secondo alcuni) attività social del Presidente Zelensky? La leadership Ucraina ha reso plasticamente evidente l’importanza di un’intelligente, coraggioso e proattivo utilizzo dei canali digitali per “condizionare” l’opinione pubblica internazionale ed attraverso essa i Governi. Come scrivevo in una mia analisi circa 1 mese fa, come ben sappiamo la reputazione è un asset importante – il più prezioso tra quelli “immateriali” – che si costruisce assieme ai propri pubblici per durare nel tempo, ed essere poi “scambiata” con una più ampia licenza di operare. Autenticità, coerenza, comunicazione di valori conformi alla propria identità, capacità di gestire scenari di crisi e propensione ad assumersi le proprie responsabilità, tono deciso ma caldo, da comandante del proprio popolo: ecco i pilasti sui quali Volodymyr Zelen’skyi sta costruendo la propria rinnovata immagine, a rischio della vita.
Dal punto di vista della gestione della reputazione e del nation branding, a dispetto degli enormi mezzi dedicati alla propaganda, specie on-line, il Presidente Russo, in realtà, ha già perso questa “guerra della comunicazione”, che è anche e soprattutto una “guerra di relazioni” (più che mai pubbliche), e che dimostra una volta di più, qualora fosse necessario, l’importanza di saper gestire la diplomazia nel XXI secolo come un qualcosa di circolare e complesso, coinvolgente molti diversi attori tra protagonisti e comprimari, e non come si è fatto per secoli in modo frontale e binario – sequenziale».

Luca, nel tuo libro, citi una case history denominata: «La reputazione nella sfera politica: l’antimateria del crisis management». Ti riferivi alle giravolte, inconsistenze e persuasioni varie, senza fondamento e senza valori, poste in essere da una maggioranza a geometria variabile. Come è cambiata la reputazione del nostro paese dopo l’inizio del Governo Draghi?

Luca: «Dopo le assai deludenti performance dei Governi Conte, mediocri nella gestione della pandemia (Italia maglia nera in Europa su non pochi fronti), poco genuini e poco coerenti, e attenti soprattutto all’immagine (si ricordino le dirette Facebook a tarda notte volute da Casalino), con il Governo Draghi – continua Poma – il Paese ha ritrovato smalto. La linea politica può piacere o no, questo non si discute, ma altrettanto vero è che il profilo di autorevolezza dell’Italia è migliorato assai. E il “nation branding”, la costruzione del brand per un’intera nazione, parte della più ampia materia del reputation management, passa anche attraverso l’autorevolezza della leadership: la sensazione è che a livello internazionale quando Draghi alza il telefono ci sia qualcuno ad ascoltarlo, e che esista “un uomo al comando” a Palazzo Chigi. Che poi la direzione piaccia a tutti, questo non possiamo dirlo, e molte criticità del nostro sistema-Paese permangono intatte (magari bastassero due anni di governo a risolverle…), ma certamente la reputazione della nazione ha guadagnato punti con questo governo, e quindi – si spera – anche la nostra licenza di operare sui mercati internazionali».

Sia Toni Muzi Falconi che Luca Poma ritengono, quindi, che le relazioni pubbliche siano la disciplina, e la competenza principale, per la gestione della diplomazia pubblica e per la costruzione di quella aurea di negoziazione e di valori condivisi che rendono uno stato, attraverso il suo nation branding, un sistema complesso capace di dialogare a livello internazionale e capace altresì di costruire le corrette intersezioni internazionali per definire, accrescere e gestire la sua “licenza ad operare”. Ma come avete letto, i colleghi hanno detto anche molto di più.

Un libro che mancava nel panorama italiano

«Il ruolo della public diplomacy è sempre più cruciale in questa epoca di informazione globale e social media. Pochi autori sono in grado di guidare il lettore attraverso i nuovi aspetti della diplomazia meglio di Nick Cull, che nel libro “Public Diplomacy, Global engagment nell’era digitale” lo fa magistralmente»

commento di Joseph Nye, il padre del soft power.

La data dell’introduzione, dell’edizione inglese, è del maggio del 2018: quindi pandemia e guerra non erano ancora all’orizzonte. Eppure, questo libro può dare un contributo fondamentale, per l’impianto di ricerca e per le tecniche proposte, anche alle soluzioni di crisi devastanti come quelle che stiamo vivendo.

