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La sostenibilità si deve misurare. Un solo standard contro il falso green

La sostenibilità si deve misurare . Un solo standard contro il falso green

La transizione green chiede più finanza Esg

Grande è la confusione sotto il cielo della sostenibilità. Misurare, valutare e confrontare un’impresa per il suo valore di coerenza con i criteri Esg (Environmental, Social, Governance) è impossibile, ognuna ha un metro diverso.
Per dare solo un’idea della giungla metrica fra il 2007 e il 2021 a livello globale sono stati 1.047 gli autori che hanno prodotto sistemi diversi per misurare la sostenibilità nelle imprese, 490 i modelli definiti con una media di 35 all’anno e picchi fino a 65 paradigmi differenti. Intanto si sono moltiplicate le agenzie di rating Esg, ciascuna con un proprio modello di valutazione (rating) e il quadro si è complicato ancora: l’ultimo studio dell’Esg European Institute dice che nel 2018 erano più di 600 i rating Esg a livello globale. Il paradosso è evidente: leggere la responsabilità sociale, l’impatto ambientale i criteri di governance e integrare l’analisi in relazione oggettiva a costi e benefici in base alle informazioni dei report di sostenibilità (quando ci sono) porta quasi sempre «di fronte a visioni totalmente differenti» fra imprese: ciò che è attività sostenibile da una parte, può essere un rischio in un’altra azienda. Manca una «chiara identificazione delle informazioni minime da riportare». E per il mondo finanziario e industriale, «che deve valutare e valutarsi secondo metriche Esg chiare e condivise è un grande problema, crea potenziali rischi di essere coinvolti in attività di greenwashing o in imprese non sufficientemente green».

Raffaele Jerusalmi Già amministratore delegato di Borsa italiana e capo globale dei mercati del London Stock Exchange Group

Il monito non è da trascurare visto che arriva da chi per venti anni ha governato le società in Borsa italiana di cui dodici come Ceo e capo globale dei mercati del London Stock Exchange Group. Ma Raffaele Jerusalmi, va oltre e chiama in causa imprenditori, consumatori e autorità proprio perché questa confusione, soprattutto per le piccole e medie imprese, rischia di compromettere l’attenzione della finanza Esg (oggi vale già 500 miliardi di cui 31 in Italia) e far perdere l’occasione di aprire il capitale e intercettare risorse per crescere di dimensione, di sviluppo e decidere proprio destino.

«Gli investitori sarebbero quindi facilitati nella valutazione delle performance Esg e nel confronto fra le imprese. Per le autorità di controllo rendere oggettive le misurazioni Esg agevolerebbe le verifiche» spiega Jerusalmi, riducendo le false dichiarazione. Tema su cui è scesa in campo anche l’Europa, con suoi dati alla mano: nel 42% dei casi le affermazioni delle aziende non erano vere e quindi valutate «pratiche commerciali sleali», greenwashing, tanto da proporre modifiche alla direttiva sulla tutela dei consumatori ampliando le caratteristiche del prodotto su cui le imprese non possono più ingannare i cittadini solo per includere l’impatto ambientale o sociale con dichiarazioni di prestazioni future senza includere impegni, obiettivi verificabili e senza un sistema di monitoraggio indipendente. Che è l’altro problema. Solo in Europa la Commissione ha rilevato che oggi esistono oltre 40 rating diversi, 150 sistemi di misurazione e 450 indici Esg. La confusione sotto il cielo della sostenibilità quindi aumenta a un buon ritmo.

La proposta di un modello unico

Luca Dal Fabbro Presidente di ESG European Institute

Anche perché «oggi per valutare un’impresa o la sostenibilità di un investimento nel medio-lungo periodo non basta più guardare ai soli dati finanziari. Le decisioni sui piani aziendali tengono conto anche di dati extra-finanziari come i fattori Esg», spiega il presidente di ESG European Institute, Luca Dal Fabbro, oggi impegnato nel costruire un indice che sappia fare sintesi nella vasta giungla dei rating. La proposta l’ha raccolta nel libro “ESG: La misurazione della Sostenibilità” (Rubbettino Editore). Con un obiettivo dichiarato, non solo quello di analizzare le metriche di misurazione Esg esistenti, ma di avanzare un’analisi che contribuisca al processo di semplificazione e standardizzazione delle metriche di sostenibilità Esg attualmente esistenti, e giungere ad una rendicontazione e una disclosure di sostenibilità integrata, oggettiva e misurabile.

Dal Fabbro è un manager dell’energia e dell’economia circolare, è stato presidente di Snam, Ceo di Enel Energia e E.ON Italia e membro del Cda di Terna, e da questi osservatori propone un nuovo strumento, incrociando le numerose variabili esistenti e più diffuse per uniformità e universalità, semplificando le metriche e rendere più attendibili. Dal Fabbro lo ribadisce chiaramente: «La crescente importanza di questo concetto non è stata accompagnata da una chiara definizione di standard e metriche condivise e uniformi per la misurazione e la rendicontazione della sostenibilità. Nonostante la presenza di numerosi standard internazionali – spiega Dal Fabbro – ancora oggi si evidenziano sostanziali lacune nel processo di misurazione e disclosure di queste informazioni».

