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Il repricing degli asset Esg ha ancora molta strada da fare

Il repricing degli asset Esg ha ancora molta strada da fare

In finanza esiste il concetto di “premio per il rischio”. Gli investitori pretendono cioè un rendimento tanto più alto quanto più è rischioso l’asset che sono disposti a mettere in portafoglio. Questo fa sì le attività più rischiose abbiano i prezzi più bassi, proprio per garantire un rendimento extra agli investitori. Viceversa gli investimenti più sicuri sono i più cari. In questo caso non si parla di “sconto per la sicurezza” ma il concetto è esattamente quello. Questa logica finanziaria sta trovando una nuova applicazione nel campo degli investimenti sostenibili che, per l’appunto, vengono ritenuti più sicuri da parte degli investitori. Essi mettono il detentore degli asset al riparo da possibili strette normative e dall’acuirsi della crisi ambientale.

Un esempio pratico è utile a capire i termini del problema: un produttore di auto con motori endotermici rischia di finire velocemente fuori mercato, cosa che invece non rischia una casa specializzata in veicoli elettrici; quest’ultima dunque presenterà molto probabilmente quotazioni più elevate della concorrente, anche se le sue vendite sono di gran lunga inferiori.

Grafico a cura di Silvano Di Meo 

I mercati si stanno già adeguando a questo nuovo paradigma ma il repricing, ovvero la crescita dei prezzi delle attività Esg, potrebbe solo essere agli inizi. Almeno questo è quanto emerge da una recente ricerca di BlackRock, secondo la quale siamo ben lontani da una bolla speculativa. Gli investitori istituzionali stanno infatti progressivamente aumentando la loro esposizione verso prodotti Esg e questo fa sì che la domanda resti molto sostenuta.

Secondo l’indagine svolta dalla casa di investimenti statunitense fra 175 suoi grandi clienti (con masse gestite complessive per circa 500 miliardi di dollari), tre quarti degli intervistati (75%) afferma di utilizzare, o prevede di utilizzare, strategie sostenibili per la costruzione dei propri portafogli, mentre il 45% prevede che i suoi investimenti risulteranno conformi con gli articoli 8 e 9 della Sustainable Finance Disclosure Regulation (Sfdr) della Commissione europea. La maggior parte degli intervistati (62%) dice inoltre di voler investire solamente in fondi conformi con l’articolo 6 del Sfdr nel caso in cui le alternative previste dagli articoli 8 e 9 presentino significativi disallineamenti sia in termini di performance che di tracking.

“I tassi bassissimi e l’aumento dell’inflazione hanno eroso il reddito dei titoli di stato che storicamente hanno stabilizzato i portafogli, mettendo seriamente in discussione il classico approccio 60-40, percentuali che indicano rispettivamente la quota di portafoglio riservata alle azioni e al reddito fisso – afferma Pierre Sarrau, co-head and chief investment officer for multi-asset strategies and solutions di BlackRock -. Un altro fattore che spinge gli investitori a riconsiderare la costruzione del portafoglio e valutare la sua resilienza è la transizione verso l’energia verde, che presenta sia rischi che opportunità. Mentre l’attuale contesto è favorevole alle attività rischiose, c’è parecchia incertezza su un orizzonte di tempo più lungo”.

Vivek Paul, senior portfolio strategist del BlackRock Investment Institute, ricorda invece come un paio di anni fa la casa d’investimenti americana avesse previsto come il massiccio impiego di capitali per combattere il cambiamento climatico avrebbe influito sul prezzo degli asset: “Allora però questo effetto doveva ancora concretizzarsi e ci mancavano i dati per capire se fosse già all’opera. Oggi invece siamo convinti che questa dinamica sia reale e che stia influenzando i prezzi. Il costo dei capitali per l’acquisto di attività green sta scendendo e viceversa. Il grosso del repricing deve però ancora arrivare. Questo ci porta a concludere che gli asset sostenibili beneficeranno di questo trend e che, per ora, siano ben lontani da una bolla speculativa”, conclude l’esperto di BlackRock.




Il naufragio della Costa Concordia e il ricordo di Franco Gabrielli: «Vidi un grottesco gioco delle parti»

Il naufragio della Costa Concordia e il ricordo di Franco Gabrielli: «Vidi un grottesco gioco delle parti»

A volte, il destino. «Scendo dalla nave, il mio posto sarà da oggi occupato dal nuovo Capo del dipartimento… Gli lascio un organismo che è conosciuto solo in piccola parte come una nave da crociera di cui la pubblicità fa vedere solo i ponti soleggiati, le cabine, la piscina e gli impianti sportivi, ma che naviga sicura e funziona in ogni dettaglio».

Emergenza

Era il 12 novembre 2010. Guido Bertolaso lasciava la guida della Protezione civile con una lettera che a rileggerla oggi sembra un presagio. Poco più di un anno dopo, nella notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012, Franco Gabrielli, il suo successore, si sarebbe trovato di fronte alla Costa Concordia riversa su un fianco, a una emergenza senza eguali nella nostra storia recente, che pure di emergenze purtroppo abbonda. Ci mise quasi una settimana, per arrivare sull’Isola del Giglio. E non per colpa sua. Dovette aspettare la nomina a commissario delegato del governo per la gestione di quest’ultimo disastro. A quel tempo, la Protezione civile viveva un momento particolare, e stiamo usando un gentile eufemismo. Dopo gli anni in cui aveva allargato a dismisura le sue competenze arrivando a organizzare manifestazioni sportive, concerti ed eventi di ogni genere, era venuta la stagione in cui la politica si riprendeva il potere perduto, e al tempo stesso si tutelava creando una barriera tra la gestione delle emergenze e la sua responsabilità.

