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OLIVETTI: DAL MITO ALLA STORIA

INTERVISTA A GIACOMO GHIDELLI x VOLUME SU OLIVETTI

Su Adriano Olivetti è stato scritto molto: industriale, filantropo, innovatore, visionario, incubatore intellettuale della psicologia del lavoro. Tutto è già stato detto? Forse no. Ne parliamo con Giacomo Ghidelli, raffinato copywiter che per la Olivetti ha lavorato firmando alcune delle più importanti campagne pubblicitarie dell’azienda di Ivrea (inclusa quella del primo personal computer progettato al mondo) e che ci accompagna in un volume di recente pubblicazione alla ri-scoperta dell’insegnamento profondo lasciatoci dal pensiero di Adriano Olivetti.

Prendo spunto dalla domanda che si pone Pietro Bordoli aprendo la presentazione del volume: “Ma era necessario un altro libro su Olivetti, dopo tutto quanto è già stato scritto?”.

Si, perché le molte cose che sono state scritte e dette da tanti dei protagonisti olivettiani hanno in realtà  creato una “vulgata mitica” intorno a questa azienda: un racconto diventato di moda, che ha però contribuito a occultare quello che ritengo essere il più profondo insegnamento di Adriano Olivetti. Per recuperarlo, con questo libro invito a uscire dal mito per andare alla storia.

Qual’è la “vulgata mitica”?

Che cè stato un fondatore, Camillo, che oltre a trattare i propri dipendenti come un buon padre di famiglia, ha dato il via a una comunicazione elegante e raffinata che sarà sviluppata nel tempo. Il figlio Adriano ha sistematizzato e ampiamente integrato in molti modi – welfare aziendale, design, cultura etc. – ciò che aveva fatto il padre. A spingerlo fu un afflato che mantenne la propria forza propulsiva per quasi vent’anni dopo la sua morte, sino all’arrivo di De Benedetti il quale, dopo aver salvato l’azienda, stravolgendone però l’identità, fu il vero responsabile dell’olivetticidio finale.

Non è andata così?

Dal mio punto di vista, no. Innanzitutto Camillo non fu un “padrone-filantropo-paternalista”: fu un imprenditore di idee socialiste, alla ricerca di una giustizia sociale che se non era garantita dallo Stato poteva almeno in parte essere favorita da lui e dalla sua impresa. Lo testimoniano ampiamente scritti e azioni. Per quanto riguarda la comunicazione, inoltre, Camillo si mosse nel solco del tempo, senza inventare nulla di nuovo ma affidandosi semplicemente a creativi che seppero ben cogliere le novità da lui introdotte. Per Adriano le cose sono diverse: lui pone alla base di tutto il suo agire il tema della costruzione di una comunità formata da persone consapevoli, che diventano tali grazie al continuo accrescimento dei valori morali dell’individuo, vale a dire dei valori umani, culturali, sociali ed estetici. Da qui il suo lavoro per costruire quello che nel libro ho definito il “design globale”, articolato lungo quattro direttrici: il design della giustizia sociale, della cultura, della bellezza e della comunicazione. Accanto a questo “lavoro di una vita”, negli ultimi anni vengono in primo piano le ricerche nel settore elettronico, che portarono alla nascita del primo calcolatore al mondo: un risultato che sembrò anticipare il mutamento della stessa missione aziendale: da produttore di strumenti per l’ufficio a produttore di strumenti per il benessere di tutti.

Con la sua morte, però, tutto cambiò: il nuovo AD portò l’azienda verso un indebitamento così profondo che alla fine, di fronte a insanabili disaccordi nel CDA, viene costituito sotto la guida di Visentini un “gruppo di intervento” capitanato da Fiat e Mediobanca…

Si, è sotto la guida di queste entità vengono compiute tre mosse importanti. Il tema della costruzione della comunità, centro propulsivo dell’azione di Adriano, viene dimenticato: l’azienda prosegue a vivere non per costruire comunità di persone ma solo per produrre profitti. Poi, la Divisione elettronica venne malamente liquidata, e la Olivetti si concentra di nuovo sui prodotti meccanici, destinati però inevitabilmente all’obsolescenza tecnologica. Infine, venne sviluppata un’immagine aziendale fondata sul design, sulla cultura e sulla comunicazione, in un certo senso in continuità con il passato, ma solo a fini di marketing. L’insieme di queste mosse, anche se non sembra, cambiò tutto e ci portò al mito Olivetti. All’obiettivo della costruzione di una comunità subentra quello del profitto; al centro dell’azione non c’è più la persona ma il consumatore; la cultura non è più ciò che deve contribuire alla formazione di una persona che fa parte consapevolmente di una comunità, ma diventa elemento fondante per la costruzione del posizionamento aziendale; infine, la bellezza non è più – come diceva Adriano – il “valido elemento dello spirito”, ma è un valido elemento solo per le vendite dei prodotti. Contestualmente viene in primo piano un’immagine aziendale che copre i radicali cambiamenti in favore di una continuità che in realtà non esiste: la prevalenza della forma è ciò che riscrive la storia della Olivetti.

