La società che ha ingegnerizzato l’influencer marketing. E creato una villa accademia per i tiktoker
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Un’azienda con 150 influencer sotto contratto, collaborazioni con altri 400 oltre ai 23 ragazzi nella Stardust House di Capriano, in Brianza. Questo è l’universo di Stardust, l’azienda di influencer marketing che ha collaborato con diverse importanti società internazionali come Poste Italiane, Kfc ed Fca (oggi Stellantis). Tutto questo, dopo poco meno di un anno e mezzo di attività.
In particolare, ha fatto molto parlare l’iniziativa di creare una villa-accademia per i Tiktoker, la Stardust House appunto. Qui gli influencer vengono formati in modo professionale con corsi di inglese, recitazione, canto, produzione e post produzione video. “L’abbiamo aperta il 4 luglio del 2020”, spiega Simone Giacomini, cofondatore e presidente di Stardust durante la sua intervista a Forbes Leader. “L’idea era di coinvolgere creator di TikTok per farli crescere, attraverso la formazione e favorendo l’interazione tra i 23 ragazzi della casa”.
Giacomini, che ha fondato la società insieme ad altri soci, ha raccontato di avere miscelato una dozzina di tiktoker con un pubblico importante (da 1 milione a 2 milioni di audience) con altri emergenti. “Questa è una cosa che ha funzionato moltissimo”, prosegue, “nomino l’esempio di Samara Tramontana, una ragazza che fino allo scorso febbraio sui social non esisteva. Ora ha oltre mezzo milione di follower su Tik Tok e 150 mila su Instagram. Noi volevamo realizzare quello che in America esista da sempre: una sorta di scuola Disney, dove sono nati talenti come Ariana Grande e Selena Gomez. Il nostro è un hub creativo dove si studia e ci si prepara”.
Tutto questo con l’intento di creare un realtà in grado di industrializzare il mondo dell’influencer marketing, composto ancora oggi da tante personalità singole e non organizzate. “Noi volevamo industrializzare il processo dell’influencer marketing”, continua il presidente di Stardust, “lo abbiamo fatto con la decisione di dare una garanzia ai ragazzi, i quali per la maggior parte prendono un compenso garantito mensile che va dai 500 fino ai 3.000 euro al mese. Quindi non devono più rincorrere i brand, ma si possono dedicare alla creazione di contenuti”.
E anche il cliente finale di Stardust, ovvero le aziende, possono comunque contare sulla realizzazione di contenuti professionali. “C’è la filiera stardust che garantisce al brand un’ottima qualità, perché abbiamo un direttore di produzione, gli account che li seguono, e riusciamo a offrire loro sempre contenuti che siano in linea con l’azienda”.
Di questo e di altri temi si è parlato nell’intervista a Forbes Leader che si può trovare qui di seguito.
L’Italia al centro della ricerca sul nucleare “pulito e sicuro”
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L’obiettivo dichiarato è sviluppare una tecnologia “pulita e sicura”. Da queste basi, si è costituita ufficialmente newcleo, un’azienda impegnata nel settore dell’energia nucleare e con sede a Londra, ma che inizialmente baserà il suo team di ricerca qui in Italia, a Torino.
La neonata società ha annunciato la chiusura di un primo round di finanziamenti da 118 milioni di dollari (poco più di 100 milioni di euro), a cui hanno partecipato Exor Seeds, LIFTT e Club degli Investitori di Torino. E poi c’è stata l’acquisizione di Hydromine Nuclear Energy (HNE).
Le tecnologie
A “benedire” la nascita di newcleo è stato il premio Nobel e senatore a vita Carlo Rubbia, inventore degli Accelerator Driven Systems (ADS) ai tempi in cui era direttore al Cern di Ginevra. Si tratta proprio di una delle tecnologie usate dalla nuova azienda ed è basata “sull’accoppiamento di un reattore subcritico con un acceleratore di particelle”, specifica la società.
Gli altri sistemi usati sono i “Lead Fast Reactors (LFR), che utilizzano il piombo come refrigerante anziché acqua o sodio”, e “l’uso di combustibile naturale al torio”. Tutto questo, scrive newcleo, porta a diversi risultati:
“ridurre drasticamente il volume dei rifiuti radioattivi prodotti, eliminando la necessità di un deposito geologico per gli elementi transuranici;
uso molto più efficace del combustibile esistente all’uranio, mentre si procede verso l’uso del torio naturale;
evitare incidenti nucleari poiché il nocciolo del reattore rimane sempre subcritico e la cascata nucleare può essere interrotta istantaneamente spegnendo l’acceleratore”.
