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Il giorno della Tassonomia verde Ue: che cosa è, perché è importante, le divisioni politiche su nucleare e gas, la bocciatura dei tecnici e la strategia dell’Italia

Il giorno della Tassonomia verde Ue: che cosa è, perché è importante, le divisioni politiche su nucleare e gas, la bocciatura dei tecnici e la strategia dell’Italia

E venne il giorno. Quello in cui la Commissione europea adotterà il secondo e attesissimo atto delegato che, insieme a una serie di altri atti delegati, dovrebbe definire nel dettaglio il regolamento sulla Tassonomia verde europea, che dice agli investitori privati cosa sia ‘sostenibile’ e cosa non lo sia. Solo che questo secondo atto ha spaccato l’Europa, divisa tra i Paesi che sostengono l’inclusione di gas e nucleare nella Tassonomia e quelli che vi si oppongono. In realtà da mesi si assiste a una diatriba tra la Germania, sfavorevole all’inserimento dell’energia dell’atomo e la Francia, che ricava dai reattori nucleari quasi il 70% dell’energia. Nei giorni scorsi, la commissaria Ue responsabile del dossier, l’irlandese Mairead McGuinness, ha già anticipato che saranno possibili solo “piccole modifiche” rispetto alla bozza inviata il 31 dicembre ai Paesi membri. Nelle ultime ore la conferma: “Vi sarà una modifica, non una riscrittura” della bozza che ha aperto le porte sia al gas (“combustibile fossile, ma molto meglio del continuo uso di carbone sporco”) sia al nucleare. Con dei paletti, ritenuti però insufficienti anche dal Gruppo sulla finanza sostenibile (Platform for Sustainable Finance), il gruppo di esperti istituito dall’Unione europea per stilare la lista di attività green.

La Tassonomia verde

Per raggiungere, infatti, gli obiettivi climatici che si è posta l’Ue – la riduzione del 55 per cento delle emissioni entro il 2030 e la neutralità climatica al 2050 – non bastano i fondi pubblici, come quelli del Next Generation EU, ma è necessario anche l’intervento dei privati. Da qui la necessità di un sistema di classificazione che faccia da faro alle imprese da un lato, agli investitori dall’altro. Il regolamento sulla Tassonomia Verde è entrato così in vigore il 12 luglio 2020. Sei gli obiettivi climatici: mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine, transizione verso l’economia circolare, prevenzione e controllo dell’inquinamento, protezione della biodiversità e della salute degli eco-sistemi. Per rientrare nella Tassonomia Verde, dunque, un’attività dovrebbe contribuire positivamente ad almeno uno dei sei obiettivi ambientali e non produrre impatti negativi su nessuno degli altri target (oltre a rispettare le garanzie sociali minime).

Il primo atto delegato

Il vero nodo, però, sono proprio gli atti delegati che devono fissare i criteri tecnici da seguire per stabilire quali siano le attività sostenibili. Il primo atto delegato, che riguarda gli obiettivi della mitigazione e dell’adattamento ai cambiamenti climatici, è stato pubblicato dalla Commissione il 21 aprile 2021. Dopo una prima bozza respinta da Polonia, Romania, Bulgaria, Slovacchia, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria e Malta, l’atto è stato approvato il 9 dicembre scorso. Tra i vari settori, tra cui energia, trasporti, edilizia e attività manifatturiere, include il 40% circa delle imprese quotate in borsa. Senza contare il tentativo di inserire tra le attività sostenibili anche la produzione di armi, portato avanti da Leonardo spa, la società che si occupa di tecnologie spaziali, di difesa e di armamenti, il cui maggior azionista è il ministero dell’Economia con una quota di circa il 30% e dove il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ha lavorato a capo della divisione tecnologica e innovazione. Tornando all’atto delegato, il documento ha stabilito un limite alle emissioni di CO2 per le attività energetiche di 100 grammi CO2e/kWh (considerando le emissioni dirette e indirette), sospendendo la decisione su gas e nucleare, cuore del secondo atto delegato.

La spaccatura in Ue

Nel frattempo, però, sul tema si è scatenato il dibattito tra i Paesi dell’Unione. In questi mesi si è parlato anche di una sorta di patto tra Italia, interessata a far includere il gas e Francia, impegnata a promuovere il nucleare. Poi la Commissione ha iniziato a scoprire le carte. Già a ottobre 2021, la presidente Ursula von der Leyen (di cui era nota la posizione a favore dell’energia dell’atomo) ha espresso per la prima volta in modo chiaro la direzione che si stava prendendo: “Abbiamo bisogno di più rinnovabili, ma anche di una fonte stabile, il nucleare e del gas”. Negli stessi giorni 12 Paesi (Francia, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Finlandia, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Romania) hanno inviato una lettera alla Commissione Ue chiedendo l’inserimento del nucleare nella Tassonomia. Poi c’è stata la Cop 26 di Glasgow, dove Germania, Austria, Lussemburgo, Danimarca e Portogallo hanno firmato una dichiarazione congiunta contro l’inserimento dell’energia dell’atomo. Un vero e proprio scontro che non si è mai fermato.