Sottosegretario

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La copertina del libro

Gabrielli divenne così il primo capo della Protezione civile ad avere responsabilità personale di ogni singola ordinanza, portatore unico di ogni possibile ricaduta. «Un vero e proprio capolavoro di tartufesco “scarico di responsabilità”, che purtroppo ancora oggi resiste» sostiene nel suo «Naufragi e nuovi approdi» (con Francesca Maffini, Baldini+Castoldi, in libreria da giovedì 13). Non solo un amarcord di quella incredibile vicenda, ma una riflessione sull’Italia. E nonostante oggi ricopra ancora cariche importanti, è sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti, in omaggio al suo temperamento toscano, l’autore non le manda a dire, chiamando cose e persone con il loro nome, dettaglio che rende la lettura ancora più interessante. Date le premesse, l’accoglienza non poteva essere delle migliori. Trovò ad attenderlo uno striscione appeso all’esterno dell’hotel Bahamas. «Gabrielli, togli la nave cazzo». Con quella citazione della frase divenuta subito celebre in tutto il mondo, pronunciata dall’allora ufficiale della Capitaneria di porto di Livorno Gregorio De Falco per far risalire a bordo il comandante Francesco Schettino, i gigliesi gli fecero subito capire quel era la loro priorità.

Burocrazia

Non erano gli unici, ad avere bisogno di cancellare dalla vista quella immagine così umiliante per un intero Paese. E in questi giorni di anniversario tondo, non era facile ripercorrere una storia nota e ancora ben impressa nella memoria da un angolo inesplorato. Gabrielli invece ci riesce, facendo ricorso al proprio vissuto. Nel suo racconto, i soccorsi senza speranza e poi il riscatto del raddrizzamento della nave e della sua partenza dal Giglio, diventano una perpetua lotta contro il male endemico del nostro Paese, la burocrazia che blocca tutto, usata spesso come arma da una classe politica che talvolta bada più alla propria convenienza immediata che all’interesse generale. «Come si può pensare di dover quantificare e autorizzare preventivamente, prima degli interventi, la spesa per gli uomini e i mezzi di soccorso? Come si può immaginare che un’emergenza duri soltanto 60 giorni? Come si può pretendere che la deliberazione dello stato di emergenza preveda già quale sia l’amministrazione che subentrerà nell’ordinario? Come siamo potuti, come Paese, arrivare a un tale punto di miopia?».

Gioco delle parti

Non è uno sfogo fatto con il senno di poi, dieci anni dopo. Gabrielli fu il principale rappresentante di uno Stato che all’interno di una impresa mastodontica dove pubblico e privato agivano insieme, gli aveva affidato un budget di cinque milioni di euro, a fronte di un costo totale di un miliardo, ma insisteva comunque nell’imporre le proprie pretese.

Come avvenne con il surreale tentativo di far giungere il relitto nel porto di Piombino, inadatto e bisognoso di lavori che sarebbero durati anni. «Fino all’ultimo assistetti a un fuoco di fila fatto di pressioni palesi, avvertimenti poco edificanti, conditi da dossier in cui si alludeva a mie “cointeressenze” con Fincantieri, sceneggiate più o meno folkloristiche… con amministratori e ministri che, invece di affrontare con determinazione e coraggio i nodi che la soluzione prospettata imponeva, in un grottesco gioco delle parti avevano menato il can per l’aia, da una parte, e dall’altra ci si era fatti “menare”, nonostante le mie sollecitazioni ad aprire gli occhi».

Procedure barocche

Mercoledì 24 luglio 2014, la Costa Concordia lasciò per sempre l’Isola del Giglio trainata da due rimorchiatori oceanici e giunse a Genova, dove sarebbe stata poi demolita. «E allora qual è stato l’esito delle vicende che ho provato a raccontare nelle pagine che precedono? Quali insegnamenti abbiamo imparato dalla dimostrazione dei limiti nella gestione delle emergenze che si sono succedute? Quali “buone pratiche” abbiamo appreso? Credo molto poco». Rimaniamo il Paese del giorno dopo, bravi a mobilitarsi sull’onda dell’emotività, ma incapaci di operare in tempo di pace. «Anche a causa di una legislazione farraginosa e di procedure barocche» conclude Gabrielli. E se lo ribadisce uno dei nostri più importanti servitori dello Stato, forse sarebbe il caso di dargli ascolto.




MULTINAZIONALI DEL FASHION: PRODOTTI GLAMOUR, A BUON MERCATO… E POCO ETICI

MULTINAZIONALI DEL FASHION: PRODOTTI GLAMOUR, A BUON MERCATO… E POCO ETICI

Come ho già a più riprese denunciato, i limiti intrinsechi del modello “ESG – Enviromental, Social and corporate Governance”, tanto di moda negli ultimi anni, risultano evidenti agli occhi di qualunque professionista intellettualmente onesto.

Un’opinione attualmente diffusa vuole che le società che hanno posizioni migliori in classifica sulla base delle metriche ESG otterranno – già solo per questo – migliori rendimenti per gli azionisti: questa convinzione è semplicemente errata.

Certo, come dimostra  il celebre lavoro di Robert Eccles ad Harvard, ampiamente validato da ulteriori e successive evidenze scientifiche, l’introduzione di preoccupazioni di carattere etico nel business, a livello strategico, giova alla redditività delle aziende; ne ho parlato diffusamente anche in una delle mie ultime monografie, e questa verità da anni non è più in discussione, perlomeno in ambito accademico.

Il tema casomai è un altro, ovvero che gli indici ESG sono centrati su uno sguardo del tutto generale, avulso dal particolare e dalla specifica storia e prassi delle aziende esaminate: si tratta in poche parole di una vera e propria mania classificatoria. L’ennesima, tipica del mondo anglosassone.

