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La Filippa è davvero un’altra cosa

La Filippa è davvero un'altra cosa

Parlare di Economia Circolare sembra oggi se non obbligatorio quantomeno inevitabile, sia per l’effettiva necessità di convertire le produzioni lineari verso soluzioni più concilianti con le risorse limitate di questo nostro pianeta, sia per quel certo allure che le tematiche ambientali hanno ormai decisamente assunto anche all’interno del dibattito economico. Ma ci sono aziende, ci sono storie, ci sono persone che lavorano e agiscono da tempo con “circolarità”, ancora prima della consapevolezza terminologica e nella piena coerenza delle proprie idee.

Questa storia parte da una discarica e ce la racconta Massimo Vaccari, ideatore circa vent’anni fa, assieme al fratello Carlo, de La Filippa di Cairo Montenotte, in provincia di Savona.
“Ho cominciato a lavorare nel 1981 e rappresento la quarta generazione di una famiglia di imprenditori dell’industria del laterizio e dei materiali da costruzione. All’epoca il nostro era un settore già maturo, non c’era niente da inventare, ti giocavi tutto sull’abbattimento dei costi di produzione, sull’utilizzo della tecnologia e sulla riduzione dei costi di manodopera. Poca creatività, poca innovazione. C’era ancora il mercato perché resisteva la domanda ma qualcosa doveva cambiare. È stato proprio in quel momento che insieme a mio fratello Carlo abbiamo pensato di innovare. Non avevamo a disposizione grandi strutture di ricerca e sviluppo alle spalle o grandi investimenti. Avevamo però la convinzione profonda di guardare alle cose che esistono e riprogettarle trasformando i fattori negativi in aspetti positivi. Visione? Credo di aver avviato un mio percorso personale di sostenibilità senza nemmeno saperlo perché ho iniziato a guardare le cose in modo diverso. Volevo aggiungere loro valore e progettarne il loro riutilizzo nel futuro”.

Il tutto partendo da una discarica, il luogo che serve a tutti ma che nessuno vuole vicino a casa, uno dei paradigmi inevitabili della modernità più contestati dal mondo ambientalista.
“Era anche il luogo migliore dove rendere evidente la diversità del pensiero che c’era alle spalle. Ho cominciato da piccole azioni: in discarica serviva una vasca in cemento armato per evitare che l’acqua piovana entrasse a contatto con i rifiuti. Costava 300mila euro e sarebbe stata utilizzata per un numero limitato di anni prima di essere demolita e smaltita. Quando il mio ingegnere è venuto in ufficio e per ridere mi ha detto… ho il progetto della piscina, io l’ho guardato e ho pensato, perché no? E abbiamo davvero realizzato la vasca nell’ottica di usarla in futuro come piscina. Perché degli oggetti oggi ne faccio un uso e domani un altro ma occorre pensarci da subito e progettare il loro utilizzo futuro sin dall’inizio della loro storia “.

E inizia così questa piccola rivoluzione chiamata La Filippa. Quello che oggi è un modello di sostenibilità riconosciuto a livello internazionale, una discarica che smaltisce rifiuti non pericolosi adottando soluzioni progettuali e gestionali che vanno ben oltre gli standard previsti dalla legge. Le condizioni ambientali dell’area, che rappresentano assetti di valore anche economico, sono costantemente monitorate e diventano elementi costitutivi di un esempio dinamico attorno a un tema, quello dell’economia circolare, che ora sta venendo fuori in modo prepotente.
“L’economia circolare nasce da una questione gigantesca, che è quella dell’impatto ambientale delle attività antropiche: generano scarti e inquinano l’ambiente. In questo momento gli imprenditori si rendono conto che il problema non è più il mercato ma la precondizione necessaria di non avere più materia per produrre gli oggetti di consumo. Non serve più dire non spreco perché non è etico. La questione è sostanziale. Abbiamo la consapevolezza definitiva che stiamo esaurendo le risorse e che dobbiamo rimettere in circolo quelle che abbiamo”.