Il rating per la sostenibilità d’impresa

Il libro -«ESG: La misurazione della Sostenibilità» – Edizioni Rubbettino Editore

Ma di che cosa si tratta esattamente quando si parla di parametri Esg?
l testo di Dal Fabbro ripercorre l’evoluzione storica dell’Esg investing e il ruolo cruciale che i rating Esg hanno svolto nel processo investor-driven di affermazione di aspetti non finanziari nella valutazione aziendale. Al contempo, l’analisi della letteratura ha mostrato la disomogeneità esistente a livello di framework di rating Esg. Questa disomogeneità può esser definita una caratteristica strutturale del sistema dei rating Esg. In un contesto competitivo di mercato, ogni agenzia di rating Esg ha interesse a proporre un framework proprietario di analisi e di valutazione e di promuovere gli aspetti caratteristici della propria metodologia. Questa situazione ha portato al proliferare di un gran numero di framework di rating Esg, al punto che nel 2018 potevano contarsi piu di 600 framework di rating Esg a livello globale. Seguendo una tradizione ormai consolidata, i tre criteri di riferimento per la rendicontazione sono:

  • – Environment (E):
    include tutti gli standard su come rendicontare gli impatti da e su tutti i fattori ambientali come cambiamento climatico, risorse idriche, biodiversita ed ecosistemi, economia circolare, inquinamento;
  • – Social (S):
    include tutti gli standard su come rendicontare gli impatti da e su tutti i fattori sociali come forza lavoro, lavoratori nella value chain, comunita, consumatori finali;
  • – Governance (G)
    include tutti gli standard su come rendicontare gli impatti da e su tutti i fattori relativi alla governance e all’emittente, come etica del business, management, relazioni con azionisti e stakeholders, organizzazione e innovazione, reputazione e gestione del brand.

C’è un dato in più di cui tenere conto. La pandemia legata al Covid ha evidenziato in modo ancora più accelerato la necessità di modelli di business sostenibili e resilienti: ogni nuova elaborazione – avverte Del Fabbro – non può però prescindere «dall’approccio che le imprese devono seguire, impegnate nell’integrazione dei propri piani di sostenibilità con il piano strategico». Il tema diventa cosi rilevante che non e più percepito come una sola questione etica, ma «va a indirizzare il purpose delle società e si pone come elemento competitivo di mercato. Che alla fine si traduce in una gestione efficiente e strategica delle risorse a disposizione, siano esse naturali, finanziarie, umane o relazionali».

Non solo. Gli ultimi due anni hanno anche mostrato con evidenza «la natura globale e pervasiva» delle sfide che aziende e persone possono trovarsi ad affrontare. La pandemia oltre a rimodulare i modelli di business, ha rivoluzionato anche il modo e l’organizzazione di lavorare, «promuovendo organizzazioni ibride e flessibili e accelerando la transizione digitale. In seguito, l’aumento dei prezzi dell’energia e dei costi CO2 in Europa ha mostrato l’urgenza e le difficoltà che la transizione ecologica pone. «Difficoltà che non sono solo economiche e tecnologiche – spiega Dal Fabbro nel suo lavoro -, ma anche e soprattutto sociali. Infine, il recente scoppio del conflitto tra Ucraina e Russia ha evidenziato ulteriormente l’importanza di temi geopolitici e di sicurezza energetica».

IL grafico

Il contesto geopolitico, l’emergenza energetica e il post emergenza sanitaria, guardando avanti, è evidente che hanno ridefinito anche le maggiori sfide per le aziende. In particolare queste riguarderanno:
• Le minacce associate al cambiamento climatico e alla necessità di dover ridurre i propri consumi, sia nelle scelte produttive che in quelle distributive della propria azienda;
• La gestione delle risorse. Una buona gestione delle risorse, unita a una riduzione degli sprechi, oltre ad essere un elemento importante per la sostenibilità ambientale della propria azienda, comporta anche dei benefici economici considerevoli nel breve periodo. Una scelta strategica, quindi, di duplice rilevanza, su cui il modello dell’economia circolare rivestirà un ruolo di primo piano.
Tutto questo significa che nei prossimi anni «una strategia aziendale non potrà essere di successo nonostante queste sfide – spiega Dal Fabbro -, ma solo attraverso le stesse. Solo prendendo in attenta considerazione i rischi e le opportunità della transizione ecologica le aziende avranno gli strumenti per eccellere nel proprio settore».

Le tensione e le nuove sfide delle imprese

Esiste anche altro aspetto che mette in ulteriore primo piano l’importanza di coltivare una relazione tra un’impresa, i suoi dipendenti e la propria comunità. È in questo contesto che i criteri Esg avranno un peso nuovo e rilevante. «Anche la guerra in Ucraina sta cambiando la percezione di sicurezza e sta determinando una serie di cambiamenti nei principi e nelle assunzioni con cui aziende e gli Stati operavano. Tutto questo – spiega Dal Fabbro – genera forti cambiamenti nelle dinamiche europee e mondiali sull’energia, sulle materie prime, sulla finanza e sugli aspetti sociali. È diventato così essenziale soprattutto per le aziende (oltre che per gli stati) che si mettano al centro i criteri e gli obiettivi Esg.

Ed qui , a questo punto che scatta il tema della sostenibilità misurabile con la massima attendibilità e forza di comparazione, perché attraverso il monitoraggio dei criteri e obiettivi Esg «sarà sempre più importante per una gestione ottimale delle aziende».