L’esempio che cito spesso è quello dell’impatto ambientale di una banca, che non è necessariamente rilevante per la performance economica della stessa: una corretta politica di contenimento delle emissioni nocive in atmosfera otterrebbe un alto punteggio sugli indici ESG, ma non influenzerebbe significativamente le emissioni di carbonio globali. Al contrario, l’emissione da parte della banca di prestiti subprime che i clienti non saranno in grado di ripagare – o, peggio ancora, la commercializzazione di titoli tossici – potrebbe avere devastanti conseguenze sociali e finanziarie, come le cronache di pochi anni fa hanno dimostrato. Nonostante ciò, il reporting ESG ha dato credito alle banche per la prima questione, e allo stesso tempo ha tralasciato colpevolmente – o, peggio, dolosamente – la seconda.

Una possibile soluzione potrebbe essere quella di stimolare le istituzioni ad applicare il già esistente regime sanzionatorio previsto per le Dichiarazioni Non Finanziarie in caso di intenzionali scorrettezze nel processo di accountability delle imprese. La normativa attuale prevede, per tali violazioni, sanzioni da 25.000 a 150.000 euro, a seconda dei casi. Ma pare non sia mai stato concretamente applicato, anche perché è evidente la mancanza di expertise dell’istituzione preposta – nella fattispecie, Consob – che dovrebbe effettuare l’accertamento e l’irrogazione delle sanzioni, sulla base di verifiche effettuate a campione, sulle quali, paradossalmente, non esiste però alcun report pubblico, con il risultato che chi dovrebbe vigilare sulla corretta rendicontazione non rendiconta a sua volta.

Nell’attesa che la magistratura trovi il mordente necessario a far applicare la legge, e il legislatore motivi buoni per irrobustire l’apparato normativo, a dispetto delle discutibili azioni di lobby delle organizzazioni di categoria degli imprenditori, impegnate dietro le quinte a esercitare pressioni, al contrario, per consolidare l’attuale “laissez-faire”, le trasgressioni del patto etico e di trasparenza che dovrebbe legare aziende e stakeholder si moltiplicano, nell’indifferenza generale.

Il mondo della moda: come chiudere gli occhi e vivere felici

In un bell’articolo pubblicato qualche tempo fa sulla rivista americana The Nation, Maria Hangeveld denunciò come le certificazioni etiche, specie nel mondo della moda, e in particolare del fast-fashion, ovvero il settore delle aziende che produce capi di abbigliamento adeguandosi rapidissimamente alle mode del momento, siano sì ispirate all’auditing finanziario, ma fortemente marketing-oriented: di fatto, più che uno strumento di valutazione e controllo, sono invece un traguardo da raggiungere a fini di mera comunicazione esterna, un certificato da “appendere al muro” e soprattutto da veicolare sui Social e sui comunicati stampa, nonostante le condizioni di lavoro degli operai, lungo la filiera, restino quanto meno discutibili.

Anche il giornalista Meta Krese ne ha parlato, più recentemente, sulla rivista americana In These Times, ricordando come il Burkina-Faso sia ad esempio il più importante produttore ed esportatore di cotone dell’intero continente Africano: duecentomila piccoli coltivatori conferiscono ogni anno settecentomila tonnellate di cotone alla Sofitex, la Societé Burkinabé de fibres texiles, che le imbarca dai porti del Benin e della Costa d’Avorio verso l’Asia, dove vengono lavorati e poi rivenduti – previo confezionamento secondo le linee guida delle aziende europee e americane, apparentemente molto attente alla sostenibilità – a marchi occidentali del fast-fashion come H&M, Gap e Zara.

Sofitex paga alle fattorie un prezzo di circa 36 dollari per ogni chilo di cotone acquisito, il che si traduce per i lavoranti in uno stipendio di 360 dollari all’anno, circa 1 dollaro al giorno. I contadini cercano di utilizzare semi di cotone OGM, così da ridurre un po’ l’uso di pesticidi, dal momento che gli irroratori sono sempre in pessime condizioni e loro quindi usandoli, finiscono con il respirare sostanze velenose. Le sementi OGM della Monsanto, però, producono fibre sempre più corte ad ogni generazione, abbassando la qualità del cotone e quindi il prezzo finale di vendita. Di tutto questo, alle aziende occidentali, incluse quelle green, interessa poco o niente.

In Bangladesh, dove si confezionano i tessuti con il cotone del Burkina-Faso, la situazione è di poco migliore: lo stipendio è di circa 90 dollari al mese, e le spese vive per pagare il cibo e l’affitto, in una casa che è poco più che una baracca, ammontano a circa 73 dollari. Il risultato è che alle sarte – quasi sempre donne – restano 17 dollari al mese per vivere. Sindacalisti indipendenti attivi sul posto osservano come, nel momento in cui le condizioni di lavoro dovessero migliorare, con un decoroso aumento dei salari, ciò che succederebbe sarebbe che – su pressione delle multinazionali della moda, indisponibili a pagare di più il prodotto confezionato – la produzione verrebbe spostata in nazioni con un costo del lavoro più conveniente, gettando sul lastrico centinaia di migliaia di famiglie. Per questo, funzionari governativi e padroni delle fabbriche locali collaborano tra loro per contrastare qualunque iniziativa sindacale a favore dei lavoratori. Un esempio eclatante è quello di H&M: la multinazionale svedese dell’abbigliamento a buon mercato, che veleggia attorno a 2 miliardi di profitti all’anno, ha un’articolata policy sulla sostenibilità pubblicata sul proprio sito web e vanta anche la speciale collezione “Conscious Exclusive” a basso impatto ecologico, con abiti composti con tessuti derivanti da foglie di ananas, scarti della canapa, etc., ma delle criticità legate al controllo della filiera non fa accenno nella propria rendicontazione sociale, e anche noi cittadini siamo disponibili a chiudere gli occhi e non farci domande, ben lieti di pagare capi di moda a un prezzo assai accessibile.

