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Chi sono e quanto guadagnano i baby influencer

Come ogni anno, Forbes ha pubblicato la lista degli youtuber più retribuiti del 2021. Al primo posto figura il 23enne Jimmy “MrBeast” Donaldson, stuntman e acrobata. Ma i dati più interessanti arrivano scorrendo il sesto e settimo posto, occupati rispettivamente da Nastya, bambina di 6 anni, diventata una star scartando giocattoli (unboxing), e da Ryan Kaji, un influencer di 10 anni che guadagna 30 milioni l’anno.

Ryan diventa un marchio

Ryan, all’anagrafe Ryan Haruto Nguyen, nato nel 2011, è un bambino di origini asiatiche nato da una mamma vietnamita e un papà giapponese. Vive in Texas con la famiglia e nel marzo 2015 ha iniziato a realizzare video su YouTube, stimolato dalle immagini di altri coetanei che sponsorizzavano giochi. La madre ha deciso di lasciareil suo lavoro di insegnante di chimicaal liceo per lavorare a tempo pieno sul canale YouTube del figlio. Un account, Ryan World’s, ricco delle riprese di tutte le attività che può fare un bambino alla sua età: dai pomeriggi al parco giochi a ingenue sfide con amici e parenti.

Nel 2019, un video in cui mostrava un esperimento per dimostrare come le piante e gli alberi potessero catturare acqua dalle radici ha totalizzato 10 milioni di visualizzazioni. Ma le più seguite sono le clip in cui Ryan fa divertenti recensioni di giocattoli e videogiochi, seguite da oltre 26 milioni di iscritti.

Il piccolo è subito diventato una star del web e un marchio: nel 2011 ha anche lanciato un suo brand, Ryan’s World, realizzato in partnership con PocketWatch e Bonkers Toys. Target e Walmart vendono il suo merchandising, durante il Macy’s Thanksgiving Day Parade, una parata annuale a New York, a Ryan è stato dedicato un carro. Il suo nome è su disparati oggetti, vestiti, giocattoli, spazzolini, e anche in tv. Sul canale Cartoonito, conduce il format “Ryan e l’ospite misterioso” in cui, tra prove fisiche e coinvolgimento della famiglia, presenta ogni volta un ospite dal mondo dello spettacolo e dello sport. Tra di loro, anche Dave Grohl della band rock, Foo Fighters

Nastya, dall’unboxing di giocattoli a baby modella

Nastya ha sette anni. Nata in Russia, a Tuapsè, nel Territorio di Krasnodar (1510 chilometri a sud di Mosca) ha una nascita travagliata, segnata da una grave forma di paralisi cerebrale infantile. I medici erano sicuri che la bambina non sarebbe mai stata in grado di camminare e parlare. Invece, Nastya ce l’ha fatta. Da quel momento, la madre e il padre hanno deciso di valorizzare lo spirito recitativo della bambina aprendo un canale su Youtube dedicato all’unboxing di giochi, la pratica di scartare regali in video, molto seguita dai teenager. Ma non solo, perché sul suo account Youtube, seguito da 85 milioni di iscritti, si vedono anche riprese di un viaggio fatto dalla bambina con i genitori.

Durante i 9 mesi, trascorsi tra ThailandiaMalesia e Indonesia, Nastya è inquadrata nei vari momenti della vacanza come una influencer. I video hanno superato il milione di visualizzazione. Per i genitori l’account della figlia è diventato un vero e proprio business che, nel 2021, ha fruttato – secondo Forbes – 28 milioni di dollari. La madre scrive le sceneggiature di storie il cui costo si aggira tra 1.000 e i 2.000 dollari e in cui Nastya indossa capi forniti dai brand, come le scarpe, o è vicina a una macchinaLa prima azienda. a investire sui video della piccola russa è stata una multinazionale del settore alimentare.

La baby influencer italiana

Anche dietro l’account di Gaia Buru Buru, che su Instagram conta più di 30mila followers, c’è dietro la mano della mamma. Mary Ciavotta gestisce la pagina di una delle baby influencer italiane più seguite e racconta: “Ho iniziato a pubblicare sul mio profilo le foto di mia figlia che ricevevano numerosi commenti. Ritraevano foto di Gaia durante lo svezzamento, mentre mangiava una pappina: le gente le ricondivideva”, racconta Ciavotta.