Intanto, e proprio per questa nuova spinta, «la misurazione dei fattori Esg è ancora in grande evoluzione». Gli standard internazionali sono la base del lavoro di Dal Fabbro, il secondo passo è stato la selezione e l’allineamento di 21 fattori Esg più ricorrenti e più condivisi dai sistemi di rating, e dai 17 Goals Onu «vista la loro importanza universale».
La tecnica della content analys ha poi collegato i 21 fattori Esg con 137 criteri di misurazione di ogni dimensione Esg, a loro volta suddivisi per indicatore specifico sui tre Esg: ne è nata una matrice di allineamento (alto, medio, basso) che valuta, per esempio e in estrema sintesi, fattori come l’uso e tipologia di materie prime, il tipo di energia, da fonti rinnovabili o fossile, l’utilizzo dell’acqua e le risorse idriche, la localizzazione degli impianti o il numero di progetti per la tutela ambientale (biodiversità), livello e natura di ogni emissione per ogni tipo di gas liberato, la compliance ambientale fino alle misure di impatto sociale sia sulla comunità sia sui dipendenti (formazione, welfare, retribuzioni, pari opportunità, ambiente di lavoro).

Non sono informazioni scontate: un test sulle 15 maggiori società quotate, sul tema dell’energia solo il 40% sa distinguere fra energia diretta e indiretta, fra fonti green e non. È certo una questione di metrica, ma spesso anche di capacità di assegnare valore ai propri progetti di sostenibilità.

I tre fattori della sostenibilità

Ma, indicatore per indicatore, ecco che cosa è emerso dalla verifica del livello di standardizzazione dei parametri Esg. Cominciando dal primo, il criterio ambientale, Environmental, (E), in base a quanto riportato dal testo.
Tra i tre criteri Esg quello ambientale rileva il maggior grado di standardizzazione a livello globale, sia relativamente ai fattori ambientali considerati, sia per gli indicatori scelti per misurare. Così il 60% dei fattori Esg applicati risulta altamente “allineato”. Più complesso invece il fattore Social (S), anche perché più di difficile misurazione. L’ostacolo maggiore, secondo il 46% degli investitori interrogati è legato alla «difficoltà di analizzare e integrare questo fattore all’interno delle strategie di investimento».
Per esempio, per effetto della globalizzazione molte grandi imprese si trovano a «delocalizzare le attività produttive in aree che non soddisfano i requisiti minimi per esempio in materia di diritti civili, diritti minimi dei lavoratori, lotta al lavoro minorile o alla discriminazione».
Sull’ultimo criterio, di Governance (G) lo studio di Dal Fabbro ha rilevato invece una «discreta convergenza dei fattori applicati dalle agenzie di rating. Il 50% dei fattori applicati infatti risulta come ricorrente e con simili metriche di misurazione.

C’è poi un’ultimo fattore Esg che il libro di Dal Fabbro introduce: il Social Return on Investment (Sroi). Si tratta di un approccio nuovo per la misurazione e la rendicontazione di un più ampio concetto di valore, «con ll’obiettivo di integrare nelle analisi di progetti, programmi e politiche i costi ed i benefici sociali, economici e ambientali. Il dato nuovo sono i parametri monetari che vengono utilizzati per rappresentare il contributo contro i cambiamenti climatici. Un informazione nuova che gli «investitori che operano seguendo criteri d’investimento responsabile possono usare lo Sroi per assicurare che le attività in cui investono stiano effettivamente gestendo i rischi sociali, ambientali ed economici».

La nuova responsabilità dei consumatori

Il primo passo dell’Europa verso i cittadini: attenti al greenwashing

Aggiornate le norme a tutela dei consumatori per responsabilizzarli di più nelle scelte d’acquisto consapevoli e il diritto di conoscere la durata prevista di un prodotto e come può essere riparato. L’Europa ha anche rafforzato la tutela da dichiarazioni ambientali inattendibili o false.

Attenzione alla durabilità e al consumo di un prodotto

I consumatori devono essere informati della durabilità garantita dei prodotti. Se la garanzia commerciale di durabilità è superiore a due anni, il venditore deve informarne il consumatore. Per i beni che consumano energia il venditore deve informare i consumatori.

Basta buttare, tutti i prodotti si possono riparare

Le imprese e i venditori devono informare sulle riparazioni, come l’indice di riparabilità, o altre informazioni come la disponibilità di pezzi di ricambio. Per i dispositivi intelligenti e servizi digitali il consumatore va informato sugli aggiornamenti del software forniti.

Uno stop agli inganni sui falsi impatti ambientali

È vietato dare dichiarazioni ambientali generiche o vaghe quando l’eccellenza delle prestazioni ambientali del prodotto o del professionista non sia dimostrabili. Dichiarazioni generiche o errate sono: «rispettoso dell’ambiente», «eco» o «verde».

Il marchio di sostenibilità deve essere verificabile

È vietato esibire un marchio di sostenibilità che non è verificabile da parte di terzi o stabilito dalle autorità pubbliche. Lo stesso vale nel formulare una dichiarazione ambientale di un prodotto nel suo complesso quando in realtà riguarda soltanto un suo aspetto.

