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Se il greenwashing contamina anche gli indici ESG

Se il greenwashing contamina anche gli indici ESG

La cavalcata trionfale della finanza ESG (cioè quella che prende in considerazione le istanze ambientali, sociali e di governance) è senza dubbio una buona notizia. Perché fa passare un messaggio ben chiaro: chiunque, dall’asset manager che smuove miliardi al risparmiatore che ha messo da parte qualche migliaio di euro, ha una responsabilità nei confronti del Pianeta. E può esercitarla con le sue scelte di investimento. Ora che pressoché tutti i grandi nomi cercano di salire sul carro della sostenibilità, però, all’orizzonte si profila un rischio molto concreto. Quello di annacquare gli indici ESG fino a farci finire un po’ di tutto, dai fast food alle banche che finanziano il petrolio.

Quando l’ESG diventa un fattore competitivo

Ormai qualsiasi banca o società di gestione del risparmio propone una o più linee di prodotti finanziari ESG. C’è chi lo fa per sincera vocazione e chi, semplicemente, perché sono i clienti a chiederlo. La Global Sustainable Investment Alliance (GSIA), nel suo ultimo report relativo al 2020, parla di un mercato da 35mila miliardi di dollari tra Usa, Canada, Giappone, Oceania ed Europa. Secondo Bloomberg, a livello globale si arriverà a 53mila miliardi entro il 2025: è come dire che un dollaro su tre sarà investito secondo criteri ambientali, sociali e di governance.

A leggere gli studi allarmanti sulla crisi climatica in corso e sulle disuguaglianze che spaccano in due la società, però, c’è qualcosa che non torna. Ad ammetterlo è lo stesso Eurosif, il Forum europeo per gli investimenti sostenibili e responsabili: «Nonostante una crescita astronomica degli investimenti sostenibili e responsabili (SRI) e delle iniziative legate alla sostenibilità negli ultimi anni, la scienza ci dice che le condizioni della Terra sono in peggioramento», scrive nel suo ultimo studio. Lanciando un messaggio ben preciso: non è più sufficiente mettere l’etichetta «sostenibile» sui propri investimenti. Bisogna anche saper garantire che le strategie adottate abbiano un’efficacia tangibile sul mondo reale.

Come vengono composti gli indici ESG

Per indagare su questo apparente paradosso, è il caso di chiedersi come si crea un fondo sostenibile. I colossi della finanza, da BlackRock in giù, spesso e volentieri si affidano agli indici ESG, composti da titoli di emittenti che dimostrano elevate performance ambientali, sociali e di governance. Esistono dunque società che si occupano di assegnare un rating ESG alle aziende, un po’ come fanno le tradizionali agenzie di rating quando valutano la loro solvibilità e solidità. Con una fondamentale differenza.

Le Big Three del rating, cioè Fitch, Moody’s e Standard & Poor’s, bene o male, danno punteggi molto simili o addirittura identici, perché si basano su dati finanziari standardizzati. Al contrario, ogni agenzia di rating ESG usa la sua metodologia proprietaria, i suoi algoritmi e i suoi criteri per passare in rassegna una serie di informazioni non finanziarie che, in molti casi, sono fornite dalle imprese stesse. Di conseguenza, nulla vieta che un’azienda riceva score totalmente diversi a seconda di chi la valuta.

Lo strapotere di MSCI

C’è un nome che domina incontrastato nel campo degli indici ESG: è quello di MSCI. La società newyorkese ha cinquant’anni di storia alle spalle ma ha vissuto la sua vera svolta nel 2019, quando Henry Fernandez – che ne è presidente e amministratore delegato da due decenni – ha annunciato in pompa magna che la sua missione, da allora, sarebbe stata quella di «aiutare gli investitori globali a costruire portafogli migliori per un mondo migliore». Proprio in un momento storico in cui le big della finanza vanno a caccia di opportunità per etichettare come «verdi» e «sostenibili» i propri prodotti, MSCI offre loro esattamente ciò di cui hanno bisogno.

Il business è fiorente, come dimostrano i suoi 1,6 miliardi di dollari di fatturato nel 2020. D’altra parte, si stima che il 60% del denaro investito in modo sostenibile dai risparmiatori sia finito in un fondo costruito grazie agli indici ESG di MSCI. Il calcolo è di Bloomberg Businessweek che, pur essendo indirettamente collegato alla stessa MSCI (la capogruppo Bloomberg LP ne è competitor per alcuni servizi e partner per altri) le dedica un articolo di fuoco.

