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Digital content, mercato in crescita anche in Italia. Quanto vale?

Digital content, mercato in crescita anche in Italia. Quanto vale?

 Continua a crescere in Italia il mercato della distribuzione B2C (Business to Consumer) di contenuti digitali. Da un lato, la spesa dei consumatori italiani per la fruizione dei contenuti – in abbonamento e/o in acquisto singolo – sfiora nel 2021 i 3 miliardi di euro; dall’altro, dopo la frenata provocata dalla pandemia (-2%), nel 2021 riprendono a crescere gli investimenti in advertising (+9%) sui contenuti e sulle piattaforme di distribuzione, che superano quota 1 miliardo di euro.

Qual è lo stato attuale del mercato dei contenuti digitali in Italia?
Anche complice la pandemia e il conseguente modificarsi delle abitudini di consumo degli italiani, la fruizione dei contenuti digitali ha avuto una forte impennata: il mercato della distribuzione dei contenuti digitali B2C nel 2021 è cresciuto di circa il 20% rispetto al 2020, e parliamo di un settore che attualmente sfiora i 3 miliardi di euro, secondo i dati Osservatorio e-commerce B2C della School of Management del Politecnico di Milano. Nel loro tempo libero, e non solo, gli italiani stanno inserendo in misura sempre maggiore la fruizione di prodotti digitali come Podcast e audiolibri. Inoltre l’informazione si fa sempre più digitale tra e-book e digital news. A trainare il settore sono i contenuti video, che si confermano il prodotto di maggiore appeal. Questo trend – spiega Luca Poma Professore di Reputation management e scienze della comunicazione all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino – è ovviamente riscontrabile anche dai nuovi strumenti offerti dalle piattaforme Social come TikTok, l’amatissimo social network della generazione Z, che offre contenuti dinamici esclusivamente in forma video, e Instagram che con gli IG Reels e le sempre seguitissime Instagram Stories sta mantenendo comunque la sua quota di mercato. Tra i contenuti digitali non dobbiamo dimenticare infine i prodotti realizzati dagli Influencer, un mercato, quello dell’influenza digitale, che in Italia raggiunge il valore stimato di 241 milioni di euro.
Quali sono le traiettorie evolutive e le reali opportunità che può offrire questo mercato?
Attualmente ci stiamo spostando verso una nuova dimensione del digitale, che potremmo definire la dimensione 3.0 – sottolinea il professor Poma -. Solo un mese e mezzo fa circa Mark Zukerberg, presentando Meta, la sua “nuova” azienda – mossa non troppo agile che dimostra anche un probabile tentativo greenwhasing, stante le polemiche nelle quali è stata coinvolta Facebook recentemente – ha parlato appunto di metaverso: una nuova dimensione, un ambiente sociale e connesso h 24 in cui gli utenti sperimenteranno un nuovo tipo di interazione digitale vasta e immersiva, fortemente connessa con il nostro mondo fisico. Nel metaverso, ad esempio, ogni persona sarà una versione realistica di sé stessa, un avatar che potrà indossare un vestito – sempre in formato digitale – del suo stilista preferito per assistere alla lezione virtuale tenuta dalla propria università. Questo apre uno scenario nuovo circa la fruizione dei contenuti digitali che potrà portare – come ogni nuovo strumento – vantaggi ma anche rischi. Attualmente l’investimento in questo nuovo universo digitale da parte di Facebook Inc. (aka “Meta”) sarà di circa 10 miliardi di dollari l’anno.