Il secondo atto delegato

Alla fine, il 31 dicembre, è arrivata la bozza del secondo atto delegato. Per quanto riguarda il nucleare, la Commissione europea la considera una fonte energetica necessbaria durante la transizione verso la neutralità climatica. Con dei paletti: si darebbe il via libera a progetti realizzati entro il 2045 per cui si dimostri di avere un impianto di smaltimento delle scorie operativo entro il 2050 e a condizione che si rispettino i più alti standard di sicurezza, imposti dai trattati internazionali. Solo che, ad oggi, non è ancora chiaro quali siano gli impianti da considerare sicuri, senza pensare alla quarta generazione di cui molto si parla, ma che non può vantare ancora nessun reattore commerciale in funzione. Per intenderci, quello entrato in funzione a dicembre 2021 in Cina, dopo 10 anni di lavori, è un reattore dimostrativo. E anche in Italia, pur cambiando politica e inserendo l’acceleratore, i reattori commerciali non potrebbero mai entrare in funzione entro il 2030. Porte aperte anche per il gas. In questo caso, i nuovi progetti per impianti a gas dovrebbero essere approvati entro il 31 dicembre 2030. Sarebbero considerate ‘sostenibili’ le centrali a gas con un limite di emissioni (ma solo dirette) di 270 grammi di CO2 equivalente per kWh oppure che emettano sotto i 550 chilogrammi di CO2 equivalenti per kW di potenza installata, in media, nei prossimi 20 anni. In pratica, il limite non è sulla sostenibilità o meno dell’impianto in sé, ma ci si affida a un suo minore utilizzo per arrivare a una conseguente riduzione delle emissioni. Altra alternativa prevista nella bozza è la sostituzione graduale del gas fossile, come carburante della centrale, con un altro carburante a bassa intensità di carbonio, come biogas o idrogeno. Con degli step di miscelazione al 2026 e al 2030 (modificati nella versione definitiva) e la sostituzione totale entro il 2036.

Le ultime prese di posizione

La bozza non ha fatto che alimentare polemiche e accuse. Intanto il dossier del gruppo di esperti istituito dall’Unione europea per stilare la lista di attività green (Platform for Sustainable Finance), ha bocciato il secondo atto delegato, come ha spiegato a ilfattoquotidiano.it Luca Bonaccorsi, direttore della Finanza Sostenible dell’ong Transport&Enviroment e tra gli autori del rapporto. Oltre alla Germania, in una lettera pubblica hanno ribadito il loro “no al nucleare” anche Spagna, Danimarca, Lussemburgo e Austria. Questi ultimi due Paesi hanno anche minacciato di ricorrere alla Corte di giustizia dell’Ue. Nel frattempo, l’Italia (che non si è mai esposta ufficialmente sul gas, limitandosi a strizzare l’occhio a Parigi con diverse dichiarazioni) ha inviato a Bruxelles un documento, concentrandosi sugli affari più cari a Roma, quelli legati al gas. Nel documento, il governo Draghi ha valutato come troppo stringenti i limiti previsti nel secondo atto delegato per riconoscere come ‘verdi’ gli impianti. Secondo l’Italia, la soglia di emissione di Co2/kWh dovrebbe essere alzata a 340 grammi, oppure si dovrebbe consentire di mantenere una media annuale di 750 chilogrammi di Co2/kWh calcolata su vent’anni. Non la pensa così, evidentemente, il presidente della Banca europea per gli investimenti, Werner Hoyer. “Il fatto che alcuni investimenti siano possibili non vuol dire che occorra farli” ha detto, ribadendo che non c’è alcuna intenzione di investire sul nucleare e manifestando perplessità anche sui criteri inseriti per il gas. In Italia, sulla stessa linea, Banca Etica. “Mai ci saremmo aspettati una soluzione finale così al ribasso che inserisce tra le attività finanziabili anche gas e nucleare” ha commentato la presidente Anna Fasano, annunciando che “il gruppo continuerà a distinguersi con politiche di investimento più rigorose e selettive per portare un vero cambiamento nel sistema economico”.

Cosa accadrà

Dopo l’adozione da parte della Commissione, toccherà a Parlamento e Consiglio Ue pronunciarsi sul testo. I due organi avranno tra i quattro e i sei mesi di tempo per approvarlo o respingerlo (non potranno emendarlo). Per bloccare l’atto delegato al Consiglio è necessaria una maggioranza qualificata di Paesi contrari, ossia almeno 20 stati rappresentanti il 65 per cento della popolazione europea. Al Parlamento Ue, invece, servirebbe la maggioranza assoluta dei suoi componenti, vale a dire 353 europarlamentari. Il verdetto finale, quindi, è atteso per luglio 2022.