Il libro discute poi il periodo di De Benedetti che, dopo aver sfruttato in modo ancora più forte dal punto di vista marketing l’immagine aziendale, concluderà la sua parabola – come confessa lo stesso ingegnere –nel vuoto di idee. La forma, quando è solo forma, conduce al nulla?

Corretto. E anche grazie a questa ultima parte di analisi, mi auguro che l’aver dato valore alla reale storia aziendale consenta di cogliere l’insegnamento più profondo di Adriano, che fu quello di indicare la via verso una CSR radicale dove il profitto è in funzione dell’etica e non viceversa; dove la persona è realmente messa al centro e viene trattata kantianamente “come fine”, constatando come la sua crescita porti anche alla crescita della comunità e complessivamente a quella dell’innovazione, della partecipazione e, alla fine, alla crescita di quel profitto che serve, oltre che per soddisfare in misura adeguata l’azionista, anche per far crescere le persone, per creare un clima interno benefico all’azienda e soprattutto a chi vi lavora.


Il volume “Comunicazione Olivetti: dal mito alla storia”, Libraccio Editore, di Giacomo Ghidelli è disponibile in libreria e online




Zelensky Vs. Putin: la guerra della comunicazione mette male per la Russia

Zelensky Vs. Putin: la guerra della comunicazione mette male per la Russia

“Buongiorno a tutti gli Ucraini. Circolano informazioni false su internet che dicono che io starei chiedendo al nostro esercito di deporre le armi e che è in corso un’evacuazione. Bene, io sono qui, a Kiev. Non deporremo le armi, e difenderemo il nostro Stato, perché la nostra arma è la verità, e la verità è che questa è la nostra terra, il nostro Paese, i nostri figli, e noi difenderemo tutto questo. Questo è ciò che volevo dirvi, gloria all’Ucraina.”

Questa è la trascrizione letterale di un video registrato e diffuso oggi di prima mattina dal Presidente della Repubblica di Ucraina Volodymyr Zelensky, da Kiev, dove guida la resistenza nelle città sotto attacco delle forze della Federazione Russa, che hanno invaso l’Ucraina 3 giorni fa.

In un precedente video registrato ieri a tarda sera, sempre a Kiev, con indosso un maglione in stile militare, aveva detto: “Siamo qui, siamo a Kiev, stiamo difendendo l’Ucraina. Sono io l’obiettivo di Putin, e la mia famiglia è l’obiettivo numero due”, scandendo lentamente e convintamente le parole, e indicando poi – uno per uno – i quattro fedelissimi del Governo accanto a lui. La moglie e i due figli sarebbero infatti ancora nel Paese, e secondo i servizi di intelligence la famiglia Zelen’sky sarebbe il primo target di Mosca: Putin avrebbe dato ordine di eliminare il Presidente a qualunque costo.

Volodymyr Zelenskyi: da attore a presidente sotto assedio

44 anni, Volodymyr Zelenskyi è a capo della repubblica semipresidenziale dell’Ucraina da pochi anni. Nato nel gennaio del 1978, da padre docente e madre ingegnere, si laurea in giurisprudenza, e diventa poi nel 1997 un attore comico, senza alcuna contiguità con il mondo della politica. Gli ucraini lo conoscono bene per il personaggio che interpreta nella trasmissione “Servitore del popolo”: un professore di storia onesto che decide di diventare presidente sfidando gli oligarchi ucraini. Il passo dalla fiction alla realtà è sorprendentemente breve: sulla scia del successo del programma TV, insignito anche di diversi premi internazionali, Zelenskyi fonda l’omonimo partito, Servitore del popolo, si candida alle elezioni e il 20 maggio 2019 vince le presidenziali con il 73,22% dei voti. Il suo partito vince inoltre le elezioni politiche indette subito dopo la sua elezione, conquistando la maggioranza in Parlamento.

