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Faro Sec su Dws (Deutsche Bank): indagine sulle metriche Esg del gruppo

Faro Sec su Dws (Deutsche Bank): indagine sulle metriche Esg del gruppo

Non è tutto oro quel che è green. Potrebbe scoprirlo a sue spese Dws Group, la divisione di asset management di Deutsche Bank, sotto osservazione da parte della Sec dopo che l’ex responsabile della sostenibilità, Fixler, ha accusato il gruppo ai aver sovrastimato le metriche della sua strategia di investimento nella gestione degli asset Esg. L’inchiesta del regulator a stelle e strisce è ancora allo stadio preliminare, ma ciò non permette a Dws di evitare il tonfo alla borsa di Francoforte: quasi il -13,5% a poco più di 36 euro per azione (41,72 alla chiusura di ieri).

Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, Dws si sarebbe trovata in difficoltà di fronte alla gestione delle strategie Esg, scegliendo pertanto di ritoccare la situazione, per renderla più rosea di quanto in realtà non fosse. Una situazione complessa anche per Deutsche Bank, che è azionista di maggioranza di Dws, e che in borsa sta perdendo oltre il 2,3% di capitalizzazione.

L’inchiesta sarebbe una conferma dell’attenzione sempre maggiore che le Authority di tutto il mondo stanno riservando a quelle società di gestione che offrono prodotti con impatti tangibili sul piano Esg. Già a inizio anno, infatti, la Sec aveva istituito una task force per sorvegliare eventuali affermazioni fuorvianti in tema di sostenibilità attribuibili a consulenti di investimento e società pubbliche. 

Per Dws la tematica Esg svolge un ruolo cruciale. Nel rapporto annuale 2020 pubblicato a marzo è stato evidenziato che più della metà dei 900 miliardi di dollari di asset in gestione sono stati investiti utilizzando un sistema di classificazione delle società sulla base di metriche Esg, anche se una valutazione interna effettuata un mese prima affermava che solo una frazione più esigua della piattaforma aveva applicato le procedure di sostenibilità. 

Dal canto suo, l’asset manager tedesco ha confermato il resoconto annuale, ribadendo che la revisione condotta da una società di terze parti non ha riscontrato alcuna anomalia che supporti le accuse mosse da Fixler. “Gli standard Esg”, ha ribadito un portavoce della casa d’investimenti, “sono in continua evoluzione, e Dws è stata vista dal mercato come più prudente rispetto alla maggior parte dei suoi concorrenti”.




Come si consuma il digitale?

Come si consuma il digitale?

Un maggior utilizzo dello smartphone

Stando ai dati raccolti dal Global Web Index, una società incaricata di analizzare il comportamento dei consumatori digitali, il 50,1 % del tempo passato online è trascorso connessi tramite lo smartphone. Quasi il 92 % degli utenti si connette ad internet così, senza tuttavia dimenticare i computer.

Infatti, la stima delle connessioni ad internet è così ripartita:

  • 53,3 % via smartphone
  • 44 % tramite computer fissi e portatili
  • 2,7 % con tablet
  • 0,07 % con altri dispositivi (soprattutto le console)

E ciò nonostante, la navigazione online non rappresenta la maggior parte del tempo trascorso sul telefono. Infatti i dati mostrano che le app sono più usate e costituiscono il 91 % del tempo speso con lo smartphone. 

Viste le varie misure di confinamento e restrizioni messe in atto nel mondo a causa della pandemia, il nostro uso delle applicazioni da mobile è fortemente aumentato.  Che fosse per tenersi in contatto con i propri cari, per divertirsi, per fare sport, per praticare un hobby o persino per trovare l’amore, le app sono divenute un tassello indispensabile della nostra vita. Tra i tipi di app più utilizzate troviamo le app di:

  • Messaggistica con l’89 % degli utenti le usa
  • Acquisti online di cui ne fa uso ben il 66 % delle persone
  • Intrattenimento o Video streaming con il 65 % degli utilizzatori
  • Musica che sono utilizzate dal 52 % dei consumatori
  • Gioco con il 47 %
  • Bancarie che sono diffuse tra il 35 % degli utenti

Tutto ciò non fa che rinforzare e sottolineare l’importanza dello smartphone nella nostra vita quotidiana e nelle nostre abitudini di navigazione su internet.

Lo sapevate?

Più di 5 miliardi di persone nel mondo possiedono e usano uno smartphone ogni giorno.

Forte crescita dei social media

Il 2020 sarà stato un anno incredibilmente fruttuoso per i social. Infatti, con la chiusura delle frontiere ed i diversi lockdown, l’uso dei vari social media è esploso, raggiungendo picchi e percentuali mai viste prime. Stando ad un recente studio sul tema, la metà delle 3,7 ore passate ogni giorno al telefono sono sui social.

Secondo Global Web Index, passiamo circa 2 ore e mezza al giorno sui social media, anche se tale cifra varia da paese a paese. In termini di quali social, Facebook rimane largamente in avanti, con oltre 2 miliardi di utilizzatori attivi al mese. 

Questi numeri pongono l’azienda americana di Zuckerberg ben davanti ai concorrenti come:

  • WhatsApp con 1,6 miliardi di utenti attivi al mese (e di proprietà di FB)
  • Facebook Messenger con 1,3 miliardi  di profili attivi
  • WeChat con 1,1 miliardi di utenti
  • Instagram che ha 1 miliardo di utilizzatori
  • TikTok che viene utilizzato da 800 milioni di persone
  • Snapchat con 382 milioni
  • Twitter con 340 milioni

C’è da rimarcare inoltre che WhatsApp, FB Messenger e Instagram sono tutte parte dell’ecosistema Facebook e dunque proprietà della società americana. In poche parole, 3 su 4 dei maggiori competitor di FB sono proprietà di Facebook stessa. Ciò le dà un potere ed influenza immensa nel mercato dei social. In più, l’altro principale competitor WeChat (con 1,1 miliardi di utenti) è un’app basata esclusivamente su un bacino di utenza che parla cinese.

L’impatto dei videogiochi

Il settore dei videogiochi è ugualmente esploso nel 2020. Più di 4 persone su 5 di età compresa tra i 16 e i 65 anni gioca regolarmente e, per il 69 %, il passatempo videoludico è sul telefono. Nel 2020, le persone hanno speso più di 65 miliardi di dollari per scaricare app o pagare per acquisti in-gioco.

Il 70 % delle spese totali dei consumatori per app su mobile riguarda i videogiochi. Non sono in ogni caso da meno le console: in media un utente passa 70 minuti sullo smartphone ma oltre 2 ore alla console. Tra i paesi con più utilizzatori di videogiochi figurano Thailandia, Filippine e Arabia Saudita. Il settore è in continua crescita con un 150 miliardi di dollari spesi nei videogiochi nel 2020.

L’espansione dello shopping online

Un’altra tendenza del 2020 degna di nota è l’esplosione dello shopping online. Fortemente favorito dalle chiusure dei negozi, lo shopping è cresciuta in maniera esponenziale nel corso del 2020. Si stima che una persona su tre faccia acquisti su internet ogni mese.

Gli acquisti fatti online riguardano soprattutto:

  1. L’abbigliamento con una spesa complessiva di 620 miliardi di dollari
  2. L’elettronica che ha visto una spesa di 456 miliardi
  3. L’arredamento con 316 miliardi
  4. Il cibo con 168 miliardi

Secondo la ricerca di Global Web Index, l’e-commerce conoscerebbe uno sviluppo trasversale nel mondo. Infatti i maggiori fautori dell’e-commerce vengono da Polonia, Indonesia e Thailandia.