Molto attuale (e ora con la guerra in Ucraina anche molto forte) un passaggio che Cull riferisce in apertura del volume di una conversazione del suo figlio più piccolo Olly, con una sua coetanea: “bambina: ‘ Tuo padre non fa un lavoro vero. La public diplomacy non esiste’. certo che esiste, ha impedito che scoppiassero un bel po’ di guerre” Ah sì? E come si chiamavano? Facile: Si chiamavano tutte Terza Guerra Mondiale‘. Non cito questo passo per vanagloria (sebbene tutti i relatori pubblici sanno quanto sia difficile far capire il mestiere che facciamo). A volte semplice, ma più spesso complicato e complesso. Public Diplomacy è una funzione di governo di cui si sentirà sempre di più il bisogno” scrive appunto Nick Cull.

L’editore dell’edizione italiana del volume di Cull, e’ Federica Olivares: la più importante docente e studiosa di Public Diplomacy in Italia. È il Fondatore e Direttore del Programma Internazionale in Cultural Diplomacy (IPCD) – presso l’Università Cattolica – nonché del Master in Cultural Diplomacy: Arts e Digital Media for International Relations and Global Communication (in partnership con docenti da Oxford University, Digital Diplomacy Research Center e di University of Southern California).

Chiedo alla Professoressa Olivares: Avevamo bisogno di questo libro in italiano? Mi pare necessario non solo per avere un testo a cui fare riferimento per la disciplina, ma anche perché abbiamo il compito di accrescere il dibattito pubblico intorno ad un tema come la public diplomacy fondamentale per il futuro delle democrazie e dei sistemi liberali.

Federica Olivares: È proprio così. Infatti, mai come in questo complesso scenario geopolitico, dopo gli anni del terrorismo islamico internazionale, questo conflitto è invece “andato in scena” proprio nel Continente Europa nonostante l’apparente omogeneità culturale. Stiamo quindi intuendo di essere ben lungi dall’aver colmato un percorso di piena adesione ai valori civili basati sull’imprescindibile piattaforma: stato di diritto, pratiche democratiche, diritti umani e, aggiungerei, anche, su valori culturali condivisi che invece oggi appaiono come un immenso unfinished job. Ecco perché in questo drammatico frangente sta emergendo la consapevolezza dell’urgenza di una ulteriore armonizzazione non solo di leggi e regolamenti a livello europeo, ma anzitutto di un lessico civile e culturale condiviso nelle pratiche, a partire da quelle del paradigma introdotto dalla Public Diplomacy. 

L’impianto della Public Diplomacy, come viene argomentato da Nick Cull, si basa su 5 pilastri fondamentali, che sono poi la struttura stessa del suo libro: Ascolto, Advocacy, Cultural Diplomacy, Exchange Diplomacy, International Broadcasting. Con un impianto che ha grandi punti di contatto con le relazioni pubbliche. Quali sono secondo lei le intersezioni disciplinari rispetto all’insegnamento delle relazioni pubbliche e della comunicazione che emergono dal modello di Cull, e quali le ripercussioni sul sistema complessivo della diplomazia pubblica e culturale?

Olivares: Anzitutto, sia Public Diplomacy sia Public Relations partono da una visione strategica complessiva, sono fortemente relazionali e utilizzano tutte le leve della ‘sinfonia timbrica’ della Comunicazione per raggiungere pubblici sempre più diversificati. Entrambe sono spesso confuse con qualcos’altro! Prendiamo, ad esempio, la Cultural Diplomacy che, come d’altra parte il Soft Power, non ha senso se non saldamente situati all’interno delle strategie complessive di politica estera di un Paese, della sua Public Diplomacy, appunto. La Cultural Diplomacy costituisce una forte leva, un braccio armato, per il Soft Power, che a sua volta rappresenta l’attrattività di un Paese basata sulla sua cultura, valori, ideali e politica estera. Ma la Cultural Diplomacy può essere anche uno strumento efficace, nella più ampia strategia di Public Diplomacy di un Paese, per trasformare la reputazione globale di un territorio. Un esempio per tutti: pensiamo a cosa abbia rappresentato per la reputazione e per l’economia di una città come Bilbao la costruzione del Guggenheim Museum nel 1997 che ha ridefinito quella che era la capitale del terrorismo basco in una meta iconica del turismo culturale globale, con tutti gli impatti sociali ed economici che questo innesto culturale è stato in grado di produrre. Già da queste prime considerazioni risulta evidente quello che la Cultural Diplomacy senz’altro non è: il taglio del nastro di mostre nazionali in sedi internazionali, ma è più precisamente: l’affermazione strategica e competitiva di un sistema culturale in un’ottica di economia della cultura. Può davvero rappresentare il braccio armato di una più ampia linea strategica di Public Diplomacy, in cui tutto sitiene: Soft Power, Cultural Diplomacy in tutte le sue infinite e rilevanti declinazioni per la creazione di valore e di influenza per un Paese, un territorio ma anche per un Continente come il nostro, il Continente Europa, oggi così lontano da quella definizione di solo pochi decenni fa: “Europa potenza civile”!