Questo approccio che prevede di comprendere nel costo dell’investimento anche il fine vita o la seconda vita del prodotto può alimentare la rivoluzione definitiva e consapevole del sistema della produzione, la chiusura del cerchio?
“In certi casi si può lavorare per allungare la vita di oggetti e materiali, in altri è bene pensare che i prodotti finiti siamo smontabili, riutilizzabili, rigenerabili. Nel nostro caso siamo partiti dalla riprogettazione della discarica che è di per sé un’attività temporanea perché nel momento in cui tu hai esaurito i volumi di riempimento il lavoro è finito. Tutte le discariche del mondo sono state pensate per durare un tempo limitato e questo cosa ha portato? Che tutte le infrastrutture necessarie per utilizzarle, dall’urbanizzazione agli scarichi civili e industriali, dalle telecomunicazioni all’illuminazione e alla fibra sono tutte provvisorie, tutta roba che smonti e butti. Noi abbiamo sostenuto l’investimento pensando,invece, al fine vita degli oggetti. Tutto doveva avere una seconda vita, un secondo scopo, una seconda utilità. Alla Filippa l’ufficio è una casetta di legno che un domani potrà venire utilizzata per un agriturismo piuttosto che per la reception di un parco e la vasca come ho detto prima è pensata per diventare una piscina. Quando abbiamo progettato La Filippa ho pensato: mio padre ci ha lasciato un’area meravigliosa dove viviamo il 70% del nostro tempo, il luogo dove lavoriamo deve essere un luogo salubre, in cui stare bene ma anche un fattore di coesione sociale, culturale ed economico per tutta la comunità che ci circonda e per il suo territorio. Abbiamo fatto una scommessa. Dimostreremo a tutti che, alla fine, l’area su cui stiamo intervenendo avrà un valore economico a metro quadrato superiore a quello di prima”.

Chi è un imprenditore, oggi?
“Come diceva mio padre, il senso autentico del fare l’imprenditore è quello di lasciare delle impronte dopo il tuo passaggio. Quando ho iniziato a lavorare ho capito che per l’imprenditore lasciare delle impronte è la cosa più facile che esista, il problema è che tipo di impronte lasci”.

Intanto ha deciso di occuparsi anche di turismo. Perché?
I parchi italiani e internazionali, in genere, consumano davvero troppa energia. Ho pensato: come faccio a far funzionare un parco in modo sostenibile? Semplice, uso la forza di gravità, i principi della fisica e, soprattutto, metto l’uomo al centro del suo divertimento. Ho progettato delle macchine che si muovono con la spinta del corpo e, allo stesso tempo, sono in grado di offrire a chi le usa emozioni ed esperienze tutte da scoprire. Così è venuto fuori il progetto di un green park in Liguria, un ecosistema naturale dove il vero protagonista del divertimento sarà il benessere di chi lo visita. Anche quando si tratta di mangiare: al parco non troverai cibo già pronto ma chioschi che ti vendono le eccellenze del territorio, dal pane ai formaggi, dai salumi alle verdure. E anche il panino diventerà un progetto da condividere nel senso pieno di una vacanza a contatto con la natura, a impatto zero e con la sola forza dei tuoi desideri”.




Il premio per il migliore studio legale? Agli avvocati di Gkn nel licenziamento di 430 dipendenti (poi bloccato dal Tribunale)

Il premio per il migliore studio legale? Agli avvocati di Gkn nel licenziamento di 430 dipendenti (poi bloccato dal Tribunale)

La rivista Top legal ha assegnato il premio per il miglior studio dell’anno nel diritto del Lavoro a LabLaw Rotondi & Partners. La motivazione è l’assistenza fornita alla multinazionale per la chiusura dello stabilimento di Campi Bisenzio, in Toscana, e il conseguente invio delle lettere di licenziamento di 430 persone. Nel documento sulle motivazioni della premiazione si legge testualmente che lo studio legale premiato è “Stimato per la proattività e la lungimiranza con cui affianca i clienti. Come nell’assistenza a GKN per la chiusura dello stabilimento fiorentino e l’esubero di circa 430 dipendenti”.