La riparazione diventa una priorità, ma va sempre informata

Ogni prodotto di deve poter riparare. Ma è vietato omettere di informare che prodotto dispone di una funzionalità limitata quando si utilizzano materiali di consumo, pezzi di ricambio o accessori non forniti dal produttore originale.




KANTAR METTE A PUNTO LE BEST PRACTICE PER PARLARE DI SOSTENIBILITÀ IN COMUNICAZIONE

KANTAR METTE A PUNTO LE BEST PRACTICE PER PARLARE DI SOSTENIBILITÀ IN COMUNICAZIONE

Con un’analisi dei migliori e peggiori spot che comunicano su temi sociali o legati all’ambiente Kantar, in collaborazione con Affectiva, ha evidenziato le best practice che le aziende dovrebbero seguire quando parlano di sostenibilità nella loro comunicazione. Essere autentici, capire l’audience, dare prospettive, essere positivi e creare connessioni sono le 5 regole emerse dallo studio che ha estrapolato i dati da una serie di test sulle creatività fatti su Kantar Marketplace prendendo in considerazione lavori realizzati in mercati diversi tra loro.

Incoraggiare. Le migliori pubblicità a favore della sostenibilità hanno spesso un tono più incoraggiante e suscitano reazioni positive: un tono di speranza aiuta a non far sentire in colpa i consumatori ed evita che rifiutino il messaggio. Secondo lo studio gli annunci contenenti messaggi sociali evocano in genere forti emozioni che però non sono sempre positive: i test hanno registrato anche senso di colpa (18%) e tristezza (17%).

Pensare positivo. Il senso di colpa è stato registrato anche in numerosi annunci che hanno ottenuto le migliori performance, ma queste pubblicità sono state capaci di lasciare un sentimento positivo anche quando trattavano temi molto seri. L’esempio best in class è la campagna ‘Where there are cooks’ di Lurpack capace di affrontare il tema dello spreco alimentare lasciando agli spettatori un’ispirazione da seguire.

Agire. Si può ispirare un comportamento sostenibile anche in modo implicito e secondo l’analisi di Kantar questo modo di comunicare, capace di suggerire come mettere in atto le buone intenzioni, evita di creare sensi di colpa e di rivendicare per il brand un forte ecologismo.

Fatto non trascurabile, quest’ultimo, visto che secondo il Sustainability Index Sector di Kantar il 64% dei consumatori globali sostiene che le aziende hanno per prime la responsabilità di agire senza scaricare il compito sulle persone. Per questo, secondo l’analisi della società di insight, è importante che le aziende siano autentiche, fedeli ai valori del brand e senza pretendere troppo.

Aiutare i consumatori può fare la differenza, quando si è capaci di mostrare in modo tangibile cosa fare, tanto quanto agire in modo concreto, mantenendo le promesse e non limitandosi a parlare.

I brand sembrano cogliere la sfida, almeno per quanto riguarda la numerosità delle campagne contenenti messaggi sostenibili o sociali, la cui percentuale è triplicata dal 2016 a livello internazionale, sottolinea Stéphanie Leix, Head of Creative & Media Insights Division di Kantar. Ma comunicare questi temi, spiega, non è facile sia per la diffidenza dei consumatori sia per gli interventi delle autorità di regolamentazione che agiscono per arginare le affermazioni fuorvianti.




La riforestazione e i Salgado: un sogno da quattro milioni di alberi

La riforestazione e i Salgado: un sogno da quattro milioni di alberi

La natura come orizzonte, la riforestazione come obiettivo tangibile. Sebastião Salgado, fotografo tra i più celebri del mondo. Lélia Deluiz Wanick artista, autrice e produttrice. Da quasi 60 anni condividono la vita quotidiana e le sue passioni. Insieme hanno viaggiato un po’ ovunque ma alla fine sono sempre tornati in quell’angolo di Vale do Rio Doce chiamato casa. Per curarlo, salvarlo, riportarlo letteralmente alla vita. Il progetto è iniziato nel 1998 con la fondazione dell’Instituto Terra  ed è destinato ora a proseguire per lo meno fino al 2027 perseguendo un traguardo importante: l’impianto di un milione di alberi.

Dal degrado alla riforestazione

Il progetto segue un percorso tracciato da tempo. Una missione elaborata e condotta nel suolo arso e desolato della Fazenda Bulcão che la famiglia del celebre fotoreporter aveva acquistato negli anni ’40. Deciso a favorire il pascolo degli animali, il padre di Salgado aveva progressivamente disboscato il terreno per vendere legname e piantare erba da foraggio. Molti anni più tardi, ritornando alla tenuta della sua infanzia, Sebastião faticò a riconoscere lo scenario: la terra ormai arida, le piante scomparse. Il degrado. Ovunque.

La riforestazione che ne è seguita porta oggi il nome di 290 specie di piante e centinaia di animali tornati ad abitare quei 700 ettari di terra tropicale ad Aimores, nello Stato di Minas Gerais. Ed esplode, rigogliosa, all’ombra degli alberi impiantati nel tempo: tre milioni di esemplari fino ad oggi, che diventeranno quattro dopo il completamento del programma.