Chi utilizza di più il digitale

Digitale e parità: gli uomini più connessi delle donne

In base ai numeri dell’UIT (Unione Internazionale delle Telecomunicazioni, in inglese TUI), gli uomini si connettono di più delle donne, soprattutto nei social. Questo divario è particolarmente presente nel sud-est asiatico.

Dal rapporto GSMA Intelligence traspare che la metà delle donne in India non sa che internet è disponibile ed accessibile da telefono. Secondo le Nazioni Unite, la disparità numerica tra uomini e donne si spiega attraverso “norme e pratiche sociali profondamente radicate”.

Chi sono le persone “non connesse”?

Nel 2021, il 40 % della popolazione mondiale non ha accesso ad Internet per circa poco più di 3 miliardi di persone. Di queste 3 miliardi di persone “non connesse”, il 31 % vive nel sud-est Asiatico e il 27 % in Africa.

Affinché il divario numerico tra le popolazioni non si allarghi ulteriormente, le Nazioni Unite richiedono a gran voce una maggior accessibilità ad internet per le donne.

Quali sono i paesi dove si consuma di più l’internet?

Da molti anni a questa parte, e la tendenza si è solo che accentuata nel 2020, i dati mostrano che il grosso del traffico internet si sposta verso l’Asia. L’importanza di certe app e siti cinesi conferma questo trend.

Non a caso, nella classifica dei 20 siti più visitati al mondo, ritroviamo 5 siti di e-commerce cinesi e il motore di ricerca Baidu.

Non sorprende infatti che la Cina abbia il maggior numero di utenti internet al mondo con oltre 700 milioni di utilizzatori, ovvero il 53 % della percentuale globale. Segue l’India con 390 milioni e gli USA con 240 milioni.

Quali sono le sfide del digitale?

Qual è l’impatto delle grandi big GAFAM?

Il termine GAFAM designa le 5 grandi multinazionali americane che dominano il mercato del digitale. Queste 5 grandi imprese sono:

  1. Google
  2. Apple
  3. Facebook
  4. Amazon
  5. Microsoft

Queste imprese sono riuscite a imporre un vero e proprio controllo sull’economia mondiale grazie all’importanza dei loro servizi e dei profitti che ne derivano. In effetti, eccetto Facebook, la capitalizzazione finanziaria di ciascuna impresa supera i 1000 miliardi di dollari.

Malgrado però tutta la loro potenza, l’influenza delle GAFAM è sempre più criticata. Infatti, diversi paesi, tra cui la Francia e l’Italia, hanno protestato contro le pratiche di ottimizzazione fiscale usate da queste società.

Una “web tax” o “tassa GAFAM” venne creata e approvata nel 2013 ma venne rinviata e poi cancellata unilateralmente da Renzi nel 2014. Reintrodotta e rinviata in seguito, è entrata in vigore dal 1° gennaio 2021 imponendo un’aliquota del 3 % sui ricavi di società con un fatturato globale superiore a 750 milioni di euro e incassi online in Italia di 5,5 milioni.

Inoltre, il consumo di energia da parte di queste grandi compagnie è elevato e sembra crescere sempre più. C’è bisogno di un uso sempre più efficiente delle risorse ma soprattutto di attingere a fonti di energia rinnovabile, per permettere una crescita sostenibile nel lungo termine.

Digitale e i timori sulla protezione dei dati

Quando si parla delle sfide poste al digitale, si pensa spesso alla protezione dei nostri dati personali. Secondo Global Web Index, il 64 % degli utenti internet sono preoccupati riguardo alla propria privacy quando navigano.

Dal 25 maggio 2018 è operativo in Europa il GDPR (General Data Protection Regulation) che protegge i dati personali delle persone fisiche in rete. Il GDPR nasce come regolamento con precisi scopi: offrire un’armonizzazione e una maggior semplicità nella gestione del trattamento dei dati personali offrendo al contempo una protezione efficace ai privati cittadini. Il regolamento punta a regolare il trasferimento di dati personali dalla UE verso le altre parti del mondo ed è consultabile qui.

Protegge le informazioni personali di miliardi di utenti internet è dunque la sfida principale del mondo digitale: come continuare a garantire fruibilità e privacy insieme?




Dagli X-Men agli Eternals: com’è cambiata l’inclusività nel mondo dei supereroi

Dagli X-Men agli Eternals: com'è cambiata l'inclusività nel mondo dei supereroi

Gli Eternals sono atterrati al cinema con le loro origini cosmiche, i poteri semi-divini e soprattutto con un cast di supereroi mai così ampio e inclusivo. È il film delle “prime volte” per il Marvel Cinematic Universe: il primo protagonista apertamente omosessuale, la prima protagonista sorda (interpretata da un’attrice sorda, Lauren Ridloff), la prima supereroina dodicenne, e poi tanti corpi, etnie e colori della pelle diversi.

di Chris Claremont
Giant Size X-Men 1

Chi è rimasto stupito dalla diversità degli Eterni non ricorda evidentemente la storia dei fumetti. Nel 1975, gli appassionati di supereroi assistettero con occhi sgranati al rilancio degli X-Men, una testata che aveva perso quasi tutto il proprio appeal nel corso degli anni. Chris Claremont introdusse ai lettori un team quasi del tutto nuovo, e composto da un mutante russo (Colosso), una donna nera dall’Africa (Tempesta), un canadese dal pessimo temperamento e dalla statura decisamente bassa (Wolverine), un tedesco cattolico dall’aspetto diabolico (Nightcrawler) e un nerboruto discendente dei nativi americani (Proudstar) – cui si sarebbe presto aggiunta una tredicenne ebrea (Kitty Pryde).

Giant-Size X-Men 1 fu per il mondo del fumetto quel che The Eternals è oggi per il Marvel Cinematic Universe: un nuovo inizio, per molti spiazzante, con un cast di personaggi costruito a tavolino per essere il più diverso possibile. Allora come oggi, le polemiche da una certa parte dell’opinione pubblica non mancarono. Ma nel corso dei numeri e degli anni, quei personaggi riuscirono a conquistare un posto nel cuore dei lettori – grazie all’energetica immaginazione di Chris Claremont, certo, ma anche grazie all’eterogeneità rispetto a quanto si fosse mai visto prima.

All’epoca, Claremont non fece altro che replicare e amplificare lo spirito delle origini degli X-Men. Lo spirito di quei primi numeri del 1963 in cui Stan Lee e Jack Kirby inventarono un gruppo di giovani supereroi emarginati per la loro diversità, guidati da un leader sulla sedia a rotelle. L’inclusività è presente nel mondo dei supereroi da decenni, anche se ha dovuto compiere una lunga strada prima di diventare matura e onesta – un percorso che non si può ancora definire completo.