Come ci dice la Professoressa Olivares – Europa potenza civile – c’è da fare molto per renderla tangibile e sostanziale. Non sono certo che abbiamo ancora un lessico comune. Come Cull ci ricorda, il crescente interesse degli studiosi per la Public Diplomacy non ha ancora portato alla formulazione di una teoria complessiva della materia e ci troviamo piuttosto davanti ad una costellazione di contributi provenienti dalla storia, dalle relazioni internazionali e dalla comunicazione, senza dimenticare l’apporto delle scienze psicologiche e delle relazioni pubbliche. Di conseguenza il concetto, o meglio l’espressione public diplomacy, si è fatta strada in molti corsi di laurea specialistici.

Scambio culturale o strategic communications evocano retroterra diversi ma non confliggenti, così come nation brading fa pensare a qualcosa di creativo, metropolitano, di quelli con l’ufficio open space, il portofolio sotto il braccio e gli slogan sempre pronti. Come dice Cull anceh Public diplomacy richiama alla mente un’immagine specifica: quella di un professionista degli affari esteri (ma ancora prima delle relazioni pubbliche) che comunica per conto di uno stato: è un termine che è diventato molto influente non soli per la capacità degli stati di esportare il proprio pensiero ma anche per aver messo al centro il coinvolgimento di pubblici internazionali. Il modo della diplomazia gode di fama migliore di quella del mondo delle relazioni internazionali, certamente dell’ambito manipolatorio viene definito propaganda. Public diplomacy invece definisce più efficacemente il processo di coinvolgimento come forma di diplomazia, coè come uno dei modi in cui un soggetto internazionale cerca di gestire il contesto internazionale.  

E come non dettagliare le determinanti dei due aspetti, public diplomacy e propaganda. La public diplomacy, come espressione delle relazioni pubbliche, si basa sulla verità è a due vie, ascolta per imparare, può cambiare mittente, è flessibile, è rispettoso degli altri è aperta, etica e sostenibile. La propaganda invece: seleziona la verità, quasi mai è a due vie, ascolta il target, ha lo scopo di cambiare solo l’obiettivo, presuppone che gli altri siano ignoranti o sbagliati, la propaganda è chiusa e può non essere etica . Non sfuggirà al lettore da che parte sta l’autore e soprattutto da che parte sta la vera professione del relatore pubblico: solo in una pratica sostanziata dalla competenza potremo attualizzare la leadership del comunicatore e del relatore pubblico e continuare a fare di questa professione il lavoro più bello e mondo.




Moda e sostenibilità: è il momento di fare sul serio

Moda e sostenibilità: è il momento di fare sul serio

È arrivato il momento di estendere e precisare il concetto di “sostenibilità”. Da troppo tempo subiamo la comunicazione errata di scarpe, magliette, jeans e felpe sostenibili. E con la comparsa, alla Stazione Centrale di Milano, delle “vetrine sostenibili” e delle “pubblicità sostenibili”, forse si è andati un po’ oltre. Ma poi, cosa vuol dire “pubblicità sostenibile”? Forse che la produzione ha parzialmente utilizzato fonti di energia rinnovabile?
Il problema sta proprio qui: al giorno d’oggi la promessa di sostenibilità, nella maggior parte dei casi, si esaurisce sempre in tecnologie, materiali o processi capaci di ridurre certe dimensioni dell’impatto ambientale di un prodotto in una o più fasi del suo sviluppo. Ma la verità è che questo non vuol dire “sostenibile”. Perché quegli stessi materiali potrebbero avere correlate conseguenze negative di altra natura. Potrebbero, per esempio, risultare nocivi per la nostra pelle e salute, impossibili da smaltire o riciclare ed essere frutto di lavoro sottopagato. Potremmo mai definire “sostenibile” un materiale che riduce le emissioni di CO2 in fase di produzione ma che è tossico per la pelle delle persone? Il concetto va quindi esteso per abbracciare aspetti sociali, culturali e ambientali con una visione sistemica che è lontana dalla percezione che si ha oggi del prodotto “sostenibile”.
“Sostenibile” è qualsivoglia azione che, compiutasi nel presente, non preclude in alcun modo lo svolgimento della medesima nel futuro. Sul mercato quindi non esistono oggi prodotti 100% sostenibili, ma ci sono prodotti a limitata responsabilità ambientale e/o a massimale responsabilità sociale. Il raggiungimento della destinazione “sostenibilità” rimane, per ora, una sfida più grande di un singolo brand. È un’utopia necessaria che ci deve spronare a continuare lavorare e innovare per avvicinarci sempre di più alla meta.