Gkn è una multinazionale controllata dal fondo Melrose ed è stata assistita dall’avvocato Francesco Rotondi. Il premio risulta particolarmente curioso visto che il Tribunale ha bloccato i licenziamenti rilevandone la violazione dello Statuto dei Lavoratori. In particolare la multinazionale ha violato l’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori mettendo in atto comportamenti anti sindacali. Dopo la sentenza l’azienda ha comunicato di aver dato “immediata esecuzione” a quanto stabilito dal giudice revocando la procedura “senza che ciò possa considerarsi acquiescenza” e “con ogni più ampia riserva di impugnazione”. Top Legal è una rivista bimestrale in edicola dal 2004, edita da Penta Group. Il fattoquotidiano.it ha tentato senza successo di contattare la redazione.

Dopo l’annuncio del premio lo studio LabLaw Rotondi & Partners aveva scritto su Facebook: “Siamo orgogliosi” e poi, riportando le ragioni della sentenza, “Lavoro di squadra, passione e dedizione, questi i valori nei quali crediamo e che ci spingono a voler raggiungere traguardi sempre più alti”. La pagina Fb dello studio legale è adesso irraggiungibile.

Amaro il commento sulla vicenda che la viceministra allo Sviluppo Economico Alessandra Todde affida a Twitter

Di fronte a quello che sembra essere davvero un bel pasticcio di comunicazione aziendale insomma le reazioni indignate non si sono fatte attendere. “Non so voi, ma io sono davvero disgustato”, ha twittato il sindaco di Firenze Dario Nardella. Più sarcastica la replica della Fiom di Firenze: “A noi e ai lavoratori Gkn daranno il premio Nobel”, scrive il sindacato, secondo cui “è offensivo che si vinca un premio per aver messo 422 persone sull’orlo del licenziamento. Chissà cosa spetterà a noi che contro di loro abbiamo presentato e vinto un ricorso in Tribunale per atteggiamento antisindacale! Un grazie ai nostri avvocati Stramaccia e Focareta”. Sarcastico anche il Collettivo di Fabbrica Gkn: “A noi pare che contro la Fiom di Firenze – hanno scritto gli operai su Facebook, riferendosi alla sentenza di settembre del tribunale del Lavoro – avete perso non uno ma due articoli 28, la fabbrica ad oggi non è chiusa, e per quanto ci riguarda abbiamo avuto modo di apprezzare la vostra discutibile presenza in sede sindacale dove non ci sembra abbiate tenuto testa a quattro operai in croce nell’assistere un liquidatore in sede sindacale senza nemmeno forse sapere che forma hanno i nostri semiassi”.




La filiera italiana della fusione nucleare punta sull’innovazione per dare al Paese energia ‘green’

La filiera italiana della fusione nucleare punta sull’innovazione per dare al Paese energia ‘green’

Nella transizione energetica verso le fonti rinnovabili e green ci sono molte incertezze e incognite da sbrogliare. Per esempio, le cosiddette fonti ‘alternative’ a quelle fossili e più inquinanti non possono colmare tutta la domanda di energia necessaria.

Ma c’è anche qualche punto fermo: serve una fonte energetica stabile e programmabile, perché solare ed eolico non lo sono, in grado di soddisfare un bisogno di energia, innanzitutto elettrica, che continua a crescere.

“Questa fonte energetica stabile e programmabile, e che non produce anidride carbonica, può essere il ‘nuovo’ nucleare, tecnologicamente avanzato, innovativo, ad esempio quello generato attraverso i mini-reattori di quarta generazione”, rimarca Umberto Minopoli, presidente Ain, Associazione italiana nucleare, in occasione dell’evento organizzato da Confindustria, presso la sede di via dell’Astronomia a Roma – ma disponibile anche online – sul tema ‘Verso una transizione energetica sostenibile. La filiera italiana della fusione: una filiera industriale strategica per la competitività dell’Europa’.