Stesso dicasi per la Cina, dove si produce il 20% del cotone mondiale. Nella regione cinese dello Xinjiang, a raccoglierlo e lavorarlo è un esercito di oltre mezzo milione di cinesi appartenenti alla minoranza islamica degli Uiguri, trattati come schiavi nei campi di “lavoro e rieducazione”. Un problema enorme, visto che il cotone è la seconda fibra più usata a livello globale per la produzione di abiti, dopo il poliestere, e che molti marchi di fast fashion e sportswear, ma anche del lusso, si riforniscono da aziende attive proprio in questa regione. Tra i membri delle istituzioni più nettamente schierati su questo tema c’è l’Ambasciatore ed ex Ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, Presidente del Global Committee for the rule of law, ONG che si occupa di progetti internazionali sul tema dello Stato di diritto:

“È incredibile come molti marchi anche assai famosi girino la testa dall’altra parte senza prendere posizione contro questi abusi promossi dal Partito Comunista Cinese, con la scusa che loro acquistano da intermediari e quindi non sanno da dove proviene esattamente il cotone. Lo sanno eccome, in realtà, ma trovano forse comodo chiudere gli occhi dinnanzi allo strapotere cinese”.

Con buona pace delle certificazioni etiche ed ESG delle aziende occidentali.

Il Cile invece è diventato da tempo un polo internazionale di raccolta dove confluisce l’abbigliamento di seconda mano e invenduto, prodotto in Cina e in Bangladesh, e che passa attraverso l’Europa, l’Asia o gli Stati Uniti prima di arrivare in sud America, dove nel deserto di Atacama, vero e proprio paradiso naturale, vengono ammassate a cielo aperto circa 40.000 tonnellate all’anno di vestiti invenduti o di seconda mano provenienti dal settore del fast fashion: si stima infatti che 500 miliardi di dollari vengano persi ogni anno a causa di indumenti appena usurati e raramente riciclati.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2019, l’industria della moda è responsabile del 20% dello spreco totale di acqua a livello globale (per fare un singolo paio di jeans ci vogliono ad esempio 7.500 litri di acqua), e “ogni secondo della giornata, una quantità di tessili equivalente a un camion della spazzatura viene sepolta o bruciata” a causa delle attività industriali del settore moda. Attualmente – nonostante gli sforzi degli ultimi anni per ridurre le emissioni – l’industria del fashion presenta ancora a riguardo una tendenza assai preoccupante, per cui si prevede che le emissioni di gas serra di questo comparto – che già oggi sfiorano il 10% delle emissioni globali di Co2! – aumenterà ancora di un ulteriore terzo, raggiungendo l’enorme cifra di 2.7 miliardi di tonnellate annue entro il 2030.

Certificazioni etiche e criteri ESG: molta apparenza, poca sostanza

Esistono certificazioni etiche apparentemente rigide, come la SA8000, che prevede – tra le altre cose – la verifica del rispetto delle norme in materia di sicurezza, uno stipendio adeguato e assistenza medica ogni qual volta necessaria. Peccato che per le società di auditing i profitti paiano venire prima della sincera preoccupazione per gli standard etici tanto sbandierati dalle aziende di abbigliamento. Le ispezioni sono pagate dalle stesse aziende che le commissionano, e le società di certificazione non hanno particolare interesse a “contraddire il loro cliente”. Senza contare che i report – spesso ingannevoli o tali da sottostimare i rischi – non sono accessibili a coloro i quali dovrebbero tutelare, ovvero i lavoratori.

Sono una decina le multinazionali che si contendono il ricco mercato delle certificazioni etiche, come la francese Bureau Veritas, la tedesca TUV, la britannica Interteck e anche l’italiana RINA, Registro Italiano Navale, organizzazione nata per classificare e certificare le navi mercantili, che poi ha notevolmente espanso il proprio business.

In generale, per pressoché quasi tutte le società di certificazione, la situazione degli standard applicati è abbastanza desolante, in quanto questi organismi paiono essere disponibili a molti compromessi pur di acquisire un cliente. Sono stati documentati casi – riferisce la Hengeveld – nei quali le ispezioni sono ampiamente preannunciate e “addomesticate”, solo una minima parte dei rischi per la salute e la sicurezza viene riportato nei rapporti, i contenuti dei report sono a volte copia-incollati da un’ispezione all’altra, il numero dei dipendenti sistematicamente sottostimato, e anche il banale dato delle ore lavorate al giorno viene falsificato e ridotto dalle reali 12/13 ore alle più tollerabili 8 ore.

Questi e altri sono i motivi alla base di disastri come quello della fabbrica di abbigliamento Ali Enterprises a Karachi, in Pakistan, dove 250 operai morirono intrappolati al primo piano del palazzo, dietro finestre con le sbarre di ferro, le uscite di emergenza chiuse a chiave, e senza estintori funzionanti. L’azienda era stata certificata SA8000 proprio dal RINA poche settimane prima del disastro. Fatti come questo fanno sorgere ovviamente molte preoccupanti domande, e seppure il RINA ha successivamente dichiarato di aver rivisto le sue policy di certificazione, la situazione non pare del tutto rassicurante.