Una prospettiva commerciale ghiotta, infatti, sono diversi i noti brand che stanno già investendo in questo innovativo scenario come il settore del fashion da Gucci a Balenciaga fino a Nike Vuitton e Moncler. Persino strutture pubbliche, come il Ministero del turismo islandese ha scelto con lungimiranza di puntare sul metaverso. Nell’imminente futuro assisteremo quindi a un nuovo capitolo circa le opportunità del mercato dei contenuti digitali. Al momento la traiettoria evolutiva sembra esser questa, lo scenario è totalmente fluido, in divenire ed andrà esplorato, analizzato, compreso e regolato man mano. Per quanto riguarda le opportunità, e riprendendo il tema degli influencer e dell’influencer marketing – continua Poma – oggi un’opportunità per i brand è centrale la valorizzazione di questi nuovi “canali di trasmissione e advertising”, degli esseri umani in carne ed ossa che fanno del digitale il loro luogo professionale di elezione. È un tema, quello degli influencer, che cavalca il trend della personalizzazione dei contenuti che deriva dalla crescente necessità di umanizzazione, di persone in carne ed ossa, con valori, identità e pregi (ma anche debolezze) di cui potersi fidare. Di questo ho scritto recentemente, assieme al mio team di ricercatori e consulenti, per far chiarezza sul fenomeno, nel volume #Influencer, come nascono i miti del web, edito da Lupetti.

Confronto tra l’Italia e gli altri paesi europei
Al di la dei numeri e delle statistiche sulla fruizione – spiega il professor Poma – quello che mi pare importante sottolineare è che il nostro Paese è in una posizione di svantaggio rispetto agli altri paesi europei sul tema dell’economia digitale. Danimarca, Finlandia, Svezia e Paesi Bassi hanno le economie digitali più avanzate tra gli Stati membri, l’Italia invece, assieme alla Romania, Bulgaria e alla Grecia ha i punteggi più bassi, pur avendo registrato alcuni miglioramenti negli ultimi anni, e questo è uno svantaggio infrastrutturale che indubbiamente ha un forte impatto sull’utilizzo dei contenuti digitali. Il ritardo del nostro Paese in termini di adozione digitale e innovazione tecnologica è causato da diversi fattori che includono da un lato la limitata diffusione di competenze digitali da parte della cittadinanza, dall’altro la bassa adozione di tecnologie avanzate, ad esempio le tecnologie iCloud, da parte delle istituzioni.

L’Italia si posiziona infatti solo al 24° posto fra i 27 Stati membri dell’UE come livello di digitalizzazione secondo il Digital Economy and Society Index (DESI) 2020, un indice multidimensionale che misura il livello di digitalizzazione nei Paesi UE. La speranza è che quanto previsto dal PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, acceleri il processo verso la digitalizzazione, tema alla quale è dedicata la prima delle sei missioni del PNRR stesso, con stanziamenti per i diversi interventi pari a oltre 40 miliardi di euro. Certamente, grazie all’implementazione delle reti ultraveloci e alla spinta verso l’ottimizzazione delle infrastrutture – alla quale dovrebbero aggiungersi auspicabilmente percorsi di formazione per formare nuovi professionisti esperti in ambito digitale ed aumentare il livello di cultura del nostro Paese – potremmo allinearci competitivamente con gli altri paesi europei e migliorare il nostro posizionamento nel settore della fruizione dei contenuti digitali, settore in costante e forte crescita.




Digital content, mercato in crescita anche in Italia. Quanto vale?

Digital content, mercato in crescita anche in Italia. Quanto vale?

Continua a crescere in Italia il mercato della distribuzione B2C (Business to Consumer) di contenuti digitali. Da un lato, la spesa dei consumatori italiani per la fruizione dei contenuti – in abbonamento e/o in acquisto singolo – sfiora nel 2021 i 3 miliardi di euro; dall’altro, dopo la frenata provocata dalla pandemia (-2%), nel 2021 riprendono a crescere gli investimenti in advertising (+9%) sui contenuti e sulle piattaforme di distribuzione, che superano quota 1 miliardo di euro.