Un appuntamento che ha messo la filiera italiana della fusione nucleare al centro degli scenari energetici del Paese. Non a caso, il nucleare (più datato e tradizionale) e il ‘nuovo’ nucleare (quello più moderno e innovativo) contribuiscono già oggi a circa un quarto (circa il 25%) del fabbisogno energetico complessivo dell’Unione europea, e di questi tempi “il governo Draghi ha il merito di avere di nuovo legittimato la discussione sull’energia nucleare in Italia, dopo i referendum di trent’anni fa che ne hanno bloccato lo sviluppo”, fa notare Minopoli.

Come ha sottolineato pochi giorni fa in Tv anche il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, “più in là potremmo avere bisogno del nucleare, perché potrebbe non essere sufficiente l’accelerazione data dalle rinnovabili”. Cingolani fa notare: “che in Italia e in altri Paesi si sia deciso di non utilizzare le centrali nucleari di prima e seconda generazione con i vecchi referendum ha un suo senso. Quello che non ha senso è pensare che dietro l’aggettivo nucleare si celino solo ed esclusivamente tecnologie pericolose, poco efficaci e costose”. Il progetto di lungo termine, ha prospettato il ministro, è quello di “avere la fusione nucleare, diversa dalla fissione, dove si rompe un atomo grosso per avere energia, mentre nella fusione si prendono due atomi leggeri e si fanno fondere come succede nelle stelle”.

In questo scenario, operare nella filiera della fusione nucleare costituisce uno stimolo all’innovazione delle imprese, degli impianti e per le attività di ricerca e sviluppo: per il 70% delle aziende censite dall’Associazione italiana nucleare, “la partecipazione alla filiera della fusione ha un impatto molto alto sulla propensione a innovare. La maggior parte delle aziende ha fatto degli investimenti per entrare nella fusione, innanzitutto per l’acquisizione di competenze innovative, per realizzare innovazioni di processo e innovazioni organizzative”.

Il raggiungimento della neutralità carbonica – previsto dall’Unione europea entro il 2050 – “impone investimenti nella ricerca e sviluppo di nuove tecnologie e ha bisogno di politiche industriali e fiscali adeguate”, osserva Maurizio Marchesini, vice presidente di Confindustria per le Filiere e le Medie imprese. Che mette in evidenza: “per filiere forti servono capacità di innovare, e poi credito e finanza per gli investimenti”.

Partnership, competenze e trasferimento tecnologico

Considerando le innovazioni introdotte negli ultimi cinque anni, “si conferma l’importanza di quelle organizzative e di processo, alle quali si aggiungono anche le innovazioni tecnologiche”, rileva Marco Ricotti, presidente del Cirten. Insomma, l’Industria 4.0 e la Transizione digitale dei sistemi interconnessi stanno espandendosi e rinnovando anche il mondo del nucleare. In questo scenario, “alla luce delle opportunità e della posizione di eccellenza raggiunta dall’Italia, la fusione merita senz’altro grande attenzione”, fa notare Ricotti.

Partnership, competenze specializzate e trasferimento tecnologico sono anche i principali fattori emersi da una ricerca dell’Università di Genova, e dalle case histories presentate nel corso dell’incontro, quelle di: Ansaldo Nucleare, Asg Superconductors, Fincantieri SI, Simic, Enea e Consorzio Rfx.

Le imprese italiane dotate di competenze, problem solving e creative thinking hanno un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti di altre nazionalità, e “Ansaldo Nucleare è pronta ad affrontare le sfide della transizione energetica”, sottolinea l’amministratore delegato, Luca Manuelli, “attraverso la visione New Clear, che caratterizza lo sviluppo industriale delle nuove tecnologie nucleari”.

Un settore innovativo per molte Pmi italiane

L’Italia è coinvolta nel più grande progetto internazionale di ricerca e sviluppo nel campo della fusione termonucleare controllata, il programma Iter (International thermonuclear experimental reactor), avviato nel 2006, e sviluppato su scala mondiale, in cui la Ue ha un ruolo di propulsione e leadership.