Filoeuropeista, Zelen’sky, ha spinto fin da subito per l’ingresso dell’Ucraina nell’UE (anche se nessun dossier per l’ingresso ne nell’Unione ne tanto meno nella NATO è stato fin qui formalizzato), scatenando così le ire del Cremlino. Ha voluto senza esitazione prendere le distanze dalla Russia di Putin, che considererebbe l’Ucraina ancora come una sua appendice, con il sogno di restaurare il dominio territoriale dell’ex URSS. Le dichiarazioni del neo Presidente Ucraino furono inequivoche: “Vogliamo un’Ucraina forte, potente e libera, che non sia la sorella minore della Russia, che non sia un partner corrotto dell’Europa, ma che sia solo la nostra Ucraina indipendente”.

Ora la crisi è al suo apice, con l’esercito Russo che è penetrato da più fronti in Ucraina e preme sulla capitale. Per certo si sa che gli americani avevano già messo a disposizione un elicottero militare con adeguata scorta, destinazione Leopoli, due giorni prima che cominciasse l’invasione, ma niente da fare: il Presidente non è scappato. Il Corriere della Sera riporta quanto segue: “’Giovedì sera ci ha impressionati’, racconta uno sherpa UE che ha sentito una sua telefonata dal nascondiglio segreto preparato per tempo, a prova d’intercettazioni: ‘Eravamo in videoconferenza e a un certo punto Zelensky ha detto: Questa potrebbe essere l’ultima volta che mi vedete vivo…. E si vedeva che non recitava, l’angoscia del momento c’era tutta’”.

L’ex comico, Presidente apparentemente forse un po’ improvvisato, in queste ore buie per l’intera Europa, e tragiche per l’Ucraina, sapientemente e del tutto inaspettatamente sta dipingendo con successo il contorno del suo nuovo personaggio, poggiato su pilastri robusti e di prim’ordine: coraggio, coerenza, sprezzo del pericolo, attaccamento ai valori della sua Patria, resistenza a costo della vita.

Lo “stile” di Vladimir Putin

Putin per contro appare in TV serio, leggermente sovrappeso dopo i quasi due anni di totale isolamento per il Covid, che pare avergli generato molta ansia: nella Sua Dacia ha fatto predisporre un sofisticato sistema di sterilizzazione anti-virus, con quarantena obbligatoria di 7 giorni per chiunque lo volesse vedere, tanto che recentemente il Segretario Generale dell’ONU, in viaggio in Russia per incontri istituzionali, non è riuscito a combinare un incontro. Chiuso in sé stesso, i bene informati osservano come non ascolti più con attenzione neppure le voci dei Suoi più stretti Consiglieri. Al Cremlino si respira un’aria pesante, come quando in una riunione ieri l’altro ha convocato i vertici delle Forze Armate e dell’Intelligence chiedendo a margine di una conferenza stampa a reti unificate: “Siamo tutti d’accordo sulla strategia di gestione della questione Ucraina?”. Calato il gelo, nessuno ha fiatato, tutti hanno fatto cenno di si con la testa, un’immagine che ha ricordato Hitler quando interrogava, a scopo meramente formale, i suoi generali.

A fronte di uno Zelenskyi in mimetica, che entra ed esce dal bunker, e si muove agilmente in Kiev dando ordini alle truppe e tenendo viva la resistenza – inaspettata – del popolo Ucraino, Putin fa poi un altro scivolone dal punto di vista reputazionale: sollecita i generali Ucraini a “tradire il Presidente”, chiedendo alle alte gerarchie dell’esercito di Kiev di destituirlo: “Se volete salvare Kiev, prendete il potere nelle vostre mani, sarà più facile per me negoziare con voi, piuttosto che con questa banda di drogati e neonazisti che si è stabilita a Kiev”, spiega Putin con il volto livido.

Alle accuse di contaminazioni naziste in Ucraina mosse da Putin, Zelensky aveva già risposto con un video diventato virale, girato durante il primo giorno dell’invasione, dicendo: “La Russia ci ha attaccato a tradimento questa mattina, come ha fatto la Germania nazista negli anni della Seconda guerra mondiale. Vi hanno detto che siamo nazisti, ma come fa un popolo a essere nazista quando ha perso oltre 8 milioni di vite nella vittoria contro il nazismo? Come posso essere io accusato di essere un nazista? Chiedetelo a mio nonno, che ha combattuto tutta la Seconda guerra mondiale nella fanteria dell’Armata Rossa ed è morto con i gradi di colonnello dell’Ucraina indipendente”.