7 domande da porsi per sapere se un fondo d’investimento è sostenibile

7 domande da porsi per sapere se un fondo d’investimento è sostenibile

Cos’è un “investimento sostenibile”? L’Unione europea ha stabilito che un investimento è sostenibile quando finanzia attività economiche che contribuiscono a raggiungere obiettivi ambientali e/o sociali. Queste attività, inoltre, non devono danneggiare altri fattori ambientali e sociali. Vale a dire: non è sostenibile produrre energia a zero emissioni e contemporaneamente riversare rifiuti tossici nell’ambiente. Terzo punto: un investimento sostenibile sceglie aziende che rispettano codici di buona gestione, per esempio sulla remunerazione del personale e sul rispetto degli obblighi fiscali.

Passando dalla teoria alla pratica, significa investire il proprio denaro scegliendo prodotti finanziari (come fondi d’investimento o fondi pensione) che seguono questo approccio. Lo possono fare adottando diverse strategie. Per esempio, ci sono fondi tematici che si concentrano sulle energie rinnovabili. Fondi che investono solo nelle imprese che promuovono con maggiore successo la parità di genere. O che lavorano con le aziende per aiutarle a produrre in modo più sostenibile.

Come si individuano questi fondi? Ecco alcun riflessioni che possono essere utili quando ci si trova di fronte a un prodotto finanziario che dice di essere “sostenibile” o “ESG” (Environmental, social and governance).

1. Al di là di classificazioni ed etichette, dove investe il fondo?

I fondi possono ottenere certificazioni di sostenibilità, cioè delle “etichette” che provano che la politica d’investimento rispetta una serie di criteri. Per esempio, i fondi con il marchio francese Greenfin non investono in aziende attive nel settore dell’energia nucleare, insieme ad altre caratteristiche.

Da marzo del 2021 un regolamento dell’Ue riconosce due tipi di fondi sostenibili in base al grado di ambizione. A seconda della categoria in cui si classificano, i fondi sostenibili si definiscono come “Articolo 8” o “Articolo 9” (dal numero dei due articoli che li definiscono). Questi prodotti devono pubblicare informazioni su come gestiscono i rischi di sostenibilità, come riducono gli impatti negativi, quali obiettivi si propongono di raggiungere e come lo fanno.

Per quanto utili, classificazioni ed etichette non sono sufficienti a fare una valutazione a 360°. Per esempio, al momento i gestori danno interpretazioni molto diverse ai prodotti Articolo 8 e Articolo 9. Quindi, sotto lo stesso nome si possono trovare fondi molto diversi. Un’analisi condotta a luglio del 2021 ha evidenziato che circa il 30% dei prodotti “Articolo 9”, cioè i più sostenibili, investe in aziende attive nel settore dei combustibili fossili. Una circostanza che molti risparmiatori non si aspetterebbero, se un fondo si definisce sostenibile.

Un’idea più chiara può emergere dall’analisi del portafoglio, cioè verificando quali sono i settori e le aziende dove il fondo investe (o almeno i principali). Queste informazioni sono disponibili nelle relazioni di gestione semestrali e annuali.

2. Il fondo dialoga con le aziende?

La presenza di investimenti in settori controversi non deve necessariamente scoraggiare. Non è detto che un fondo con una carbon footprint elevata (cioè che investe in aziende che emettono molti gas ad effetto serra) non si impegni per promuovere la transizione. Il contributo può essere infatti molto efficace attraverso l’engagement.

Le istituzioni finanziarie fanno, appunto, engagement quando dialogano e collaborano con le aziende investite per aiutarle ad adottare pratiche più sostenibili. Diverse ricerche hanno dimostrato che tale approccio è uno degli strumenti più efficaci con cui gli investitori possono produrre impatti concreti e positivi sull’ambiente e sulla società. Intervenendo, cioè, sulle aziende.

Per ridurre drasticamente le emissioni di gas serra occorre sviluppare soluzioni innovative ed efficienti nei settori a maggiore impatto. Sono proprio questi ad avere bisogno di più capitali per finanziare la transizione. E di investitori che collaborano al processo. I fondi coinvolti in questa attività possono avere un’impronta elevata in termini di emissioni climalteranti. Ma altrettanto elevato è il loro contributo alla mitigazione dei cambiamenti climatici.

Secondo recenti stime, lavorare sui settori ad alte emissioni – come la produzione di acciaio e cementol’aviazione, il trasporto marittimol’agricoltura – permetterebbe di dimezzare le emissioni globali. Tuttavia, questi settori ricevono solo il 10% dei flussi ricondotti alla finanza climatica.

Per farsi un’idea accurata delle credenziali di sostenibilità di un fondo, quindi, è opportuno verificare se fa engagement, come lo fa, con quali aziende, con quali obiettivi e con quali risultati.