Premiate le performance ambientali di… McDonald’s

Sulle 500 società statunitensi a maggiore capitalizzazione, ben 155 si sono meritate un upgrade (cioè un aumento di rating) da parte di MSCI tra gennaio 2020 e giugno 2021. I giornalisti di Bloomberg sono andati a controllare questi casi uno per uno. Scoprendone alcuni che destano qualche perplessità.

Tra i promossi per esempio c’è nientemeno che McDonald’s. Nel 2019 ha generato oltre 54 milioni di tonnellate di gas serra, più di Stati come il Portogallo o l’Ungheria. Emissioni che per giunta sono aumentate del 7% nell’arco di quattro anni; per la precisione, calano quelle dei ristoranti (Scope 1) e dell’energia acquistata (Scope 2), ma quelle legate alla filiera (Scope 3) viaggiano su un ordine di grandezza nettamente superiore e continuano ad aumentare. D’altra parte, per portare sul piatto un solo etto di carne bovina si emettono fino a 6 chilogrammi di CO2, contro i 90 grammi di un etto di piselli. E non c’è alcuna altra catena di ristoranti che si avvicini nemmeno lontanamente a McDonald’s, in termini di quantità di hamburger sfornati ogni singolo giorno. Eppure, il gigante dei fast food è stato premiato per le sue performance ambientalipassando da BB a BBB. Cioè perfettamente nella media, su una scala che va da un minimo di CCC a un massimo di AAA.

È troppo facile finire negli indici ESG

Com’è possibile? È la stessa MSCI a metterlo bene in chiaro. Il rating, spiega, «è progettato per misurare la resilienza di un’azienda ai rischi ambientali, sociali e di governance (ESG) a lungo termine del settore». In altre parole, MSCI non valuta l’impatto dell’azienda sul Pianeta bensì l’opposto, cioè l’impatto che le questioni ESG hanno – o avranno – sul suo modello di business. Nel caso di McDonald’s, ha semplicemente ritenuto che l’aumento delle emissioni non incida sul futuro dell’azienda. Escludendolo, così, dal proprio processo di calcolo. Questo meccanismo fa sì che, su tutti gli upgrade esaminati, soltanto uno sia dovuto al taglio delle emissioni. Uno su 155.

ristorante mcdonald's
Un ristorante di McDonald’s © Amandine Lerbscher/Unsplash

Questa è la prima, macroscopica falla messa in luce dall’approfondimento di Bloomberg. Ma non è l’unica, perché il diavolo sta nei dettagli. Tra i criteri per la promozione di McDonald’s, per esempio, c’è anche l’installazione di bidoni per la raccolta differenziata nei ristoranti statunitensi e francesi. Peccato però che siano obbligatori per legge. È qualcosa che capita molto spesso soprattutto nella dimensione della governance, a cui è legato addirittura il 42% degli upgrade. Ben 51 aziende hanno guadagnato punti per aver adottato policy contro la corruzione, procedure antiriciclaggio o altri codici etici con cui – di fatto – non fanno altro che impegnarsi a rispettare le normative vigenti.

Ottimi voti anche per le banche nemiche del clima

Insomma, i voti appaiono un po’ troppo generosi. Anche perché le aziende sono messe a confronto con i competitor del loro settore, partendo dal presupposto per cui la media sia BBB. Nel vocabolario di Wall Street mutuato dalle agenzie di rating, BBB equivale a investment grade, cioè a un rischio accettabile (al di sotto di questo punteggio si ricade negli investimenti speculativi). In pratica è come dare per scontato che l’azienda-tipo meriti a prescindere un “6 politico” in materia di sostenibilità.

Per avere la prova del nove si può svolgere un altro esercizio. Il report “Banking on climate chaos” ci svela che, tra il 2016 e il 2020, sessanta grandi banche hanno concesso 3.800 miliardi di dollari alle compagnie attive nel comparto di carbone, petrolio e gas. Questo dopo la firma dell’Accordo di Parigi con cui la comunità internazionale si è impegnata a mantenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali, facendo tutto il possibile per non superare gli 1,5 gradi.