L’obiettivo? Rigenerare il suolo e la biodiversità

L’operazione, condotta dall’Instituto Terra in collaborazione con la compagnia assicurativa elvetica Zurich, è iniziata a novembre dello scorso anno con la semina delle prime 100mila piantine. L’obiettivo della riforestazione è quello di ripristinare il bioma originario della foresta rigenerando il suolo e la sua biodiversità e contrastando il cambiamento climatico. Un programma ambizioso che assume un significato particolare in un Paese che da tempo fa i conti con un uso indiscriminato del territorio. “Quella di Lélia Wanick e Sebastião Salgado è un’azione visionaria e rivoluzionaria in una regione, in un Paese e in un continente devastati dalla continua deforestazione e dall’uso intensivo e insostenibile delle terra con conseguente degrado, abbandono ed esodo rurale”, ha dichiarato Isabella Salton, direttore esecutivo dell’Instituto Terra.

L’introduzione delle specie arboree nell’area, precisa l’istituto, dovrebbe consentire all’ecosistema forestale in via di recupero “di riprodursi da solo in modo permanente”.




Arrivano le città circolari

Arrivano le città circolari

New York, ore 6. Lungo l’Holland Tunnel, principale arteria autostradale della Grande Mela, che collega il New Jersey con Manhattan, migliaia di camion e furgoni entrano nella città carichi di cibo, combustibili e merci per soddisfare 14 milioni di cittadini. Sul lato opposto decine di camion della spazzatura trasportano rifiuti di ogni tipo verso il centro di smistamento nei pressi dell’aeroporto di Newark. 

A Newtown Creek, Brooklyn, l’impianto di depurazione, noto per l’iconica forma dei quattro coni d’acciaio alti 42 metri processa milioni di litri di reflui delle case dei newyorkesi. Migliaia di persone intanto stanno procedendo con la raccolta dei rifiuti domestici: fino a sera il traffico di nuove merci e nuovi rifiuti procederà attraverso i punti d’uscita e d’entrata della città. Uno scenario comune a tutte le grandi città del mondo, che ogni giorno metabolizzano materie prime, energia, acqua, prodotti, cibo ed espellono rifiuti in ogni forma (emissioni, reflui, rifiuti).

Le città oggi consumano circa il 75% delle risorse naturali, producono oltre il 50% dei rifiuti a livello globale, mentre emettono tra il 60 e l’80% delle emissioni di gas serra. In meno di tre decenni, due terzi della popolazione mondiale vivrà in aree metropolitane. Guardando al futuro, questo modello lineare miope non può sostenere un futuro sostenibile.

Serve dunque modificare e curare il metabolismo delle città, riducendo in parte la quantità di materia che entra e limitando la produzione di rifiuti, che devono diventare da scarto una risorsa.

L’Holland Tunnel è una delle principali arterie newyorkesi per l’ingresso di beni e cibo e di ...
L’Holland Tunnel è una delle principali arterie newyorkesi per l’ingresso di beni e cibo e di uscita di scarti e rifiuti.FOTOGRAFIA DI MIHAI_ANDRITOIU/SHUTTERSTOCK

Secondo gli esperti, il passaggio alla modalità circolare, basata su riduzione dei consumi, allungamento della vita dei prodotti, condivisione e riuso/riciclo, offrirà alle città l’opportunità di riconsiderare il modo in cui produciamo e consumiamo aprendo nuove opportunità di impresa, liberando spazi sociali inclusivi e rendendo gli spazi che abitiamo più salubri e sicuri.

Le città hanno un vantaggio nella transizione circolare, sostiene C40 Cities, un network globale che unisce le più grandi metropoli del pianeta: avere persone, produttori, rivenditori e servizi così vicini tra loro può facilitare la creazione di reti e flussi di economia circolare. Secondo il position paper sulle circular cities di Gruppo Enel, da anni oramai attore di riferimento sulla circular economy a livello internazionale, sono i cinque pilastri dell’economia circolare a determinare la struttura di questa auspicabile rivoluzione urbana: input sostenibili (fonti rinnovabili, riuso, riciclo), estensione della vita utile di asset e prodotti, sharing, prodotto come servizio, valorizzazione del fine vita dei beni (riciclo, riuso, upcycling). Dentro queste macro-categorie ricadono praticamente tutte le innovazioni e transizioni necessarie per la città del domani: dalla mobilità alle reti energetiche, dal design di prodotti e servizi al sistema cibo, dalla riprogettazione dei quartieri e degli edifici al sistema del retail.

C’è poi un altro elemento fondamentale: la centrale acquisti della pubblica amministrazione. In inglese si chiama Green Public Procurement, di fatto è la lista della spesa delle amministrazioni, dalla cancelleria agli edifici che possono orientarsi sempre di più su soluzioni sostenibili e circolari. Servono nuovi mobili per la scuola? Si favoriscono materiali riciclati. Bisogna cambiare la flotta del municipio? Si usino sistemi di sharing e veicoli elettrici. E via dicendo. Devono essere proprio le città a dare l’esempio. Vediamo allora chi guida questa trasformazione.

