Bilancio di sostenibilità, solo l’1,76% delle aziende italiane lo presenta
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AGlasgow la Cop26 discute di come limitare a 1,5 gradi l’innalzamento della temperatura del globo, in Italia – però – la sostenibilità «è ancora un miraggio», e le imprese sono lontane dall’adottare «politiche realmente sostenibili e in grado di influire sull’ambiente e sul benessere della collettività».
Lo rivela la ricerca “Sostenibilità alla sbarra”, report realizzato da ConsumerLab – centro studi specializzato in sostenibilità – e dedicato ad analizzare lo stato di avanzamento della trasformazione sostenibile delle imprese e le influenze che orientano i consumi.
Dallo studio emerge come in Italia solo l’1,76% delle piccole imprese con più di 20 addetti pubblichi un Bilancio di Sostenibilità, percentuale che crolla allo 0,63% per le aziende con meno di 10 dipendenti. Analizzando le grandi realtà, si scopre che solo il 28,2% delle 1.915 principali imprese italiane presenta un bilancio: di queste le prime 345 banche operanti in Italia si fermano al 18,2%; delle 76 Società di Assicurazione il 27,6% lo presenta. Tutto ciò nonostante quasi una pubblicità su cinque diffusa nel nostro paese (il 19% del totale) inserisca la parola sostenibilità nei messaggi diretti al pubblico: di queste quasi la metà (il 46%) fa riferimento al tema della sostenibilità ambientale.
«La parola Sostenibilità è sulla bocca di tutti ma pochi sanno veramente in cosa consista – afferma il presidente di ConsumerLab, Francesco Tamburella – Le imprese cercano di vestirsi in ogni modo di Sostenibilità come se fosse una nuova certificazione di qualità, ma dall’esame delle loro attività appare evidente che il vero senso di tale concetto è raramente centrato. La comunicazione resa ai cittadini/consumatori è così fuorviante e ingannevole, perché non ha riscontro in maniera concreta e dimostrata nella realtà».
Non meraviglia dunque che la maggioranza dei cittadini italiani sia scettica sul reale impegno delle imprese per la trasformazione sostenibile: circa due terzi del campione intervistato da Consumerlab non ritiene sincera e trasparente la comunicazione delle Imprese e la relazione che intrattengono con il servizio clienti, e vorrebbe un maggior impegno sul tema della sostenibilità da parte delle imprese.
«I cittadini consumatori sentono una crescente esigenza di avere informazioni trasparenti e puntuali, oltre la qualità e il prezzo, sulla capacità di ogni impresa di creare valore nel tempo, non solo per se stessa – analizza Tamburella – Tutte le imprese, dalle grandi alle piccole, devono uniformarsi in maniera corale all’esigenza di uno sviluppo sostenibile, organizzando il coinvolgimento degli stakeholders e dei Consumatori in testa, sfruttando l’opportunità offerta dal Pnrr che, con i 190 miliardi destinati alla trasformazione ecologica, alla lotta al cambiamento climatico e allo sviluppo della mobilità sostenibile, può rappresentare una scossa per la trasformazione sostenibile nel nostro paese».
La cultura è una bomba
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Aun certo punto della Storia, tutti hanno cominciato a parlare di soft power, i poteri dolci come etichettato nei ’90 dal politologo statunitense Joseph Nye, ve lo ricordate? Armi pacifiche di persuasione di massa nella lotta a essere dominanti nello scacchiere globale. La cultura per esempio, anche pop (Madonna e il Moma, Obama e il rap, Hollywood e Harvard, Netflix e Google). Meno guerre tradizionali, meno sangue. Meglio così? Non più. Hanno di nuovo tolto l’acqua ai fiori nei cannoni. «La cultura non è più soft, entertainment, leggerissima, è diventata hard e sharp, forte e tagliente (yoga compreso). È il cavallo di Troia dei regimi di questo millennio». E ci scappa pure il morto come nei migliori crime, ci dice Antoine Pecqueur, musicista passato al giornalismo d’inchiesta per ridisegnare la mappa dei nuovi poteri. E nel suo Atlante della cultura (add editore) dedica un capitoletto di consolazione all’America, rovesciando il luogo comune di chi conta con infografiche psichedeliche che sono abbastanza una rivelazione. Se fosse un programma tv, sarebbe una puntata di Report. In sostanza, si parla di shopping di Stato: mettete il logo di un museo della catena Moma o Louvre in qualche deserto al posto dei borsoni Balenciaga e Dior in mano alle turiste velate, coi fuochi d’artificio per l’opening al posto dei bagliori verdi dei bombardamenti chirurgici. E il giorno dopo, leggete quanto sia un segnale importante per le magnifiche sorti di un Paese in via di sviluppo. «Come leggo e sento scioccato sui media. Coi giornalisti – gente che non vede l’ora di sedersi sull’aereo per un viaggio stampa tutto incluso a roteare le palle degli occhi davanti a un souvenir grandezza cattedrale, che dica: guardate quanto siamo illuminati pure noi Arabi, o altro. Nonostante siano petrolmonarchie e le loro opere non certo pensate per il popolo. Il fine è un altro. Distogliere l’avversario».