Il team e la missione
Con Stefano Buono come ceo, un team di 100 “innovatori energetici” sarà guidato da un comitato scientifico per sviluppare un primo progetto chiamato “Re-Act”, che viene definito come “un microreattore modulare a piombo liquido con importanti applicazioni commerciali, per esempio nel settore navale”.
La recente decisione di Facebook – la società che controlla il più grande social network al mondo e anche Instagram, WhatsApp e altri servizi – di cambiare nome aziendale in “Meta” ha reso più familiare e presente nelle conversazioni e sui giornali di molti paesi la parola di cui Meta rappresenta un’abbreviazione e un riferimento esplicito: il metaverso. Descritto dall’amministratore delegato di Meta Mark Zuckerberg come uno spazio virtuale in 3D in cui sarà possibile lavorare, giocare e interagire con altre persone, il metaverso è già da qualche anno oggetto di un articolato e complesso dibattito portato avanti da analisti, esperti di tecnologia e social media, investitori e altri addetti ai lavori interessati al tema dell’evoluzione futura di Internet.
Il concetto deriva dal romanzo di fantascienza Snow Crash, scritto nel 1992 dall’autore statunitense Neal Stephenson e pubblicato in italiano nell’antologia Cyberpunk edita da Mondadori. Nel romanzo, il metaverso è una realtà virtuale – condivisa su una rete mondiale in fibra ottica – in cui le persone, fuggendo dal mondo reale in rovina, accedono anche attraverso terminali pubblici e sono rappresentate da un proprio avatar tridimensionale. Nel dibattito attuale, il metaverso è generalmente inteso come uno spazio che tenga insieme realtà digitale e fisica, che non ponga limite al numero di utenti che possono essere contemporaneamente presenti, e basato su standard e protocolli condivisi che garantiscano un ampio margine di interoperabilità per piattaforme, organismi e tecnologie sviluppate da aziende diverse.
La presentazione di Meta tenuta da Zuckerberg in occasione dell’annuncio del nuovo nome aziendale, il 28 ottobre scorso, ha suscitato una serie di reazioni molto diverse, inclusa un’estesa e condivisa impressione che il tipo di ambiente virtuale da lui descritto sia al momento una riproposizione di modelli noti fin dai primi anni Duemila – attraverso videogiochi come The Sims e mondi virtuali come Second Life – resi più coinvolgenti e attuali dalla prevista integrazione di tecnologie recenti ma ancora in larga parte inapplicate, migliorabili e scarsamente diffuse. Tecnologie che prevedono, tra le altre cose, l’utilizzo di visori per la realtà virtuale (VR), occhiali per la realtà aumentata (AR) e altri dispositivi.
«La qualità distintiva del metaverso sarà una sensazione di presenza, come se fossi proprio lì con un’altra persona», ha scritto Zuckerberg in una lettera pubblicata sul sito della società. Meta, nelle intenzioni del suo amministratore delegato, sarà uno dei tanti distributori di piattaforme, software e servizi utili a vivere esperienze completamente virtuali. In futuro, ha aggiunto, «sarai in grado di teletrasportarti istantaneamente come un ologramma per essere in ufficio senza doverti spostare, a un concerto con gli amici o nel soggiorno dei tuoi genitori a chiacchierare».
Da molti giudicata eccessivamente artificiosa, ingenua e utopica, la presentazione di Meta è stata oggetto di critiche, prese in giro e meme, in parte legati all’ottimismo e all’apparente assurdità di alcune previsioni di Zuckerberg, e in parte riflesso della perdita di credibilità di Facebook in seguito ai vari scandali in cui è stata coinvolta nel corso degli ultimi anni. Zuckerberg è sembrato «concentrato su un mondo più nuovo e migliore, un mondo in cui gli insidiosi problemi causati da Facebook siano risolti con una soluzione semplice: ancora più Facebook – scusate, Meta – in ogni aspetto della nostra vita», ha scritto Kyle Chayka sul New Yorker.
In questo senso, la tempistica della scelta di cambiare nome è apparsa sospetta. Da molte persone è stata interpretata come un goffo tentativo di salvaguardare la reputazione dell’azienda distogliendo l’attenzione dalla recente pubblicazione dei cosiddetti “Facebook Papers”, documenti interni forniti dalla whistleblower ed ex dipendente Frances Haugen che hanno reso noti i fallimenti dell’azienda nel contenere la disinformazione e l’incitamento all’odio e alla violenza su Facebook, e il disinteresse nel contrastare i disagi psicologici provocati sugli adolescenti da Instagram – disagi di cui l’azienda era a conoscenza – per carenza di mezzi tecnici e per non limitare i profitti derivanti dall’attività delle persone sulle piattaforme.