Fashion revolution Italia campagna #GoodClothesFairPay
Fashion revolution Italia campagna #GoodClothesFairPay

COSA DEVE FARE LA MODA PER ESSERE DAVVERO SOSTENIBILE

In questo percorso, se ai designer contemporanei è richiesto lo sforzo di bilanciare la qualità del proprio lavoro con la qualità dell’impatto derivato dalle proprio scelte, ai team marketing spetta la responsabilità di rappresentare questa transizione con trasparenza e onestà. E per fare questo ci vuole un po’ meno storytelling e un po’ di più realitytelling, un po’ meno art direction e un po’ più scienza. Senza venire meno alla magia che un abito e una campagna possono creare e alla funzione culturale della moda, è oggi richiesto all’industria intera un nuovo livello di consapevolezza scientifica del presente nel quale viviamo per il semplice fatto che gli ingredienti utilizzati per creare i vestiti sono gli stessi che servono per tenere in vita miliardi di specie viventi: acqua, aria, terra, energia. E continuare a sfruttarli e inquinarli per produrre numeri sempre più elevati di prodotti non essenziali, né rilevanti, equivale al suicidio. Dice bene il professor Otto von Bush quando parla di “Faust-Fashion” in riferimento allo stato attuale della moda: come nel dramma di Faust, assistiamo infatti oggi alla tragedia di un sistema avido che, indipendentemente dall’uso di materiali più o meno responsabili dal punto di vista ambientale, continua a cercare escamotage per sentirsi sempre più appagato dal punto di vista finanziario procrastinando il pagamento (collettivo) a un futuro non più tanto remoto. Le dinamiche di questo sistema stanno già costando la vita a milioni di umani, di specie vegetali, animali e di risorse naturali.
Siamo di fronte a una crisi cronica causata e perpetuata dal settore tessile che, finalmente, sembra non essere passata inosservata alla classe politica. Dagli Stati Uniti all’Europa stanno infatti emergendo proposte e pacchetti legislativi pensati per supportare l’inevitabile cambiamento del fashion system e reindirizzare i brand ad abbracciare una più ampia idea di sostenibilità. Come la “Strategia per Tessuti Sostenibili e Circolari” presentata il 30 marzo scorso dalla Commissione Europea. Un documento rilevante in quanto pubblicato da un ente politico che per la prima volta ha dato un segnale molto forte della comprensione del problema, portando sul tavolo strumenti per la sua risoluzione.

Vicenza, mostra 5 Finestre sul Futuro della Moda
Vicenza, mostra 5 Finestre sul Futuro della Moda

I 10 PUNTI CHIAVE EMERSI DAL REPORT DELLA COMMISSIONE UE

Ecco un riassunto dei 10 punti più significativi di questo report.

ECODESIGN

La Commissione UE fa sapere che verranno create linee-guida obbligatorie per indirizzare gli uffici stile e i designer europei a progettare capi più durevoli, riparabili, con filati riciclati (fibre-to-fibre) e privi di sostanze chimiche dannose;

NULLA SI DISTRUGGE

La comune pratica di distruggere capi invenduti verrà resa illegale. La Commissione UE precisa inoltre che l’eventuale distruzione di materiale tessile dovrà essere comunicata in modo trasparente.

STOP ALLE MICROPLASTICHE

Oramai arrivate anche nei nostri vasi sanguigni, le microplastiche hanno invaso il pianeta. Per ridurre d’ora in avanti il problema sono previste linee guida al design, prediligendo la scelta di materiali non sintetici, e incentivi per investimenti in tecnologie di filtraggio delle lavatrici industriali e domestiche.

Vicenza, mostra 5 Finestre sul Futuro della Moda
Vicenza, mostra 5 Finestre sul Futuro della Moda

TRASPARENZA

Nessun segreto, il mercato avrà il diritto di sapere come, dove, da chi e in che modo vengono realizzate tutte le componenti degli abiti che indossiamo. Parola d’ordine: trasparenza.

NO GREENWASHING

La Commissione UE vuole restituire all’aggettivo “green” il suo reale significato e chiede che ogni comunicazione sulla sostenibilità di un prodotto sia supportata da valide prove scientifiche. Dopo aver constatato con un recente sondaggio che il 40% dei claim di sostenibilità dei brand sono falsi, non saranno più concesse campagne di comunicazione ambiziosamente proiettate al futuro (es. “saremo climate-neutral entro il 2030”) se non fondate su concreti piani di sviluppo sostenibile. E si prevede anche che ogni brand dovrà comunicare ai clienti la durabilità commerciale dei propri prodotti e offrire servizi su come, eventualmente, ripararli.