Il progetto Iter mette sul piatto 21 miliardi di euro, coinvolge imprese e centri di ricerca tra i più grandi al mondo, e “prevede la costruzione di prototipo, con l’obiettivo di creare sulla Terra le condizioni necessarie alla produzione di reazioni di fusione come quelle generate dal Sole”, spiega il presidente Ain: per la costruzione del prototipo sono previsti 15 miliardi di euro, ne sono stati già assegnati circa 7, di cui 1,6 miliardi alla filiera italiana, “che ha imprese d’eccellenza sul piano della ricerca scientifica e produzione industriale”.

L’Italia ha sempre avuto grandi eccellenze anche in questo settore – e nonostante il nucleare nel Paese sia stato accantonato da trent’anni –, “oggi Iter dimostra come attraverso la filiera molte Pmi siano riuscite ad affermarsi in un ambito altamente innovativo”, rileva Marchesini, “nella filiera della fusione le imprese lavorano massimizzando l’efficienza della ricerca scientifica”. E le attività di ricerca e sviluppo svolte in questo campo alimentano l’innovazione tecnologica anche in altri settori, come quello aerospaziale.

I reattori nucleari di quarta generazione

A differenza dei reattori nucleari di seconda generazione (la stragrande maggioranza di quelli attualmente in funzione), e terza generazione (un po’ più moderni), quelli di quarta generazione dovrebbero introdurre spiccate differenze soprattutto nei materiali impiegati, pur continuando a usare come ‘combustibile’ principalmente uranio e plutonio.

I reattori nucleari di quarta generazione sono un gruppo di sei famiglie di progetti per nuove tipologie di reattore nucleare a fissione, che, pur essendo da decenni allo studio, non si sono ancora concretizzati in impianti utilizzabili diffusamente in sicurezza. Alcuni osservatori e tecnici del settore ritengono che saranno disponibili commercialmente non prima di qualche decennio. Il compito delle attività di ricerca e sviluppo è anche quello di migliorarne le caratteristiche e funzionalità, e cercare di accorciare i tempi, che nel mondo dell’energia nucleare sono sempre molto lunghi e dilatati.




I dati biologici: una garanzia che non c’è. Subito un G20 sui dati sanitari

I dati biologici: una garanzia che non c’è. Subito un G20 sui dati sanitari

L’avventura capitata nei giorni scorsi ad Eugenio Finardi, salvato in aeroporto dal suo smartphone che gli ha segnalato il sopraggiungere di una fibrillazione atriale, ci ripropone la necessità di bonificare questo ormai ineludibile mondo della sensoristica medica. Come nel caso del cantautore che è stato salvato da una tempestiva diagnosi anche sulla base dei dati che erano stati registrati dal suo orologio digitale, siamo in presenza di sistemi che diventano sempre più utili per integrare una strategia di assistenza in patologie delicate, come appunto le cardiopatie. E di conseguenza sono davvero molti ormai coloro che  si  affidano a sistemi di monitoraggio permanente, o tramite sistemi wearable o più direttamente agli smartwatch.

Analisi dati già al pronto soccorso

In molti ospedali, al pronto soccorso, ormai ci sono computer che decifrano direttamente il flusso dei dati di coloro che arrivano in emergenza.  Il mercato mondiale di questo settore  sta superando i 100 miliardi di  euro. Si tratta di un fenomeno che sta entrando a pieno titolo nelle forme dell’assistenza sanitaria ordinaria. Pensiamo ad esempio al mondo dei diabetici, dove i dispensatori automatici di insulina sono una scelta di necessità per milioni di pazienti che riescono a fronteggiare le forme più instabili della malattia solo grazie a questi sistemi. O pensiamo alle nuove app che sono in grado di analizzare, solo grazie ad una fotografia con il telefonino, il contenuto di glucosio di una pietanza.

La medicina diventa big data. Ma chi controlla?

La medicina sta diventando big data, ma chi sta controllando queste informazioni vitali ? Siamo nel pieno far west.