Putin: Rolex e colpi bassi

In ogni caso, un appello “al golpe” viscido e poco onorevole, quello lanciato dallo “zar” Putin, che vorrebbe ricostruire la grande Russia ma deve anche fare i conti con significativi problemi economici che mettono a rischio la tenuta sociale nel suo Paese: stipendi medi di 300 dollari o poco più, in larga parte ai limiti della sussistenza, un PIL inferiore a quello della sola Italia, all’orizzonte mesi se non anni di lacrime e sangue per le nuove sanzioni – durissime – decise da UE e USA, e il pugno duro non solo più contro dissidenti politici e giornalisti, ma ora anche contro la popolazione civile; mentre scrivo, hanno superato quota 3.000 gli arresti tra manifestanti pacifici che in 34 città della Russia imbracciavano cartelli con scritto “Questa non è la guerra della Russia, è la guerra di Putin”.

Mentre l’occidente blocca il suo (assai ingente) patrimonio personale all’estero, Forbes fa il conto del valore degli orologi da polso del Presidente Putin come sono apparsi nelle foto ufficiali: oltre 550.000 euro. In molti si chiedono: sarebbe questo il “padre della nazione” che mette sempre al primo posto gli interessi dei suoi cittadini? Lo storytelling farlocco orchestrato dal Cremlino, e che ha tenuto banco per 20 anni, inizia a mostrare le prime – vistose – crepe.

Opposta la narrazione di Volodymyr Zelens’kyi: da sempre nemico di oligarchi e della casta corrotta e arricchita, che spadroneggia in Ucraina come in Russia e fin dai primi giorni nel mirino del suo mandato presidenziale, è ora in “trincea” per il suo popolo. Nonostante gli USA abbiano nuovamente rinnovato ieri le offerte per un corridoio di fuga da Kiev adeguatamente protetto, ha detto: “Ho bisogno di munizioni anticarro, non di un passaggio”. Passaggio che i Russi sostengono però alla fine abbia accettato, riparando questa mattina a Leopoli, a pochi chilometri dal confine con la Polonia: nessuna replica per ora dal Presidente Ucraino, la battaglia della propaganda quindi continua.

Zelensky Vs. Putin: per concludere

Come ben sappiamo, la reputazione è un asset importante – il più prezioso tra quelli “immateriali” – che si costruisce assieme ai propri pubblici per durare nel tempo, ed essere poi “scambiata” con una più ampia licenza di operare. Autenticità, coerenza, comunicazione di valori conformi alla propria identità, capacità di gestire scenari di crisi e propensione ad assumersi le proprie responsabilità, tono deciso ma caldo, da comandante in capo responsabile per il proprio popolo: ecco i pilasti sui quali Volodymyr Zelen’skyi sta efficacemente costruendo la propria rinnovata immagine, a rischio della vita.

Putin è isolato e “paria” per pressoché tutte le nazioni del mondo, con la Russia schiacciata dalla sua arroganza e macchiata dal crimine dell’invasione di uno Stato sovrano in Europa. Forse vincerà sul terreno, e porterà a casa il successo della sua “operazione militare speciale”, ma dal punto di vista della gestione della reputazione e del nation branding, a dispetto degli enormi mezzi dedicati alla propaganda, specie on-line, il Presidente Russo, in realtà, ha già perso questa guerra della comunicazione.

AGGIORNAMENTO del 26/02/22 h 19:23: a proposito di ecosistemi digitali, il noto collettivo internazionale di cyberattivisti “Anonymous” si è schierato contro le attività militari di Mosca. Dopo la TV di Stato russa “RT News”, sono stati messi off-line il sito del Ministero della Difesa, del colosso del gas Gazprom, dell’azienda statale di armamenti Tetraedr, e infine – clamorosamente – mentre scriviamo anche il sito della Presidenza Russa Kremlin.ru è irraggiungibile. «Vogliamo mandare messaggi al popolo russo perché possa essere libero dalla macchina della censura statale». Chi di cyberwar colpisce…




Intervista a Daniele Cobianchi CEO di McCann Worldgroup Italy, Presidente Mediabrands Italy e Sustainability Advocate del gruppo in Italia.

Intervista a Daniele Cobianchi CEO di McCann Worldgroup Italy, Presidente Mediabrands Italy e Sustainability Advocate del gruppo in Italia.

Come si posiziona McCann Worldgroup in questo scenario e in che modo Responsabilità sociale e rispetto dell’ambiente sono perseguiti all’interno della nuova strategia “One operation”?