3. L’investitore vota in modo coerente agli obiettivi di sostenibilità?

Se un investitore ha una politica di azionariato attivo legata ai temi ESG, significa che si impegna a votare in base a determinati principi e obiettivi di sostenibilità nelle assemblee degli azionisti delle società investite. Per esempio, a maggio del 2021 durante l’assemblea della compagnia petrolifera statunitense Exxon Mobil, un gruppo di azionisti ha fatto eleggere tre consiglieri di amministrazione dalle posizioni ambientaliste.

In diversi Paesi, tra cui i membri dell’UE, gli investitori sono tenuti a pubblicare sui siti informazioni sulle politiche di engagement e di azionariato attivo. Più complicato è verificare se queste dichiarazioni vengono rispettate. L’ONG ShareAction ha analizzato il voto delle 65 principali società di gestione del mondo in merito a 146 risoluzioni su temi ambientali e sociali nel corso del 2021. Ne è emerso che proprio i membri dell’iniziativa internazionale per l’engagement Climate Action100+ hanno votato, in media, contro un terzo delle risoluzioni sui temi ambientali.

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La finanza può giocare un ruolo cruciale nel rendere il mondo sostenibile © metamoworks/iStockPhoto

4. Qual è l’obiettivo? Proteggere il patrimonio dai rischi, oppure produrre effetti positivi per il clima, per l’ambiente e per la società?

Quando i gestori di un fondo devono decidere se investire o meno nel titolo di un’azienda, nella maggior parte dei casi ne analizzano il rating ESG, cioè un giudizio sintetico sulle performance di sostenibilità, che viene elaborato da agenzie specializzate.

Una ricerca della New York University ha rilevato che la maggior parte delle metodologie per elaborare i rating ESG è focalizzata sui rischi e non considera gli impatti. In altre parole, i rating dicono quanto il valore economico-finanziario dell’azienda sia esposto ai rischi di sostenibilità. Viceversa, non valutano se le pratiche dell’azienda producano un effetto positivo o negativo sull’ambiente o sulla società. Quindi, un’azienda con un rating climatico elevato è ben protetta dai rischi (come i danni agli impianti causati dai fenomeni atmosferici estremi), ma non è detto che sia responsabile di poche emissioni.

È quindi importante avere chiaro il proprio obiettivo d’investimento. Proteggere i risparmi dai rischi? Oppure contribuire a costruire un’economia più inclusiva e a ridurre gli impatti negativi sull’ambiente?

5. Se il fondo segue un indice climatico, quanto contribuisce ad abbassare le emissioni?

Molti fondi replicano passivamente l’andamento di indici (o benchmark), cioè insiemi di titoli che vengono selezionati e pesati tra loro in base a certi criteri, come il livello di emissioni di gas ad effetto serra, o i rating ESG. Gli indici possono includere determinate regole: per esempio una riduzione percentuale della CO2 dispersa di anno in anno nell’atmosfera.

Uno studio EDHEC Business School – Scientific Beta ha evidenziato che la maggior parte degli indici climatici porta a preferire i settori che per natura sono meno inquinanti (o le aziende meno esposte ai rischi), ma che hanno meno potenzialità di abbassare le emissioni complessive dell’economia. Al contrario, i settori che emettono più gas ad effetto serra trovano uno spazio ridotto nei portafogli. Come visto sopra, questo approccio permette di abbassare rapidamente le emissioni del fondo, ma non è molto efficace a sostenere la transizione.

6. Il disinvestimento è sempre una scelta efficace?

La risposta più istintiva a questa domanda è sì. Se si vuole investire in modo sostenibile, un’azione immediata è cercare fondi che escludono le aziende attive in settori controversi. O quelle che non forniscono garanzie adeguate sul rispetto dei diritti umani, su diversità e inclusione, o sulla tutela della salute. Sempre più istituzioni finanziarie annunciano la decisione di disinvestire dalle imprese coinvolte nella produzione di combustibili fossili.

La logica è che perdere investitori danneggia le aziende colpite e quelle con caratteristiche simili, spingendole a migliorare. Restando sull’esempio dei combustibili fossili: i fondi possono vantare un’impronta in termini di emissioni di CO2 più bassa e i risparmiatori si sentono sollevati all’idea di non finanziare aziende pericolose per il clima.

Tuttavia, gli effetti concreti sono discutibili. È stato osservato che nella maggior parte dei casi i titoli delle aziende disinvestite vengono acquisiti da altri fondi che evidentemente non hanno politiche di sostenibilità, o hanno criteri meno stringenti. E sono meno propensi a investire risorse nell’engagement.