Dopo poco tempo, i follower della pagina di Ciavotta crescevano sempre più. “Le altre mamme mi chiedevano tutto su mia figlia, erano curiose di cosa facesse”, aggiunge. E le aziende non sono rimaste a guardare: “Alcuni brand di pannolini – prosegue la madre della baby influencer – mi hanno chiesto di pubblicare foto di Gaia con i prodotti. Poi sono arrivate altre richieste da diversi marchi”. In quel periodo Gaia aveva solo un anno. Dalla pagina Instagram è poi nato un blog dove vengono dati consigli alle mamme. “Le richieste promozionali sono aumentate, alcune collaborazioni sono gratuite, altre molto remunerative. Gaia è una piccola modella a cui le è stato dato il primo telefonino mentre sedeva nel passeggino”. La bambina frequenterà una scuola di recitazione per “valorizzare – conclude sua madre – la sua capacità espressiva”. 

Dilemmi etici e rischi pedagogici

La signora Ciavotta non sembra farsi alcuno scrupolo a seguire, come se fosse una manager, l’attività social della piccola figlia. Ma per Ivano Zoppi, segretario generale di Fondazione Carolina, ente che si occupa di cyberbullismo e benessere digitale degli adolescenti, si tratta di un fenomeno preoccupante. “Il gioco di un bambino – spiega – è  usato come merce, perché tutto possa diventare denaro, visualizzazioni, like. Quel gioco che dovrebbe essere spensierato, libero, fonte di creatività, strumento per lo sviluppo cognitivo dei bambini, ridotto a conteggio di visualizzazioni. Quel gioco che spesso ci faceva immaginare a cosa volevamo fare da grandi – l’astronauta, il veterinario, il meccanico – oggi si riduce a “voglio fare lo youtuber”.

Ecco che il social, da strumento diventa problema che annulla l’infanzia del bambino e propone, online e non, un modello distorto per la presenza dei minori sul web. Uno scenario artificiale, in grado di fare scuola e creare illusioni, rischiando di spegnere pensiero e creatività; tutti i bimbi schierati davanti allo schermo sognando di essere Ryan. Perché lui ha tanti giochi, e poco importa se non ne vive davvero la gioia”, conclude l’esperto.




META HA REALIZZATO IL SUPERCOMPUTER PIÙ POTENTE AL MONDO PER IL METAVERSO, DA 5 EXAFLOPS

META HA REALIZZATO IL SUPERCOMPUTER PIÙ POTENTE AL MONDO PER IL METAVERSO, DA 5 EXAFLOPS

Con un annuncio pubblicato sul proprio account ufficiale Facebook, Mark Zuckerberg ha comunicato che Meta sta costruendo il più grande supercomputer per l’intelligenza artificiale al mondo, per alimentare la ricerca sull’apprendimento automatico che darà vita al Metaverso su cui sta puntando Meta.

Il Research Super Computer (RSC), questo il nome del supercomputer, conterrà 16.000 GPU NVIDIA A100 e 4.000 processori AMD Epyc Rome 7742. Ogni nodo di calcolo sarà basato sul sistema NVIDIA DGX-A100 contenente otto chip GPU e due microprocessori Epyc, per un totale di 2.000 nodi.

Secondo le previsioni, RSC raggiungerà un picco di prestazioni di 5 exaFLOPS con mixed precision FP16 ed FP32, e sarà in grado di gestire 16 terabyte di informazioni al secondo con un massimo di 1 EB di storage.

Lo sviluppo, ha spiegato Zuckerberg, sta avvenendo insieme a Penguin Computing, che fornirà l’infrastruttura e si occuperà di sicurezza. “Lo chiamiamo RSC per AI Research SuperCluster e sarà completato entro la fine dell’anno. Le esperienze che stiamo costruendo per il metaverso richiedono un’enorme potenza di calcolo – quintilioni di operazioni al secondo – e RSC consentirà nuovi modelli di intelligenza artificiale in grado di apprendere da trilioni di esempi, ma potrà comprendere centinaia di lingue e altro ancora” ha spiegato il CEO di Meta in una dichiarazione rilasciata a The Register.