Come funziona, che gioco è? «I numeri parlano da soli: nell’arco di vent’anni le guerre in senso tradizionale si sono dimezzate. E i paesi del Golfo hanno puntato su un settore apparentemente innocuo e strettamente simbolico per riposizionarsi sulla scena mondiale. Così acquistando il marchio Louvre, Abu Dhabi si compra un seggio al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite accanto alla Francia che, come l’Italia, ha meno potere di acquisto perché le democrazie si basano perlopiù sui soldi pubblici. Queste battaglie causano meno morti? Direttamente sì, ma indirettamente sono terribilmente violente. Se il principe ereditario Bin Salman si scopre poi essere il mandante “discreto” dell’omicidio del giornalista oppositore al regime Jamal Kasshoggi».
Quando è cominciata? «Diciamo che l’11 settembre del soft power è stato proprio il Louvre Abu Dhabi inaugurato 5 anni fa. Che ha poi innescato un’emulazione a catena, e infatti lo psicoprincipe di cui sopra (col suo faccione da joker all’entrata degli shopping mall), imbottito di Islam e manipolatore dello stock market, ha dato il via a Neom, città futura in mezzo al mar Rosso da 500 bilioni di budget. Bomba. Ma si arriva al museo di Doha by Jean Nouvel che è la risposta del ricco e minuscolo “brand” Qatar agli Emirati (il sovrano Bin Khalifa ha le mani ovunque, dagli albergoni in Costa Smeralda ai grattacieli di Milano Porta Nuova come a Londra alla AS Roma nel senso della squadra). Sarà interessante vedere la Tunisia con la Cité de la culture di Ben Ali. E l’Egitto, dove la cultura affronta una censura terrificante (guardate Patrick Zaki)».
La strategia dell’art attack ha radici profonde, dice lei, ma quanto? «Il re Sole Luigi XIV, non è stato il primo a usare le arti come armi? E non era propaganda lo slogan “viva Verdi, inno che nascondeva l’acronimo “Vittorio Emanuele Re d’Italia”, monarchia, altro che opera. Semmai la differenza adesso in questo tipo di battaglie è tra chi usa i fondi pubblici e chi ha aperto ai privati, vedi in Francia il gruppo del lusso Lvhm di Arnault o il rivale Pinault a Punta della Dogana e nella ex Bourse rifatta da Tadao Ando, mecenatismo deducibile. La “Mécénat” ha alzato il tetto al 60%, per 518 milioni di euro. Anche se restano briciole rispetto alla detrazione monster degli USA, praticamente al 100% con Trump. Meno male che è arrivato Biden ad aiutare gli intellettuali sotto pandemia con ricetta keynesiana pur se moderata (non le tasse che voleva Bernie Sanders). E sarebbe utile che si riavvicinasse all’Eurogruppo per aiutarlo a contrastare gli Orbán e gli Erdogan che hanno imbracciato le guerre culturali per propaganda ipernazionalista, contestati solo da pochi antiregime come l’OHA (rete di accademici) nelle piazze di Budapest. L’illiberalismo in franchising è poi circolato in Serbia, Macedonia, Slovenia (l’Ungheria investe più in cultura di tutta l’UE, ma è come ai tempi del fascismo con l’architettura)».