Qual è lo stato attuale del mercato dei contenuti digitali in Italia?
Anche complice la pandemia e il conseguente modificarsi delle abitudini di consumo degli italiani, la fruizione dei contenuti digitali ha avuto una forte impennata: il mercato della distribuzione dei contenuti digitali B2C nel 2021 è cresciuto di circa il 20% rispetto al 2020, e parliamo di un settore che attualmente sfiora i 3 miliardi di euro, secondo i dati Osservatorio e-commerce B2C della School of Management del Politecnico di Milano. Nel loro tempo libero, e non solo, gli italiani stanno inserendo in misura sempre maggiore la fruizione di prodotti digitali come Podcast e audiolibri. Inoltre l’informazione si fa sempre più digitale tra e-book e digital news. A trainare il settore sono i contenuti video, che si confermano il prodotto di maggiore appeal. Questo trend – spiega Luca Poma Professore di Reputation management e scienze della comunicazione all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino – è ovviamente riscontrabile anche dai nuovi strumenti offerti dalle piattaforme Social come TikTok, l’amatissimo social network della generazione Z, che offre contenuti dinamici esclusivamente in forma video, e Instagram che con gli IG Reels e le sempre seguitissime Instagram Stories sta mantenendo comunque la sua quota di mercato. Tra i contenuti digitali non dobbiamo dimenticare infine i prodotti realizzati dagli Influencer, un mercato, quello dell’influenza digitale, che in Italia raggiunge il valore stimato di 241 milioni di euro.
Quali sono le traiettorie evolutive e le reali opportunità che può offrire questo mercato?
Attualmente ci stiamo spostando verso una nuova dimensione del digitale, che potremmo definire la dimensione 3.0 – sottolinea il professor Poma -. Solo un mese e mezzo fa circa Mark Zukerberg, presentando Meta, la sua “nuova” azienda – mossa non troppo agile che dimostra anche un probabile tentativo greenwhasing, stante le polemiche nelle quali è stata coinvolta Facebook recentemente – ha parlato appunto di metaverso: una nuova dimensione, un ambiente sociale e connesso h 24 in cui gli utenti sperimenteranno un nuovo tipo di interazione digitale vasta e immersiva, fortemente connessa con il nostro mondo fisico. Nel metaverso, ad esempio, ogni persona sarà una versione realistica di sé stessa, un avatar che potrà indossare un vestito – sempre in formato digitale – del suo stilista preferito per assistere alla lezione virtuale tenuta dalla propria università. Questo apre uno scenario nuovo circa la fruizione dei contenuti digitali che potrà portare – come ogni nuovo strumento – vantaggi ma anche rischi. Attualmente l’investimento in questo nuovo universo digitale da parte di Facebook Inc. (aka “Meta”) sarà di circa 10 miliardi di dollari l’anno.

Una prospettiva commerciale ghiotta, infatti, sono diversi i noti brand che stanno già investendo in questo innovativo scenario come il settore del fashion da Gucci a Balenciaga fino a Nike Vuitton e Moncler. Persino strutture pubbliche, come il Ministero del turismo islandese ha scelto con lungimiranza di puntare sul metaverso. Nell’imminente futuro assisteremo quindi a un nuovo capitolo circa le opportunità del mercato dei contenuti digitali. Al momento la traiettoria evolutiva sembra esser questa, lo scenario è totalmente fluido, in divenire ed andrà esplorato, analizzato, compreso e regolato man mano. Per quanto riguarda le opportunità, e riprendendo il tema degli influencer e dell’influencer marketing – continua Poma – oggi un’opportunità per i brand è centrale la valorizzazione di questi nuovi “canali di trasmissione e advertising”, degli esseri umani in carne ed ossa che fanno del digitale il loro luogo professionale di elezione. È un tema, quello degli influencer, che cavalca il trend della personalizzazione dei contenuti che deriva dalla crescente necessità di umanizzazione, di persone in carne ed ossa, con valori, identità e pregi (ma anche debolezze) di cui potersi fidare. Di questo ho scritto recentemente, assieme al mio team di ricercatori e consulenti, per far chiarezza sul fenomeno, nel volume #Influencer, come nascono i miti del web, edito da Lupetti.