L’americana JP Morgan Chase, da sola, ha stanziato un terzo di tale somma. Stiamo parlando di 317 miliardi di dollari, il doppio del Pil dell’Ungheria. Ecco, secondo MSCI JP Morgan Chase si merita una bella A ed è in linea con gli obiettivi internazionali sul clima. Promosse anche la seconda e la terza in classifica, Citi (238 miliardi investiti nelle fossili e un rating di A) e Wells Fargo (223 miliardi e un rating di BB), seppure con osservazioni più critiche in merito al clima. Certo, se nemmeno foraggiare le fossili a suon di miliardi è sufficiente, viene da chiedersi cosa si debba fare per essere esclusi dagli indici ESG.




False dichiarazioni in campo ambientale e sociale: una violazione al pari del falso in bilancio?

False dichiarazioni in campo ambientale e sociale: una violazione al pari del falso in bilancio?

Lo straordinario lavoro di Porter, Serafeim e Kramer dal titolo “Where ESG fails”, pubblicato sulla rivista Institutional Investor un paio d’anni fa, confermò da un lato che è fuori discussione l’opportunità di una maggiore crescita in termini di redditività e vantaggio competitivo derivanti dall’inserimento di preoccupazioni di carattere etico, sociale e ambientale, come parte integrante dei piani strategici di un’azienda; dall’altro lato, cosa a mio avviso più interessante, sollecitò l’attenzione sui limiti intrinsechi del modello “ESG – Enviromental, Social and corporate Governance”, tanto di moda negli ultimi anni, al centro di crescenti speculazioni da parte dei professionisti che vendono a caro prezzo consulenza per poter ottenere le ambite certificazioni, delle quali aziende medie e grandi – in preda a una specie di bulimia compilativa tipica del framework americano – paiono non poter più fare a meno.

Opinione attualmente diffusa vuole che le società che hanno posizioni migliori in classifica sulla base di metriche ESG, otterranno – già solo per questo – migliori rendimenti per gli azionisti: questa convinzione secondo Porter è semplicemente errata, “è basata su un castello di carte, un gigante dai piedi d’argilla”.

E a poco serve citare il celebre lavoro di Eccles ad Harvard, ampiamente validato da evidenze scientifiche inconfutabili: esso, infatti, è basato sul fare, non solo sul classificare, prova ne sia che aziende in alta posizione nelle classifiche ESG non necessariamente garantiscono over-performance agli investimenti, né tantomeno un profilo di sostenibilità più elevato, per motivi che ho ben dettagliato in un mio recente intervento a un webinar organizzato dall’analista finanziario indipendente Alfonso Scarano.

Senza tema di smentita, mi sento di affermare – come già sostenuto dai colleghi – che i modelli basati sugli indici ESG sono centrati su uno sguardo del tutto generale, avulso dal particolare, e che può generare effetti imprevisti e preoccupanti: si tratta in poche parole di una vera e propria mania classificatoria, l’ennesima, tipica del mondo anglosassone. Ad esempio, l’impatto ambientale di una banca non è necessariamente rilevante per la sua performance economica: una corretta politica di contenimento delle emissioni nocive in atmosfera otterrebbe un alto punteggio sugli indici ESG, ma non influenzerebbe significativamente le emissioni di carbonio globali; al contrario, l’emissione da parte della banca di prestiti subprime che i clienti non saranno in grado di ripagare, o peggio la commercializzazione di titoli tossici, potrebbe avere devastanti conseguenze sociali e finanziarie, come le cronache di pochi anni fa hanno dimostrato. Nonostante ciò, il reporting ESG ha dato credito alle banche per la prima questione e, allo stesso tempo, ha tralasciato colpevolmente – o dolosamente? – la seconda.

E non è molto differente in altri settori: Volkswagen prima dello scandalo del Dieselgate era prima in molte classifiche di RSI e ESG; e Jeff Bezos, con il suo Bezos Earth Fund, ha deciso sì di destinare 10 miliardi di dollari a borse di studio e finanziamento di idee sulla sostenibilità (senza peraltro curarsi di verificare poi il buon fine dei progetti finanziati), ma ben si guarda dallo spendere un solo dollaro per migliorare realmente i processi di sostenibilità all’interno del proprio colosso imprenditoriale.