Wonder Woman segretaria della JSA negli anni '40
Wonder Woman, segretaria della JSA negli anni ’40

I supereroi nacquero per solleticare le fantasie di potere dei giovani lettori. Nel 1945, Capitan America celebrava la vittoria sui nazisti, Superman sollevava automobili e Wonder Woman… si univa alla Justice Society of America in qualità di segretaria. Solo negli anni ’60, l’intuizione dei supereroi con superproblemi aiutò l’industria dei comic a stelle e strisce a superare il vizio di fondo del genere, ovvero quello di rispondere (in modo più o meno letterale) all’ideale nietzschiano di superuomo, ben poco compatibile con un’idea di diversità. Il primo supereroe inclusivo, in fondo, fu Spider-Man, alias Peter Parker: un ragazzo timido, con gli occhiali, bullizzato dai compagni di classe sin dalla primissima pagina del suo albo introduttivo – anche se qui si continuava a parlare di inclusività selettiva, mirata verso un pubblico di lettori giovani, maschi, bianchi

L’esempio di Spider-Man però può essere importante per far comprendere universalmente l’importanza della rappresentazione. Può servire a esemplificare quanto sia importante, per un giovane lettore, trovare per la prima volta un personaggio in cui identificarsi, e non un semidio indistruttibile e senza preoccupazioni, o uno stereotipo lontano dalla propria esperienza di vita. Può aiutare a dissipare le nebulose critiche di chi fa spallucce dinanzi all’esigenza di introdurre nuovi colori di pelle, etnie, orientamenti sessuali (andando ben oltre al vecchio Peter Parker, che oggi di inclusivo ha ben poco) per raggiungere nuovi lettori, e offrire loro personaggi e storie in cui riconoscersi, come all’epoca fece Spider-Man per decine di migliaia di giovani lettori nerd appassionati di scienze.   

Green Lantern 54
Green Lantern 54 (1994)

Nonostante i passi avanti compiuti dagli X-Men negli anni ‘60 prima e ’70 poi, la diversità restò a lungo tempo confinata a protagonisti maschi bianchiPochi personaggi femminili o di colore riuscirono a conquistare uno spazio rilevante sulle pagine dei fumetti: Tempesta degli X-Men, Pantera Nera, John Stewart. Gli anni ‘90 furono un buco nero di misoginia e stereotipizzazione per tutti i supereroi, che diventarono ipertrofici, violenti giustizieri. A questi anni risale il famigerato topos della “donna nel frigorifero” – un termine coniato dalla scrittrice Gail Simone e che si riferisce a una storia in cui la moglie di Lanterna Verde viene uccisa e ritrovata dall’eroe, fatta a pezzi, e conservata nel frigorifero di casa: in altre parole, l’utilizzo seriale di personaggi femminili esclusivamente come vittime sacrificali sull’altare della motivazione dei supereroi maschi.

Per non parlare della rappresentazione LGBTQ+ nei fumetti: basti pensare che sino al 1989 la Comics Code Authority, l’autorità di autovigilanza “etica” cui aderivano gli editori di fumetti americani, proibiva espressamente qualsiasi forma di raffigurazione alternativa della sessualità nei comic book recanti il proprio bollino di approvazione. Il supereroe Northstart, velocista canadese membro del gruppo Alpha Flight, dovette attendere sino al 1992 per poter fare coming out; in precedenza, gli sceneggiatori potevano solo accennare indirettamente alla sua sessualità. E bisognerà attendere sino al 2012 perché lo stesso Northstar diventi il protagonista del primo matrimonio gay in un albo di supereroi.

Son of KalEl il figlio di Superman  bisex
Son of Kal-El, il figlio di Superman è bisex

L’ultimo decennio è stato fondamentale per la storia dell’inclusività nei fumetti di supereroi. Tra le notizie più recenti a suscitare scalpore nei media vi è la conferma di Dc Comics che Jon Kent, figlio di Superman nella serie Son of Kal-El, è apertamente bisessuale; mentre Batman è reduce da un incontro con Midnighter, supereroe molto simile al Cavaliere Oscuro ma gay e sposato con Apollo (a sua volta una versione più radicale di Superman). Nel mondo Marvel Comics, Kamala Khan è dal 2014 una campionessa della rappresentazione musulmana nei fumetti di supereroi, e uno dei migliori esempi di come si possa realizzare un cast di personaggi inclusivi in grado di conquistare i giovani lettori. Daredevil resta il supereroe cieco più famoso, mentre Maya Lopez, aka Echo, è la sua controparte sorda. Cassandra Cain, alias Batgirl, è una giovane cresciuta senza alcun contatto con la società, muta, analfabeta e con gravi carenze sociali.  

Nonostante tutti i passi avanti compiuti nella rappresentazione dei personaggi, il problema dell’inclusività ha una radice meno visibile. Ovvero, quella degli autori che lavorano dietro le tavole di ogni albo. Stando a statistiche elaborate dall’autore e storico Tim Hanley, nel 2020 la percentuale di autrici donne e non binariə oscillava tra il 20% e il 30% tra gli albi Marvel e Dc Comics. A ottobre, la Dc Comics ha annunciato il Milestone Initiative Development Program per identificare e supportare artisti emergenti neri e di etnie diverse. In tale occasione, però, sono emerse delle statistiche disarmanti per l’industria: ad oggi, gli autori neri rappresentano il 4,9% degli sceneggiatori e il 3,4% degli artisti; per gli asiatici le percentuali si attestano al 4,2% e all’8,4% e per gli autori ispanici e dall’America Latina si sale al 7,1% e all’11,7%.

Sorge, allora, una domanda cui il settore dei comic book dovrà necessariamente trovare risposta: quanto sono sinceri, ed effettivi, i passi avanti nella rappresentazione dei supereroi, se l’inclusività resta relegata alle tavole disegnate ma non a chi le firma? 




Facebook (di nuovo) in crisi: atto terzo

Facebook (di nuovo) in crisi: atto terzo

Non è stata una settimana facile, per Mark Zuckerberg e per la sua creatura digitale, quella iniziata con le parole di Frances Haugen, la ex manager di Facebook che ha consegnato una ricerca interna dell’azienda alle autorità del Congresso USA e al Wall Street Journal, ricerca che illustra il modo in cui il social network gestirebbe i contenuti online e i rischi per gli utenti, a cui poi è seguito anche il down più lungo della storia dei Social, durato circa 6 ore, e che ha coinvolto Facebook, Messenger e Instagram in tutto il mondo, e anche gli stessi dipendenti di Menlo Park, con telefoni aziendali e badge fuori uso.

Facebook non è certamente nuova a crisi reputazionali di ampia portata: è stata a più riprese coinvolta in scandali che hanno avuto risonanza mediatica mondiale, a partire da quello – forse il più noto di tutti – di Cambridge Analytica, fino alle influenze russe sulle elezioni 2016 in USA, evento che ha visto l’azienda di Menlo Park essere lo strumento (inconsapevole?) di manipolazione dell’infosfera da parte dell’intelligence di Mosca. Una crisi strisciante, quella che coinvolge l’azienda, che ormai, per la palese trascuratezza dei suoi vertici, si è fatta cronica, e oggi, nel suo terzo atto, vede esplodere la somma di tutte le criticità accumulate negli ultimi anni di gestione.

Il colosso americano vanta circa 2,8 miliardi di utenti mensili attivi (1,84 miliardi di utenti attivi ogni giorno), e si riconferma come la piattaforma social preferita dagli utenti in rete raggiungendo il 59% dei fruitori di internet. Fin dalla sua creazione, Facebook ha dominato il mondo dei social media, nonostante diversi competitor come Instagram (poi acquisito da Facebook), Snapchat o Twitter, e più recentemente TikTok, sia siano fatti strada con buoni risultati. Facebook non manca certamente di meriti: aver dato l’opportunità a persone di ritrovarsi sulla rete, rendere possibile e semplice il contatto tra utenti lontani geograficamente, specie nei Paesi più remoti, e rafforzare l’idea di community virtuale, riuscendo ad evolversi nel corso degli anni grazie alla capacità di intercettare bisogni reali degli utenti online. Il successo di Facebook, soprattutto se confrontato con alcuni suoi predecessori come MySpace, è infatti dovuto alla sua capacità di rinnovarsi costantemente nel rispetto delle più attuali tendenze, così da riflettere le esigenze di un mercato in continua evoluzione. Per rendere il Social davvero accessibile a chiunque, Facebook si sta prodigando in nuovi sforzi, come il progetto – voluto da Mark Zukerberg in persona, e partito già nel 2015 – per rendere la piattaforma accessibile in formato light ai Paesi in Via di Sviluppo anche in caso di collegamento precario, e per la creazione di un Web semplificato ed economico per tutti, al quale accedere direttamente attraverso il proprio profilo Facebook.