Aspetti ridicoli a parte, la presentazione di Meta è stata oggetto di diverse riflessioni scettiche e allarmate in merito alla prospettiva che la previsione del futuro di Internet formulata da Zuckerberg possa diventare dominante e che – a fronte di cospicui investimenti specifici, al momento significativamente più alti di quelli di qualsiasi altra azienda – Meta possa diventare la principale società responsabile dell’ecosistema del metaverso. Ed è comunque rilevante che, al netto dell’eventuale sfiducia degli analisti riguardo al progetto di Meta, l’azienda possa contare su un bacino di utenza e un potenziale di investimento che anche aziende di grande successo nel mondo virtuale come Roblox o Epic Games, la società che produce il videogioco Fortnite, non hanno.
Secondo quanto riportato dal Financial Times, Meta ha in programma di investire nel 2022 almeno 10 miliardi di dollari e raddoppiare la sua forza lavoro assumendo 10 mila persone in più per la sua divisione dedicata al metaverso (Facebook Reality Labs), incaricata di creare hardware, software e contenuti in AR e VR, ritenuti fondamentali per le future esperienze sociali online. «Se i grandi piani di Zuckerberg avranno successo, i potenziali guadagni non saranno semplicemente miliardi di dollari di entrate pubblicitarie, ma anche una fiorente attività di shopping online», ha scritto il Financial Times, sottolineando la dichiarata ambizione di Meta di supportare un’economia digitale alternativa.
Sebbene Zuckerberg, alludendo a società rivali, abbia fatto riferimento alla volontà di evitare che una singola azienda possa limitare in futuro l’esperienza all’interno del metaverso e creare profitto richiedendo il pagamento di commissioni, secondo molti osservatori è difficile immaginare che la stessa Meta non avrà una qualche forma di controllo sul suo metaverso.
«Il mio sospetto è che [questa forma di controllo] consisterà nel possesso del sistema operativo del futuro, e nell’esperienza di Facebook come app sui sistemi di proprietà di altri, suoi rivali. Non vogliono essere prigionieri sulla piattaforma di altre persone. Vogliono che gli altri siano prigionieri sulla loro», ha detto al New Scientist Anupam Chander, docente di diritto alla Scuola di Legge della Georgetown University a Washington, D.C., specializzato nella regolamentazione delle nuove tecnologie.
Un’impressione abbastanza condivisa è che Meta voglia essenzialmente estendere al metaverso il modello di business di Facebook, basato sull’utilizzo dei dati personali per vendere pubblicità mirata. «Gli annunci pubblicitari continueranno a essere una parte importante della strategia nelle aree social media di quello che facciamo, e probabilmente saranno anche una parte significativa del metaverso», ha affermato Zuckerberg in una recente presentazione degli utili della società.
Nei termini in cui è stato presentato da Zuckerberg, il metaverso è sembrato in generale uno scenario molto irrealistico e poco credibile: «più una profezia legata a un culto che la presentazione di un prodotto», pronunciata «con il tono inesorabilmente solare di un rappresentante farmaceutico», ha scritto il New Yorker.
Con un linguaggio giudicato «sinistramente simile a come una volta parlava di Facebook», prosegue il New Yorker, Zuckerberg ha sottolineato che «il metaverso faciliterebbe “l’esperienza più importante di tutte: connettersi con le persone”». Ha spiegato che i dispositivi non saranno più il punto focale dell’attenzione delle persone, ma lo ha detto come se Facebook e Instagram non fossero alcuni dei principali servizi responsabili della dipendenza delle persone dai loro dispositivi. E ha parlato del metaverso come se fosse qualcosa «in grado di disconnetterci da Internet, anziché risucchiarci dentro ancora più a fondo».
I video mostrati da Meta, secondo il New Yorker, provocano inoltre un senso di «profonda dissonanza cognitiva». Nelle rappresentazioni grafiche degli ambienti domestici o di lavoro abitati da ologrammi e avatar, per esempio, gli interni sono corredati di pochissimi strumenti tecnologici e illuminati dalla luce naturale che passa attraverso ampie finestre. Quello che viene a malapena menzionato è che per accedere a questo mondo virtuale ipotetico sia necessario sedersi sul divano e rimanere collegati a un visore indossando guanti per il rilevamento del movimento: «non una condizione particolarmente “naturale”».
Soprattutto, argomenta il New Yorker, viene da chiedersi se saranno sufficienti a invogliare le persone a indossare guanti e visori le attività, più o meno infantili, possibili all’interno del metaverso presentato da Zuckerberg. Attività come giocare a carte in una stazione spaziale virtuale con gli amici, visitare una villa progettata da un influencer, osservare un sistema solare virtuale proiettato nel cielo attraverso occhiali per la realtà aumentata.