Ad Amsterdam la riparazione e il riuso sono pratiche circolari molto diffuse e in voga, spesso ...
Ad Amsterdam la riparazione e il riuso sono pratiche circolari molto diffuse e in voga, spesso sostenute con progetti comunali.FOTOGRAFIA DI INGEHOGENBIJL/SHUTTERSTOCK

Amsterdam, l’avanguardia circolare

Il simbolo indiscusso delle circular cities è la città di Amsterdam che ha puntato la sua strategia di sviluppo circolare sulla riduzione degli sprechi e l’innovazione. Tutto è iniziato con la mappatura e identificazione delle aree in cui sarebbe possibile applicare modelli di business circolari, evidenziando le strategie per l’attuazione pratica di queste soluzioni sostenibili. Il piano si è chiamato City Circle Scan, implementato da un ufficio dedicato della municipalità e dal think tank Circle Economy. Dagli scarti del pane per produrre birra al riuso del materiale da demolizione degli edifici passando per un mega hub di imprese presso il Porto che usano scarti alimentari per produrre biomateriali. E ancora educazione al riciclo, ristoranti che servono gli scarti dei supermercati (con piatti realizzati da chef da stella Michelin), edifici modulari che possono facilmente cambiare destinazione d’uso, riuso dei materiali reflui dai depuratori, e tanto altro.

Secondo il comune l’implementazione di strategie di riutilizzo dei materiali vale 85 milioni di euro all’anno nel settore delle costruzioni e 150 milioni di euro all’anno nella chimica sfruttando la frazione organica dei rifiuti in maniera innovativa. Quando il piano sarà a pieno regime nel 2025 si risparmieranno annualmente fino a 900 mila tonnellate di materie prime, una quantità significativa rispetto all’attuale importazione annuale di 3,9 milioni di tonnellate di materie prime. In termini di posti di lavoro? L’aumento dei livelli di produttività ha la capacità di aggiungere fino a 700 posti di lavoro aggiuntivi nel settore edile e 1200 posti di lavoro aggiuntivi nell’agricoltura e nell’industria di trasformazione alimentare. Non male per una città di 800mila abitanti.

La cittadina scozzese di Glasgow, un tempo motore della rivoluzione industriale alimentata a carbone oggi punta ...
La cittadina scozzese di Glasgow, un tempo motore della rivoluzione industriale alimentata a carbone oggi punta sulle nuove imprese sostenibili.FOTOGRAFIA DI TANASUT CHINDASUTHI/SHUTTERSTOCK

Glasgow, un futuro post-industriale

La spinta è arrivata dall’iniziativa Circular Glasgow. Un piano per aiutare le attività commerciali di diversi settori a comprendere e adottare strategie economiche circolari, attraverso l’innovazione, la progettazione e nuovi modelli di business. La cittadina scozzese, divenuta nota per la conferenza sul clima del 2021, ha come obiettivo quello di diventare una delle prime città circolari e a “prova di futuro” del mondo. Hanno deciso di partire subito con le imprese della città, aiutandole a trovare nuove fonti di reddito tramite processi di riciclo, riuso, riparazione e ad essere allineate alla legge sul clima, che punta a rendere Glasgow a emissioni nette zero entro il 2045.

Uno dei fiori all’occhiello è il Construction Waste Portal, una piattaforma che aiuta a trovare una destinazione ai rifiuti edili ancora prima che inizi la costruzione o rigenerazione di un cittadino. Tanta attenzione anche al settore alimentare, con rigide politiche sul food waste e l’uso degli scarti per l’agricoltura urbana, dai quali si produce persino la birra. Per i cittadini la raccolta differenziata è motivo di orgoglio. Per questo la quantità e la qualità del riciclato sono tra le più alte in Europa. Un po’ di campanilismo serve, se lo scopo è rendere più efficienti ed ecosostenibili le nostre città.

Milano: lo scarto alimentare, un tesoro prezioso

«Il Comune di Milano si è posto una serie di target chiari, per facilitare e velocizzare la transizione verso l’economia circolare», spiega Piero Pelizzaro, già Chief Resilience Officer del Comune di Milano. «Questi includono una riduzione delle emissioni del 45% al 2030 attraverso l’uso di fonti rinnovabili per la produzione energetica, la riduzione dei consumi energetica e la transizione elettrica del trasporto pubblico locale, un tasso di riciclo del 70% entro la fine del decennio, riduzione del 15% della quantità di rifiuti prodotti da ogni cittadino, aumentare la presenza, l’utilizzo e le tipologie di Car Sharing (PUMS e PGT), Piantumazione di 3 milioni di alberi equivalenti entro il 2030».

Secondo una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca, il capoluogo lombardo si conferma nel 2020, al primo posto delle circular cities italiane, grazie a sistemi di trasporto pubblico ramificati e apprezzati, servizi avanzati di car sharing, rete idrica innovativa (vari sistemi di recupero dei reflui per fare biogas e ammendanti), elevato livello di raccolta differenziata (oltre il 60%) e alto fatturato delle attività di vendita dell’usato. Sono innumerevoli i progetti, come ad esempio OpenAgri, focalizzato sull’agricoltura periurbana nel comune di Milano che oggi funge da laboratorio vivente per l’innovazione circolare lungo la filiera alimentare. Oppure il progetto Centrinno (“New CENTRalities in INdustrial areas as engines for inNOvation and urban transformation”) che ha come obiettivo principale la rigenerazione delle aree urbane storiche e dei siti culturali in hub di imprenditorialità e di integrazione sociale e culturale. O ancora lo splendido Circular Economy Lab, dentro Cariplo Factory, che promuove la nascita di progetti di economia circolare industriali e di start-up. «Abbiamo un ecosistema vivace, con strategie efficaci – basti pensare che più del 50% dell’umido viene avviato a compostaggio o alla produzione di biometano – e una buona partecipazione dei cittadini. Spingere su politiche di economia circolare in città ci può aiutare ad affrontare shock ambientali ed economici», conclude Pelizzaro.