Spinte dalla pressione degli investitori, sempre più compagnie petrolifere vendono parte delle loro operazioni. Queste attività vengono rilevate da imprese controllate dagli Stati, oppure da aziende non quotate in Borsa, che hanno meno obblighi di trasparenza. In molti casi si tratta di aziende finanziate da hedge fund, o da società di private equity.

Nel Regno Unito un terzo della produzione di petrolio del Mare del Nord è in mano a investitori privati. In sostanza, le pompe petrolifere continuano a funzionare, al riparo dallo scrutinio dei mercati e dell’opinione pubblica. A livello globale, i combustibili fossili ricevono l’80% degli investimenti in energia dei dieci più grandi fondi di private equity.

7. I criteri ESG vengono applicati a tutti gli investimenti? Il caso net-zero

È importante capire se il fondo applica criteri ESG (o persegue obiettivi di sostenibilità) per selezionare tutti i titoli in cui investe, oppure solo a una parte. Questa considerazione serve a soppesare quanto sono incisive le dichiarazioni delle istituzioni finanziarie sull’obiettivo net-zero, vale a dire l’impegno ad azzerare le emissioni nette di gas ad effetto serra nei portafogli entro il 2050. Un fondo con obiettivo net-zero implicherebbe che tutte le aziende investite abbiano piani per ridurre progressivamente le emissioni.

Nella maggior parte dei casi, la promessa vale solo per una porzione limitata dei portafogli. L’organizzazione Universal Owner ha analizzato gli impegni al 2030 di 43 società di gestione che fanno parte dell’iniziativa internazionale Net Zero Asset Managers Initiative. Ne è emerso che il 65% del patrimonio complessivo è escluso dall’obiettivo net-zero. Inoltre, le emissioni non sono distribuite in maniera omogenea tra aziende e settori. Per alcuni fondi analizzati, l’85% delle emissioni è concentrato in una piccola frazione di titoli, pari al 10% del patrimonio.

Quindi, un fondo che dice di essere allineato a net-zero può applicare questo obiettivo solo a una percentuale ridotta del portafoglio. Oppure coprire gran parte degli investimenti, ma lasciare esclusi proprio i settori che emettono di più.




Greenwashing addio: BlackRock inaugura l’era del tealwashing

Greenwashing addio: BlackRock inaugura l’era del tealwashing

Il greenwashing, forse, è il passato. Finiti i tempi in cui le aziende si affannavano (con la mano sinistra) a spennellare di verde facciate e facce pur di mostrarsi amiche del clima, della natura, dell’ambiente, della biodiversità. Continuando però (con la mano destra) a finanziare carbone, petrolio, gas convenzionale e non, o miniere. Troppa fatica, probabilmente. Una grande scocciatura, certamente. 

La lettera ai dirigenti del 2020 e le promesse mancate sul clima

A inaugurare un possibile nuovo corso è stato il numero uno del più grande fondo d’investimenti del mondo. Parliamo di Larry Fink, da anni al vertice del colosso americano della finanza BlackRock, che nella sua consueta (ci tocca…) lettera annuale ai dirigenti d’impresa ha segnato di fatto una svolta rispetto a due anni fa. Nel 2020, infatti, fece scalpore la promessa di operare una trasformazione delle proprie pratiche, in senso appunto ambientalista.

«Le imprese, gli investitori e i governi – scrisse – devono prepararsi ad una significativa riallocazione dei capitali. E ciò in un futuro prossimo. Più prossimo di quanto la maggior parte delle persone credano. Riteniamo che gli investimenti sostenibili rappresentino ormai il miglior modo di garantire solidità ai portafogli dei clienti». Ciò in quanto i cambiamenti climatici «rappresentano un problema più strutturale e più di lungo termine» di qualsiasi altra crisi economica attraversata negli ultimi 40 anni.

BlackRock difende la scelta di continuare ad investire nelle fossili

Ora, va detto che gli applausi erano stati soffocati in breve dal perpetrarsi del business as usualda parte di BlackRock. Alle parole, insomma, di fatti ne erano seguiti ben pochi. Ma adesso Fink sembra aver optato per una sorta di abiura. Condita, gli va riconosciuto, da una certa sincerità. Nella lettera del 2022, infatti, il dirigente è parso tracciare una nuova linea. E in qualche misura una nuova espressione del capitalismo.

Dopo aver esortato le aziende a «considerare l’insieme dei propri partner per garantire valore sul lungo periodo ai propri azionisti», ha difeso senza colpo ferire la scelta di continuare ad investire nelle fossili: «Lo facciamo – ha affermato – per passare da sfumature di nero a sfumature di verde». Come? Non è dato saperlo. Accontentatevi dell’apoftegma concesso da uno dei re di Wall Street. Ciò che è chiaro è che «BlackRock non applica una politica sistematica di disinvestimento dalle società petrolifere e del gas». E ce ne siamo accorti. 