Il “Terzo round”

Ora, riavvolgiamo per un attimo il nastro, ed esaminiamo le fasi del terzo atto della crisi dell’impero dei social network, accusato di essere troppo invasivo, opaco e di non investire sufficienti risorse per tutelare la salute fisica e mentale dei propri utenti, mettendo inoltre addirittura a rischio la sicurezza nazionale.

Come ricostruisce bene un articolo di Rolling Stone la nuova ondata di critiche a carico di Facebook è iniziata il 13 settembre scorso, quando il Wall Street Journal ha pubblicato la prima di una serie di inchieste denominata The Facebook Files, che hanno trascinato l’azienda al centro di un crescendo di accuse, causando una vorticosa reazione a catena di rivelazioni scomode e di udienze parlamentari al Congresso USA.

La whistleblower dietro le rivelazioni del WSJ è la Data-engineer Frances Haugen, che ha lavorato come product manager nel team Integrità Civica di Facebook, dal 2019 fino al suo smantellamento, all’inizio del 2020, disposto – secondo i ben informati – proprio da Zukerberg.

Spaventata dall’idea di venir in qualche modo coinvolta in faccende legate agli standard etici dell’azienda – a suo dire del tutto inadeguati – relativi al contrasto alla diffusione di disinformazione e fake news, la Haugen ha deciso dare le sue dimissioni dalla compagnia; però, prima di riconsegnare il suo badge alla sede di Menlo Park, la funzionaria ha fatto copie di un’enorme quantità di documenti interni, con l’obiettivo di far poi conoscere al mondo cosa succede veramente dietro alla facciata estremamente opaca del gigante dei Social.

La data engineer ha poi condiviso tutto il materiale con il Wall Street Journal, con la Securities and Exchange Commission, l’ente federale statunitense preposto alla vigilanza della borsa valori, e con la Commissione del Congresso statunitense che sta attualmente indagando sul ruolo della piattaforma Social nella rivolta del 6 gennaio scorso al Campidoglio, successiva alla vittoria di Joe Biden alle elezioni Presidenziali e all’uscita di scena di Donald Trump.

Le rivelazioni dei Facebook Files

L’inchiesta-scandalo del Wall Street Journal rivela, attraverso un’appassionante narrazione, che Facebook Inc. era da tempo a conoscenza di una serie di gravi criticità che erano rimaste totalmente ignorate dall’amministrazione pubblica americana; l’ampia documentazione condivisa dalla Haugen ha reso note una lunga serie di importanti questioni, che peraltro non hanno fatto altro che confermare quello che studiosi, analisti e giornalisti sospettavano da tempo. Riassumiamo quindi alcune delle più rilevanti – e francamente sconcertanti – evidenze riportate dalla monumentale inchiesta del WSJ:

  • tra i primi temi evidenziati dall’inchiesta c’è il generale disinteresse della leadership di Facebook sul tema del contrasto agli illeciti penali, documentato attraverso segnalazioni e intercettazioni di utenti che in Medio Oriente utilizzavano la piattaforma per scopi illegali come la tratta di esseri umani e lo spaccio di droga. Inoltre, come rivelato dall’episodio dell’inchiesta pubblicato sotto forma di Podcast, esistevano numerose segnalazioni che riportavano che gruppi armati in Etiopia e in Myanmar utilizzavano la App per incitare alla violenza contro le minoranze etniche, e non solo. Secondo i documenti, poi, alcuni utenti condividevano avvisi e informazioni sulla vendita di organi, sulla pornografia e sull’azione del governo contro il dissenso politico. Il dossier peraltro mostra anche la risposta dell’azienda a fronte di queste segnalazioni, che in molti casi è risultata inadeguata o addirittura totalmente assente, confermando la percezione da parte di molti di un’azienda interessata solo al profitto e ai dividendi;
  • non poteva mancare l’ormai nota questione della disinformazione sul vaccino contro il Covid-19 che continua ad inondare il Social network, e che solleva non poche critiche. La questione delle fake-news in epoca pandemica è un tema centrale per Facebook, nonostante i suoi recenti (ma ancora insufficienti) sforzi in tal senso, come la rimozione delle pagine di una società di marketing che utilizzava influencer veri e anche account falsi per minare la fiducia nei vaccini anti Covid-19 diffondendo disinformazione, tema di stringente attualità, quello delle fake-news, in particolar modo relative alla questione Covid-19, magistralmente analizzato nel report condotto dal Research Institute for Complexity dell’Università Ca’ Foscari di Venezia: Bufale sul Covid-19, Quattrociocchi: “Ecco i numeri sulla responsabilità dei social”;
  • l’inchiesta del WSJ evidenzia inoltre lo sforzo costante da parte del social network per coinvolgere nuovi – e sempre più giovani – utenti, pur sapendo che una percentuale non indifferente di teenager ritiene che Instagram abbia peggiorato molto la loro salute mentale e la loro immagine di sé. I Facebook Files del WSJ rivelano che l’azienda ha addirittura istituito un team specifico per studiare i bambini e le loro abitudini, al fine di comprendere le modalità in cui potrebbe essere monetizzata la loro attività on-line. In uno di questi documenti ci si riferisce per esempio ai bambini di età compresa tra 10 e 12 anni come un “pubblico prezioso ma non sfruttato” (!). A questo si aggiungono le ricerche interne effettuate dai ricercatori della piattaforma che documentavano quanto il social network fosse tossico per le ragazze adolescenti, aumentando i tassi di depressione, soprattutto per quelle già affette da disturbi alimentari. Commentando una diapositiva della ricerca che affermava che “gli adolescenti che lottano con la salute mentale sostengono che Instagram peggiori la situazione”, la società di Zuckerberg ha aggiunto che il titolo avrebbe dovuto essere modificato come: “Gli adolescenti che hanno una minore soddisfazione di vita hanno maggiori probabilità di dire che Instagram rende la loro salute mentale – o il modo in cui si sentono con se stessi – peggiore degli adolescenti che sono soddisfatti della loro vita.”, ciò al fine di ridurre l’eventuale impatto negativo esterno in termine di pubbliche relazioni. Peraltro, uno statement palesemente inadeguato, che tenta uno scaltro maquillage al fine di coprire l’attitudine a vedere bambini e adolescenti come oggetto di manovre per aumentare il profitto di Facebook stessa;
  • uguaglianza? No grazie. Tra le evidenze riportate dall’inchiesta vi è il sistema XCheck, una corsia preferenziale che ha permesso per anni a VIP e politici di pubblicare contenuti controversi con una moderazione scarsa o assente da parte di Facebook. Un processo in totale contraddizione con le numerose dichiarazioni di Mark Zuckerberg, che ha sempre affermato – a questo punto, vien da dire, in modo non genuino – che uno degli elementi distintivi di Facebook è “quello di consentire ai suoi utenti di parlare su un piano di parità con le élite della politica”;
  • tra i documenti ripresi dal quotidiano vi erano inoltre quelli che confermavano il goffo tentativo da parte della piattaforma di contrastare il declino del tasso di coinvolgimento degli utenti modificando l’algoritmo in modo che desse priorità alle “interazioni significative” , ma che – come evidenziano i dati della stessa Facebook – ha finito per rendere il social network un luogo ancora più tossico e denso di tensioni tra gli utenti, in quanto com’è noto sono proprio i post di “scontro” a garantire il maggiore engagement tra gli utenti, e – conseguentemente – i maggiori ritorni per Facebook in termini di click e poi di guadagni pubblicitari;
  • Il WSJ ha portato infine alla luce anche le differenze della moderazione di Facebook nei confronti di post in alcune lingue straniere rispetto all’inglese. La fallibilità degli algoritmi quando hanno a che fare con lingue come – ad esempio – l’arabo, e gli scarsissimi investimenti in personale locale specializzato, ha permesso a contenuti vietati in altri Paesi di prosperare invece in alcuni Paesi emergenti.