Certo, da quei tempi sono stati fatti dei progressi, e SAI (Social Accountability International, l’organismo che elabora questo genere di standard) ha finalmente rilasciato due anni fa una versione rivista delle linee guida per la certificazione SA 8000. Ma la sensazione che comunque ne ricavo è che l’immagine di progresso sociale e dei diritti dei lavoratori fornita dalle aziende della moda, grazie alla complicità di queste società di certificazione, è molto distorta, ad usum Delphini, utile principalmente per rassicurare i cittadini e i clienti, che necessitano di serenità circa il profilo etico dei propri acquisti, in chiave green, così da auto-giustificare le proprie scelte di consumo. I prezzi predatori applicati dalle multinazionali del fashion alle forniture, inoltre, non fanno che peggiorare lo scenario, azzerando qualunque margine per migliorare le condizioni di sicurezza sul posto di lavoro e la qualità della vita di operaie e operai.

Un’ulteriore utile angolazione per osservare questo fenomeno, la fornisce Cesare Saccani, esperto in certificazioni e promotore di Get It Fair, uno schema di rating ESG che intende far tesoro di alcuni problemi verificati nell’ambito della certificazione dei sistemi di gestione.

“Al giorno d’oggi vi è grande attenzione alla valutazione dei rischi ESG, o non finanziari, ma non possiamo permetterci di commettere gli stessi errori già accaduti in passato nel mondo della certificazione di sistema di gestione. È necessario focalizzare l’attenzione sui rischi reali, piuttosto che sulle procedure puramente formali. Una cosa è verificare se l’azienda ha un sistema di manutenzione dell’impianto elettrico, tutt’altra cosa è verificare se i quadri elettrici sono in ordine, il circuito di terra funziona, etc.. Passare dalla mera verifica di conformità dell’azienda rispetto ai requisiti di un sistema di gestione, a una vera e propria stima del grado di esposizione a un rischio, è complicato. Lo è ancora di più se si deve soddisfare una domanda che chiede valutazioni dei rischi con carattere predittivo, orientata ai rischi di eventi che potrebbero accadere in futuro. Osservando quanto accaduto in passato, occorre innanzitutto fissare bene la soglia di aspettativa. Un esempio banale? Per un’azienda che produce torte, un sistema di gestione della qualità ben implementato dovrebbe assicurare che tutte le torte prodotte dall’azienda siano esattamente uguali alla ricetta pensata originariamente per la torta in questione, ma se la ricetta della torta è orribile, un sistema di gestione ISO 9001 ridurrà i rischi di deviazione del processo rispetto allo standard programmato e così facendo assicurerà soltanto che migliaia di torte saranno orribili allo stesso modo. Eppure, nel mondo si è diffusa la vulgata che la torta realizzata da un’azienda con sistema di gestione certificato ISO 9001 sia di per sé buona, e lo stesso accade per l’ambiente, la sicurezza o la responsabilità sociale”.

Per tentare di diffondere una cultura più attenta a comprendere scopi e finalità delle norme, e quindi le aspettative sulle certificazioni, Saccani ha recentemente promosso la costituzione dell’Associazione per la Responsabilità d’Impresa e Sviluppo Sostenibile “Diligentia ETS”. “Nell’ambito dei rischi non-finanziari, i metodi basati sull’ auto-valutazione o sulla compilazione di checklist hanno già ampiamente dimostrato tutti i propri limiti”, dichiara Saccani. “La valutazione dei ESG con carattere predittivo è impossibile senza effettuare un assessment presso l’azienda, grazie a auditor di comprovata esperienza, competenza e integrità, e ove possibile, superando i limiti della ‘frequenza e preavviso di un audit’ prestabiliti a priori. Passare da un preavviso di settimane se non più, a un preavviso di pochissimi giorni, sarebbe già un importante miglioramento. Purtroppo, nell’ambito della valutazione dei rischi ESG, non è possibile fidarsi di dichiarazioni o questionari di auto-valutazione compilati dall’azienda o, peggio ancora, di informazioni pubblicamente accessibili su internet, e ancor meno su di una visita soltanto, senza monitoraggi periodici, per capire se l’azienda sta peggiorando, mantenendo costante o migliorando il grado di esposizione ai rischi non finanziari. In definitiva, se tutto il processo fosse ri-orientato sulla concreta predizione dei rischi futuri, faremmo davvero grandi passi avanti”, conclude Saccani.

“Occorre sviluppare un’offerta di schemi e fornitori di servizi in grado di assicurare competenza, assenza di conflitti di interesse, ma soprattutto minore dipendenza da obiettivi di volumi commerciali e margini reddituali delle società di certificazione”, ha aggiunto la Dott. sa Giorgia Grandoni, ricercatrice del centro studi della start-up innovativa Reputation Management. “Tutto questo deve essere supportato da un mercato dei fornitori di servizi di consulenza più maturo, professionalizzato e meglio formato. Se tutto questo accadesse, probabilmente – sostiene Grandoni – non si verificherebbero molte delle distorsioni già verificate nel passato, che possono a posteriori impattare molto negativamente sulla reputazione delle imprese, la quale, come sappiamo, è l’asset immateriale più importante e di maggior valore per qualunque azienda”.

Non solo moda

Peraltro la situazione non pare migliore in altri comparti, come hanno denunciato due giornalisti in un servizio sul The Guardian: Philip Morris, British American Tobacco e Imperial Brands, ad esempio, comprano tabacco raccolto da immigrati africani in Italia sfruttati senza un contratto, con paghe nettamente inferiori a quanto stabilito dalla legge, costretti a lavorare 12 ore al giorno sotto il sole senza accesso all’acqua potabile e costantemente minacciati dai loro capi. Eppure nessuna di queste criticità è oggetto di analisi o di rendicontazione da parte delle multinazionali del tabacco, e tanto meno noi fumatori ci poniamo alcuna questione quanto acquistiamo un pacchetto di sigarette: “qualcuno forse se ne occuperà, non riguarda me”, è il pensiero che probabilmente ci passa per la testa. D’altro canto, i responsabili per la comunicazione esterna di queste multinazionali sottolineano come procedure e codici di condotta vengano applicati proprio per minimizzare questo genere di rischi e garantire standard contrattuali adeguati da parte dei loro fornitori: evidentemente, anche in questo caso tra quanto scritto su carta – e validato dalle società di certificazione – e la realtà, esiste ancora una significativa discrasia.