L’RSC è già esistente, ma in una forma meno potente e si ferma a 1.895 PFLOPS di prestazioni TF32. Attualmente è composto da 760 chip invidia DGX-A100 contenenti 1.520 processori AMD Rome 7742 e 6.080 GPU, ognuna delle quali collegata tramite Quantum InfiniBand di NVIDIA che può trasferire i dati a 200 gigabyte al secondo. Nel corso dell’anno però saranno aggiunti sempre più nodi per raggiungere la potenza annunciata da Meta.

Secondo le stime degli esperti, il nuovo supercomputer sarà 9 volte più veloce del precedente cluster di ricerca di Meta, composto da 22.000 GPU V100 di vecchia generazione, e sarà 20 volte più veloce degli attuali sistemi che si occupano dell’intelligenza artificiale.FONTE:THE REGISTER

Meta ha realizzato il supercomputer più potente al mondo per il metaverso, da 5 exaFLOPS



Se il greenwashing contamina anche gli indici ESG

Se il greenwashing contamina anche gli indici ESG

La cavalcata trionfale della finanza ESG (cioè quella che prende in considerazione le istanze ambientali, sociali e di governance) è senza dubbio una buona notizia. Perché fa passare un messaggio ben chiaro: chiunque, dall’asset manager che smuove miliardi al risparmiatore che ha messo da parte qualche migliaio di euro, ha una responsabilità nei confronti del Pianeta. E può esercitarla con le sue scelte di investimento. Ora che pressoché tutti i grandi nomi cercano di salire sul carro della sostenibilità, però, all’orizzonte si profila un rischio molto concreto. Quello di annacquare gli indici ESG fino a farci finire un po’ di tutto, dai fast food alle banche che finanziano il petrolio.

Quando l’ESG diventa un fattore competitivo

Ormai qualsiasi banca o società di gestione del risparmio propone una o più linee di prodotti finanziari ESG. C’è chi lo fa per sincera vocazione e chi, semplicemente, perché sono i clienti a chiederlo. La Global Sustainable Investment Alliance (GSIA), nel suo ultimo report relativo al 2020, parla di un mercato da 35mila miliardi di dollari tra Usa, Canada, Giappone, Oceania ed Europa. Secondo Bloomberg, a livello globale si arriverà a 53mila miliardi entro il 2025: è come dire che un dollaro su tre sarà investito secondo criteri ambientali, sociali e di governance.

A leggere gli studi allarmanti sulla crisi climatica in corso e sulle disuguaglianze che spaccano in due la società, però, c’è qualcosa che non torna. Ad ammetterlo è lo stesso Eurosif, il Forum europeo per gli investimenti sostenibili e responsabili: «Nonostante una crescita astronomica degli investimenti sostenibili e responsabili (SRI) e delle iniziative legate alla sostenibilità negli ultimi anni, la scienza ci dice che le condizioni della Terra sono in peggioramento», scrive nel suo ultimo studio. Lanciando un messaggio ben preciso: non è più sufficiente mettere l’etichetta «sostenibile» sui propri investimenti. Bisogna anche saper garantire che le strategie adottate abbiano un’efficacia tangibile sul mondo reale.

Come vengono composti gli indici ESG

Per indagare su questo apparente paradosso, è il caso di chiedersi come si crea un fondo sostenibile. I colossi della finanza, da BlackRock in giù, spesso e volentieri si affidano agli indici ESG, composti da titoli di emittenti che dimostrano elevate performance ambientali, sociali e di governance. Esistono dunque società che si occupano di assegnare un rating ESG alle aziende, un po’ come fanno le tradizionali agenzie di rating quando valutano la loro solvibilità e solidità. Con una fondamentale differenza.

Le Big Three del rating, cioè Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s, bene o male, danno punteggi molto simili o addirittura identici, perché si basano su dati finanziari standardizzati. Al contrario, ogni agenzia di rating ESG usa la sua metodologia proprietaria, i suoi algoritmi e i suoi criteri per passare in rassegna una serie di informazioni non finanziarie che, in molti casi, sono fornite dalle imprese stesse. Di conseguenza, nulla vieta che un’azienda riceva score totalmente diversi a seconda di chi la valuta.