Il flusso di queste delicatissime e vitali informazioni che si stanno accumulando in quantità vertiginosa rimane affidato alla semplice discrezione delle piattaforme di servizio. In genere i singoli service provider che forniscono questi servizi  di monitoraggio o mediante smartwatch o con sensori specifici, quali ad esempio i microinfusori di insulina, si appoggiano ai soliti noti che forniscono capacità di archiviazione e gestione della memoria. Siamo sempre nelle mani di Google, Amazon, Apple, che stanno raccogliendo direttamente i dati biologi su milioni di pazienti e li combinano con i  dati sulle attività ordinarie di mobilità o di consumo degli stessi soggetti, ricavando profili dettagliatissimi sull’evoluzione delle personalità e dei bisogni di ognuno di questi utenti. Il quadro clinico di Eugenio Finardi come quello delle migliaia di malati di diabete che attualmente dipendono dai microinfusori sono catalogati  da queste piattaforme senza nessuna garanzia né trasparenza.

Al di là della profilazione commerciale

Siamo oltre alla profilazione commerciale, siamo entrati nella ricostruzione e previsione del destino di ognuno di questi utenti di sistemi digitali, che diventano dossier di un metaverso biologico che pochi individui possono controllare. E’ un buco nero che attiene alla sostenibilità della nostra vita non meno dei vincoli ecologici.

La pandemia ha reso poi questo aspetto ancora più pressante. Il conflitto che si è aperto sulle strategie sanitarie ci avverte che siamo ormai entrati in una nuova fase della storia politica ed istituzionale che Michel Faucoult avrebbe definito di biopolitica, dove proprio la conoscenza e la gestione delle variabili biologiche si sostituirà alle dinamiche solo economiche.

Cura e prevenzione sanitaria, nuovi diritti alla luce del cloud nazionale

La democrazia deve prendere atto che la gamma dei diritti e delle esperienze che compongono la vita di una comunità oggi debba estendersi  inevitabilmente a questo aspetto della nostra attività: la cura e la prevenzione sanitaria. Con quali strumenti e quali livelli di controllo pubblico sarà possibile continuare a curarsi ma, ancora di più, continuare a organizzare autonomamente le nostre relazioni sociali ed istituzionali se tutti i dati, tutte le informazioni, anche le più intime saranno preda di pochi centri tecnologici. Su questo tema dovrebbe intervenire con forza la comunità politica globale. Un G20 sulla trasparenza e la correttezza della gestione di questa dimensione della nostra vita legata ai monitoraggi sanitari è oggi urgente, non meno che per il riequilibrio ambientale.

Siamo alla vigilia delle decisioni operative per il cloud nazionale che sarà anche parte del sistema sanitario. Da qui dovremmo partire per connettere la potenza irrinunciabile a sistemi di controllo e monitoraggio individuale efficienti con la garanzia che lo stato deve assicurare ad ogni cittadino dell’inviolabilità dei propri dati e della propria evoluzione biologica. Al momento questa garanzia non c’è.




Clima: banco di prova per il peace-building in Medio Oriente

Clima: banco di prova per il peace-building in Medio Oriente

Lungo le coste del Mediterraneo orientale le temperature sono aumentate mediamente di 2° C dagli anni ’50 e le previsioni correnti preconizzano un loro incremento di altri 4° C entro la fine del secolo. La scarsità crescente di risorse idriche è un processo in atto: i climatologi prevedono una drastica riduzione delle precipitazioni negli anni a venire. Il Mar Morto lungo il confine fra Israele e Giordania si va depauperando sia a causa dei ripetuti prelievi idrici dal fiume Giordano operate nel corso degli anni da Israele, Giordania e Siria sia per i danni inquinanti prodotti dalle industrie minerarie israeliane lungo le sue coste.

Israele, che pure è sulla frontiera in materia di tecnologie ambientali – nell’agricoltura, nella desalinizzazione, nella conservazione di energia solare – che esporta anche ad economie maggiori quali Cina e India, non sarà in grado di conseguire gli obiettivi di zero emissioni nel 2050 – ha rivelato Tamar Zandberg, ministro dell’ambiente nel nuovo governo di coalizione, esponente del partito di sinistra Meretz.