“Quello a cui ho assistito più e più volte in Facebook, è che quando c’erano conflitti di interesse tra ciò che era buono per l’opinione pubblica, e ciò che era buono per Facebook, Facebook ha scelto ripetutamente di massimizzare i propri interessi, facendo più soldi”, ha affermato la Haugen, che ha parlato pubblicamente della sua denuncia alle autorità Federali americane nel corso di un’intervista rilasciata alla trasmissione “60 Minutes” della CBS.

In un’udienza di tre ore con i federali, la Haugen ha accusato i suoi ex datori di lavoro di spingere per massimizzare l’interazione sociale sulle sue piattaforme “a tutti i costi”, anche quando tali interazioni hanno esacerbato – ad esempio – la dipendenza, il bullismo e i disturbi alimentari.

Facebook avrebbe poi “nascosto una ricerca che documentava come i suoi servizi colpiscono in particolare i bambini”, esponendoli ad episodi di bullismo 24 ore su 24, e a contenuti che influiscono negativamente sulla loro salute mentale.

La giovane dirigente ha inoltre rivelato la particolare decisione presa dall’azienda di chiudere, poche settimane dopo le elezioni americane del 2020, il dipartimento di Facebook chiamato Integrità Civica, che aveva lo scopo di garantire la correttezza del processo democratico e di contrastare la disinformazione: “In pratica hanno detto: ‘Bene, abbiamo superato le elezioni. Non ci sono state rivolte. Ora possiamo sbarazzarci dell’integrità civica’. E un paio di mesi dopo abbiamo avuto la rivolta. Quando si sono sbarazzati di Integrità civica, è stato il momento in cui mi sono detta ‘Non mi fido del fatto che siano veramente disposti a investire in ciò che serve per impedire a Facebook di essere pericoloso’”, ha affermato la Haugen.

Nuove accuse, identiche (inefficaci) risposte

Accuse obiettivamente gravi, comprovate da innumerevoli file e documenti ora nelle mani delle autorità statunitensi. Come ha reagito il fondatore del social network a questo vero e proprio polverone mediatico? Replicando il modus operandi – poco efficace, e ampiamente disallineato con le buone prassi della crisis communication e del crisis management – già utilizzato durante lo scandalo di Cambridge Analytica: Mark Zuckerberg è stato di poche parole, rispondendo solo alcuni giorni dopo con un laconico, vuoto e inefficace “Quanto è stato detto non ci rappresenta”.

Inoltre in una nota ai dipendenti pubblicata su Facebook, Zuckerberg ha scritto: “La maggior parte di noi semplicemente non riconosce l’immagine falsa che viene dipinta dell’azienda. La questione secondo cui pubblichiamo deliberatamente contenuti che fanno arrabbiare le persone per profitto è profondamente illogica”, ha aggiunto, perché agli inserzionisti – a suo dire – non piace apparire accanto a contenuti polarizzanti.

Non si è fatta attendere anche la replica ufficiale dell’azienda che ha dichiarato attraverso il suo portavoce: “Ogni giorno i nostri team devono trovare un equilibrio tra garantire la libertà di espressione di miliardi di persone e mantenere la nostra piattaforma un luogo sicuro e positivo. Continuiamo ad apportare miglioramenti significativi per contrastare la diffusione della disinformazione e dei contenuti dannosi. Affermare che incoraggiamo la diffusione di questi contenuti e che non prendiamo provvedimenti è semplicemente falso”. E ha aggiunto: “Profitto prima della sicurezza? La crescita delle persone o degli inserzionisti che utilizzano Facebook non ha alcun significato se i nostri servizi non vengono utilizzati in modi che avvicinano le persone. Ecco perché stiamo investendo nella sicurezza così tanto da impattare i profitti. Proteggere la nostra comunità è più importante che massimizzare i nostri profitti. Affermare che chiudiamo un occhio sui feedback che riceviamo ignora del tutto questi investimenti, come le 40.000 persone che lavorano sulla sicurezza in Facebook e i nostri investimenti che, dal 2016, ammontano a 13 miliardi di dollari”.

A seguito delle dichiarazioni della Haugen e della scomoda inchiesta del WSJ i membri senior della Commissione per il commercio del Senato americano stanno passando al vaglio una serie di leggi volte a porre sotto maggiore controllo Facebook e gli altri grandi gruppi della Silicon Valley. Richard Blumenthal, il Presidente democratico della Sottocommissione per la protezione dei consumatori del Senato, ha dichiarato ai giornalisti dopo un’udienza: “C’è stato un grande sostegno bipartisan, oggi. Penso che sia di buon auspicio per aver effettivamente portato la nuova legislazione al traguardo. La Dottoressa Haugen ha fornito speranza e incoraggiamento ai genitori di tutto il paese, affermando che si può fare qualcosa per aiutare a proteggere i bambini”. Il Congresso sta prendendo in considerazione una serie di leggi per rendere ancor più rigida la legislazione per le grandi aziende tecnologiche: le proposte includono protezioni federali sulla privacy, limitazioni all’immunità legale di cui godono le società di Social media e diversi progetti di legge che rafforzerebbero la forza delle policy a favore della concorrenza negli Stati Uniti, per agire contro queste società. Una delle riforme che con maggiore probabilità passerà, a detta degli esperti, è un ampliamento del Children’s Online Privacy Protection Act, uno strumento legislativo per rendere illegale la raccolta di informazioni personali su minori di 13 anni senza il consenso dei genitori.

Facebook, Instagram e i bambini

Sul tema dei bambini, Facebook ha affermato che i risultati dello studio sull’effetto dell’uso dei social nei bambini, citato prima sarebbero stati presentati in modo fuorviante, rifiutandosi però di rendere disponibile alle autorità la ricerca citata nei Facebook Files (anche se il vicepresidente, Nick Clegg, ha fatto sapere che nei prossimi giorni fornirà “una sintesi” di quel documento).

Come riportato da un articolo su Wired, tra le prese di posizione più vigorose da parte dei rappresentanti democratici a seguito delle rivelazioni scioccanti sul tema minorile c’è la richiesta avanzata a Facebook di rinunciare al lancio di Instagram Kids, una versione del popolare Social ideata per i minori di 13 anni: solo dopo le forti pressioni ricevute, l’azienda ha annunciato di avere interrotto per il momento lo sviluppo dell’App che, sostiene Facebook,  aiuterebbe invece a proteggere i bambini “separandoli dagli adulti online”. In realtà, l’argomento utilizzato dall’azienda come giustificazione è capzioso: basterebbe richiedere l’upload del PDF di un documento di identità all’atto dell’iscrizione sulla piattaforma, formalità richiesta invece per accedere a diversi servizi di backoffice come l’assistenza clienti di secondo livello, per non far accedere i minori ai propri servizi; perché Facebook non lo faccia, resta un mistero.