Ognuno fa il suo shopping, dice lei. «Dei Paesi del Golfo abbiamo visto come si migliorino l’immagine a colpi di museo, restando dittature, strategia 1. Strategia 2, Paesi asiatici: cultura come arma economica, tipo il K-pop per la Corea. 3, catalizzatore delle politiche identitarie, modello Europa che però ha pochi incentivi e invece Bruxelles è un mediatore essenziale. La sua entrata in campo per la direttiva sul diritto d’autore ci ha dato un buon esempio, mostrandola finalmente unita contro lo strapotere GAFAM (Google Apple Facebook Amazon Microsoft). Perché non continua su questa linea?».
E “l’Ammerica”, ex mainstream? «In effetti Hollywood arriva dopo la Nigeria e soprattutto l’India, per numero di film prodotti. Dobbiamo riposizionare: anche se questi due-quasi anni di tutti-a-casa sono stati, cinicamente, la fortuna per riacciuffarsi il potere di Netflix e social. Ma ci sono diverse realtà della cultura, il teatro, la danza, la musica extra-Spotify che dipendono dai fondi pubblici, insufficienti. E le aziende che mirano al profitto. Buoni e no».
Però il cinema di Nolly e Bollywood non è esattamente d’autore. «No, ma diamogli tempo, guardate in architettura David Adjaye, che si è fatto star in Inghilterra e ultimamente è tornato al Paese di origine con i suoi progetti stramoderni e sostenibili. L’Africa ha riposizionato la cultura al centro, le potenze ex colonialiste si trovano ad affrontare il problema della restituzione delle opere e la “Cinafrica” approfitta della tensione per intromettersi. Pechino in cambio dell’accesso alle materie prime sta costruendo strutture culturali, nella RDC (Kinshasa) o in Algeria. Speriamo che si autonomizzino, il Ghana ha iniziato. E infatti Adjaye è ritornato lì».
E da loro, in Cina, che fanno? «Multisale come missili! Perfino per distrarre dalla repressione acerrima delle minoranze Uiguri. Ma in gran parte è l’economia con realtà spaventose come il Polygroup, leader in armi e arte. E l’Occidente continua a stringere partenariati, vedi gli Istituti Confucio, perché? Interessi? Ingenuità? L’avviso: fate corsi di geopolitica accelerati a tappeto».
Noi temiamo i Gafams, e al di là? «Hanno i Batx (Badoo, Alibaba, Tencent, Xiaomi), il loro “arsenale competitivo” che va dall’e-commerce ai social, e il loro governo sta procedendo a una regolamentazione, in questo caso per una crescita di regime e non liberal».
E il dibattito che ha impazzato se la cultura sia di sinistra o destra (cantava Gaber) è ridicolo? «Un po’ ci credo anch’io. Gli artisti Usa hanno supportato Biden più di Trump. Ma anche qui dipende dai settori, il mercato dell’arte è uno dei più deregolamentati, implicato in ogni scandalo di evasione fiscale, specie fuori UE».
E Macron, la usa o ne abusa? «Aveva una bomba elettorale: il Culture Pass. Ma i giovani hanno poco da spendere, comprano quello che conoscono e il dispositivo non va verso la diversificazione. Va detto che il governo francese li ha aiutati nella crisi mostrando come i fondi pubblici valgano semplicemente perché non finiscono in gusti e consumi delle élite».
Lo vede Ministro della Cultura eh? «Sarebbe fantastico, specie dopo che ha pubblicato Capitale e Ideologia (La Nave di Teseo), che affronta la questione diseguaglianze anche in campo culturale, qui da noi ci sono insegnanti al conservatorio che prendono 1500 euro al mese e direttori d’orchestra che viaggiano dai 15 ai 20mila a concerto, esibendosi in sale sovvenzionate al 90% da fondi pubblici. Piketty denuncia “l’illusion philanthropique” dei soldi privati, che se possono essere utili rischiano pure di finire al servizio di ideologie pericolose, mentre le classi medie continuano a pagare le tasse contribuendo alla sacralizzazione dei miliardari».
E la bomba, o la bolla, Unesco? «Attualmente è in pessime condizioni economiche, peggiorate dal ritiro degli Stati Uniti. La Cina ne ha preso il controllo. Chiarisco, le missioni Unesco restano pregevoli su questioni come il patrimonio armeno nel Nagorno-Karabakh o in Afghanistan. Ma è finito a sostenere regimi, la moglie del dittatore dell’Azerbaigian è loro ambasciatrice di buona volontà! (di qui i meeting a Baku)». Idem le Capitali della cultura
«La guerra quasi mafiosa a farsi nominare per vedersi ridotti a città gentrificata è assurda. Matera che bisogno aveva di quel kitsch». Qual è il malinteso? «Guardate il suo trattamento dei giornali. Nelle pagine di cultura si leggono recensioni, interviste ma più raramente inchieste su questioni politiche economiche. Che tu sia un turista, o un giornalista, non si può più essere naïf».