Lo strapotere di MSCI

C’è un nome che domina incontrastato nel campo degli indici ESG: è quello di MSCI. La società newyorkese ha cinquant’anni di storia alle spalle ma ha vissuto la sua vera svolta nel 2019, quando Henry Fernandez – che ne è presidente e amministratore delegato da due decenni – ha annunciato in pompa magna che la sua missione, da allora, sarebbe stata quella di «aiutare gli investitori globali a costruire portafogli migliori per un mondo migliore». Proprio in un momento storico in cui le big della finanza vanno a caccia di opportunità per etichettare come «verdi» e «sostenibili» i propri prodotti, MSCI offre loro esattamente ciò di cui hanno bisogno.

Il business è fiorente, come dimostrano i suoi 1,6 miliardi di dollari di fatturato nel 2020. D’altra parte, si stima che il 60% del denaro investito in modo sostenibile dai risparmiatori sia finito in un fondo costruito grazie agli indici ESG di MSCI. Il calcolo è di Bloomberg Businessweek che, pur essendo indirettamente collegato alla stessa MSCI (la capogruppo Bloomberg LP ne è competitor per alcuni servizi e partner per altri) le dedica un articolo di fuoco.

Premiate le performance ambientali di… McDonald’s

Sulle 500 società statunitensi a maggiore capitalizzazione, ben 155 si sono meritate un upgrade (cioè un aumento di rating) da parte di MSCI tra gennaio 2020 e giugno 2021. I giornalisti di Bloomberg sono andati a controllare questi casi uno per uno. Scoprendone alcuni che destano qualche perplessità.

Tra i promossi per esempio c’è nientemeno che McDonald’s. Nel 2019 ha generato oltre 54 milioni di tonnellate di gas serra, più di Stati come il Portogallo o l’Ungheria. Emissioni che per giunta sono aumentate del 7% nell’arco di quattro anni; per la precisione, calano quelle dei ristoranti (Scope 1) e dell’energia acquistata (Scope 2), ma quelle legate alla filiera (Scope 3) viaggiano su un ordine di grandezza nettamente superiore e continuano ad aumentare. D’altra parte, per portare sul piatto un solo etto di carne bovina si emettono fino a 6 chilogrammi di CO2, contro i 90 grammi di un etto di piselli. E non c’è alcuna altra catena di ristoranti che si avvicini nemmeno lontanamente a McDonald’s, in termini di quantità di hamburger sfornati ogni singolo giorno. Eppure, il gigante dei fast food è stato premiato per le sue performance ambientalipassando da BB a BBB. Cioè perfettamente nella media, su una scala che va da un minimo di CCC a un massimo di AAA.

È troppo facile finire negli indici ESG

Com’è possibile? È la stessa MSCI a metterlo bene in chiaro. Il rating, spiega, «è progettato per misurare la resilienza di un’azienda ai rischi ambientali, sociali e di governance (ESG) a lungo termine del settore». In altre parole, MSCI non valuta l’impatto dell’azienda sul Pianeta bensì l’opposto, cioè l’impatto che le questioni ESG hanno – o avranno – sul suo modello di business. Nel caso di McDonald’s, ha semplicemente ritenuto che l’aumento delle emissioni non incida sul futuro dell’azienda. Escludendolo, così, dal proprio processo di calcolo. Questo meccanismo fa sì che, su tutti gli upgrade esaminati, soltanto uno sia dovuto al taglio delle emissioni. Uno su 155.

ristorante mcdonald's
Un ristorante di McDonald’s © Amandine Lerbscher/Unsplash

Questa è la prima, macroscopica falla messa in luce dall’approfondimento di Bloomberg. Ma non è l’unica, perché il diavolo sta nei dettagli. Tra i criteri per la promozione di McDonald’s, per esempio, c’è anche l’installazione di bidoni per la raccolta differenziata nei ristoranti statunitensi e francesi. Peccato però che siano obbligatori per legge. È qualcosa che capita molto spesso soprattutto nella dimensione della governance, a cui è legato addirittura il 42% degli upgrade. Ben 51 aziende hanno guadagnato punti per aver adottato policy contro la corruzione, procedure antiriciclaggio o altri codici etici con cui – di fatto – non fanno altro che impegnarsi a rispettare le normative vigenti.