Tra le proposte di legge che potrebbero passare al Congresso a seguito dell’inchiesta del WSJ vi è anche una riforma in senso più stringente della Sezione 230 del Communications Decency Act, che stabilisce che le società di Social media possano essere citate in giudizio per i contenuti che gli utenti pubblicano sulle loro piattaforme anche nel caso in cui questi vengano moderati.

Inoltre come evidenziato da Michele Mezza, autorevole studioso italiano sui temi degli algoritmi digitali, a seguito della denuncia dei comportamenti discriminatori e fortemente speculativi del social network di Mark Zuckerberg da parte dell’ex dirigente Haugen, le due principali animatrici della nuova normativa europea Alexandra Geese e Christel Schaldemose hanno chiesto esplicitamente un controllo pubblico sugli algoritmi dei Social network, algoritmi che condizionano concretamente il modo in cui miliardi di persone percepiscono la società, la politica, le proprie relazioni personali e professionali e in generale la stessa vita.

Finora la maggior parte di queste riforme ha faticato a ottenere un appoggio politico sufficiente per essere portate al voto, ma gli attivisti, e alcuni esperti, ritengono che la testimonianza di Haugen – e la reazione a catena generata a seguito di essa, tanto che si parla già ovunque di effetto Haugen – potrebbe essere il propulsore decisivo per cambiare finalmente la situazione.

Lo scenario per Facebook appare, fin qui, assai grave. Ma non è finita qui, anzi.

Altre rivelazioni scomode: il Project Amplify

Il vaso di Pandora è stato aperto, e alle rivelazioni della Haugen e del WSJ si sono aggiunte nuove inchieste di altri importanti quotidiani statunitensi.

Secondo quanto riporta New York Times, Mark Zuckerberg, ha personalmente approvato il mese scorso una nuova iniziativa dal nome in codice Project Amplify.

Il progetto, predisposto in una riunione interna nel gennaio scorso, aveva uno scopo specifico: utilizzare il News Feed di Facebook per mostrare alle persone storie positive sul social network, al fine, presumibilmente, di bilanciare le notizie pregiudizievoli da punto di vista reputazionale. La strategia prevedeva la diffusione di notizie a favore di Facebook – alcune delle quali scritte dalla società stessa! – con lo scopo di migliorare l’immagine del social network agli occhi dei suoi utenti.

Project Amplify nasce anche in risposta alla frustrazione sempre maggiore dei dirigenti di Facebook Inc. – stando a quello che riportano le fonti del New York Times – infastiditi dal fatto che l’azienda ricevesse un maggior controllo dalle autorità rispetto Google o Twitter. Attribuendo l’attenzione dei media e degli enti regolatori al fatto che Facebook avesse scoperto più volte il fianco attraverso le scuse (sic!) e l’accesso a dati interni, il gruppo ha promosso l’idea di utilizzare il News feed degli utenti per promuovere notizie positive sull’azienda, nonché per la pubblicazione di annunci collegati ad articoli favorevoli su Facebook. Nello stesso mese, il team di comunicazione ha discusso i modi in cui i dirigenti possono essere “meno concilianti” nel rispondere alle crisi, stabilendo che ci sarebbero state “meno scuse” da parte di Facebook, con ciò ostinandosi a contraddire, una volta di più, tutte le buone prassi di reputation management e crisis communication.

Le scuse non condizionate, com’è ben documentato nella letteratura specialistica sul crisis management, sono il solvente universale di ogni crisi reputazionale. Potrà infatti apparire paradossale, ma negli ultimi anni – complice l’affermarsi di una virata verso il web 2.0, con un elevato grado di partecipazione/interazione tra gli utenti – quella delle scuse non condizionate è la strategia che si è rivelata in assoluto più efficace: smorza le polemiche, smussa le armi ai giornalisti, preserva quanto più possibile la reputazione dell’organizzazione e riduce le – inevitabili – richieste di risarcimento danni in sede giudiziale. Gli interlocutori delle aziende coinvolte nelle crisi apprezzano tale comportamento e, non sentendosi coinvolti in un uno scontro tra blocchi con interessi contrapposti, valutano la crisi e i suoi effetti con occhi più concilianti. Non si tratta ovviamente di scusarsi assumendosi ogni responsabilità dell’accaduto prima ancora di aver effettuato le necessarie verifiche di merito, bensì di “presentare le proprie più sentite scuse in quanto il proprio brand è comunque coinvolto in un evento che ha generato fastidio, disagio, dolore o – nei casi peggiori – morte”. Come Facebook possa ostinarsi ad ignorare prassi acclarate in letteratura scientifica, è un ulteriore indicatore della scarsa preparazione dei suoi vertici e di tutto il management, e trova conseguenza diretta – non a caso – nella reputazione sempre più negativa del gigante dei Social network, che ha cessato da tempo di essere un Lovemark ed è sempre più considerata come una banale commodity.

Ulteriori lati oscuri di Facebook: censura ed elusione fiscale

Ma il progetto Amplify non esaurisce qui il suo potenziale negativo dal punto di vista reputazionale: a detta degli informatori, Mark Zuckerberg – che già aveva macchiato la sua reputazione con gli scandali degli ultimi anni e con le questioni politico-istituzionali che lo vedevano coinvolto (tra cui le attività svolte da Facebook in occasione delle elezioni USA del 2016 e del 2020) – voleva ripristinare la sua personale immagine di innovatore e imprenditore illuminato. Per questo, nella riunione di gennaio, il team di comunicazione ha diffuso un documento con una strategia per allontanare Zuckerberg dagli scandali, concentrando i suoi post su Facebook e le apparizioni sui media sul lancio di nuovi prodotti.

Inoltre, in modo davvero sconcertante, Facebook avrebbe contemporaneamente anche iniziato a ridurre la disponibilità di dati che permettevano ad accademici e giornalisti di studiare il funzionamento della piattaforma: lo scorso aprile, la società ha dichiarato al team di CrowdTangle – uno strumento che fornisce dati sull’engagement e sulla popolarità dei post di Facebook – che esso era in fase di scioglimento. Oggi il team sulla carta esiste ancora, ma – come per il dipartimento Integrità civica – il personale in realtà è stato smistato in altri team. Perché smantellare un dipartimento che permetteva agli osservatori di comprendere e studiare in modo trasparente il funzionamento della piattaforma?

La paternità dell’idea – come confermato sempre dai due informatori del NYT – pare sia di Alex Schultz, dirigente di Facebook stanco della copertura negativa di notizie confezionate da chi utilizzava proprio i dati di CrowdTangle per dimostrare che Facebook stava contribuendo alla diffusione di disinformazione online. Non solo: dopo lo scioglimento del team di CrowdTangle la società ha ulteriormente ridotto la capacità degli accademici di condurre ricerche sull’azienda, disabilitando gli account Facebook e le pagine di un gruppo di ricercatori della New York University. I ricercatori avevano creato una funzionalità per i browser Web – che 16.000 persone avevano acconsentito a utilizzare –  la quale consentiva loro di studiare l’attività di Facebook degli utenti che partecipavano coscientemente al progetto di ricerca: i dati risultanti dal tool avevano permesso la pubblicazione di studi che dimostrano che annunci politici ingannevoli hanno prosperato su Facebook durante le elezioni USA del 2020, e che gli utenti con simpatie politiche di estrema destra si erano impegnati maggiormente in azioni di disinformazione, ma od oggi questi strumenti non sono più disponibili.