Confronto tra l’Italia e gli altri paesi europei
Al di la dei numeri e delle statistiche sulla fruizione – spiega il professor Poma – quello che mi pare importante sottolineare è che il nostro Paese è in una posizione di svantaggio rispetto agli altri paesi europei sul tema dell’economia digitale. Danimarca, Finlandia, Svezia e Paesi Bassi hanno le economie digitali più avanzate tra gli Stati membri, l’Italia invece, assieme alla Romania, Bulgaria e alla Grecia ha i punteggi più bassi, pur avendo registrato alcuni miglioramenti negli ultimi anni, e questo è uno svantaggio infrastrutturale che indubbiamente ha un forte impatto sull’utilizzo dei contenuti digitali. Il ritardo del nostro Paese in termini di adozione digitale e innovazione tecnologica è causato da diversi fattori che includono da un lato la limitata diffusione di competenze digitali da parte della cittadinanza, dall’altro la bassa adozione di tecnologie avanzate, ad esempio le tecnologie iCloud, da parte delle istituzioni.

L’Italia si posiziona infatti solo al 24° posto fra i 27 Stati membri dell’UE come livello di digitalizzazione secondo il Digital Economy and Society Index (DESI) 2020, un indice multidimensionale che misura il livello di digitalizzazione nei Paesi UE. La speranza è che quanto previsto dal PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, acceleri il processo verso la digitalizzazione, tema alla quale è dedicata la prima delle sei missioni del PNRR stesso, con stanziamenti per i diversi interventi pari a oltre 40 miliardi di euro. Certamente, grazie all’implementazione delle reti ultraveloci e alla spinta verso l’ottimizzazione delle infrastrutture – alla quale dovrebbero aggiungersi auspicabilmente percorsi di formazione per formare nuovi professionisti esperti in ambito digitale ed aumentare il livello di cultura del nostro Paese – potremmo allinearci competitivamente con gli altri paesi europei e migliorare il nostro posizionamento nel settore della fruizione dei contenuti digitali, settore in costante e forte crescita.




Governare la reputazione per governare l’impresa sostenibile

Governare la reputazione per governare l’impresa sostenibile

il reputation management per governare l’impresa sostenibile: Patagonia e il brand activism

Un caso di corporate social responsibility e brand activism presentato nel libro (Patagonia)

Il Reputation management spiegato semplice”, scritto da Luca Poma e Giorgia Grandoni, è introdotto da due prefazioni – curate dal Rettore dell’Università Lumsa di Roma, Francesco Bonini, e dal decano delle relazioni pubbliche, Toni Muzi Falconi – in cui non si parla mai di comunicazione.

Si parla invece di management, anzi, delle “frontiere più innovative del management”, e di organizzazione, relazioni, dati, tecnologie. Perché, secondo gli autori, il reputation management non può essere considerato un mero strumento di relazioni pubbliche o di marketing, come pensano fin troppi addetti ai lavori, ma “deve governare i processi esecutivi dell’azienda”.

Dal profitto privato al profitto condiviso

Il libro è soltanto in parte un manuale per affrontare o affinare un percorso di strutturazione della reputazione di un’impresa o di un’istituzione (un intero capitolo è dedicato al nation branding e alla public diplomacy). L’ambizione, infatti, è quella di proporre il reputation management come centro di gravità per le riflessioni sulla gestione d’impresa, adesso che le aziende stanno repentinamente voltando le spalle alla teoria del massimo profitto, proposta da Milton Friedman negli anni ‘80 del ‘900, per integrare la sostenibilità nella governance e nei risultati aziendali.

Una svolta che non si può improvvisare e che chiede di rimettere in discussione ruoli, credenze e competenze. Poma e Grandoni partono quindi alla definizione di queste competenze, che servono sia agli addetti a comunicazione e marketing, per collocare le proprie abilità in un contesto più ampio, sia alle altre funzioni manageriali, per connettersi con i contenuti e i linguaggi che presiedono alla creazione di valore a livello ambientale, sociale e di governance.

La Corporate social responsibility come bussola

Il primo passaggio riguarda la Corporate social responsibility (Csr), che smette di essere un’attività accessoria, magari inseguita per migliorare la brand awareness o, “nel peggiore dei casi”, per vendere di più, e assume un ruolo centrale, perché è l’unico “modello di gestione strategica pensato per creare valore per tutti gli stakeholder”.

Segue lo stakeholder management, trattato come un’autentica disciplina di studio e ben esemplificato dal caso dell’azienda farmaceutica Guna, che lo stesso Luca Poma ha sviluppato in oltre dieci anni di lavoro.