Khaby Lame in uno spot ufficiale con Mark Zuckerberg per il lancio di Meta
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Di Meta, il nuovo nome della società una volta chiamata Facebook (il social continuerà a chiamarsi Facebook), si è fatto un gran parlare in questi giorni considerando anche quanto il suo ecosistema sia diffuso. Che sia una mossa per “pulirsi l’immagine” e guardare a un futuro diverso (positivo o meno, si vedrà) sicuramente l’impatto sarà grande. Per questo serviva un testimonial d’eccezione, che andasse oltre Mark Zuckerberg. Una persona come Khaby Lame.
Se il metaverso è stato lanciato con la frase “siamo all’inizio del prossimo capitolo di internet e del prossimo capitolo della nostra società” scegliere personaggi del Web già noti e con un volto non solo popolare ma anche simpatico e giocoso aiuta a togliersi l’aria da corporation cattiva dei fumetti (o almeno ci si prova).
Khaby Lame nello spot ufficiale per Meta di Zuckerberg
Nel breve filmato di circa 20″ vediamo così apparire Khaby Lame a fianco proprio di Mark Zuckerberg. Ovviamente non potevano mancare i noti sketch comici del ragazzo italiano, unendo però l’elemento Meta nel mezzo. Non si tratta di un video realizzato come goliardia. Questo è un vero e proprio elemento pubblicitario considerando che si trova sulla pagina ufficiale della nuova società su Facebook.
E così si salta da un universo all’altro per mostrare le potenzialità della nuova realtà che punterà sull’interazione virtuale ancora più spinta. Non a caso la realtà virtuale/realtà aumentata vengono mostrate come modalità di interazione e immersive (legate a doppio filo ai visori Oculus).
E se inizialmente viene mostrato uno Zuckerberg serio intento a spiegare, verso metà filmato lo si vede sorridente e vestito da schermitore (passione che pratica anche con la figlia). Il video si conclude con il classico gesto che ha reso famoso Khaby Lame mostrando la “semplicità” del concetto di Meta e del metaverso. Basterà a convincere gli utenti che utilizzano i servizi della società? Del resto stiamo parlando di Facebook, WhatsApp, Instagram, Oculus che raccolgono un fetta importante della popolazione mondiale.
Banche irlandesi, tedesche, italiane e cinesi in ritardo sui rischi climatici
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Una folta schiera di banche centrali teme che il cambiamento climatico possa scatenare la prossima crisi finanziaria. Per questo motivo, le autorità di vigilanza in Europa e nel Regno Unito stanno già iniziando a esaminare la resilienza delle banche al cambiamento climatico, valutando sia le probabili tensioni derivanti dalla transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio nei prossimi decenni, sia l’impatto di condizioni meteorologiche estreme.
“Per il momento, tuttavia, l’ansia delle autorità monetarie non si riflette nei mercati azionari o obbligazionari, che sembrano relativamente poco influenzati dal rischio climatico. Eppure nei prossimi anni il cambiamento climatico potrebbe diventare un motore chiave della performance finanziaria e un fattore importante per gli investitori che valutano le banche”, hanno sottolineato Paul Smillie, analista del credito senior, Rosalie Pinkney, analista del credito senior e Natalia Luna, analista senior investimenti tematici di Columbia Threadneedle Investments, secondo cui sussiste già un’ampia dispersione tra i leader e i ritardatari del settore.
“I rischi per gli utili non mancano neppure nel breve termine, mentre nel medio periodo è probabile che gli istituti con maggiori esposizioni legate al clima dovranno far fronte a requisiti patrimoniali più elevati, per non parlare dei rischi reputazionali. Ma non è solo una questione di rischio. Guardando avanti di qualche anno, potrebbero anche esserci opportunità per le banche che guidano il finanziamento della transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio. In effetti, si stima che gli investimenti e i finanziamenti verdi potrebbero raccogliere fino a 50 miliardi di dollari di ricavi nei prossimi 5-10 anni”, hanno valutato.