Ottimi voti anche per le banche nemiche del clima

Insomma, i voti appaiono un po’ troppo generosi. Anche perché le aziende sono messe a confronto con i competitor del loro settore, partendo dal presupposto per cui la media sia BBB. Nel vocabolario di Wall Street mutuato dalle agenzie di rating, BBB equivale a investment grade, cioè a un rischio accettabile (al di sotto di questo punteggio si ricade negli investimenti speculativi). In pratica è come dare per scontato che l’azienda-tipo meriti a prescindere un “6 politico” in materia di sostenibilità.

Per avere la prova del nove si può svolgere un altro esercizio. Il report “Banking on climate chaos” ci svela che, tra il 2016 e il 2020, sessanta grandi banche hanno concesso 3.800 miliardi di dollari alle compagnie attive nel comparto di carbone, petrolio e gas. Questo dopo la firma dell’Accordo di Parigi con cui la comunità internazionale si è impegnata a mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, facendo tutto il possibile per non superare gli 1,5 gradi.

L’americana JP Morgan Chase, da sola, ha stanziato un terzo di tale somma. Stiamo parlando di 317 miliardi di dollari, il doppio del Pil dell’Ungheria. Ecco, secondo MSCI JP Morgan Chase si merita una bella A ed è in linea con gli obiettivi internazionali sul clima. Promosse anche la seconda e la terza in classifica, Citi (238 miliardi investiti nelle fossili e un rating di A) e Wells Fargo (223 miliardi e un rating di BB), seppure con osservazioni più critiche in merito al clima. Certo, se nemmeno foraggiare le fossili a suon di miliardi è sufficiente, viene da chiedersi cosa si debba fare per essere esclusi dagli indici ESG.




False dichiarazioni in campo ambientale e sociale: una violazione al pari del falso in bilancio?

False dichiarazioni in campo ambientale e sociale: una violazione al pari del falso in bilancio?

Lo straordinario lavoro di Porter, Serafeim e Kramer dal titolo “Where ESG fails”, pubblicato sulla rivista Institutional Investor un paio d’anni fa, confermò da un lato che è fuori discussione l’opportunità di una maggiore crescita in termini di redditività e vantaggio competitivo derivanti dall’inserimento di preoccupazioni di carattere etico, sociale e ambientale, come parte integrante dei piani strategici di un’azienda; dall’altro lato, cosa a mio avviso più interessante, sollecitò l’attenzione sui limiti intrinsechi del modello “ESG – Enviromental, Social and corporate Governance”, tanto di moda negli ultimi anni, al centro di crescenti speculazioni da parte dei professionisti che vendono a caro prezzo consulenza per poter ottenere le ambite certificazioni, delle quali aziende medie e grandi – in preda a una specie di bulimia compilativa tipica del framework americano – paiono non poter più fare a meno.

Opinione attualmente diffusa vuole che le società che hanno posizioni migliori in classifica sulla base di metriche ESG, otterranno – già solo per questo – migliori rendimenti per gli azionisti: questa convinzione secondo Porter è semplicemente errata, “è basata su un castello di carte, un gigante dai piedi d’argilla”.

E a poco serve citare il celebre lavoro di Eccles ad Harvard, ampiamente validato da evidenze scientifiche inconfutabili: esso, infatti, è basato sul fare, non solo sul classificare, prova ne sia che aziende in alta posizione nelle classifiche ESG non necessariamente garantiscono over-performance agli investimenti, né tantomeno un profilo di sostenibilità più elevato, per motivi che ho ben dettagliato in un mio recente intervento a un webinar organizzato dall’analista finanziario indipendente Alfonso Scarano.

Senza tema di smentita, mi sento di affermare – come già sostenuto dai colleghi – che i modelli basati sugli indici ESG sono centrati su uno sguardo del tutto generale, avulso dal particolare, e che può generare effetti imprevisti e preoccupanti: si tratta in poche parole di una vera e propria mania classificatoria, l’ennesima, tipica del mondo anglosassone. Ad esempio, l’impatto ambientale di una banca non è necessariamente rilevante per la sua performance economica: una corretta politica di contenimento delle emissioni nocive in atmosfera otterrebbe un alto punteggio sugli indici ESG, ma non influenzerebbe significativamente le emissioni di carbonio globali; al contrario, l’emissione da parte della banca di prestiti subprime che i clienti non saranno in grado di ripagare, o peggio la commercializzazione di titoli tossici, potrebbe avere devastanti conseguenze sociali e finanziarie, come le cronache di pochi anni fa hanno dimostrato. Nonostante ciò, il reporting ESG ha dato credito alle banche per la prima questione e, allo stesso tempo, ha tralasciato colpevolmente – o dolosamente? – la seconda.