Il nostro gruppo vuole aprire la strada ad un’economia più sostenibile e meno dispendiosa per l’ambiente anche in ambito pubblicitario. Abbiamo intrapreso un percorso attivo in questa direzione, da almeno un anno e mezzo, e possiamo dire di aver fatto la scelta giusta. Siamo consapevoli che, per anni, l’industria pubblicitaria abbia contribuito ad aumentare le occasioni di consumo, a destagionalizzare prodotti, a rendere desiderabile a volte anche il superfluo riuscendoci peraltro molto bene. Ma ora il mondo è cambiato e la sostenibilità è un fattore che non può né deve passare in secondo piano.

Siamo il primo network pubblicitario ad aver pubblicato il report SASB definendo lo standard nell’industry di riferimento e fornendo informazioni trasparenti in materia di ESG. Questo rappresenta un primo importantissimo passo sia nell’ottica della responsabilità sociale che nel rispetto dell’ambiente. IPG è anche la prima holding di comunicazione ad aver siglato The Climate Pledge, il programma di Amazon e Global Optimism per raggiungere emissioni nette di carbonio pari a zero entro il 2040. Grazie all’input dell’agenzia Initiative, il gruppo ha aderito a questo progetto che ci coinvolge tutti al fine di raggiungere l’obiettivo prestabilito.

Stiamo indubbiamente muovendo dei passi concreti sia internamente con le persone del nostro gruppo nello sviluppo di una maggior coscienza verso queste tematiche che all’esterno con i progetti e le strategie che seguiamo per i nostri clienti.

È un commitment non da poco: azzerare la carbon footprint entro il 2040 è un obiettivo ambizioso. Vi è capitato di incontrare delle resistenze, palesi o celate, o delle antipatie in questo vostro ruolo di guida al cambiamento tra gli attori del vostro ring competitivo, e che cos’è per contro che – secondo lei – trattiene altre realtà dall’impegnarsi così attivamente?

Possiamo dire di essere dei concreti first-mover su queste tematiche all’interno dell’industry pubblicitaria e creativa. Non abbiamo mai incontrato delle nette e rigide resistenze dai nostri interlocutori. Fin dall’inizio abbiamo riscontrato, invece, molta curiosità da parte di partner e clienti rispetto a un approccio sostenibile che ha poi lasciato il passo a grande fiducia da parte loro. Da qui sono nati progetti di rilievo su queste tematiche. Progetti in cui possono e possiamo dare un contributo, smuovere le persone e determinare un cambiamento nei loro comportamenti, che è poi ciò che facciamo come McCann nell’aiutare i brand a dare un contributo meaningful alla vita delle persone. L’impatto che possono avere i grandi gruppi sarà fondamentale nei prossimi anni ed è bellissimo poterli affiancare in questa rivoluzionaria sfida.

L’attenzione alla sostenibilità è un asset che per perdurare ha bisogno della convinzione non solo del gruppo dirigente, ma di tutti i componenti dell’azienda. Quali sono le iniziative che state organizzando in quest’ottica e quali avete in programma per i prossimi mesi? Qual è il riscontro tra i dipendenti?

Nell’ultimo anno, il gruppo sta localmente adottando delle green practices volte a creare una cultura della sostenibilità partendo da noi, i nostri spazi e le nostre dinamiche d’agenzia. Poi cerchiamo di riflettere tutto questo nel rapporto con i clienti e nelle campagne pubblicitarie. Pensiamo, per esempio, ai progetti ideati nel corso dell’ultimo anno che promuovono il consumo sostenibile, solo per citarne alcune: “The Taste of no waste” di Buitoni, la campagna corporate di Nestlé “Il buono che ci auguriamo” o ancora “Eroi dell’impegno” di Mutti.

A livello internazionale c’è una Sustainability Task Force attraverso la quale condividiamo le best practices già adottate per i nostri clienti. È appena stata lanciata la ricerca globale Truth about Sustainability di cui avremo i risultati locali a breve. Uno studio che traccia le linee da seguire nel prossimo futuro e che si interroga sulle implicazioni della sostenibilità nella vita di tutti i giorni, individuando le verità intorno a questo grande filone. Non smettiamo mai di studiare…

Abbiamo creato delle partnership con piattaforme innovative come AWorld che collabora con le Nazioni Unite. E, più in generale, il nostro approccio, come One Operation, ci vede impegnati più concretamente, si è creato volontariamente un team dedicato che ha a cuore la sostenibilità e si metterà alla prova nel corso del 2022.