L’ammontare delle somme in gioco è assai goloso anche sul fronte della raccolta degli investimenti: degli 800 miliardi previsti dal piano Next Generation UE, ben il 30% dovrà essere reperito mediante emissioni “green”. La normativa europea per il controllo di questo mercato esiste, pur in fase di aggiornamento, ma, come denunciato da diversi affidabili analisti e osservatori, non pare sufficiente a evitare il rischio di politiche scorrette e di ecologismo di facciata, con il risultato che le aziende e i fondi sulla carta più virtuosi grazie appunto alle certificazioni ESG potrebbero essere quelli in grado di raccogliere più investimenti, sulla base semplicemente di una migliore capacità di narrazione del loro – del tutto presunto – basso impatto ambientale e sociale.

Morale: l’adozione diffusa del reporting ESG ha, come effetto indiretto, l’aver “tranquillizzato” gli investitori e i cittadini, ma, al contempo, ha distratto le aziende dall’attrezzarsi per causare un impatto sociale rilevante riguardo alle questioni realmente centrali per i propri business: come se, assolti gli obblighi ESG, si potesse tirare un respiro di sollievo, con la certezza di aver fatto bene “i compiti a casa”.

Come convincere allora gli investitori a uscire dalla zona di confort di un sistema di classificazione standard, che non inserisce nell’equazione il tema dell’autenticità, ma solo quello degli ESG come adempimento sterilmente burocratico?

Una risposta in linea con la dottrina del reputation management richiederebbe che le aziende comunichino e misurino rigorosamente le metriche quantitative concrete che collegano direttamente i fattori sociali con la performance economica, abbandonando un approccio rigido e schematico quale quello tipico degli ESG. Ad esempio, una società d’investimento non può delegare la considerazione delle questioni sociali e ambientali a un singolo analista ESG in modalità ex post, al termine del processo di analisi, solo mediante un visto di conformità: l’intero team d’investimento dovrebbe combinare la comprensione dei fattori e dell’impatto sociale con la competenza finanziaria e industriale, ad esempio inserendo esperti in questioni ambientali e sociali all’interno dei team che valutano gli investimenti.

Un’altra risposta, nel cui contenuto credo profondamente, è quella di stimolare le istituzioni a applicare il già esistente regime sanzionatorio previsto per le Dichiarazioni Non Finanziarie (DNF, normate dal D.Lgs. n. 254/2016) in caso di violazioni nel processo di accountability delle imprese, specie laddove esse includano palesi violazioni del principio di fiducia verso gli stakeholder. La normativa attuale prevede un regime sanzionatorio applicabile in questi casi (per la precisione da 25.000 a 150.000 euro, a seconda dei casi).

Consob accompagna le aziende interessate a pubblicare una DNF – od obbligate per legge a farlo – con un’apprezzabile progetto pluriennale, che inizia a dare i primi risultati, seppure con ampi margini di miglioramento, e negli ultimi 3 anni ha pubblicato una rendicontazione a riguardo (qui i report in originale, dal 2018 ad oggi). L’impegno dei funzionari Consob è particolarmente rivolto, nel corso dell’attività di vigilanza, a sollecitare alle aziende verso cambiamenti strategici e riflessioni su eventuali non compliance, e nei rapporti pare essere dedicata particolare attenzione ai comportamenti – anche dei Consigli di Amministrazione – relativi alla qualità del processo di materialità.

Lato ammende, invece, non si ha alcuna notizia: pare che l’impianto sanzionatorio, che pure esiste, non sia mai stato applicato, in una specie di moratoria di fatto, forse in ossequio a una precisa strategia che prevede l’applicazione di una pressione crescente sulle aziende, o per altri motivi non dichiarati, o ancora – osservano alcuni commentatori – a causa dell’assenza di risorse professionali adeguate a esercitare una concreta ed efficace azione di controllo da parte appunto della Consob, che dovrebbe effettuare l’accertamento e l’irrogazione delle sanzioni sulla base di verifiche effettuate a campione, delle quali però, paradossalmente, la relazione annuale della Consob stessa non riporta alcunché, con il risultato che chi dovrebbe vigilare sulla corretta rendicontazione non rendiconta a sua volta, o rendiconta solo parzialmente.

In quest’ottica, la giustizia italiana ci sta mettendo del suo: è recente la prima condanna a carico di un’azienda per pubblicità scorretta in campo ambientale. A quando allora il reato di Greenwashing nelle comunicazioni sociali obbligatorie in campo ESG, e – perché no – in quelle facoltative?