Gli esperti credono che presto non sarà più sufficiente per le banche assumere impegni di carattere generale sul clima. Sottoposti a un crescente scrutinio, gli istituti bancari dovranno migliorare le informative sul rischio climatico, dimostrare che le considerazioni sul clima si inseriscono negli standard di sottoscrizione e ridurre le loro impronte di carbonio.
Sebbene l’esposizione delle banche ai combustibili fossili sia relativamente modesta, i settori ad alta intensità di carbonio rappresentano a oggi meno del 10% dell’esposizione creditizia degli istituti europei, secondo i calcoli della Banca centrale europea una crisi climatica potrebbe incrementare le perdite del sistema bancario fino al 60%, con ricadute significative sugli utili, dato che i combustibili fossili rappresentano il 10%-15% dei ricavi generati a livello globale dall’attività bancaria all’ingrosso.
Il rischio reputazionale è già in aumento. Basta pensare alle le critiche rivolte a JP Morgan Chase nel 2020 per i suoi prestiti al settore energetico. In un rapporto compilato da una collaborazione di organizzazioni non governative (ONG), tra cui Rainforest Action Network e BankTrack, si è scoperto che la banca statunitense è il maggior finanziatore di combustibili fossili a livello globale. Vista la crescente sensibilità del pubblico al problema del cambiamento climatico, il possibile danno alla reputazione non dovrebbe essere ignorato.
Le autorità di vigilanza bancaria stanno cominciando a imporre una serie di cambiamenti, specialmente nell’Ue e nel Regno Unito. Le banche centrali francese e olandese hanno eseguito stress test climatici nel 2020, la Bank of England l’ha fatto nel 2021 e la Bce prevede di farlo nel 2022. Guardando al 2025, l’Autorità bancaria europea (ABE) intende introdurre una revisione dei requisiti patrimoniali ESG, che differenzierà il trattamento patrimoniale degli attivi in base ai fattori ambientali e sociali.
Nel Regno Unito, le banche dovranno rispettare gli standard della Task-Force for Climate-Related Financial Disclosures entro il 2025, fornendo informazioni standardizzate sui loro rischi climatici. Anche negli Stati Uniti, chiaramente, un inasprimento della regolamentazione è dietro l’angolo. Nel novembre 2020 la Federal Reserve ha identificato per la prima volta nel cambiamento climatico un rischio per la stabilità finanziaria. Inoltre, il presidente Biden ha dichiarato di considerare il cambiamento climatico una priorità e prevede di richiedere alle società quotate di divulgare informazioni sui rischi finanziari legati al clima.
Tuttavia finora vi sono poche indicazioni che le banche stiano riducendo i prestiti legati ai combustibili fossili, con l’importante eccezione del carbone. “Gli investitori potrebbero, però, iniziare presto a distinguere tra leader e ritardatari, grazie ai migliori dati estratti dalle informative obbligatorie. Inoltre, l’engagement degli azionisti e l’attivismo delle ONG potrebbero ripercuotersi in tempi brevi sulle valutazioni delle azioni bancarie. Abbiamo condotto un esercizio di engagement con più di 50 banche a livello globale, ponendo domande sulla strategia climatica e sulla gestione del rischio climatico e facendo seguito con una serie di incontri”, affermano gli analisti di Columbia Threadneedle Investments che hanno riscontrato così l’emergere di alcune chiare tendenze.
In particolare, secondo gli analisti di Columbia Threadneedle Investments, alcune banche britanniche, olandesi e svizzere si distinguono in positivo. Le banche nordiche, francesi, spagnole e giapponesi sono leggermente indietro, mentre quelle irlandesi, tedesche, italiane e cinesi sono in ritardo. Anche per Citi il deterioramento delle condizioni climatiche può rappresentare un rischio per la qualità degli asset delle banche e per il capitale, “ma vorremmo anche evidenziare le potenziali opportunità derivanti dalla consulenza ai clienti e dall’emissione di finanziamenti verdi/sostenibili. Crediamo che le banche più orientate alle imprese potrebbero generare ricavi legati all’ESG, quindi quelle francesi e svizzere, con Deutsche Bank e Skandinaviska Enskilda Banken che hanno già indicato opportunità in questa direzione, il che può mitigare l’impatto del riequilibrio dei prestiti”.