Facebook ha giustificato la misura di chiudere gli account con un post sul blog in cui affermava che i ricercatori della New York University avevano violato le regole sulla raccolta dei dati degli utenti, citando l’accordo sulla privacy stipulato con la Federal Trade Commission nel 2012: peccato che proprio la Federal Trade Commission, in seguito alle dichiarazioni di Facebook, ha ammonito il Social network per aver maldestramente citato quell’ accordo, ribadendo che in realtà “le attività di ricerca scientifica nell’interesse pubblico sono inequivocabilmente e sempre consentite”. Un ulteriore significativo scivolone per Facebook Inc., che ha reagito alle critiche balbettando giustificazioni, non scusandosi, e finendo per generare dubbi ancor più significativi sul suo operato.

Ciliegina sulla torta nel turbine impetuoso sul Social network più famoso del mondo è stata la recentissima analisi di Altreconomia, che ha messo in evidenza come la divisione italiana di Facebook (assieme a quella di Google) abbia spostato i ricavi verso l’Irlanda acquistando servizi infragruppo dalle sedi dublinesi dell’azienda. Nonostante i fatturati più che raddoppiati nell’ultimo anno, come riporta Il Fatto Quotidiano, Facebook Italia ha finito, grazie a questa pratiche discutibili, per pagare le stesse tasse dell’anno precedente, e tutto ciò nonostante un accordo stipulato con il fisco italiano con transazioni per un ammontare di 100 milioni di euro per imposte non pagate da Facebook negli anni scorsi.

Tutti gli errori (ad oggi…) di Facebook

Spostando l’analisi dalla cronaca alla dottrina, emerge chiaramente come Facebook abbia violato tutti i pilastri del buon Reputation management:

  • in primo luogo, la qualità del prodotto, elemento che purtroppo non sempre riceve la giusta attenzione da parte del management del colosso di Menlo Park, impegnato in un insensato gioco a risparmio. Le piattaforme di proprietà Facebook collezionano numerose criticità, con innumerevoli malfunzionamenti, aggiornamenti distribuiti in modo disomogeneo tra gli utenti, e molto altro, il tutto amplificato dall’impossibilità o quasi di contattare efficacemente il servizio clienti. Il numero sorprendentemente basso dei dipendenti assunto da Facebook – 58.604, secondo l’ultimo dato disponibile online – è evidentemente del tutto insufficiente per la gestione di una piattaforma che ospita 1,84 miliardi di utenti attivi quotidianamente. Il servizio clienti di Facebook di fatto esiste ed opera efficacemente solo quando ci si trova ad utilizzare l’interfaccia di Facebook Business, a riconferma che la policy per l’azienda sia quella del profitto prima di tutto, con gran parte della community degli utenti – alla quale pure Facebook deve la sua fortuna – completamente ignorata ed affidata nella migliore delle ipotesi alla gestione di chatBot del tutto inefficaci nella risoluzione di qualunque problematica tecnica online;
  • in secondo luogo, anche la capacità di ascolto dell’organizzazione appare fortemente carente. Per rispondere in modo efficace alle aspettative e ai bisogni dei suoi interlocutori l’azienda dovrebbe essere in grado di ascoltare i propri stakeholder, così da monitorare e rispondere in concretamente alle loro esigenze, e intercettare anche, all’occorrenza, quelli che in gergo vengono definiti i segnali deboli di crisi reputazionale. Anche su questo aspetto Facebook pare fare orecchie da mercante, in quanto, grazie all’assenza di un custumer-care degno di questo nome e allo smantellamento di veri e propri dipartimenti nati proprio con lo scopo di monitorare e ascoltare gli utenti (decidendo così scientemente di ignorare le gravi evidenze man mano emerse e pervenute all’attenzione del management), questo pilastro del reputation management pare essere ignorato dal noto social network;
  • in terzo luogo, l’autenticità. Non si tratta qui di un mero vezzo, perché la letteratura e i case-study dimostrano che, in carenza di autenticità, non si realizza il coerente allineamento tra identità e immagine, che è il pre-requisito per costruire buona reputazione. Attività come il lancio di un progetto con il solo scopo di fare un minuzioso maquillage alla propria immagine, senza per contro lavorare sulle importanti criticità emerse ripetutamente negli anni, trasmette un segnale negativo alla comunità degli stakeholder, tipico di un’azienda attenta solo alle apparenze e non alla sostanza. Facebook continua ripetutamente a tradire la fiducia dei suoi pubblici, svendendo dati sensibili, insabbiando studi critici, chiudendo pagine di universitari che svolgono ricerche sull’azienda, nascondendo evidenze scientifiche sul rischio per la salute mentale dei propri utenti, scegliendo di ignorare le segnalazioni che potrebbero contribuire a tutelare la community, e non fornendo alle autorità e all’opinione pubblica spiegazioni convincenti e trasparenti, finendo così per dare l’impressione di essere un organizzazione richiusa su se stessa, spesso “in difesa” e poco collaborativa.

La reputazione è attualmente considerato come il più importante asset intangibile per un’organizzazione, quello di maggior valore sotto il profilo economico-finanziario: una buona reputazione è in grado di condizionare i comportamenti di acquisto di prodotti e servizi, aumenta quella che in gergo tecnico definiamo “la licenza di operare” di qualunque organizzazione, ovvero la disponibilità e la fiducia che i cittadini garantiscono a un’azienda, permettendole quindi di ampliare il proprio business, e aiuta a proteggere dalle crisi reputazionali.

Facebook – nonostante queste premesse e la vastissima letteratura in materia – risulta essere sorprendentemente una multinazionale a bassa cultura su queste importanti tematiche, in particolare sul fronte dell’adozione di strumenti utili per prevedere e gestire le crisi, difendendo il perimetro reputazionale dell’organizzazione e contenendo i danni.

Nonostante negli ultimi anni, come evidenzia il Financial Times, l’azienda abbia investito molto in sistemi basati sull’intelligenza artificiale per segnalare contenuti dannosi, assumendo anche un certo numero di moderatori di contenuti per eliminare i post offensivi, e creando un consiglio di sorveglianza indipendente con il tentativo di prendersi almeno in parte la responsabilità nel processo decisionale per la rimozione del contenuti tossici, questi sforzi non sono risultati sufficienti – e visto quanto sta accadendo è un evidenza di fatto, che trascende le opinioni soggettive… – per gestire le numerose e complesse criticità nelle quali la piattaforma si trova coinvolta.

La corda sta per rompersi…?

Considerate le sue imponenti dimensioni, Facebook è comprensibilmente in difficoltà nel presidiare i vari fronti critici: come può con l’attuale esile struttura dell’azienda monitorare la moltitudine di contenuti nocivi in ​​dozzine di lingue e culture differenti? Come può riuscire a limitare gli effetti malsani dell’abuso dei Social da parte di bambini e adolescenti? Come può offrire ascolto e supporto costante ai propri utenti?

Alcuni osservatori suggeriscono che una soluzione potrebbe essere quella di suddividere il colosso in diverse aziende più piccole e con catena di governance più corta, ma la verità è che spacchettare Facebook in una galassia di società potrebbe non risolvere nulla, se esse importassero la stessa cultura aziendale attuale, impostata su un modello binario-sequenziale attento soprattutto ai profitti a breve termine, e lontana dai modelli circolari e complessi tipici del reputation management, finalizzati alla costruzione di solido valore nel medio-lungo termine. Cosa fare dunque?