Diversi giornali e siti di approfondimento hanno espresso molti dubbi riguardo al tipo di utenza immaginata da Meta. «Non esiste una sola persona che, scorrendo il feed su Facebook, abbia detto: “Sì, immergimi in questa realtà, voglio toccare il meme di mio zio”», ha scritto l’Atlantic, aggiungendo che la campagna pubblicitaria sul metaverso potrebbe comunque generare sufficiente slancio e interesse da portare alla realizzazione di quella che al momento sembra soltanto una goffa struttura di fantasia. «Questo è esattamente il motivo per cui questo investimento per erigere il metaverso, guidato da Big Tech, fa ridere ma va anche preso seriamente».
L’ipotesi proposta dall’Atlantic è che una delle ragioni che avrebbero spinto Facebook a cambiare nome in Meta e investire sul metaverso, oltre agli interessi economici e al desiderio di migliorare la propria reputazione, è una piena consapevolezza della «noiosità» della piattaforma principale dell’azienda. Facebook è «il posto dove le persone vanno per ricevere aggiornamenti da quel ragazzo con cui uscirono al liceo, che ancora pubblica lì, e dove una news strillata intervalla polemiche sui no vax e annunci pubblicitari dai caratteri minuscoli».
La frettolosità e goffaggine della versione di metaverso proposta da Meta, secondo l’Atlantic, rivelerebbe nel contesto attuale quanto «tutta la Silicon Valley, non solo Facebook, sia alla disperata ricerca di una nuova grande idea». Ma le esperienze e i tentativi compiuti da altre aziende tecnologiche negli ultimi anni per sviluppare nuovo hardware, inclusi quelli della holding che controlla Google (Alphabet), suggeriscono che questa urgenza non sia di per sé sufficiente a garantire il successo: «la pattumiera del passato tecnologico è disseminata di visori per la realtà virtuale falliti».
La giornalista Amanda Hess ha scritto sul New York Times che «l’estetica del metaverso, con i suoi orribili ologrammi traslucidi, evoca lo spettro della morte» e che il programma di attività possibili nel metaverso presentato da Meta somiglia a «un annuncio pubblicitario per una comunità di pensionati virtuale in cui millennial isolati possono vivere i loro ultimi giorni». In sostanza, il metaverso immaginato da Zuckerberg è «un mondo senza attriti in cui non accade mai nulla di imprevedibile o non monetizzabile», abitato da «personaggi dei cartoni animati, presumibilmente sterilizzati, che conversano pronunciando frasi come “Yo!”, “Assurdo!” e “Incontriamoci molto rapidamente per un debriefing”».
L’insistenza con cui Zuckerberg ha utilizzato espressioni come “presenza” e “senso di spazio condiviso”, ha scritto il New Yorker, sembra inoltre ignorare che abitiamo ormai da oltre un decennio in un mondo in cui realtà digitale e fisica sono già profondamente interconnesse. Le piattaforme sviluppate dalle grandi aziende tecnologiche – tra cui Facebook, Instagram, Twitter, Spotify, TikTok e Amazon – influenzano «il modo in cui socializziamo, riceviamo notizie, consumiamo cultura, troviamo lavoro, lavoriamo e spendiamo denaro».
A prescindere dal fatto che svolgiamo oppure no queste attività nel mondo reale, facciamo tutte queste cose con la consapevolezza che stanno accadendo anche online e che le ripercussioni riguardano sia un mondo che l’altro. Da questo punto di vista, la versione di metaverso proposta da Meta non sarebbe altro che un diverso modo di «visualizzare il mondo di realtà mista che le piattaforme digitali hanno già creato». E appare a molti improbabile che qualsiasi cosa costruita su quelle piattaforme, o dalle stesse società responsabili, non finisca per ereditare gli stessi problemi ormai noti a moltissime persone e in larga parte collegati alla centralizzazione del potere da parte di quelle aziende.
Alcuni osservatori hanno espresso opinioni meno pessimistiche ma ugualmente caute a proposito delle idee sul metaverso circolate dopo la presentazione di Meta. «Un metaverso pienamente realizzato intensificherebbe nettamente le tendenze esistenti, aprirebbe nuove opportunità e, in modo altrettanto critico, creerebbe una serie completamente nuova di problemi», ha scritto Steven Zeitchik, che si occupa di spettacolo sul Washington Post. Ma i rischi connessi allo sviluppo di questo ecosistema non implicano che un possibile grande risultato debba essere ignorato.
«Dopotutto, l’idea di persone che fanno amicizia, fanno fortuna, perdono una fortuna o incontrano i loro partner di una vita mentre fissano un pezzo di vetro nelle loro camere da letto sarebbe sembrata improbabile a qualcuno 35 anni fa come il metaverso lo sembra a noi ora. Nel mondo digitale, l’implausibilità presente è raramente un indicatore della fattibilità futura», ha scritto Zeitchik.