Columbia Threadneedle Investments ha iniziato a tenere conto dell’esposizione delle banche ai rischi climatici nella nostra ricerca. Il cambiamento climatico non incide ancora sugli utili o sui requisiti patrimoniali delle banche, ma potrebbe farlo già tra due o cinque anni. Dato che nella nostra valutazione delle aziende adottiamo un orizzonte prospettico di due anni, incorporiamo questa dimensione nella nostra ricerca obbligazionaria e assegniamo i relativi rating alle banche. Queste valutazioni cominciano a influenzare la costruzione del portafoglio”, avvertono a Columbia Threadneedle Investments. “A nostro avviso, non passerà molto tempo prima che gli investitori inizino a operare una distinzione tra leader e ritardatari. Ciò creerà un’opportunità per gli investitori attivi, premiando al contempo le banche che hanno agito tempestivamente per affrontare il cambiamento climatico con un costo competitivo del capitale”.
Le strategie dei colossi del digitale per influenzare le politiche dell’Unione europea
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Le multinazionali della Rete spendono 97 milioni di euro l’anno per fare pressione sulle istituzioni europee e influenzare le politiche digitali. Si tratta del settore che spende di più per attività di lobbying nell’Unione europea, più delle industrie farmaceutiche e fossili. È quanto riportato nel report “The lobby network. Big Tech’s web of influence in the Eu” realizzato dall’organizzazione Corporate europe observatory, che traccia un profilo degli attori coinvolti e delle relazioni opache tra aziende, società di consulenza, think tank e altre organizzazioni finanziate dai colossi digitali, spesso assenti dal registro europeo per la trasparenza.
Come ha raccontato ad Altreconomia Margarida Silva, ricercatrice di Corporate europe observatory e coautrice dello studio, “abbiamo contato 612 aziende e organizzazioni di categoria coinvolte nell’azione di lobbying del settore ma, da sole, le prime dieci industrie tech -Google, Facebook, Microsoft, Apple, Huawei, Amazon, Intel, Qualcomm, Ibm e Vodafone- spendono un terzo del budget totale (32,7 milioni di euro)”.
Anche chiamate “Gafam” -dalle iniziali di Google, Apple, Facebook e Microsoft-le “Big Tech” sono poche e dominano il mercato. Da quando nel 2019 la nuova Commissione europea ha deciso di proporre normative più stringenti per il settore digitale, la spesa per lobbying delle aziende tech ha cominciato a crescere, parallelamente alla loro influenza politica. Da allora, dei 271 incontri della Commissione per discutere delle politiche digitali, 202 sono stati in presenza delle industrie tech, mentre solo 52 con Ong, sindacati e associazioni per i consumatori. “C’è un’enorme sproporzione nell’accesso alle attività di lobbying tra la società civile e l’industria digitale”, si legge nello studio.
La normativa europea attualmente nel mirino delle Big Tech è il pacchetto Digital services act (Dsa), proposto dalla Commissione nel dicembre 2020, che tenta di arginare le pratiche di concorrenza sleale, di vendita di dati privati a fini di profitto, di pubblicità mirata online e sistemi di raccomandazione. “Il Dsa package è un’opportunità per regolamentare una serie di problemi che stanno assumendo sempre più importanza da un decennio a questa parte”, sostiene Silva. “I rischi cui siamo esposti in quanto cittadini riguardano da un lato un modello di business ingiusto, basato sullo sfruttamento per profitto dei dati degli utenti, e dall’altro una situazione di tipo quasi monopolistico, dove i colossi dettano le regole del mercato: una combinazione tossica”.
Dalla disinformazione alla violazione della privacy, la necessità di regolamentare il mercato digitale per proteggere utenti e piccole imprese è emersa soprattutto negli ultimi anni. “Lo scandalo Facebook-Cambridge Analytica è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso”, afferma Silva riferendosi a quando nel 2018 venne rivelato che i dati di 87 milioni di utenti Facebook erano stati venduti a loro insaputa alla società di consulenza Cambridge Analytica per scopi di propaganda politica legati alla Brexit, alle elezioni statunitensi del 2016 e a quelle messicane del 2018.