EPR ‒ EXTENDED PRODUCERS’ RESPONSIBILITY

La responsabilità di un brand non terminerà più con la vendita! La Commissione UE ha infatti proposto che siano i brand ora a prendersi cura della gestione del fine vita di ogni articolo prodotto tramite il pagamento di una tassa dedicata che servirà a potenziare sistemi di raccolta, recupero e riciclo.

FAST-FASHION? OUT OF FASHION

Uno dei passaggi più significativi della strategia UE per la sostenibilità dei prodotti tessili è l’attacco frontale al business model dei brand fast-fashion, responsabili di aver innescato insostenibili cicli di sovrapproduzione e sovraconsumo. La Commissione chiede che venga ridotto, tra le altre cose, il numero di collezioni e drop annui. Bisogna sottolineare però come chiedere di “ridurre le collezioni” sia diverso dall’imporre una riduzione della quantità degli articoli prodotti, che sarebbe il vero traguardo. Pur riducendo il numero di collezioni, è comunque possibile aumentare le quantità assoluta di capi semplicemente redistribuendo il differenziale.

Vicenza, mostra 5 Finestre sul Futuro della Moda
Vicenza, mostra 5 Finestre sul Futuro della Moda

RICERCA E INNOVAZIONE

Sono stati annunciati sostegni alla ricerca per lo sviluppo di nuove tecnologie per il riciclo dei materiali tessili (fibre-to-fibre) e di nuovi materiali bio-based.
La Commissione UE insiste, giustamente, sul riciclo tessile da fibra a fibra e invita a ridimensionare la tanto popolare quanto inefficiente pratica del riciclo di bottiglie PET per la creazione di poliestere riciclato.

GIUSTIZIA SOCIALE

Riconoscendo che la maggior parte dei capi di abbigliamento sono oggi prodotti fuori dai confini europei, la Commissione chiede che gli articoli realizzati in condizioni avverse ai diritti fondamentali dell’uomo non siano più ammessi nel mercato europeo. Prodotti frutto di sfruttamento, oppressione, lavoro sottopagato e lavoro minorile dovranno essere banditi.

VINTAGE O SCARTO?

Recuperare vestiti usati per la rivendita è diventato sempre più difficile e costoso a causa della scarsa qualità progettuale iniziale dei capi. Costo che i Paesi occidentali esportano vendendo più della metà dei capi d’abbigliamento usati a Paesi extra UE le cui discariche e risorse naturali sono, però, oramai sature. Basti pensare al Ghana, dove si stima che ogni settimana transitino più di 15 milioni di vestiti gettati dai Paesi dell’occidente del pianeta con oramai scarsi benefici per l’economia locale. L’esportazione di vestiti usati, propone la Commissione, avverrà dunque solo verso Paesi che ne dimostrino la volontà e la capacita di gestione.

Vivienne Westwood
Vivienne Westwood

LA CULTURA DELLA SOSTENIBILITÀ COME INVESTIMENTO SOCIALE

Nonostante queste indicazioni non siano ancora legge, sono comunque un primo passo significativo. Fatto magari un po’ tardi, al limite della scadenza dei tempi massimi, come quando all’università ci si trovava a studiare la notte prima degli esami. Ma se ogni traguardo altro non è che un nuovo punto di partenza, siamo felici perché questa forte presa di posizione della Commissione UE ha dato nuovo slancio e vigore al viaggio. Dopo anni complessi (e frustranti per chi è attivo nel settore), in cui da una parte i grandi brand hanno giocato a definire la propria teoria di moda sostenibile, quella normalmente più conveniente per la salvaguardia dei propri interessi, e dall’altra parte un esercito di organizzazioni scientifiche, NGOs, attivisti, intellettuali e artisti provavano a fare contro-informazione oggettiva, ora la posizione della Commissione UE ha finalmente fatto chiarezza su molti punti.
A tutti noi, adesso, il compito di ripartire da qui più forti di prima, con pro-attività e voglia di partecipazione. Perché la sostenibilità non è una cosa che si può fare con un materiale o un disegno di legge. È un modus operandi che comporta un modo radicalmente diverso di percepire noi stessi e le nostre attività in relazione all’ambiente che deve coinvolgere tutti gli attori della società. È una cultura da internalizzare fondata su empatia, apertura, collaborazione e positività ‒ che è un significativo investimento sociale.