«L’idea stessa del “metaverso” significa che una parte sempre crescente delle nostre vite, del lavoro, del tempo libero, della spesa, della ricchezza, della felicità e delle relazioni avverrà all’interno di mondi virtuali, anziché essere prolungata o facilitata attraverso dispositivi e software digitali», ha detto al Washington Post l’analista statunitense Matthew Ball, considerato uno degli autori più influenti nel recente dibattito sul metaverso. Misurare la solidità delle prospettive future del metaverso sulla base delle conoscenze attuali potrebbe in questo senso essere un limite, perché le trasformazioni potrebbero andare oltre la nostra immaginazione.
Chiedersi come cambierà il lavoro nel metaverso, per esempio, potrebbe essere la domanda sbagliata. «È l’economia del lavoro stessa che potrebbe cambiare, e parlarne in termini di videoconferenze più immersive è come concentrarsi sulla chiave inglese che ripara il motore della metropolitana invece che su ciò che realmente è il metaverso: l’intero sistema di binari», ha scritto Zeitchik. Grandi opportunità potrebbero emergere soprattutto nel settore dell’istruzione. «Chiunque negli ultimi 20 mesi abbia cercato di garantirne una a bambini di 10 anni, da casa e senza distrazioni, desidera un nuovo modello. L’immersione nel metaverso fornirebbe a un insegnante più strumenti e agli studenti meno motivi per disconnettersi».
Molta parte dello scetticismo deriva anche dalla tendenza a paragonare le esperienze del mondo reale a quelle possibili in un ipotetico ambiente virtuale. In questo senso, il metaverso simulerebbe ovviamente in modo inadeguato la vita reale. «Certo, puoi sentirti come se fossi alla festa del Ringraziamento dal tuo divano, ma il tacchino non lo vuoi poter assaggiare?», ha detto al Washington Post Janet Murray, docente del Georgia Institute of Technology, esperta di studi sulla connettività digitale e a lungo ricercatrice del Center for Educational Computing Initiatives del MIT.
Il progetto di Meta sta ricevendo critiche anche da parte di studiosi ed esperti preoccupati dei possibili problemi di privacy e di sicurezza. In particolare, ha scritto il Financial Times, non è chiaro come la società sarà in grado di moderare un sistema aperto e interoperabile, né se gli utenti potranno avere una sola identità virtuale o più di una. Il tipo di ecosistema delineato, in ogni caso, dovrebbe notevolmente incrementare le risorse necessarie per garantire la sicurezza online, ammesso che sia possibile farlo, e per difendere soprattutto gli utenti più giovani da contenuti dannosi e possibili molestie.
Diverse domande, al momento senza risposta, riguardano poi i nuovi tipi di dati utente che verranno generati, se e in che modo saranno collegati agli strumenti pubblicitari di Meta e come eventualmente saranno protetti. Quei dati potrebbero includere, per esempio, le informazioni raccolte dal monitoraggio degli occhi e delle mani delle persone, o magari i loro dati biometrici per la creazione di avatar personalizzati.
Su Twitter “vince” la destra, l’azienda ammette il bias dell’algoritmo
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L’unico Paese in cui l’algoritmo di Twitter appare “imparziale” è la Germania. Ma in Canada, Francia, Giappone, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti i contenuti politici di destra vengono amplificati rispetto a quelli di sinistra. Lo ammette la stessa azienda nel suo blog rivelando i risultati di una ricerca interna secondo cui, spesso, l’algoritmoche mostra i post agli iscritti, preferisce contenuti “conservatori”.
I risultati dello studio
Nel complesso, e soprattutto nei periodi pre-elettorali, i contenuti politici finiscono con l’avere una predominanza sugli altri e, di questi, ad essere stati mostrati più frequentemente sono stati quelli di destra. Tuttavia, Twitter non sa ancora cosa abbia causato lo sbilanciamento. La società ha sottolineato che “l’amplificazione algoritmica non è problematica in sé: tutti gli algoritmi finiscono con l’amplificare i contenuti a cui sono applicati. Diventa problematica se sorge un trattamento preferenziale in funzione di come l’algoritmo è costruito, rispetto alle interazioni che le persone hanno con esso”.
L’azienda annuncia di voler coinvolgere ricercatori esterni, così che possano aiutarla a migliorare i sistemi alla base dell’organizzazione automatica dei contenuti. Non è la prima volta che Twitter evidenzia un apparente pregiudizio nel suo algoritmo. In altre occasioni i ricercatori avevano ipotizzato che la differenza nell’amplificazione potrebbe essere dovuta alle “diverse strategie” utilizzate dai partiti politici per raggiungere il pubblico sulla piattaforma.