L’azione di lobbying delle Big Tech si concentra in particolare sul Digital market act (Dma), la parte del pacchetto Dsa che punta a sviluppare concrete norme di comportamento -una lista di obblighi e divieti- dirette alle piattaforme più grandi, le cosiddette “gatekeeper”, delle quali faranno parte sicuramente Google, Amazon, Facebook e Apple. Tra le misure, ci sarebbe il divieto di trattamento preferenziale dei loro prodotti e servizi a scapito dei concorrenti (pratica per la quale Google è già stata multata tre volte dalla Commissione europea) e l’obbligo di consentire agli utenti di scegliere di non combinare i propri dati personali tra i vari servizi. Il Dma obbligherebbe inoltre i gatekeeper a permettere l’interoperabilità, dando quindi la possibilità alle piattaforme rivali di interagire con il loro sistema operativo.
Chi fa pressione in Unione europea per conto delle Big Tech? In che modalità e incontri? Queste informazioni spesso non sono accessibili secondo quanto raccolto da Corporate europe observatory e LobbyControl, che denunciano la mancanza di trasparenza nelle azioni di lobbying, e un utilizzo molto arbitrario da parte delle aziende del registro europeo per la trasparenza, in cui sarebbero chiamate a segnalare le organizzazioni da loro finanziate per influenzare le politiche e il budget connesso a queste attività.
I 97 milioni di euro potrebbero essere solo la punta dell’iceberg perché, come spiega Silva, “ci sono scarsi controlli sul registro per la trasparenza”. Inoltre, secondo un regolamento introdotto due anni fa gli eurodeputati dovrebbero dichiarare gli incontri con i lobbisti ma, racconta l’autrice del report, “questa regola non è quasi mai rispettata”.
Ancora meno trasparenti sono le informazioni relative agli incontri del Consiglio, definito spesso la “scatola nera” della politica europea: “per i cittadini è molto difficile scoprire che cosa avviene negli incontri a porte chiuse del Consiglio europeo e quali organizzazioni di lobbying sono presenti”, afferma Silva. Per scoprire qualcosa in più, i ricercatori del rapporto hanno inviato delle richieste di accesso agli atti a diversi governi europei: solo quello estone ha risposto, rivelando che su sette incontri organizzati per discutere del pacchetto Dsa, sei erano in presenza di aziende di Big Tech (Google, Amazon, Facebook e Apple), ma non era disponibile alcun verbale.
Non è tutto. I colossi digitali si servono anche di organizzazioni terze per indirizzare la politica digitale europea: società di consulenza, studi legali e think tank sono usati come veri e propri attori di lobbying, pagati dalle aziende per influenzare i decisori politici con pareri di esperti, report, conferenze, incontri. “In questi eventi pubblici e studi, la sponsorizzazione delle Big Tech spesso non compare, facendo passare per neutrali le organizzazioni finanziate per riflettere gli interessi di una determinata azienda”, spiega Silva. È soprattutto attraverso questi attori terzi, raramente contati nel registro di trasparenza, che le aziende cercano di diffondere la loro “narrazione politica”.
Nell’ottobre 2020, ad esempio, il think tank Ecipe ha pubblicato uno studio interamente finanziato da Google -e ampiamente criticato da diversi accademici- in cui si sostiene che l’implementazione del Digital services act (in quel momento non ancora reso pubblico dalla Commissione europea) comporterebbe una perdita del Prodotto interno lordo europeo di circa 85 miliardi di euro. L’obiettivo è diffondere l’idea che la normativa digitale europea provocherà un danno alla popolazione: la stessa Google, in un documento trapelato nell’ottobre 2020 ha scritto che una delle sue strategie di lobbying mirate a “resettare la narrazione politica” è focalizzarsi sul fatto che la “Dsa minaccia gli interessi di consumatori e imprese”.
Tra le altre strategie usate dalle Big Tech e individuate nel report, c’è quella di concentrarsi su aspetti specifici della normativa per sviare l’attenzione dalle politiche più vaste e far credere che una maggiore regolamentazione sia un ostacolo per l’innovazione e possa favorire l’ascesa delle aziende cinesi a scapito di un’Europa destinata alla decadenza. “Di innovativo c’è ben poco nelle strategie delle Big Tech: sono analoghe a quelle impiegate da anni dalle aziende fossili, e precedentemente usate dalle industrie di tabacco -conclude Silva- purtroppo però possono influire fortemente sulla politica, soprattutto se i prodotti delle attività di lobbying vengono ingiustamente presentati come informazioni e pareri imparziali”.