Nuove generazioni: qualcosa sta cambiando?

Conforta sapere che mentre le multinazionali si dedicano al “maquillage” nel tentativo di convincere i cittadini delle loro (presunte) intenzioni etiche, questi ultimi paiono invece privilegiare un approccio responsabile e sostenibile. Secondo il 6° Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile di LifeGate, se nel 2016 solo il 7% di persone dichiarava di acquistare capi di abbigliamento naturali o sostenibili, nel 2018 questa percentuale è aumentata all’11%, e nel 2020 al 16%.

A guidare questo cambiamento sono in particolare le giovani generazioni, come dimostra il rapporto The state of fashion, elaborato dalla società di consulenza McKinsey e dalla rivista The business of fashion, che afferma che già il 31% per cento dei consumatori appartenenti alla generazione Z, la generazione che detterà i trend di mercato nei prossimi anni, dichiara di essere disposta a pagare qualcosa di più per prodotti con il minor impatto ambientale. La speranza quindi è che le aziende possano essere incentivate a cambiare nel concreto, anche se il processo virtuoso non sarà certo breve.

Tornando in conclusione al disastro dei 250 operai morti in Bangladesh, il RINA, che aveva confermato la fabbrica come pienamente rispondente ai requisiti di certificazione, si è inizialmente rifiutato di collaborare con chi poneva domande per comprendere quanto accaduto quel giorno, ha “secretato” i rapporti e i documenti di audit rendendoli indisponibili alla pubblica opinione, ha sostenuto che la fabbrica era conforme agli standard “il giorno dell’ispezione” (sic!) e si è dichiarata indisponibile a risarcire in modo congruo le famiglie dei morti.

Davvero uno scenario preoccupante per un organismo di certificazione che dovrebbe a sua volta vigilare sugli standard etici delle aziende, ma – come al solito – business is business.


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Finlandia, Svezia e Danimarca sul podio della sostenibilità europea. L’Italia? È 23esima

Finlandia, Svezia e Danimarca sul podio della sostenibilità europea. L’Italia? È 23esima

Finlandia, Svezia e Danimarca: sono tre Paesi del Nord Europa a salire sul podio della sostenibilità nel Vecchio Continente, in una sorta di classifica che mette insieme sia la strada percorsa verso i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile indicati come prioritari dall’Onu, sia il punteggio ottenuto in un indice specifico che si chiama «Leave No One Behind Index», che misura le disuguaglianze rispetto a quattro parametri: povertà, servizi, genere, reddito. L’Italia? È solo al 23esimo posto (con un punteggio di 68 su 100), dopo la Spagna e prima della Croazia, nell’elenco di 34 Paesi europei che include anche le nazioni candidate a entrare nell’Unione. Il lato positivo è che negli ultimi anni i nostri progressi verso gli Obiettivi di sviluppo sostenibile sono stati pressoché costanti, saliamo di qualche punto percentuale a ogni classifica. (A questo LINK la mappa interattiva sull’Italia e gli altri Paesi europei e i loro progressi rispetto agli Sdgs).
I conti li ha fatti il nuovo «Rapporto sullo sviluppo sostenibile in Europa 2021», realizzato da Sustainable Development Solutions Network (Sdsn), rete dell’Onu che mobilita competenze scientifiche e tecniche del mondo accademico, della società civile e del settore privato per sostenere la risoluzione pratica dei problemi per lo sviluppo sostenibile a livello locale, nazionale e globale.
Il report evidenzia anche che, per la prima volta dall’adozione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile nel 2015, nel 2020 il punteggio medio dell’ «SDG Index dell’UE» non è aumentato, anzi è leggermente diminuito in media, principalmente a causa dell’impatto negativo del Covid su aspettativa di vita, povertà e disoccupazione. Aspetti che hanno tutti a che fare con la «s» dell’acronimo Esg, il risvolto «sociale» di uno sviluppo più equo e che punti al riequilibrio di accesso a beni e servizi. Eppure, è evidente come le due tematiche siano correlate: i Paesi che sono in cima all’SDG Index sono anche in cima al Leave No One Behind Index, indicando che lo sviluppo sostenibile e la riduzione delle disuguaglianze sono obiettivi che si rafforzano reciprocamente.

Finlandia, Svezia e Danimarca sul podio della sostenibilità europea. L’Italia? È 23esima

La classifica

Secondo il report di Sdsn, la Finlandia è in cima all’Indice della sostenibilità per i Paesi europei (e mondiali) proprio perché è tra le nazioni meno colpite dal Covid, soprattutto rispetto alla maggior parte degli altri Paesi della Ue. Europa che, in generale, è ancora indietro nella mappa dei 17 Obiettivi, soprattutto sui temi della dieta e dell’agricoltura sostenibile, del clima e della biodiversità (obiettivi 2, 12-15). Proprio su questi fronti, l’analisi dei Piani di ripresa e resilienza di due nazioni come Italia e Spagna, che sono destinatarie di grosse fette dei fondi Ue e che hanno per il 90% obiettivi legati agli Sdgs nei loro piani, non sembra convincente: secondo l’organismo delle Nazioni Unite a questo obiettivi vengono dedicate misure di minor impatto rispetto a quanto servirebbe.
Sono poi necessari ulteriori sforzi per rafforzare la convergenza degli standard di vita nei paesi europei. L’Obiettivo 9 (Industria, Innovazione e Infrastrutture) è l’obiettivo con il maggiore spread di performance, con molti paesi europei che ottengono risultati molto buoni (pannello “verde”) ma anche molti paesi con risultati molto scarsi (pannello “rosso”), come si vede nel grafico sopra.