Dal green al teal. Senza troppe pretese

Il più grande fondo d’investimenti del mondo, insomma, ha deciso di lanciare una nuova era. Il greenwashing ora potrebbe essere soppiantato dal tealwashingdal verde al verde acqua. Sbiadito. Pallido. Senza troppe pretese.

Perché affaticarsi, d’altra parte, nel cercare di dissimulare le proprie strategie? Meglio dirlo chiaro e tondo: «Siamo per difendere il clima, ma non toccateci le fonti fossili e gli enormi guadagni che centriamo grazie agli investimenti nelle società che le sfruttano». Così Fink non dovrà neppure passare i prossimi anni a rispondere alla banale quanto dirimente domanda: «E quindi?»




Digital content, mercato in crescita anche in Italia. Quanto vale?

Digital content, mercato in crescita anche in Italia. Quanto vale?

Continua a crescere in Italia il mercato della distribuzione B2C (Business to Consumer) di contenuti digitali. Da un lato, la spesa dei consumatori italiani per la fruizione dei contenuti – in abbonamento e/o in acquisto singolo – sfiora nel 2021 i 3 miliardi di euro; dall’altro, dopo la frenata provocata dalla pandemia (-2%), nel 2021 riprendono a crescere gli investimenti in advertising (+9%) sui contenuti e sulle piattaforme di distribuzione, che superano quota 1 miliardo di euro.

Qual è lo stato attuale del mercato dei contenuti digitali in Italia?
Anche complice la pandemia e il conseguente modificarsi delle abitudini di consumo degli italiani, la fruizione dei contenuti digitali ha avuto una forte impennata: il mercato della distribuzione dei contenuti digitali B2C nel 2021 è cresciuto di circa il 20% rispetto al 2020, e parliamo di un settore che attualmente sfiora i 3 miliardi di euro, secondo i dati Osservatorio e-commerce B2C della School of Management del Politecnico di Milano. Nel loro tempo libero, e non solo, gli italiani stanno inserendo in misura sempre maggiore la fruizione di prodotti digitali come Podcast e audiolibri. Inoltre l’informazione si fa sempre più digitale tra e-book e digital news. A trainare il settore sono i contenuti video, che si confermano il prodotto di maggiore appeal. Questo trend – spiega Luca Poma Professore di Reputation management e scienze della comunicazione all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino – è ovviamente riscontrabile anche dai nuovi strumenti offerti dalle piattaforme Social come TikTok, l’amatissimo social network della generazione Z, che offre contenuti dinamici esclusivamente in forma video, e Instagram che con gli IG Reels e le sempre seguitissime Instagram Stories sta mantenendo comunque la sua quota di mercato. Tra i contenuti digitali non dobbiamo dimenticare infine i prodotti realizzati dagli Influencer, un mercato, quello dell’influenza digitale, che in Italia raggiunge il valore stimato di 241 milioni di euro.
Quali sono le traiettorie evolutive e le reali opportunità che può offrire questo mercato?
Attualmente ci stiamo spostando verso una nuova dimensione del digitale, che potremmo definire la dimensione 3.0 – sottolinea il professor Poma -. Solo un mese e mezzo fa circa Mark Zukerberg, presentando Meta, la sua “nuova” azienda – mossa non troppo agile che dimostra anche un probabile tentativo greenwhasing, stante le polemiche nelle quali è stata coinvolta Facebook recentemente – ha parlato appunto di metaverso: una nuova dimensione, un ambiente sociale e connesso h 24 in cui gli utenti sperimenteranno un nuovo tipo di interazione digitale vasta e immersiva, fortemente connessa con il nostro mondo fisico. Nel metaverso, ad esempio, ogni persona sarà una versione realistica di sé stessa, un avatar che potrà indossare un vestito – sempre in formato digitale – del suo stilista preferito per assistere alla lezione virtuale tenuta dalla propria università. Questo apre uno scenario nuovo circa la fruizione dei contenuti digitali che potrà portare – come ogni nuovo strumento – vantaggi ma anche rischi. Attualmente l’investimento in questo nuovo universo digitale da parte di Facebook Inc. (aka “Meta”) sarà di circa 10 miliardi di dollari l’anno.

Luca Poma, Professore di Reputation management e scienze della comunicazione all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino

Una prospettiva commerciale ghiotta, infatti, sono diversi i noti brand che stanno già investendo in questo innovativo scenario come il settore del fashion da Gucci a Balenciaga fino a Nike Vuitton e Moncler. Persino strutture pubbliche, come il Ministero del turismo islandese ha scelto con lungimiranza di puntare sul metaverso. Nell’imminente futuro assisteremo quindi a un nuovo capitolo circa le opportunità del mercato dei contenuti digitali. Al momento la traiettoria evolutiva sembra esser questa, lo scenario è totalmente fluido, in divenire ed andrà esplorato, analizzato, compreso e regolato man mano. Per quanto riguarda le opportunità, e riprendendo il tema degli influencer e dell’influencer marketing – continua Poma – oggi un’opportunità per i brand è centrale la valorizzazione di questi nuovi “canali di trasmissione e advertising”, degli esseri umani in carne ed ossa che fanno del digitale il loro luogo professionale di elezione. È un tema, quello degli influencer, che cavalca il trend della personalizzazione dei contenuti che deriva dalla crescente necessità di umanizzazione, di persone in carne ed ossa, con valori, identità e pregi (ma anche debolezze) di cui potersi fidare. Di questo ho scritto recentemente, assieme al mio team di ricercatori e consulenti, per far chiarezza sul fenomeno, nel volume #Influencer, come nascono i miti del web, edito da Lupetti.