Quindi si passa al ruolo degli strumenti di comunicazione nella creazione di valore per gli stakeholder: dallo storytelling alle media relations e alla comunicazione non convenzionale.

Una buona reputazione è un air bag contro le crisi

Una sezione importante è dedicata alla gestione e alla comunicazione delle situazioni di crisi, un tema indissolubilmente legato al reputation management, come spiega l’efficace metafora dell’air bag: “Una buona reputazione è come un air bag da attivare all’eventuale deflagrare di un problema di tale gravità da pregiudicare la business continuity dell’organizzazione”.

Al tema è dedicata una sezione molto ampia, che attinge – integrandolo con nuovi casi di studio – a un precedente volume che Luca Poma ha realizzato con Giampietro Vecchiato: “Crisis management. Come comunicare la crisi” (Il Sole 24 Ore, 2012).

La parte conclusiva del libro, oltre a offrire una riflessione teorica sulla contaminazione dei saperi, il management e l’etica, affronta il tema cruciale, e ancora aperto, della valutazione e della misurazione della reputazione. Si entra nei principali metodi di analisi, con i loro vantaggi e i loro limiti, e, anche in questo caso, con numerosi riferimento a casi reali.

E proprio gli esempi reali rappresentano uno dei principali valori aggiunti del libro: complessivamente si contano più di 20 case history, a sostegno dei diversi argomenti trattati, che talvolta rappresentano delle piccole guide operative per la costruzione di una buona reputazione, ma anche per evitare clamorosi passi falsi, come quelli di Autostrade per l’Italia con il Ponte Morandi di Genova o della Superlega di calcio.

Luca Poma e Giorgia Grandoni, IL REPUTATION MANAGEMENT SPIEGATO SEMPLICE, Celid editore, pagg. 438, € 29.




Il lato oscuro del metaverso, tra sorveglianza e molestie

Il lato oscuro del metaverso, tra sorveglianza e molestie

Nel 2016 esplose la moda di Pokémon Go. Milioni di persone iniziarono a vagare ovunque – compresi cimiteri e stazioni di polizia – per catturare i mostriciattoli protagonisti del gioco in realtà aumentata di Niantic. Tra i vari luoghi in cui i giocatori si riversarono c’erano anche alcuni specifici negozi, tra cui McDonald’s e Starbucks. Non arrivavano lì per caso: Niantic aveva infatti stretto una partnership con parecchi esercizi commerciali, che pagavano una quota (circa 50 centesimi di dollaro) per ogni giocatore che entrava seguendo il percorso di Pokémon Go.

Un anno dopo, la società dichiarò di aver inviato qualcosa come 500 milioni di visitatori nelle varie “postazioni sponsorizzate”. Milioni di persone in tutto il mondo erano quindi state incentivate a mangiare hamburger, consumare caffè o magari comprare vestiti o accessori attraverso un videogioco che portava gli utenti là dove si volevano che fossero. Niente di illegale. Eppure, un tale potere di eterodirigere i comportamenti delle persone solleva qualche interrogativo: fino a che punto è moralmente accettabile che le nostre scelte siano così pesantemente influenzate

Uno sguardo al futuro (prossimo)

Domande lecite a maggior ragione se davvero, nel giro di qualche anno, buona parte della nostra quotidianità – e quindi dei nostri consumi, svaghi, attività e altro – traslocherà nel metaverso: il mondo digitale, immersivo e da vivere (principalmente) nella realtà virtuale che stanno costruendo colossi del calibro di Meta (Facebook), Epic Games, Microsoft e altri. Se già è possibile avere un’influenza diretta sulle nostre azioni perfino nel mondo fisico (come mostra l’esempio di Pokémon Go), che cosa succederà quando – e se – vivremo parte delle nostre esistenze in un mondo virtuale in cui ogni nostro singolo movimento può essere monitorato e in cui le occasioni di attirarci là dove la pubblicità ci vuole aumenteranno a dismisura?