Finlandia, Svezia e Danimarca sul podio della sostenibilità europea. L’Italia? È 23esima

Gli impatti sulle emissioni

Ma c’è anche un altro aspetto che il report mette in evidenza. Se è vero che il Vecchio Continente è responsabile dell’emissione di solo l’8-10% della CO2 a livello globale, con l’Asia che pesa per il 60%, non va però dimenticato che gli stili produttivi e di consumo europei portano a impatti molto pesanti dal punto di vista ambientale e sociale, che si evidenziano non tanto e non solo in «casa», quanto all’estero. Si pensi alla deforestazione, sul fronte ambientale, oppure, su quello sociale, alla tolleranza verso standard di lavoro scadenti nelle catene di approvvigionamento internazionali può danneggiare i poveri, in particolare le donne, in molti paesi in via di sviluppo. Sdsn stima ad esempio che ogni anno nel mondo le importazioni di prodotti tessili nell’Ue siano legate a 375 incidenti mortali sul lavoro (e a 21,000 incidenti non mortali).
Sul fronte degli impatti ambientali si possono fare altri tipi di calcoli. Come questo: attraverso le importazioni, ad esempio di cemento e acciaio, l’Europa genera emissioni di CO2 in altre parti del mondo, tra cui Africa, Asia-Pacifico e America Latina. Mentre le emissioni domestiche di CO2 sono diminuite da molti anni nell’UE, le emissioni di CO2 emesse all’estero per soddisfare il consumo dell’UE (le cosiddette emissioni di CO2 importate) sono aumentate nel 2018 ad un ritmo più rapido del Pil (vedi grafico sotto).
«La proposta di un meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (Cbam), di altri meccanismi di adeguamento e di clausole specchio, e il nuovo regolamento sulla Due Diligence possono aiutare ad affrontare e a monitorare le rilocalizzazioni delle emissioni di carbonio e gli altri impatti negativi causati da catene di approvvigionamento non sostenibili», spiega il rapporto. Che aggiunge: «Tuttavia, per evitare la trappola “protezionista”, questi meccanismi dovrebbero essere accompagnati da una maggiore cooperazione tecnica e da un maggiore supporto finanziario per accelerare i progressi verso la sostenibilità nei Paesi produttori, compresi i Paesi in via di sviluppo.

Finlandia, Svezia e Danimarca sul podio della sostenibilità europea. L’Italia? È 23esima

Le sfide

Il rapporto evidenzia inoltre che strumenti europei come il Multiannual Financial Framework, il NextGenEU e la Recovery and Resilience Facility sono una potenza finanziaria per accelerare la trasformazione dell’UE nel periodo 2021-2027. Tuttavia, le linee guida fornite agli Stati Membri per preparare i loro piani nazionali di recupero e resilienza non includono alcun riferimento agli Obiettivi si sviluppo sostenibile. «Una sfida importante sarà garantire che l’insieme dei piani nazionali di rilancio si aggiunga a trasformazioni coerenti e ambiziose degli Sdgs a livello dell’Ue, compresa la trasformazione dei sistemi energetici e alimentari/del territorio», spiegano gli analisti.




Amazon, come arricchirsi manipolando il mercato

Amazon, come arricchirsi manipolando il mercato

Misurare è conoscere, proclamava nella fase pionieristica dell’industrializzazione del Diciannovesimo secolo il capostipite dei grandi ingegneri inglesi, Lord Kelvin. Si era nella fase della prima rivoluzione tecnologica, quando la grande corsa della misurazione della natura in termini scientifici, iniziata più o meno nel Tredicesimo secolo, era giunta a un tornante decisivo, quello della meccanizzazione. Da allora siamo oggi alla fase delle psico-tecnologie, in cui si misurano pensiero e desiderio e non solo i fenomeni naturali. È vero quel che è certo, ed è certo quel che è misurabile, sintetizza Mauro Magatti nel suo Oltre l’Infinito (Feltrinelli). E oggi solo pochi soggetti, quali i grandi centri tecnologici della Silicon Valley, hanno il potere di misurare, e dunque di segnare, quel fondamentale confine fra il vero e l’incerto.

Amazon sta esercitando con tracotanza questo potere e l’Authority della concorrenza italiana è arrivata a comminare una multa per più di un miliardo di euro per aver esercitato la sua posizione dominante in maniera discriminatoria e penalizzante per i competitori. Si tratta però, per quanto deciso dall’Authority, di un aspetto collaterale dell’azione del gruppo di Bezos: avere privilegiato le proprie strutture logistiche nella visibilità delle merci da vendere sulla propria piattaforma di e-commerce. In sostanza venivano premiati coloro che si avvalevano dei servizi Amazon rispetto alla concorrenza. Ma davvero Amazon guadagna in questo modo?

In realtà, quanto ha sanzionato l’Autorità italiana è un aspetto largamente minore e parziale della reale attività del gruppo monopolistico americano. Cerchiamo di mettere a fuoco quale sia la vera distorsione che sta rivoluzionando dall’interno lo stesso mercato capitalistico da parte di uno dei suoi più rilevanti agenti, quale è appunto Amazon. Cosa fa concretamente il gigante americano?

Amazon semplicemente sfrutta un doppio ruolo – operatore del mercato e commerciante sul mercato – in due modi: primo, implementando politiche di mercato che privilegiano il proprio marchio come produttore e venditore di singole merci, esercitando un controllo totale su marchi e prezzi dei concorrenti che sono costretti a transitare sulla sua piattaforma e, secondo, appropriandosi delle informazioni commerciali di tutti  i terzi agenti operativi sul mercato, siano essi clienti o concorrenti diretti, per profilarli, tracciarli, programmarli e prevenirli.