E non è molto differente in altri settori: Volkswagen prima dello scandalo del Dieselgate era prima in molte classifiche di RSI e ESG; e Jeff Bezos, con il suo Bezos Earth Fund, ha deciso sì di destinare 10 miliardi di dollari a borse di studio e finanziamento di idee sulla sostenibilità (senza peraltro curarsi di verificare poi il buon fine dei progetti finanziati), ma ben si guarda dallo spendere un solo dollaro per migliorare realmente i processi di sostenibilità all’interno del proprio colosso imprenditoriale.

L’ammontare delle somme in gioco è assai goloso anche sul fronte della raccolta degli investimenti: degli 800 miliardi previsti dal piano Next Generation UE, ben il 30% dovrà essere reperito mediante emissioni “green”. La normativa europea per il controllo di questo mercato esiste, pur in fase di aggiornamento, ma, come denunciato da diversi affidabili analisti e osservatori, non pare sufficiente a evitare il rischio di politiche scorrette e di ecologismo di facciata, con il risultato che le aziende e i fondi sulla carta più virtuosi grazie appunto alle certificazioni ESG potrebbero essere quelli in grado di raccogliere più investimenti, sulla base semplicemente di una migliore capacità di narrazione del loro – del tutto presunto – basso impatto ambientale e sociale.

Morale: l’adozione diffusa del reporting ESG ha, come effetto indiretto, l’aver “tranquillizzato” gli investitori e i cittadini, ma, al contempo, ha distratto le aziende dall’attrezzarsi per causare un impatto sociale rilevante riguardo alle questioni realmente centrali per i propri business: come se, assolti gli obblighi ESG, si potesse tirare un respiro di sollievo, con la certezza di aver fatto bene “i compiti a casa”.

Come convincere allora gli investitori a uscire dalla zona di confort di un sistema di classificazione standard, che non inserisce nell’equazione il tema dell’autenticità, ma solo quello degli ESG come adempimento sterilmente burocratico?

Una risposta in linea con la dottrina del reputation management richiederebbe che le aziende comunichino e misurino rigorosamente le metriche quantitative concrete che collegano direttamente i fattori sociali con la performance economica, abbandonando un approccio rigido e schematico quale quello tipico degli ESG. Ad esempio, una società d’investimento non può delegare la considerazione delle questioni sociali e ambientali a un singolo analista ESG in modalità ex post, al termine del processo di analisi, solo mediante un visto di conformità: l’intero team d’investimento dovrebbe combinare la comprensione dei fattori e dell’impatto sociale con la competenza finanziaria e industriale, ad esempio inserendo esperti in questioni ambientali e sociali all’interno dei team che valutano gli investimenti.

Un’altra risposta, nel cui contenuto credo profondamente, è quella di stimolare le istituzioni a applicare il già esistente regime sanzionatorio previsto per le Dichiarazioni Non Finanziarie (DNF, normate dal D.Lgs. n. 254/2016) in caso di violazioni nel processo di accountability delle imprese, specie laddove esse includano palesi violazioni del principio di fiducia verso gli stakeholder. La normativa attuale prevede un regime sanzionatorio applicabile in questi casi (per la precisione da 25.000 a 150.000 euro, a seconda dei casi).

Consob accompagna le aziende interessate a pubblicare una DNF – od obbligate per legge a farlo – con un’apprezzabile progetto pluriennale, che inizia a dare i primi risultati, seppure con ampi margini di miglioramento, e negli ultimi 3 anni ha pubblicato una rendicontazione a riguardo (qui i report in originale, dal 2018 ad oggi). L’impegno dei funzionari Consob è particolarmente rivolto, nel corso dell’attività di vigilanza, a sollecitare alle aziende verso cambiamenti strategici e riflessioni su eventuali non compliance, e nei rapporti pare essere dedicata particolare attenzione ai comportamenti – anche dei Consigli di Amministrazione – relativi alla qualità del processo di materialità.