Sostenibilità non è solo clima e ambiente, è anche capitale umano e contenuti responsabili, etica del rispetto in qualsivoglia declinazione. Il vostro gruppo sta organizzando delle sessioni di deep learning sui principi della sostenibilità e della circular economy, basate sulle sue conoscenze acquisite nel Master dell’Università di Cambridge e sul Global Learning Programme delle Nazioni Unite, per aumentare la consapevolezza dei dipendenti. Vuole raccontarci qualcosa al riguardo? 

Sì, personalmente mi sono reso conto che si tratta di temi molto complessi che vanno approfonditi per cui, in pieno lockdown, sono diventato un Learner del programma di Strategie della Sostenibilità, basato sul Global learning Program delle Nazioni Unite, e ho frequentato un master alla Judge Business School di Cambridge. Ho capito quanto fosse importante trasferire quanto appreso agli altri così ne è nato un percorso di deep learning sui principi della sostenibilità e della circular economy, seguito da oltre 60 dei nostri talenti. È stato un momento formativo, le persone hanno preso consapevolezza dell’urgenza di agire e farlo in fretta. Ci siamo confrontati sul tema ed è nato un percorso di approfondimento che è andato oltre alle nostre consuete attività lavorative.

Nel mercato della pubblicità e della comunicazione è il cliente che detta le regole. Qual è la vostra politica quando un vostro cliente richiede una menzione alla sostenibilità, ma non attua in realtà alcuna strategia concreta per mitigare i propri impatti ambientali o migliorare le policy sociali? 

Ci poniamo sempre nella posizione di dare dei consigli ai clienti e cerchiamo di far capire loro che le campagne pubblicitarie hanno un grande risalto e possono smuovere le coscienze delle persone per cui è necessario un impegno reale e concreto. Finora abbiamo sempre lavorato con realtà in cui strategia e concretezza andavano di pari passo. Parlare di consumo critico è un obiettivo che le aziende devono cominciare a considerare.

È importante essere sostenibili, ma lo è altrettanto che gli stakeholder ne abbiano contezza. In che modo comunicate i vostri sforzi di sostenibilità al vostro pubblico di riferimento?

Noi comunichiamo per lo più attraverso il nostro lavoro, dunque tramite le nostre campagne pubblicitarie, per intenderci abbiamo ideato tante delle pubblicità che vedete in Tv, sentite alla Radio o vedete sulle piattaforme digitali. Poi abbiamo un canale preferenziale e diretto che è quello dei social, soprattutto LinkedIn con cui esterniamo le nostre azioni, progetti e campagne anche in ambito sostenibilità. Non c’è vanità nel raccontare questi progetti ma solo il desiderio di essere un buon esempio per gli altri.

Molti sembrano faticare ad accettare che le azioni di CSR e una miglior Corporate Reputation in generale producano migliori performances finanziarie. Può darci la sua esperienza in merito?

La Corporate Social Responsibility nutre la Corporate Reputation. Chiunque rinunci a questo nutrimento avrà ben poca reputation da rivendicare




Un’azienda di Bergamo incentiva i dipendenti a leggere. E il fatturato sale

Un’azienda di Bergamo incentiva i dipendenti a leggere. E il fatturato sale

“La cultura è di tutti”: non è solamente una frase fatta, e una azienda del bergamasco lo sta dimostrando da oltre un anno. Al centro della vicenda c’è la Vanoncini Edilizia Sostenibile, che dal 2020 – in pieno lockdown, in un momento drammatico, soprattutto per Bergamo – ha lanciato un’iniziativa culturale rivolta ai propri dipendenti. Si tratta di un Club del Libro in pieno stile (o Book Club), un’attività collettiva pensata non in termini di dopo-lavoro, bensì che avviene durante le ore lavorative. Con adeguata retribuzione extra. “Io credo fortemente nel valore della cultura e della formazione: sono il primo che si impegna a leggere e studiare”, così parla Danilo Dadda, 52enne, Amministratore delegato di Vanoncini. “So però che, alle volte, la stanchezza o, forse, un pochino di pigrizia allontanano le persone dalla lettura, così ho pensato di incentivare i miei collaboratori a leggere e creato due occasioni al mese in cui possono presentare o partecipare alla presentazione di un libro. L’adesione che ho ottenuto è stata completa e anche più entusiastica di quanto mi potessi aspettare”.