Ci recheremo nella palestra virtuale del metaverso (dove però gli esercizi vengono eseguiti davvero) perché vogliamo provare questa esperienza o perché la miriade di dati che si possono raccogliere in questo mondo digitale ha permesso di metterci in mano un buono sconto nel momento giusto? E abbiamo accettato di fare un acquisto che ci eravamo ripromessi di evitare perché l’abbiamo voluto noi o perché sono state architettate le condizioni perfette per attirarci in trappola? 

Vi ricordate quanto è stato strano – sembra un secolo fa – scoprire che dopo aver cercato informazioni online su una marca di scarpe venivamo perseguitati dalle pubblicità di quel brand? Nel metaverso, tutto ciò potrebbe essere immensamente più pervasivo e non limitarsi a pubblicità personalizzate, creando invece stimoli personalizzati che ci sproneranno a eseguire ben precise azioni. 

Ovviamente, non è inevitabile che il metaverso prenda questa china e siamo ampiamente in tempo per porre dei vincoli alla sorveglianza, alla pubblicità e alla raccolta dati. Eppure fa una certa impressione che il colosso più avanti di tutti nella corsa al metaverso – Meta/Facebook – sia lo stesso che negli ultimi anni ha pagato miliardi di dollari in multe all’Unione Europea e agli Stati Uniti per abuso dei dati degli utenti. Meta ha già risposto ai prevedibili timori assicurando in più occasioni di voler dare priorità alla privacy degli utenti e aggiungendo che ci vorrà circa un decennio affinché la loro visione di metaverso sia completa: tempo sufficiente per mettere in campo tutte le regole necessarie

I dubbi e i rischi

I primi prototipi dl metaverso non fanno però che alimentare timori distopici. Il Washington Post ha recentemente raccontato della software company Environments, che sta testando internamente la propria realtà virtuale destinata al mondo del lavoro: “Cinque impiegati lavorano in questo ufficio virtuale, ciascuno dei quali con un proprio avatar (più o meno) somigliante. Gli impiegati che hanno raggiunto un anniversario lavorativo vengono indicati con delle piccole icone celebrative sulla loro testa, mentre l’amministratore delegato Erin McDannald può raggiungere la scrivania virtuale di ogni impiegato in qualunque momento. Nonostante le intensificate opportunità di controllo manageriale, McDannald ha affermato che nessuno finora si è lamentato”.

Al di là del rischio di trovarci il capoufficio improvvisamente alle spalle, i problemi sul luogo di lavoro riguardano anche la possibilità di monitorare e registrare ogni nostro comportamento, sguardo o momento di distrazione. “I visori per la realtà virtuale possono raccogliere molti più dati degli schermi tradizionali”, spiega sempre il Washington Post“Ciò dà alle aziende maggiori opportunità di raccogliere e condividere questi dati per la profilazione e la pubblicità. Potrebbero inoltre fornire ai datori di lavoro svariati modi di sorvegliare il nostro comportamento e perfino le nostre menti”.

Come ha spiegato Kavya Pearlman, ad di XR Safety Iniziative (startup che offre consulenza sui temi più delicati del metaverso), “le società potrebbero per esempio usare il tracciamento del movimento degli occhi e di altre parti del volto per determinare se stiamo prestando abbastanza attenzione alle riunioni virtuali a cui partecipiamo o anche per misurare il nostro sovraccarico cognitivo durante i colloqui di lavoro”. Il movimento degli occhi in realtà virtuale, d’altra parte, non è così differente dal movimento del puntatore del mouse sui computer: un dato che già oggi viene raccolto a scopi pubblicitari e non solo.

Se il rischio di raccolta dati biometrici allo scopo di informare i nostri capi dell’attenzione che prestiamo sul luogo di lavoro è al momento soltanto teorico (e serve soprattutto come monito sulle inquietanti potenzialità del metaverso in termini di sorveglianza), altri pericoli sono invece molto più concreti e mostrando quali dati sensibili potrebbero essere raccolti senza difficoltà. Quante volte ci siamo recati nello studio digitale del medico? Perché abbiamo iniziato a frequentare negozi più economici? Quali depliant informativi sui disturbi dell’umore abbiamo raccolto? Il “capitalismo della sorveglianza” potrebbe fare un enorme salto di qualità nel metaverso, riducendo ulteriormente le nostre (legittime) zone d’ombra e monitorando ogni singolo comportamento.