Confronto tra l’Italia e gli altri paesi europei
Al di la dei numeri e delle statistiche sulla fruizione – spiega il professor Poma – quello che mi pare importante sottolineare è che il nostro Paese è in una posizione di svantaggio rispetto agli altri paesi europei sul tema dell’economia digitale. Danimarca, Finlandia, Svezia e Paesi Bassi hanno le economie digitali più avanzate tra gli Stati membri, l’Italia invece, assieme alla Romania, Bulgaria e alla Grecia ha i punteggi più bassi, pur avendo registrato alcuni miglioramenti negli ultimi anni, e questo è uno svantaggio infrastrutturale che indubbiamente ha un forte impatto sull’utilizzo dei contenuti digitali. Il ritardo del nostro Paese in termini di adozione digitale e innovazione tecnologica è causato da diversi fattori che includono da un lato la limitata diffusione di competenze digitali da parte della cittadinanza, dall’altro la bassa adozione di tecnologie avanzate, ad esempio le tecnologie iCloud, da parte delle istituzioni.

L’Italia si posiziona infatti solo al 24° posto fra i 27 Stati membri dell’UE come livello di digitalizzazione secondo il Digital Economy and Society Index (DESI) 2020, un indice multidimensionale che misura il livello di digitalizzazione nei Paesi UE. La speranza è che quanto previsto dal PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, acceleri il processo verso la digitalizzazione, tema alla quale è dedicata la prima delle sei missioni del PNRR stesso, con stanziamenti per i diversi interventi pari a oltre 40 miliardi di euro. Certamente, grazie all’implementazione delle reti ultraveloci e alla spinta verso l’ottimizzazione delle infrastrutture – alla quale dovrebbero aggiungersi auspicabilmente percorsi di formazione per formare nuovi professionisti esperti in ambito digitale ed aumentare il livello di cultura del nostro Paese – potremmo allinearci competitivamente con gli altri paesi europei e migliorare il nostro posizionamento nel settore della fruizione dei contenuti digitali, settore in costante e forte crescita.




Digital content, mercato in crescita anche in Italia. Quanto vale?

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Continua a crescere in Italia il mercato della distribuzione B2C (Business to Consumer) di contenuti digitali. Da un lato, la spesa dei consumatori italiani per la fruizione dei contenuti – in abbonamento e/o in acquisto singolo – sfiora nel 2021 i 3 miliardi di euro; dall’altro, dopo la frenata provocata dalla pandemia (-2%), nel 2021 riprendono a crescere gli investimenti in advertising (+9%) sui contenuti e sulle piattaforme di distribuzione, che superano quota 1 miliardo di euro.

Qual è lo stato attuale del mercato dei contenuti digitali in Italia?
Anche complice la pandemia e il conseguente modificarsi delle abitudini di consumo degli italiani, la fruizione dei contenuti digitali ha avuto una forte impennata: il mercato della distribuzione dei contenuti digitali B2C nel 2021 è cresciuto di circa il 20% rispetto al 2020, e parliamo di un settore che attualmente sfiora i 3 miliardi di euro, secondo i dati Osservatorio e-commerce B2C della School of Management del Politecnico di Milano. Nel loro tempo libero, e non solo, gli italiani stanno inserendo in misura sempre maggiore la fruizione di prodotti digitali come Podcast e audiolibri. Inoltre l’informazione si fa sempre più digitale tra e-book e digital news. A trainare il settore sono i contenuti video, che si confermano il prodotto di maggiore appeal. Questo trend – spiega Luca Poma Professore di Reputation management e scienze della comunicazione all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino – è ovviamente riscontrabile anche dai nuovi strumenti offerti dalle piattaforme Social come TikTok, l’amatissimo social network della generazione Z, che offre contenuti dinamici esclusivamente in forma video, e Instagram che con gli IG Reels e le sempre seguitissime Instagram Stories sta mantenendo comunque la sua quota di mercato. Tra i contenuti digitali non dobbiamo dimenticare infine i prodotti realizzati dagli Influencer, un mercato, quello dell’influenza digitale, che in Italia raggiunge il valore stimato di 241 milioni di euro.
Quali sono le traiettorie evolutive e le reali opportunità che può offrire questo mercato?
Attualmente ci stiamo spostando verso una nuova dimensione del digitale, che potremmo definire la dimensione 3.0 – sottolinea il professor Poma -. Solo un mese e mezzo fa circa Mark Zukerberg, presentando Meta, la sua “nuova” azienda – mossa non troppo agile che dimostra anche un probabile tentativo greenwhasing, stante le polemiche nelle quali è stata coinvolta Facebook recentemente – ha parlato appunto di metaverso: una nuova dimensione, un ambiente sociale e connesso h 24 in cui gli utenti sperimenteranno un nuovo tipo di interazione digitale vasta e immersiva, fortemente connessa con il nostro mondo fisico. Nel metaverso, ad esempio, ogni persona sarà una versione realistica di sé stessa, un avatar che potrà indossare un vestito – sempre in formato digitale – del suo stilista preferito per assistere alla lezione virtuale tenuta dalla propria università. Questo apre uno scenario nuovo circa la fruizione dei contenuti digitali che potrà portare – come ogni nuovo strumento – vantaggi ma anche rischi. Attualmente l’investimento in questo nuovo universo digitale da parte di Facebook Inc. (aka “Meta”) sarà di circa 10 miliardi di dollari l’anno.