IL BOOK CLUB DI VANONCINI: QUALI SONO LE REGOLE

Il “Club dei muratori” – così ormai è stato rinominato in via informale – è un gruppo aperto a tutti i dipendenti, ma l’adesione non è obbligatoria. Il collaboratore può scegliere un libro a piacere, dai romanzi di Dostoevskij e Dumas, ai manuali di automiglioramento, fino ai saggi. Una volta che lo ha letto, prepara una scheda di presentazione e si propone alla dirigenza per presentarlo ai colleghi durante le due riunioni mensili che vengono fatte. Ma che cosa ottiene in cambio? A ogni presentazione gli viene riconosciuto un buono d’acquisto di 100 euro, che raddoppia e triplica alla seconda e terza presentazione, e cresce ulteriormente se il libro che viene presentato è in inglese. “Abbiamo fornito un primo elenco di 60 libri ai quali i nostri collaboratori possono attingere, ma nulla osta che ognuno scelga in autonomia il testo da leggere e proporre”, prosegue Dadda. “Il risultato che abbiamo ottenuto in appena un paio di mesi sono persone felici di dedicare parte del proprio tempo alla lettura e ancor più felici di condividere le loro ‘scoperte’ letterarie con i colleghi”.

IL BOOK CLUB DI VANONCINI: INVESTIRE SULLA CULTURA

Un’iniziativa non totalmente nuova per Vanoncini Spa, che da sempre crede fortemente e investe sulla formazione. Tanto da aver lanciato il progetto “Academy”, attraverso il quale organizza seminari e convegni su diversi temi dell’edilizia, spesso in collaborazione con il Politecnico di Milano. Ma in questo caso, il Book Club vira totalmente dal settore in cui è coinvolta l’azienda, focalizzandosi sul senso di coesione, di condivisione delle idee, del piacere della scoperta e della valorizzazione delle potenzialità personali e intellettuali dei suoi dipendenti. E i numeri? Vengono di conseguenza, dato che la Vanini ha chiuso il 2020 – un anno non certo favorevole per la crescita economica – con un fatturato di 28 milioni di euro, ovvero il 10% in più rispetto all’anno precedente. Si potrebbe definire un “effetto team building” ma con un riscontro sulla persona ben più a lungo termine. Nonché, dati alla mano, un esempio da seguire.




Valentino, Anatomy of Couture: l’equilibrio dei corpi secondo Pierpaolo Piccioli

Valentino, Anatomy of Couture: l'equilibrio dei corpi secondo Pierpaolo Piccioli

Quando si pensa alla Haute Couture, si immagina qualcosa che riguarda le donne e le donne soltanto. La nozione stessa di Couture, o di Alta Moda, è spesso fonte di malintesi. Non è raro, anche sulla stampa, leggere di ‘capi d’alta moda’ che in realtà di Alta Moda non sono, perché semplicemente c’è un’errata traduzione del termine inglese High Fashion.

Per fare chiarezza una volta per tutte, quello che in inglese viene definito High Fashion, da noi si traduce con mercato o moda del lusso.

Ed è a grandi linee il circuito che un tempo veniva anche definito prêt-à-porter. Abiti pensati per l’anno successivo e prodotti in serie che, pur con qualche eccezione, vengono presentati con delle sfilate divise per genere e per stagionalità. L’Autunno-Inverno a gennaio per l’uomo e a febbraio per la donna, mentre la Primavera-Estate a giugno per l’uomo e a settembre per la donna. Il tutto su quattro piazze principali, in ordine di calendario: New York, Londra, Milano e Parigi. Anche se esistono infinite realtà minori, come Copenhagen o Baku, che rendono virtualmente il ciclo di presentazioni delle nuove collezioni perpetuo e globale.

L’Haute Couture, o Alta Moda, a seconda di dove venga realizzata e presentata, se a Parigi o in Italia, è invece un circuito in cui vengono presentati abiti che sono pezzi unici, che non vengono venduti nei negozi, che impiegano materiali preziosi, sono realizzati interamente a mano con anche centinaia di ore di lavoro per un singolo capo e hanno prezzi che possono tranquillamente superare i centomila euro.

La Couture ha radici antiche, nasce nel 1850 a Parigi quando i sarti organizzavano per le celebrities del tempo presentazioni private delle creazioni più speciali perché lussuose, innovative o uniche.
Se questo ha riguardato per oltre un secolo solo le donne e il corpo femminile, negli ultimi anni all’interno delle collezioni couture di sempre più marchi sono presenti versioni maschili dello stesso approccio sia mentale che costruttivo all’abito: Dolce & Gabbana, Fendi, Balenciaga, Valentino sono tutti brand che realizzano abiti Couture anche per l’uomo.