Secondo una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca, il capoluogo lombardo si conferma nel 2020, al primo posto ...
Secondo una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca, il capoluogo lombardo si conferma nel 2020, al primo posto delle circular cities italiane.FOTOGRAFIA DI VENTDUSUD/SHUTTERSTOCK

CityLife, rigenerare circolare è possibile

Non c’è luogo più iconico di Milano del nuovo spettacolare progetto CityLife, che ha riqualificato il quartiere Fiera di Milano, un tempo periferia di nessun interesse e oggi landmark metropolitano visitato da tutto il mondo per il suo pregio architettonico e i suoi store.

Quello che forse turisti e influencer non sanno, mentre si scattano selfie e postano video su Tiktok, è che si trovano in uno dei progetti urbanistici più sostenibili e circolari della città. Innanzitutto è una delle più grandi aree pedonali urbane in Europa, con splendidi spazi verdi dove rilassarsi o giocare con amiche e amici. Nel verde è incastonato un gioiello di efficienza energetica: tutti gli edifici hanno elevate prestazioni energetiche e integrano tecnologie di riscaldamento e raffrescamento a emissioni zero al punto da ricevere la prestigiosa certificazione LEED Gold.

Ma è sull’economia circolare che CityLife dà del suo meglio. A partire dai materiali, dato che oltre il 20% proviene da input riciclati, oltre il 95% dei rifiuti di cantiere sono stati inviati a riciclo e una parte rilevante degli edifici residenziali usa finiture in legno proveniente da foreste gestite in maniera responsabile.

CityLife si è affidata a Enel X come partner strategico per il disegno e l’implementazione di un nuovo piano di sostenibilità ed economia circolare. Lo scorso anno si è iniziato con l’analisi di circolarità dei nuovi edifici residenziali e del parcheggio sotterraneo. Il risultato? Un piano urbano integrato che usa le soluzioni di Enel X sull’uso intelligente dell’energia, sulla mobilità circolare ed elettrica e di illuminazione intelligente (notate i lampioni che si accendono quando si avvicina qualcuno!).

Grazie a queste analisi ed interventi si potrà fornire un contributo al percorso di decarbonizzazione e sostenibilità avviato nell’area, contribuendo al contempo a strutturare un’informazione trasparente e chiara per far capire come anche il mondo delle costruzioni e dell’immobiliare può fare la sua parte nella fatidica lotta contro il clim




La curva di efficacia nell’adesione dei brand alle cause sociali

La curva di efficacia nell'adesione dei brand alle cause sociali

La drammatica vicenda ucraina si è imposta con immediata urgenza alla sensibilità collettiva europea. E non poteva che essere così. Una guerra antistorica dentro l’Europa, civili straziati, evocazione del nucleare, drammatici appelli del leader e dirette social costanti dagli stessi assediati, rappresentano una narrazione inquietante e totalizzante.
Uno scenario che ha portato inevitabilmente le principali aziende internazionali a cercare delle forme di coinvolgimento. Chi prima, chi dopo. C’è chi, ancora traccheggiando, soppesa il minor danno tra la perdita immediata del mercato russo e il potenziale danno reputazionale a livello globale per “omessa indignazione” e chi invece ha già sbarrato ogni porta a Mosca. Chi esprime una solidarietà leggera e tutta social, e chi invece si attiva con azioni più concrete, in linea con il proprio purpose. Infine, c’è chi –specchio dei tempi- adotta scelte insensatamente radicali, che puzzano di cancel culture. Ma, più o meno tutti, indirizzando un proprio segnale al mercato russo, cercano di sintonizzarsi su quel sentimento di sdegno dell’opinione pubblica internazionale.

D’altra parte, in tempi di preteso e atteso attivismo dei brand, dove si chiede alle marche di dimostrare una propria coscienza, le immagini di bambini uccisi in una guerra d’aggressione -in terra d’Europa!- non possono non determinare un immediato moto di turbamento. La rapidità con cui l’opinione pubblica europea ha reagito in questo caso, non deve stupire. Condannarle come il disvalore massimo, è ormai diventata parte del nostro stesso dna continentale, un principio metabolizzato e oramai acquisito da decenni, dopo gli orrori di due guerre mondiali. Ma ricordiamoci che i primi sostenitori del pacifismo laico, agli inizi del novecento in Europa, rappresentavano poco più che una bizzarria. Usualmente, infatti, esiste un tempo di gestazione per le cause sociali. Una istanza di questa natura, di norma, nasce fragile e vulnerabile, minoritaria e controcorrente. Ma poi cresce col tempo, di pari passo alla diffusione nella società di quella sensibilità che la riconosce come tale. Ci possono volere anni per la sua affermazione, decenni, o generazioni. Basti pensare al razzismo, alla sensibilità ambientale, a al rispetto degli orientamenti sessuali. Dipende dal grado di predisposizione di una collettività a riconoscere, in determinati comportamenti, quel disvalore che li rende non più accettabili, non più tollerabili. Si tratta di un percorso graduale e complesso, non sempre lineare, ma che ha sicuramente nella acculturazione di massa e nella libera diffusione delle informazioni (leggi, grado di civiltà), due fondamentali acceleratori nella società.