La raccolta dati è però soltanto una delle caratteristiche del mondo online che potrebbe crescere esponenzialmente nel metaverso che verrà. L’altro elemento riguarda il rischio di molestie, hate speech e altri comportamenti violenti, che già oggi si stanno diffondendo in parecchi ambienti in realtà virtuale. Calum Hood è la responsabile per la ricerca del Center for countering digital hate (Ccdh) che ha recentemente investigato le interazioni che avvengono su VRChat, una sorta di social network in realtà virtuale disponibile per Oculus Quest. All’interno di VRChat, gli avatar degli utenti possono partecipare a feste e giochi o riunirsi nella piazza per chiacchierare. Nel corso di undici ore, Callum Hood ha registrato più di 100 incidenti, che in molti casi hanno coinvolto anche ragazzini nemmeno adolescenti: minacce, atteggiamenti aggressivi, molestie sessuali e altro ancora. Nel complesso, il Center for countering digital hate ha stimato che un incidente di questo tipo si verifica ogni sette minuti.

Ma come avvengono le molestie nel metaverso?

L’ha raccontato al New York Times la gamer Chanelle Siggens, che mentre partecipava allo sparatutto multiplayer Population One si è vista approcciare dall’avatar di un altro utente che ha simulato prima un aggressione sessuale e poi ha mimato la masturbazione davanti a lei. Un’altra ragazza ha raccontato di essere stata (virtualmente) palpeggiata sul seno sempre all’interno di Population One e di “aver provato una sensazione orribile”.

A questo punto, è facile prevedere le obiezioni: non sarà mica così grave essere molestati da un avatar in realtà virtuale? Le cose non sono così semplici: secondo Kavya Pearlman di XR safety initiative, le molestie e il bullismo che si verificano in realtà virtuale hanno un impatto psicologico molto superiore a quelle che avvengono nel tradizionale mondo online (per esempio, sui social) e si avvicinano più di quanto si potrebbe pensare a ciò che avviene – anche se non dal punto di vista strettamente fisico – nel mondo reale. D’altra parte, il punto centrale della realtà virtuale è proprio quello di ingannare il nostro cervello facendogli credere di essere davvero presente al suo interno.

“La molestia sessuale non è uno scherzo nemmeno sull’internet normale”, ha scritto su Facebook una ragazza che ne è stata vittima nell’ambiente di Horizon Worlds, la piattaforma sviluppata e pubblicata da Meta platforms per Oculus Rift S e Oculus Quest. “La realtà virtuale aggiunge però un altro strato che rende tutto ancora più intenso. La situazione rischia di aggravarsi ulteriormente, visto che già oggi si stanno diffondendo – e un domani potrebbero diventare la normalità – le vesti e i guanti aptici che permettono di avvertire sul corpo ciò che avviene nel mondo virtuale: se l’avversario di un gioco ti ha sparato, se un amico ti sta stringendo la mano o anche se qualcuno ti sta molestando.

Gli strumenti di difesa

Come evitare che il mondo virtuale si popoli di troll e molestatori? In un memo interno, il responsabile di Meta per la creazione del metaverso Andrew Bosworth ha spiegato come sia “praticamente impossibile” moderare in maniera significativa il modo in cui le persone si comportano e parlano nei mondi virtuali. D’altra parte, si può davvero pensare di moderare miliardi di interazioni che – a differenza di quanto si verifica sui social – avvengono in tempo reale? Come si passa dalla moderazione dei contenuti alla moderazione dei comportamenti

Meta punta soprattutto su tre strumenti: l’intelligenza artificiale, che – nonostante i successi finora non travolgenti – potrebbe riconoscere comportamenti sospetti (per esempio l’avatar di un uomo che approccia in continuazione dei bambini); la registrazione di tutto ciò che ci avviene (salvato solo sul nostro dispositivo personale) per inviare ai moderatori la testimonianza diretta delle esperienze negative; la “zona di sicurezza personale” in cui sarà possibile rifugiarsi immediatamente e in qualunque momento, isolandosi da tutti gli altri utenti. 