Valentino Anatomy of Couture

Mercoledì nelle sale della sede parigina della maison, è andata in scena la collezione Haute Couture Spring Summer 2022, disegnata da Pierpaolo Piccioli per Valentino. La terza per il brand ad includere anche outfit maschili, dopo la collezione Valentino Des Atelier presentata a Venezia e Code Temporal presentata alla Galleria Colonna di Roma
In questo capitolo, dal titolo esplicativo Anatomy of Couture, è il corpo al centro del discorso. Il corpo come modello, come spazio sufficiente e necessario attorno a cui l’abito viene costruito. Spazio che nella Couture è anche l’unico spazio possibile. Corpo a cui il vestito viene letteralmente cucito addosso. 
Scardinare le forme -l’anatomia- del corpo come archetipo sacro e intoccabile è nella couture un’operazione che significa mettere in discussione oltre un secolo di storia. E in questo c’è concettualmente un’azione molto diversa rispetto a quella che ormai conosciamo come ‘inclusività’.

Courtesy Maison Valentino
Courtesy Maison Valentino giovanni_giannoni_photo

In questa sfilata il modello passa dall’ideale al reale, e quindi i corpi sono molteplici e diversi, per volumi, forme, età e per quelle specificità che per tradizione e cultura siamo soliti attribuire a un genere o all’altro.
Uno show che è un esempio di sfilata che riduce gli elementi spettacolari al minimo, e si rifà invece alla tradizione più classica: un tappeto bianco, nessuna scenografia, nessuna performance che non sia quella della moda stessa.

È interessante notare come le donne esprimano una consapevolezza dello spazio, del movimento e del colore con una presenza che appare corale e condivisa. 
Gli uomini invece risultano affascinanti perché eterei, leggeri, quasi spaesati e carichi di una bellezza lucente e delicata che per abitudine attribuiremmo al femminile.

Courtesy Maison Valentino
Courtesy Maison Valentino giovanni_giannoni_photo
Courtesy Maison Valentino
Courtesy Maison Valentino giovanni_giannoni_photo

Ogni sfilata è la proposta di un mondo possibile e auspicabile e il senso di una sfilata couture è quanto di più teorico la moda possa offrire, non presentando abiti che sono pensati per diventare appetibili al grande pubblico.
È un racconto che, per la stragrande maggioranza di noi, esiste solo nel territorio della sfilata. Qualcosa da osservare come un corto cinematografico o uno spettacolo teatrale.

Vale quindi la pena non concentrarsi solo sugli abiti, ma sul senso della rappresentazione intesa come un intero.
Nel mondo messo in scena qui da Piccioli gli uomini, in outfit morbidi e neri, oppure neutri come quelli color cipria, oppure trasparenti e luccicanti perché coperti di pietre funzionano da contrappunto al succedersi di donne che si sono riappropriate del ruolo del loro corpo nel discorso della moda.

Non sono uomini privati della propria mascolinità, ma che hanno scelto la consapevolezza del proprio ruolo invece dell’affermazione del proprio potere.
C’è un senso di pace e di equilibrio tra i generi e i corpi. Forse tutta la sfilata parla di equilibrio a ben vedere, di uomini che cedono il passo e di donne con corpi reali e non più ideali che avanzano senza rabbia, che non hanno bisogno di sgomitare.

Courtesy Maison Valentino
Courtesy Maison Valentino giovanni_giannoni_photo
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Ma cosa c’entra tutto questo con vestiti, maglie, pantaloni? Poco, forse niente. Ma come si diceva, nessuno di noi comprerà quei vestiti, ma una sfilata può essere lo spunto per una riflessione. I temi che vengono messi in campo nei 15 minuti di una sfilata, con un linguaggio che non è narrativo e non è quello di un saggio o di un editoriale, riguardano tutti. Ed è interessante provare a interpretarli e tradurli, anche nel quotidiano, nelle cose che anche noi, maschi, ci chiediamo quando la mattina ci guardiamo allo specchio e ci interroghiamo su quanto il nostro corpo, il nostro peso, la nostra età influisca su come gli altri si relazionano con noi e sul nostro ruolo di maschi nel mondo.

Courtesy Maison Valentino
Courtesy Maison Valentino Andre’ Lucat – AndreKina Photography