Facebook dovrebbe innanzitutto fermarsi a riflettere, guardarsi dentro, e ripartire dai propri fondamentali, scambiando autenticità, ascolto e un prodotto di qualità con i 2 miliardi di utenti che hanno letteralmente consegnato le proprie vite alle mani del colosso del Social.

Come suggerito dalla Haugen, è possibile immaginare e riprogettare un Social network “più responsabile”. Come? Iniziando con il trattare gli utenti come co-creatori della community, piuttosto che come “oggetti”, numeri utili solo per popolare e animare la App quanto più possibile, al fine di vendere a più caro prezzo le inserzioni pubblicitarie.

All’appello della Haugen, si aggiunge anche Jaron Lanier, noto e anticonformista informatico statunitense, che sostiene che questo potrebbe essere realizzato offrendo agli utenti un maggiore controllo sui contenuti che producono, e magari anche una maggiore partecipazione finanziaria nel modello di business di Facebook.

In ogni caso, la corda si sta assottigliando sempre più, e se Facebook non inizierà a utilizzare la propria capacità di migliorarsi allineandosi alle aspettative del mercato e dei cittadini per evolversi in un social network più affidabile, inclusivo e sostenibile, possiamo scommettere che qualcun altro, prima o poi, capirà come farlo. Attualmente, l’enorme opportunità di mercato che Facebook sta giorno dopo giorno costruendo con le proprie stesse mani, a favore di un potenziale concorrente in grado di dare la priorità agli utenti piuttosto che solo agli inserzionisti, è sempre più evidente.

È giunto forse il tempo di riprogettare nuovi e migliori Social network? Il noto e inflazionato slogan di Facebook afferma: “È gratis, e lo sarà sempre…”. Dopo tutto quanto sta accadendo, non c’è da esserne poi così sicuri.




Facebook ha fatto sforzi per attirare online i bambini ben oltre Instagram Kids

Facebook ha fatto sforzi per attirare online i bambini ben oltre Instagram Kids

Facebook sta studiando i modi per coinvolgere nei suoi servizi utenti sempre più piccoliMessenger Kids è una realtà da anni e già si conoscevano gli sforzi della società per creare un’app di Instagram adatta ai minori di 13 anni, ma nuove rivelazioni mostrano quanto siano importanti i bambini per lo sviluppo di Facebook.

Documenti interni ottenuti dal Wall Street Journal e presentati nell’ultima puntata dei suoi Facebook Files rivelano che Facebook ha formato un team speciale per studiare i bambini e riflettere sui modi in cui potrebbe essere monetizzata la loro attività online. In uno di questi file ci si riferisce per esempio ai bambini di età compresa tra 10 e 12 anni come un “pubblico prezioso ma non sfruttato.

La cosa che può stupire è che la ricerca di Facebook prende in considerazione diverse fasce di età, tra cui i neonati, cioè bambini tra gli 0 e i 5 anni. Un altro documento suggerisce di “sfruttare gli incontri di gioco” tra bambini piccoli come mezzo per guidare la “crescita” di Facebook. Mentre un altro memo riporta l’idea di consentire ai bambini di usare Messenger Kids da soli.

La ricerca sui bambini dell’azienda si spiega con il successo di app come TikTok e Snapchat nell’attrarre utenti giovani. “Con l’ubiquità di tablet e telefoni, i bambini iniziano a navigare su internet a partire dai sei anni. Non possiamo ignorarlo e abbiamo la responsabilità di capirlo”, si legge in un documento riservato visto dal Wall Street Journal .PUBBLICITÀ

Secondo una dichiarazione rilascita da un portavoce di Facebook l’ultima storia del Wall Street Journal sarebbe invece solo “un insieme di informazioni già pubblicate in articoli precedenti” che si basa su una comunicazione interna decontestualizzata. L‘azienda afferma che sue fasce di età citate sono una tassonomia utilizzata dall’Age Appropriate Design Code e da altri esperti di policy” e non rispecchiano “i piani prodotto di Facebook”

Giovani in calo

Mark Zuckerberg ha motivo di essere preoccupato perché, al contrario di altre app, il numero di adolescenti che utilizzano Facebook quotidianamente è diminuito del 19% negli ultimi due anni e potrebbe diminuire di un ulteriore 45% entro il 2023, secondo un altro documento interno. Per questo motivo è abbastanza chiaro perché il social vuole “immaginare un’esperienza Facebook per i più giovani”. Una presentazione fissa inoltre l’obiettivo di far passare gli adolescenti da Instagram all’app di Facebook.

Il bisogno di far arrivare il prima possibile gli utenti sui propri servizi è legato a un’esigenza di business. Facebook usa i dati degli utenti per il micro-targeting, per ma leggi federali negli Stati Uniti vietano la raccolta di dati appartenenti a ragazzini di età inferiore ai 13 anni. Per questo motivo, spiega Gizmodo“Facebook ha trascorso anni alla ricerca di un modo per convincere i bambini ad adottare i suoi servizi non appena sono abbastanza grandi da essere tracciati”.

Il capo di Instagram, Adam Mosseri, ha detto al Wsj che “non è una novità e non è un segreto che le società di social media cerchino di capire come adolescenti e preadolescenti utilizzano la tecnologia”. Secondo Mosseri Facebook vuole  fare appello alla prossima generazione, ma questo è completamente diverso dalla falsa affermazione che tentiamo consapevolmente di reclutare persone che non sono abbastanza grandi per usare le nostre app”.

Problemi di salute mentale

I possibili effetti che i prodotti di Facebook hanno sugli utenti più giovani stanno però venendo alla luce. Secondo il Journal Facebook era a conoscenza, attraverso una ricerca interna, che Instagram aveva avuto un impatto negativo sulla salute mentale di alcuni utenti adolescenti. Instagram peggiorerebbe “i problemi di immagine corporea per una ragazza adolescente su tre”, ha affermato la ricerca, osservando anche che alcune ragazze hanno fatto risalire le proprie idee suicide alle loro esperienze sulla piattaforma.

Facebook ha risposto sostenendo che i risultati dello studio erano stati presentati in modo fuorviante e che le conclusioni si applicavano “solo a ragazze adolescenti che avevano già problemi con l’immagine del proprio corpo” e “non una su tre di tutte le ragazze adolescenti”. Il social finora ha rifiutato di rendere disponibile questa ricerca, ma il suo vicepresidente, Nick Clegg, ha fatto sapere che nei prossimi giorni fornirà una sintesi.

La preoccupazione su come l’app potrebbe potenzialmente danneggiare i bambini è stata abbastanza grande da coinvolgere il Congresso degli Stati Uniti. I rappresentanti democratici hanno chiesto a Facebook di rinunciare a lanciare Instagram Kids, una versione del popolare social pensato per i minori di 13 anni. Dopo le pressioni ricevute l’azienda questa settimana ha annunciato di avere interrotto per il momento lo sviluppo dell’app che secondo Facebook aiuterebbe invece a proteggere i bambini, separandoli dagli adulti online. Il vero obiettivo di Facebook, in base alle parole emerse nell’ultima storia pubblicata dal Journal, sembra però quello di sfruttare anche gli utenti più piccoli.

I problemi per la società non sono però finiti perché una sottocommissione del senato americano, presieduta dal democratico Richard Blumenthal, ha chiamato il 30 settembre i rappresentanti di Facebook a parlare dei risultati della ricerca interna su Instagram e i minori. A testimoniare dovrebbe esserci Antigone Davis, il capo della sicurezza globale di Facebook. Martedì 5 ottobre, invece, è stata annunciata la presenza in udienza di un whistleblower interno alla società.