Il confronto fra le timeline
Lo studio ha confrontato la timeline “Home” di Twitter – il modo predefinito in cui vengono serviti i tweet ai suoi 200 milioni di utenti, in cui un algoritmo adatta ciò che gli utenti vedono – con la timeline cronologica tradizionale in cui i tweet più recenti vengono classificati al primo posto.
La ricerca ha rilevato che in sei paesi su sette, a parte la Germania, i tweet dei politici di destra hanno ricevuto più amplificazione dall’algoritmo rispetto a quelli di sinistra; le testate giornalistiche di destra erano più amplificate di quelle di sinistra; e in genere che i tweet dei politici erano più amplificati da una linea temporale algoritmica che dalla linea temporale cronologica.
Secondo il documento di 27 pagine, un valore dello 0% significava che i tweet raggiungevano lo stesso numero di utenti sia sulla timeline personalizzata sia su quella cronologica, mentre un valore del 100% significava che i tweet raggiungevano il doppio della copertura. Su questa base, la discrepanza più forte tra destra e sinistra è stata in Canada (liberali 43%; conservatori 167%), seguita dal Regno Unito (laburisti 112%; conservatori 176%). Anche escludendo i massimi funzionari del governo, i risultati sono stati simili, afferma il documento.
Il motivo rimane ancora sconosciuto
Twitter spiega che non è chiaro il motivo della distorsione e annuncia che potrebbe essere necessario modificare il suo algoritmo. Un post sul blog di Rumman Chowdhury, Director of Meta (ML Ethics, Transparency, and Accountability team), Twitter, e Luca Belli, ricercatore di Twitter, afferma che i risultati potrebbero essere “problematici” e che saranno necessari ulteriori studi.
“L’amplificazione algoritmica è problematica se esiste un trattamento preferenziale in funzione di come l’algoritmo è costruito rispetto alle interazioni – si legge nel blog -. È necessaria un’ulteriore analisi della causa principale per determinare quali modifiche, se del caso, sono necessarie per ridurre gli impatti negativi del nostro algoritmo”.
La ricerca verrà resa disponibile agli accademici e consentirà a terze parti un accesso più ampio ai propri dati: una mossa che, secondo alcuni osservatori, potrebbe esercitare pressioni su Facebook affinché segua il suo esempio.
Renzi denunciava profili fake e bufale, mentre la sua Bestia creava “account falsi” e pagava 260mila dollari per un software israeliano in grado di influenzare il voto
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“Non perdete tempo e partite. Altro che privacy. I nomi li sappiamo. Dai!”. È il 20 settembre del 2016 e al referendum costituzionale mancano ormai poco più di due mesi. Matteo Renzi impugna il suo telefono e risponde a una mail ricevuta da Fabio Pammolli, docente universitario e consulente del suo governo. Il messaggio di posta fa il punto sulle attività in corso sui social network. Tra le altre cose Pammolli spiega che in quel momento avevano la possibilità di interagire con un’ottantina di pagine facebook per un totale di 20 milioni di contatti, che avevano delineato una strategia basata su messaggi veicolati da persone non associabili alla campagna per il Sì (cita pure gestori di pagine come “calciatori brutti” e “mamme stressate”) e che avevano ottimizzato una lista di attivisti, stabilendo chi doveva essere amico di chi altro. Qui però il renziano chiede al capo un via libera preliminare: il timore, spiega, è che vedendosi inoltrare continui suggerimenti di amicizia qualcuno prima o poi avrebbe potuto lamentare una violazione della propria privacy. È a quel punto che Renzi risponde secco: “Altro che privacy”. C’è anche questo agli atti dell’inchiesta della procura di Firenze sulla fondazione Open. Decine di informative lunghe migliaia di pagine, elaborate sulla base delle mail e delle chat sequestrate agli indagati, che documentano come sia esistita una struttura organizzata e coordinata per il sostegno e la propaganda di Renzi sul web.