Lato ammende, invece, non si ha alcuna notizia: pare che l’impianto sanzionatorio, che pure esiste, non sia mai stato applicato, in una specie di moratoria di fatto, forse in ossequio a una precisa strategia che prevede l’applicazione di una pressione crescente sulle aziende, o per altri motivi non dichiarati, o ancora – osservano alcuni commentatori – a causa dell’assenza di risorse professionali adeguate a esercitare una concreta ed efficace azione di controllo da parte appunto della Consob, che dovrebbe effettuare l’accertamento e l’irrogazione delle sanzioni sulla base di verifiche effettuate a campione, delle quali però, paradossalmente, la relazione annuale della Consob stessa non riporta alcunché, con il risultato che chi dovrebbe vigilare sulla corretta rendicontazione non rendiconta a sua volta, o rendiconta solo parzialmente.

In quest’ottica, la giustizia italiana ci sta mettendo del suo: è recente la prima condanna a carico di un’azienda per pubblicità scorretta in campo ambientale. A quando allora il reato di Greenwashing nelle comunicazioni sociali obbligatorie in campo ESG, e – perché no – in quelle facoltative?

Come insegnano la storia dell’economia aziendale, della ragioneria e del diritto, senza sanzione non esiste norma efficace, ed anche quando è prevista una sanzione, in assenza di applicazione puntuale della stessa le violazioni si moltiplicano. Le trasgressioni del patto etico e di trasparenza che dovrebbe legare aziende e stakeholder verranno finalmente, prima o poi, considerate alla stessa stregua dei falsi in bilancio?




Lo spettacolare disastro di Chanel su TikTok

Lo spettacolare disastro di Chanel su TikTok

immaginate spendere più di 800 dollari (825 per la precisione) per un calendario dell’avvento, magari del vostro marchio preferito, e ritrovarci dentro un paio di campioncini, qualche sticker (con il logo!), un braccialetto e un sacchetto (sempre con il logo!) di quelli che si usano per incartare le borse, le scarpe o i profumi costosi, ma senza le borse, le scarpe e i profumi costosi, chiaramente. Immaginate di essere una ragazza che sta su TikTok e di trasformare questa piccola grande delusione, il vostro battesimo nel mondo del lusso, probabilmente la prima volta che acquistate qualcosa di prezioso o presunto tale, in una serie di video (ben otto) che esprimono il vostro dispiacere e incredulità, ma anche tutto il sano trolling di cui sono capaci le generazioni digitali. È andata più o meno così per Elise Harmon, tiktoker californiana che questa settimana si è ritrovata suo malgrado al centro di una polemica che ha coinvolto Chanel e il suo ormai celebre calendario dell’avvento, grazie alla sua video-recensione che ha collezionato più di 50 milioni di visualizzazioni sulla piattaforma. «Sono pazza? Non ho mai visto un calendario dell’avvento di Chanel, vediamo se vale l’hype», dice la ragazza che evidentemente, prima di acquistare il calendario a forma di bottiglia di Chanel N°5 realizzato per celebrare il centenario della fragranza, non aveva controllato cosa ci fosse dentro (sul sito era possibile farlo, ma perché rovinarsi la sorpresa? Appunto).

@eliseharmon

 

Worth the hype? Probably not but it is pretty

♬ It’s Beginning to Look a Lot like Christmas – Michael Bublé

Risultato: erano perlopiù sciocchezzuole pensate apposta per glorificare il logo dalla doppia C e tutto il suo immaginario e allo stesso tempo per permettere, a chi non ha i soldi per comprare una borsetta, di possedere almeno il sacchetto che di solito la contiene. Il trucco più vecchio dei marchi del lusso, quello che una volta si chiamava brand extension, lo stesso che oggi porta i brand a sperimentare nel metaverso o negli universi dei videogiochi, un escamotage utilissimo a crescere una nuova generazione di consumatori che in questo modo si abituano a considerare quel determinato logo, tramite la sua estensione, qualcosa di desiderabile. Se non fosse che questi nuovi consumatori sono cresciuti sui social e sono piuttosto schizzinosi, e volubili, nello scegliere cosa merita la loro venerazione: Chanel, mi stai prendendo in giro? C’è poi anche il fatto che pochi possono permettersi di essere sfacciatamente ricchi sui social. Se hai comprato un oggetto di lusso e te ne stai vantando online, è opportuno che qualcosa vada storto, così tutt* insieme possiamo prendercela con i veri cattivi: i marchi da ricchi.