In un post di novembre, Meta ha fatto sapere di aver investito 50 milioni di dollari nello sviluppo responsabile dei suoi prodotti in realtà virtuale e fin dai primi annunci sul metaverso ha posto una grande enfasi sulla sicurezza degli utenti. Ma se già è si è rivelato incredibilmente complesso evitare che nelle “piazze digitali” dei social network prendano il sopravvento troll e molestatori, impedire che lo stesso avvenga nel metaverso, trasformandolo in un luogo invivibile, sarà una sfida epocale.




In Germania il primo impianto al mondo di cherosene a zero emissioni per aerei

In Germania il primo impianto al mondo di cherosene a zero emissioni per aerei

È stato ufficialmente inaugurato a Werlte/Emsland in Germania il primo impianto industriale al mondo che produce cherosene a base di elettricità a emissioni zero di CO2. È gestito dall’organizzazione per la protezione del clima Atmosfair e produce carburante sintetico per aerei da acqua, CO2 ed elettricità rinnovabile (power-to-liquid = PtL).

L’impianto di Werlte, vicino al confine nord-occidentale della Germania con i Paesi Bassi, userà l’acqua e l’elettricità di quattro parchi eolici vicini per produrre idrogeno. L’idrogeno viene combinato con l’anidride carbonica per produrre il petrolio greggio, che può poi essere raffinato in carburante per jet.
La combustione del cherosene sintetico rilascia nell’atmosfera solo tanta CO2 quanta ne è stata precedentemente rimossa per produrre il carburante, rendendolo “carbon neutral”.

L’aviazione rappresenta attualmente circa il 2,5% delle emissioni mondiali di anidride carbonica. Se altri mezzi di trasporto come le auto sono sempre più elettrificati, la sfida di realizzare grandi aerei alimentati con batterie è ancora molto complessa, almeno per i voli commerciali.

Cherosene sintetico

I carburanti puliti possono aiutare a risolvere il problema. «L’era in cui si bruciano carbone, petrolio e gas naturale sta per finire – ha detto il ministro dell’ambiente tedesco, Svenja Schulze, al taglio del nastro del nuovo impianto – Allo stesso tempo, nessuno dovrebbe sacrificare il sogno di volare. Ecco perché abbiamo bisogno di alternative al cherosene convenzionale e dannoso per il clima».

Lufthansa partner del progetto

Il Gruppo Lufthansa è partner del progetto pionieristico ed è uno dei primi clienti ad acquistare questo cherosene sostenibile a base di elettricità. Finora le compagnie aeree del Gruppo Lufthansa hanno utilizzato carburanti per aviazione sostenibili di origine biogenica prodotti da scarti agricoli o oli da cucina usati. Questo perché i combustibili PtL non sono ancora stati prodotti industrialmente ma sono disponibili solo in quantità da laboratorio.

«Le compagnie aeree di Lufthansa si sono concentrate da molti anni sulla ricerca e l’uso di combustibili per aviazione sostenibile (SAF). Siamo attualmente il più grande cliente in Europa – spiega Christina Foerster, membro del comitato esecutivo Deutsche Lufthansa -. I combustibili sintetici da energie rinnovabili sono il cherosene del futuro. Consentono l’aviazione a emissioni zero di CO2. Con la sua partnership con Atmosfair, il Gruppo Lufthansa riprende il comando e fornisce una spinta alla produzione di PtL».

Il Gruppo Lufthansa acquisterà almeno 25.000 litri di carburante PtL all’anno nei prossimi cinque anni e lo metterà a disposizione dei clienti. Per utilizzare le prime quantità, Kuehne+Nagel e Lufthansa Cargo hanno concordato una partnership esclusiva. I fornitori di servizi logistici si sono impegnati per l’acquisto congiunto del carburante da Werlte.