La Bestia del Giglio magico
Il team somiglia molto alla nota Bestia leghista creata da Luca Morisi. Alla versione renziana lavorano quasi sempre dagli stessi personaggi, molto vicini all’ex segretario del Pd sin dai tempi di Palazzo Chigi: oltre a Pammolli, Marco Carrai e il suo socio Giampaolo Moscati, poi ci saranno anche la giornalista Simona Ercolani, il marito Fabrizio Rondolino, il responsabile della sicurezza informatica Andrea Stroppa. Questo gruppo userà anche complessi – e costosi – software, come Tracx e Voyager analitics della società di diritto israeliano Bionic Ltd. A procurarli è Carrai, l’imprenditore da sempre molto vicino a Renzi. A cosa servono? Permettono di misurare il sentiment sui social, determinare chi sono gli utenti più seguiti su certi argomenti e individuare gli account fake. Secondo Carrai serviranno per “monitorare e influenzare la campagna”, visto che riescono a trovare per ogni singola persona il gruppo di riferimento, cosa pensa, chi la influenza e come. Il costo? Molto alto: Voyager è stato pagato 260mila dollari, Tracx invece 60mila euro. Cifre che provocano la reazione anche di Alberto Bianchi, presidente di Open, preoccupato per l’eccessivo esborso. Quei soldi, infatti, arrivano quasi tutti dalla fondazione, così come da Open arrivavano i fondi per stipendiare il gruppo che spingeva la figura di Renzi sui social. Ecco perché per gli inquirenti questa storia è molto interessante: secondo l’accusa dimostra che Open si comportava come una vera articolazione del partito. Val la pena sottolineare che quanto tratteggiato in questi atti non è penalmente rilevante e che nessuna delle persone citate è indagata, fatta eccezione per MatteoRenzi e MarcoCarrai, ma per altri fatti. Andiamo con ordine.
Da via Giambologna a via Giusti: le due vite della Bestia
Il gruppo social del Giglio magico è un team che ha due vite: nasce per volere di Renzi con l’obiettivo di sostenere il “sì” al referendum, inizia a lavorare nella sede di via Giambologna a Firenze, ma in seguito si sposterà in via Giusti. Per questo motivo sarà chiamato anche “gruppo di via Giusti” per distinguerlo dal “gruppo posta”, che era composto da cinque persone e gestiva la casella di posta elettronica di Renzi. Al gruppo social, invece, lavorano una ventina di ragazzi: l’obiettivo è contenere i commenti negativi che comparivano sui profili di Renzi, sulla pagina del Pd e degli altri big dem. “Ci avevano chiesto di creare anche almeno 10 profili social non veri sempre per contenere i commenti negativi al referendum”, ha raccontato agli investigatori uno dei componenti del gruppo. Sono dunque account fake quelli che vengono creati dalla Bestia del Giglio magico? Di sicuro c’è solo che più volte in passato Renzi si è scagliato contro imprecisati profili farlocchi, creati a suo dire solo con l’obiettivo di attaccarlo. Il 24 novembre del 2017, per esempio, l’ex premier si scaglia contro “una vera industria del falso, con profili social altamente specializzati in diffusione di bufale, fake news, propaganda”. Renzi spiegava che in quel “c’è chi inquina in modo scientifico il dibattito politico sul web diffondendo notizie false solo per screditare gli avversari. Noi lo sappiamo bene, perché ne siamo vittima ogni giorno. E ogni giorno che passa si scoprono notizie più inquietanti sulle modalità di diffusione di queste bufale”. Nel suo post Renzi spiega che di questo parlerà alla Leopolda e avverte: “Astenersi troll e profili falsi, grazie. Tanto ormai vi sgamiamo subito”. Sette mesi prima, nel marzo del 2017, Alexander Marchi, coordinatore del team comunicazione, aveva inviato a Ercolani e Carrai un email con allegato l’elenco “dei nostri alternativi”. Dentro c’è uno schema: 16 persone gestiscono in totale 128 account tra facebook e twitter. Oggi sono quasi tutti disattivati: quelli rimasti online sono inattivi dal 2017 e fino ad allora postavano contenuti contro i 5 stelle e pro Renzi.
Carrai e il programma israeliano per influenzare la campagna referendaria
È in piena campagna per il referendum che invece scende in campo Carrai con i programmi israeliani: il 20 maggio del 2016 l’imprenditore informa Renzi di aver dato via libera a prendere due “software fenomenali” che tra le altre cose riescono a mappare le persone sul web, a capire cosa pensano e da cosa vengono influenzate. Secondo Carrai serviranno per “monitorare e influenzare la campagna”, visto che riescono a trovare per ogni singola persona il gruppo di riferimento, cosa pensa, chi la influenza e come. “Sarà una cosa mai vista”, scrive. Dieci giorni dopo sempre Carrai informa di avere una riunione con “gli israeliani” di Voyager. L’incontro si tiene il 6 giugno e secondo gli investigatori è verosimile che nella prima parte avesse partecipato lo stesso Renzi. Infatti Carrai scrive: “Dopo che siete usciti siamo entrati nell’operativo”. Cos’è l’operativo? Una serie di passaggi tecnici: dall’analisi dei macro temi che possono influenzare le opinioni fino all’analisi di “possibili Benigni“. Pochi giorni prima, infatti, Roberto Benigni si era esposto pubblicamente per il Sì al referendum. Carrai spinge: spiega che bisogna mettere su una task force di almeno cinque persone con uno psicologo cognitivo, un esperto di media e un referente politico che fornisca i messaggi da diffondere. La task force è necessaria perché i software da soli non bastano: “Si rischia di avere una Ferrari e utilizzarla per andare in giro in città”.