In uno dei suoi video, mentre i suoi follower continuavano ad aumentare, Harmon dice di essere stata bloccata dall’account ufficiale di Chanel su TikTok, che però non esiste, cioè c’è, ma è inattivo e impostato come profilo privato, così gli appassionati della saga del calendario dell’avvento si sono riversati, arrabbiatissimi, per chiedere giustizia sull’Instagram del marchio, quasi 48 milioni di follower, proprio mentre quelli erano occupati a promuovere la sfilata Métiers d’Art che si teneva a Parigi lo scorso 7 dicembre. A nessuno di questi commentatori fregava niente della sfilata, e tanto meno dei video pensati per raccontarla, volevano solo sapere perché il calendario dell’avvento da 825 dollari aveva solo un paio di campioncini e qualche adesivo, Chanel deve rispondere.

Come riporta Vanessa Friedman sul New York Times, nonostante non ci sia stata una risposta ufficiale del marchio all’incresciosa vicenda, Gregoire Audidier – che è International Communication and Client Experience Strategy Director di Chanel Fragrance and Beauty – ci ha tenuto a specificare in una mail che no, loro non hanno mai bloccato nessuno su TikTok, neanche la fastidiosa signorina del calendario dell’avvento (attenzione, non è una traduzione letterale), perché il loro «non è un account attivo e non è stato mai pubblicato nessun contenuto sulla piattaforma», aggiungendo anche che il marchio si sarebbe impegnato a «condividere le nostre creazioni con i nostri follower su tutti i social network su cui siamo attivi. Le nostre pagine sono aperte a tutti e i nostri follower sono liberi di esprimere i propri sentimenti e le proprie opinioni, siano esse entusiaste o critiche». Il che potrebbe significare che Chanel non sbarcherà tanto presto su TikTok o magari che sta già lavorando con la stessa Hermon a una serie video con cui ribaltare la débâcle del maledettissimo calendario dell’avvento, e riconquistare così il favore della Generazione Z. A dire la verità, più di un mese fa erano stati i clienti cinesi ad accorgersi che questo calendario era un po’ una mezza pippa e se ne erano lamentati anche loro, come riporta JingDaily, come spesso succede da quelle parti, dove le collaborazioni e le attivazioni speciali dei brand, che siano anniversari o collezioni pensate per le festività cinesi, sono sempre sotto scrutinio da parte di un consumatore medio che, a differenza di Harmon, è tutt’altro che estraneo al lusso.

Ma perché tanto risentimento per un oggetto di questo tipo? Cosa rende un prodotto virale in questo momento storico, nel bene e nel male? Le ipotesi sono molteplici, a partire dal fatto che sì, il calendario di Chanel era effettivamente costoso per quello che offriva – il prezzo dei calendari degli altri marchi si aggira tra i 300 e i 500 dollari in media – ma era anche la prima volta che la maison francese ne realizzava uno, e si sa che tipo di attaccamento c’è, nell’utente medio di internet più che nel consumatore finale vero e proprio, verso il logo di Chanel. Quell’attaccamento, quella desiderabilità, è ora un’arma a doppio taglio, perché se c’è una cosa che i social ci hanno insegnato è che, qualsiasi cosa si pubblichi, ci sarà sempre qualcuno scontento. L’episodio, intanto, ha generato una discussione sulla piattaforma su cosa significa oggi “lusso”, come dimostra il delizioso video realizzato da Charles Gross, 26enne appassionato di moda con una voce che meriterebbe un podcast, che in risposta a Bryanboy – il quale sosteneva che in questi casi si paga il brand e non il contenuto – ha parlato di qualità, di aspettative e standard. Una diatriba in realtà piuttosto vecchia, ma che oggi si riformula grazie al potere di espressione di cui ogni consumatore, abituale o no, esperto o no, sincero o no, gode sui social: ci sarà sempre una Elise Harmon per ogni Chanel.