Luca Poma, Professore di Reputation management e scienze della comunicazione all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San MarinoLuca Poma, Professore di Reputation management e scienze della comunicazione all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San MarinoUna prospettiva commerciale ghiotta, infatti, sono diversi i noti brand che stanno già investendo in questo innovativo scenario come il settore del fashion da Gucci a Balenciaga fino a Nike Vuitton e Moncler. Persino strutture pubbliche, come il Ministero del turismo islandese ha scelto con lungimiranza di puntare sul metaverso. Nell’imminente futuro assisteremo quindi a un nuovo capitolo circa le opportunità del mercato dei contenuti digitali. Al momento la traiettoria evolutiva sembra esser questa, lo scenario è totalmente fluido, in divenire ed andrà esplorato, analizzato, compreso e regolato man mano. Per quanto riguarda le opportunità, e riprendendo il tema degli influencer e dell’influencer marketing – continua Poma – oggi un’opportunità per i brand è centrale la valorizzazione di questi nuovi “canali di trasmissione e advertising”, degli esseri umani in carne ed ossa che fanno del digitale il loro luogo professionale di elezione. È un tema, quello degli influencer, che cavalca il trend della personalizzazione dei contenuti che deriva dalla crescente necessità di umanizzazione, di persone in carne ed ossa, con valori, identità e pregi (ma anche debolezze) di cui potersi fidare. Di questo ho scritto recentemente, assieme al mio team di ricercatori e consulenti, per far chiarezza sul fenomeno, nel volume #Influencer, come nascono i miti del web, edito da Lupetti.

Confronto tra l’Italia e gli altri paesi europei
Al di la dei numeri e delle statistiche sulla fruizione – spiega il professor Poma – quello che mi pare importante sottolineare è che il nostro Paese è in una posizione di svantaggio rispetto agli altri paesi europei sul tema dell’economia digitale. Danimarca, Finlandia, Svezia e Paesi Bassi hanno le economie digitali più avanzate tra gli Stati membri, l’Italia invece, assieme alla Romania, Bulgaria e alla Grecia ha i punteggi più bassi, pur avendo registrato alcuni miglioramenti negli ultimi anni, e questo è uno svantaggio infrastrutturale che indubbiamente ha un forte impatto sull’utilizzo dei contenuti digitali. Il ritardo del nostro Paese in termini di adozione digitale e innovazione tecnologica è causato da diversi fattori che includono da un lato la limitata diffusione di competenze digitali da parte della cittadinanza, dall’altro la bassa adozione di tecnologie avanzate, ad esempio le tecnologie iCloud, da parte delle istituzioni.

L’Italia si posiziona infatti solo al 24° posto fra i 27 Stati membri dell’UE come livello di digitalizzazione secondo il Digital Economy and Society Index (DESI) 2020, un indice multidimensionale che misura il livello di digitalizzazione nei Paesi UE. La speranza è che quanto previsto dal PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, acceleri il processo verso la digitalizzazione, tema alla quale è dedicata la prima delle sei missioni del PNRR stesso, con stanziamenti per i diversi interventi pari a oltre 40 miliardi di euro. Certamente, grazie all’implementazione delle reti ultraveloci e alla spinta verso l’ottimizzazione delle infrastrutture – alla quale dovrebbero aggiungersi auspicabilmente percorsi di formazione per formare nuovi professionisti esperti in ambito digitale ed aumentare il livello di cultura del nostro Paese – potremmo allinearci competitivamente con gli altri paesi europei e migliorare il nostro posizionamento nel settore della fruizione dei contenuti digitali, settore in costante e forte crescita.