La fase 2 e la “propaganda antigrillina”
Dalle carte in mano agli investigatori si evince che Renzi non osserva soltanto il lavoro di Carrai e degli altri. Più volte chiede d’intervenire, per verificare per esempio il consenso delle varie categorie professionali sul suo lavoro. Per tutta l’estate e durante l’autunno l’allora premier è costantemente informato dell’operato del gruppo social, considerato molto utile proprio perché in grado di capire in tempo reale l’opinione dell’elettorato sul web. Il 29 novembre è Stroppa che scrive all’allora premier per spiegare come gli indecisi decideranno negli ultimi giorni, citando anche la strategia di Donald Trump, che poche settimane prima era stato eletto alla Casa Bianca. Il lavoro è enorme se i renziani arrivano a menzionare l’odiato presidente americano, ma non porta al risultato sperato. Dopo la sconfitta al referendum comincia quella che sembra essere una fase 2: “Affiora la volontà di attuare una ‘strategia social a sostegno di Renzi e, nei primi mesi del 2017, di realizzare una struttura ‘di propaganda antigrillina”, è come la descrivono gli inquirenti. È il 7 gennaio quando Renzi inoltra a Carrai una mail ricevuta da Rondolino. L’oggetto è “Antigrillo” e in allegato c’è un documento che si chiama “Tu scendi dalle Stelle”. “Caro Matteo – scrive l’ex Lothar di Massimo D’Alema – eccoti un primo appunto sulla struttura di propaganda antigrillina che ho preparato con Simona in questi giorni”. In fondo c’è un post scriptum con un consiglio: “Se già non lo usi, ti consiglio questo sistema di posta criptata”. Il cuore del documento allegato invece è rappresentato da una riflessione: dopo il Movimento per gli elettori dei 5 stelle c’è soltanto l’astensione e non invece il ritorno all’ovile del Pd. Per questo Rondolino scrive: “Non dobbiamo perdere tempo a riconquistare l’elettorato: dobbiamo spingerlo a non votare più”.
Quanto costa la Bestia fiorentina
Ecco perché gli investigatori spiegano che l’attività di propaganda sul web relativa al refererendum “è parte di un progetto più ampio voluto da Renzi per contrastare la presenza sul web del Movimento 5 Stelle”. Analizzando le email sequestrate a Carrai la Guardia di Finanza ha documento che l’attività social della Bestia renziana è proseguita con gli “stessi attori” e uno schema organizzativo ben definito, sia durante la campagna per le Primarie del Pd del 2017 e fino alle elezioni Politiche 2018, seppur con un impiego economico nettamente minore. Di soldi, in effetti, la struttura social del Giglio deve costarne parecchi. In una mail del 17 marzo del 2017 che Carrai invia a Renzi si prevede un totale dei costi da 931mila euro, più almeno 57mila euro al mese per il gruppo di via Giusti.
Una Bestia di nome Bob
Denaro che serve, tra le altre cose, per lo sviluppo di una piattaforma social media, per l’analisi dei contenuti social, per il sito internet In cammino. Ci sono poi 25mila euro, arrivati sempre da Open, usati per Bob, una piattaforma che avrebbe dovuto fare da contraltare a Rousseau. Per lavorarci viene creata una chat in cui ci sono tutti: Carrai, Ercolani, Rondolino ma pure esperti di marketing come Cristiano Magi e Paolo Dello Vicario, statistici come ValentinaTortolini. Il gruppo si anima quando c’è da trovare un nome alla nuova piattaforma: “Noi stiamo pensando a un nome tipo Holden o acronimo”, scrive Ercolani. Tortolini chiede: “In inglese no?”. Pammolli scherza e propone: “Cav“. Acronimo di cavaliere? No: “Collettivo autonomo viola“. Tortolini propone: “Go on“. Pammolli replica: “Tutto perché non volete Avanti …. banda di post democomunisti“. In effetti il professore sembra uno di quelli più ironici. Infatti poco dopo propone di chiamare “Bettino” la piattaforma social di Renzi. Ercolani invece vorrebbe solo “On”, che a un certo punto sembra il nome prescelto. Ma interviene Carrai per portare un po’ di serietà: “Prendete tutti quelli che hanno fatto mi piace suo post di Matteo. E fateci un database e datemelo, chi lo fa?”. Alla fine arriva Pammolli con la decisione definitiva: “Sembra Bobby, riferito a Bob Kennedy“. Carrai non è soddisfatto: “Alla fine del parto che sembrava la scelta del nome di un figlio avete partorito il nome di un cane”. Rondolino allarga le braccia: “Non noi, il principe“.