Un modo in cui Amazon ha favorito i beni e i servizi di Amazon è con il presentarsi come il venditore predefinito, anche quando i venditori del marketplace hanno offerto prezzi più bassi. Un’indagine di ProPublica ha scoperto che Amazon ingegnerizza il suo algoritmo di classificazione per favorire i propri prodotti e quelli venduti dai commercianti che acquistano i servizi logistici e commerciali che il gruppo vende. In sostanza, è come se il titolare di un’unica vetrina in una strada molto frequentata sia anche il titolare di una larga parte dei prodotti che vengono messi in bella mostra su quella vetrina – a danno dei concorrenti che rimangono in fila ad attendere uno scampolo di visibilità. In questo modo si stima che l’82% delle vendite di Amazon si realizzi proprio grazie al privilegio di essere al primo posto, cioè nella posizione privilegiata per raggiungere i clienti, nonostante si tengano delle aste per aggiudicarsi quella collocazione: chiunque vinca la Buy box di Amazon fa vincere, alla fine, sempre e solo Amazon.

E questa azione truffaldina è solo l’atto finale di una ben più grave e destabilizzante strategia che altera i margini minimi della trasparenza del mercato. Amazon, infatti, è essenzialmente un’azienda di storage, cioè di gestione delle memorie e dei data base, che monopolizza le informazioni sensibili di gran parte dell’umanità. Solo nel nostro paese i cloud della pubblica amministrazione, in ultima istanza, risalgono ad Amazon per circa il 70%. E l’imminente nuova architettura del cloud unico, a cui sta lavorando il ministro Colao, si appoggerà inevitabilmente, per segmenti rilevanti, ancora su quella infrastruttura.

Contemporaneamente, Amazon combina le informazioni che custodisce nei suoi cloud con quelle che ricava dalla movimentazione di oltre sette miliardi di pacchi all’anno in tutto il mondo, ricavando una profilazione completa di decine di milioni di utenti. È questa la vera discrasia da regolare, il reato da impedire. E non riguarda solo Amazon, ma tutto il mercato digitale.

Concretamente Amazon  è l’unico soggetto – in un mercato che, per quanto malato, squilibrato e artefatto dalle vocazioni monopolistiche dei suoi protagonisti, mantiene comunque un’alea di incertezza nella previsione dei comportamenti dei consumatori agli occhi dei venditori – che gioca a carte scoperte, creando quella cosiddetta correlazione in grado di determinare, mediante continui e incessanti calcoli algoritmici, ogni diretta conseguenza evolutiva nei comportamenti che vengono registrati sulla sua piattaforma. Le grandi piattaforme del capitalismo della sorveglianza, per dirla con Shoshana Zuboff, si trovano in mano una potenza del tutto inedita e incontrollata per la storia del mercato: sanno, a volte prima ancora degli interessati, cosa vogliono e come lo vogliono i propri clienti. E hanno gli strumenti per interferire su di loro, cosicché – conclude nel suo saggio la Zuboff – “questi gruppi della sorveglianza sanno troppo per essere liberi”.

In particolare il mercato viene distorto e squilibrato, in modo molecolare, mediante il meccanismo del cosiddetto pricing discriminatorio, come ha denunciato il premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, nel suo saggio Popolo, potere e profitti (Einaudi): poiché l’intelligenza artificiale e i megadati consentono alle piattaforme di stabilire quale sia il valore che ciascun individuo attribuisce ai diversi prodotti, e che quindi è disposto a pagare, essi danno a queste aziende il potere di discriminare i prezzi, “facendo pagare di più a quei consumatori che hanno più bisogno di quella merce o che hanno meno opzioni”.

A questo punto non si tratta più di procedere con interventi palliativi, occasionali multe che, per quanto rilevanti, rimangono episodi marginali nel flusso continuo di immensi profitti accumulati, e soprattutto nella dinamica distorta di quella risorsa che era sempre rimasta inviolata nel capitalismo industriale, cioè appunto il processo psicologico di organizzazione della relazione fra valori, bisogni e azioni che ogni individuo organizza nella sua esistenza di tutti i giorni. Siamo in presenza di un salto di qualità nella sopraffazione che la proprietà esercita nei confronti dello scenario sociale in cui agisce. Non si tratta più di mitigare gli eccessi di una prevaricazione nell’esercizio della produzione e della distribuzione da parte dei detentori dei mezzi di produzione; siamo dinanzi a un’omologazione preventiva di intere popolazioni e meccanismi neurali, che non sono nemmeno percepiti dai consumatori come intrusioni da parte dei proprietari degli algoritmi.

Quando la merce che una piattaforma distribuisce, riproducendo il meccanismo che abbiamo sommariamente riassunto per Amazon, mediante l’accumulo dei dati individuali, la combinazione di questi dati fra loro e la capacità infinita di calcolo per estrarre da questi dati alchimie psico-attitudinali degli utenti – non beni di consumo materiali, ma beni immateriali, come sensazioni, emozioni, valori o più consuetamente informazioni –, cosa accade? Accade quanto è già accaduto con Cambridge Analytica: salta il banco della democrazia e bisogna faticosamente risalire all’origine di questa manomissione. Ma ogni volta il meccanismo è meno individuabile, meno rilevabile, meno arginabile. Dunque è indispensabile arginare questa forma di arbitrio, neutralizzando la materia che rende asimmetrica la relazione sociale: il controllo dei dati medianti algoritmi.

Non si tratta di sanzionare un eccesso, quanto piuttosto di stroncare una spirale di sostituzione del diritto con la potenza di calcolo privata. Questo è oggi in gioco. C’è un partito, un sindacato, un movimento capace di organizzarsi su questo crinale per ricostruire modelli di conflitto?