Le ragioni di ciò sono la latitanza dei governi precedenti sul fronte ambientale, il forte incremento demografico del Paese, ed anche il ricorso a giacimenti massicci di metano recentemente scoperti per la produzione di energia. Tuttavia, per la prima volta nella storia del Paese, il Parlamento israeliano discute di un disegno di legge in materia di clima e di transizione ad un’economia a basso contenuto di carbonio.

Green-blue deal

Una sensibilità fattiva in questo ambito nonché al legame fra difesa dell’ambiente e un assetto di coesistenza pacifica nella regione ha spinto Ecopeace Middle East – l’unica Ong trilaterale, israelo-palestinese-giordana attiva sul campo da oltre venti anni – a proporre un piano d’azione articolato detto “green-blue deal” illustrato anche alla Cop26, la Conferenza sul clima di Glasgow. La dimensione “green” riguarda lo sviluppo di energie rinnovabili al fine di ridurre i danni da emissioni di CO2; quella “blue” concerne l’acqua, le modalità con cui produrre e distribuire risorse idriche in quella parte del Medio Oriente. Si noti che un’intesa sull’acqua è stata parte integrante dei negoziati che precedettero e seguirono il trattato di pace di Oslo del 1993.

Il piano, audace nei contenuti e nelle finalità, va assai al di là di quanto Ecopeace ha fino ad ora concorso ad attuare, in particolare la riabilitazione del fiume Giordano, attraverso il trattamento delle acque reflue e il trasferimento di acque pulite dal lago di Tiberiade. Esso si compone di più parti, esige corposi investimenti finanziari e un impegno cooperativo. Le premesse sono peraltro positive perché iniziative precedenti dimostrano come in materia di ambiente in quella parte del Medio Oriente così geofisicamente interconnessa il gioco non è “a somma zero” – vi è infatti una confluenza positiva di interessi e benefici; infine, la protezione dell’ambiente è anche uno strumento efficace di coesistenza e pace. I diritti dei palestinesi a risorse idriche adeguate potrebbero essere conseguiti senza ridurre la disponibilità di acqua per gli israeliani: si dovrebbe consentire ai palestinesi di accrescere l’estrazione da falde acquifere mentre Israele la riduce nel proprio territorio e accentua la desalinizzazione che già assicura quasi il 70% del fabbisogno di acqua potabile del paese.

Barattare l’acqua con il sole

L’essenza e l’originalità del progetto risiedono nello scambio fra energia solare e acqua. La Giordania con le sue vaste aree desertiche gode di vantaggi comparativi nella produzione di energia solare, sostenuta finanziariamente da contributi della Banca europea degli investimenti (Eib) e dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Ebrd).

Israele e Palestina godono di vantaggi rispetto alla Giordania data la loro contiguità con le coste del Mediterraneo nel produrre acqua potabile attraverso tecnologie di desalinizzazione. La Ue sta contribuendo con ingenti investimenti alla costruzione di un impianto del genere nella striscia di Gaza. La Palestina diventerebbe così meno dipendente da Israele per forniture di energia solare e acqua. Inoltre, il Congresso e l’Amministrazione americani hanno introdotto il Middle East Partnership for Peace Act (Meppa) – che stanzia 250 milioni di dollari da destinarsi su un orizzonte di 5 anni in parte allo sviluppo economico del settore privato palestinese e in parte ad iniziative di “people-to-people” da svolgersi sotto l’egida di Ong israelo-palestinesi. Parte di questi finanziamenti potrebbero essere erogati a progetti di carattere ambientale.

Nello scambio che Ecopeace promuove l’energia solare prodotta dalla Giordania potrebbe essere ceduta in parte alle reti israeliane e palestinesi. Gli impianti di desalinizzazione in Israele e in Palestina (Gaza) alimentati da energia solare potrebbero rifornire di acqua le fonti locali e altresì alleviare la scarsità di risorse idriche in Giordania. Impianti di trattamento di acque reflue in Palestina e Giordania e produzioni agricole mosse da energia solare potrebbero inoltre consentire un aumento cospicuo nella produzione alimentare.