Oggi “esplodono” cause sociali dopo percorsi di crescita durati decadi, costellati da migliaia di episodi di denuncia e di sensibilizzazione, prima di fare breccia nell’opinione pubblica tanto da diventarne una battaglia prioritaria. Cause che, nel tempo, si sono infiammate per singoli episodi di cronaca e poi riassopite, perché in quella collettività di riferimento non si erano ancora diffusi sufficientemente gli anticorpi atti a combattere quella battaglia in modo continuativo. Dunque, un terreno complesso e scivoloso per le aziende, dove orientarsi e compiere la scelta più corretta di sintonizzazione, rappresenta una forma di decisone critica. Ma il tempo, anzi la tempistica, conta. E tanto. E’ indubbio che proprio nel “momento” in cui verrà operata una scelta, risieda una parte determinante del valore della medesima. Perché la decisione del sostegno ad una causa sociale avrà sempre più, per i consumatori, un valore diverso a seconda della tempistica con cui questa verrà espressa dal brand, secondo un paradigma di autenticità e credibilità che ne determinerà, in ultima analisi, il vero valore reputazionale.

E questa gradazione potrebbe essere espressa attraverso un diagramma rappresentabile come una sorta di curva e segmentabile in un processo a tre fasi. Un modello secondo cui, al dilatarsi del tempo, si riduce proporzionalmente l’efficacia raggiunta. Quando un tema inizia ad emergere per la prima volta in una comunità è quasi sempre minoritario, scomodo, controverso, talvolta disturbante per la maggioranza e dunque divisivo. In questa fase, per una azienda che ambisce ad avere un pubblico di riferimento più vasto del target che sostiene quel tema, supportarlo rappresenta un azzardo, un rischio, significa esporsi tra i primi dalla trincea, rischiando il fuoco nemico delle polemiche. Ma rappresenta altresì un enorme patrimonio di autenticità e di credibilità da cogliere. Essere stati tra i primi e tra i pochi, a compiere una scelta (in quel momento) difficile, resterà nella storia di quella marca, forgiandola.

Proseguendo, in una fase successiva, all’affermarsi della sensibilità su quel tema, questo diventerà gradualmente maggioritario nella società e scegliere di schierarsi a suo favore verrà percepito come una scelta che prevede un rapporto costo/opportunità adeguato. Ma esattamente per questa ragione, risulterà altresì minore il profitto generato in termini di reputazione conseguita. Una scelta meno rischiosa, meno pura, è più conveniente dunque “vale” meno. In questa fase si assisterà probabilmente ad un costante e graduale aumento delle aziende che decideranno di schierarsi a sostegno. Tutti cercano di comprare una azione quando questa è in ascesa.

Infine la terza fase, quella che potremmo definire del “conformismo”. Il tema è ormai esploso, main stream e maggioritario nella società, la sensibilità comune lo ha eletto a bandiera di civiltà. Le aziende si affollano in scia nella speranza di coglierne ancora un valore di posizionamento, o per lo meno evitarne un pregiudizio. Ma a questo punto è tardi per cogliere un profitto vero. Questa è una scelta ormai obbligata, dettata dalla pressione critica dei consumatori. Semplicemente non si può più non farlo, perché questo potrebbe determinare un danno di reputazione di lungo periodo e significativa rilevanza. Ma proprio perché il valore marginale comunicativo conseguito in una fase di livellamento è ridotto, sarà esattamente a questo stadio che si assisterà ad alcuni degli errori più grossolani compiuti dalle aziende. Perché, per cercare di differenziarsi, per mostrare una adesione alla causa più sincera di quanto la tempistica suggerirebbe, si sarà tentati di urlare di più, di caricare i toni, con effetti talvolta controproducenti in quanto innaturali, insinceri, artefatti e persino caricaturali. Gli esempi di disastrose campagne di puro woke washing in questo senso, si sprecano. Ma non c’è solo questo. E’ chiaro che pubblici più attenti e consapevoli (pensiamo alla generazione Z, ipersensibile, che non si accontenta e soprattutto non dimentica), sanzioneranno comunque l’attendismo di aziende ritenute abitualmente più reattive a queste tematiche. Semplicemente perché, a loro parere, avrebbero potuto e dovuto agire prima, senza un eccessivo calcolo opportunistico.. Il delicato obbiettivo da raggiungere è dunque la percezione che la propria scelta di adesione alla causa sia autenticamente generata da ragioni etiche, in quanto mediata il meno possibile da eccezioni di convenienza economica. E tornado all’attualità, proprio qui risiederà la vera difficoltà per i brand che hanno scelto di dare un segnale forte alla Russia, a seguito dell’invasione. Perché la autenticità della loro scelta, dunque la loro stessa credibilità, verranno presto messe alla prova dalla durata del conflitto e dalle sue conseguenze. Perché, se il conflitto proseguirà a lungo o se terminerà asimmetricamente, raggiungendo cioè solo gli obiettivi di chi lo ha iniziato, sarà difficile tornare in quel mercato mantenendo una coerenza con le posizioni iniziali. In particolare, per le aziende che hanno in quella specifica area un target importante. Quanto potranno reggere?