Come insegnano la storia dell’economia aziendale, della ragioneria e del diritto, senza sanzione non esiste norma efficace, ed anche quando è prevista una sanzione, in assenza di applicazione puntuale della stessa le violazioni si moltiplicano. Le trasgressioni del patto etico e di trasparenza che dovrebbe legare aziende e stakeholder verranno finalmente, prima o poi, considerate alla stessa stregua dei falsi in bilancio?




Lo spettacolare disastro di Chanel su TikTok

Lo spettacolare disastro di Chanel su TikTok

immaginate spendere più di 800 dollari (825 per la precisione) per un calendario dell’avvento, magari del vostro marchio preferito, e ritrovarci dentro un paio di campioncini, qualche sticker (con il logo!), un braccialetto e un sacchetto (sempre con il logo!) di quelli che si usano per incartare le borse, le scarpe o i profumi costosi, ma senza le borse, le scarpe e i profumi costosi, chiaramente. Immaginate di essere una ragazza che sta su TikTok e di trasformare questa piccola grande delusione, il vostro battesimo nel mondo del lusso, probabilmente la prima volta che acquistate qualcosa di prezioso o presunto tale, in una serie di video (ben otto) che esprimono il vostro dispiacere e incredulità, ma anche tutto il sano trolling di cui sono capaci le generazioni digitali. È andata più o meno così per Elise Harmon, tiktoker californiana che questa settimana si è ritrovata suo malgrado al centro di una polemica che ha coinvolto Chanel e il suo ormai celebre calendario dell’avvento, grazie alla sua video-recensione che ha collezionato più di 50 milioni di visualizzazioni sulla piattaforma. «Sono pazza? Non ho mai visto un calendario dell’avvento di Chanel, vediamo se vale l’hype», dice la ragazza che evidentemente, prima di acquistare il calendario a forma di bottiglia di Chanel N°5 realizzato per celebrare il centenario della fragranza, non aveva controllato cosa ci fosse dentro (sul sito era possibile farlo, ma perché rovinarsi la sorpresa? Appunto).

@eliseharmon

 

Worth the hype? Probably not but it is pretty

♬ It’s Beginning to Look a Lot like Christmas – Michael Bublé

Risultato: erano perlopiù sciocchezzuole pensate apposta per glorificare il logo dalla doppia C e tutto il suo immaginario e allo stesso tempo per permettere, a chi non ha i soldi per comprare una borsetta, di possedere almeno il sacchetto che di solito la contiene. Il trucco più vecchio dei marchi del lusso, quello che una volta si chiamava brand extension, lo stesso che oggi porta i brand a sperimentare nel metaverso o negli universi dei videogiochi, un escamotage utilissimo a crescere una nuova generazione di consumatori che in questo modo si abituano a considerare quel determinato logo, tramite la sua estensione, qualcosa di desiderabile. Se non fosse che questi nuovi consumatori sono cresciuti sui social e sono piuttosto schizzinosi, e volubili, nello scegliere cosa merita la loro venerazione: Chanel, mi stai prendendo in giro? C’è poi anche il fatto che pochi possono permettersi di essere sfacciatamente ricchi sui social. Se hai comprato un oggetto di lusso e te ne stai vantando online, è opportuno che qualcosa vada storto, così tutt* insieme possiamo prendercela con i veri cattivi: i marchi da ricchi.

In uno dei suoi video, mentre i suoi follower continuavano ad aumentare, Harmon dice di essere stata bloccata dall’account ufficiale di Chanel su TikTok, che però non esiste, cioè c’è, ma è inattivo e impostato come profilo privato, così gli appassionati della saga del calendario dell’avvento si sono riversati, arrabbiatissimi, per chiedere giustizia sull’Instagram del marchio, quasi 48 milioni di follower, proprio mentre quelli erano occupati a promuovere la sfilata Métiers d’Art che si teneva a Parigi lo scorso 7 dicembre. A nessuno di questi commentatori fregava niente della sfilata, e tanto meno dei video pensati per raccontarla, volevano solo sapere perché il calendario dell’avvento da 825 dollari aveva solo un paio di campioncini e qualche adesivo, Chanel deve rispondere.

Come riporta Vanessa Friedman sul New York Times, nonostante non ci sia stata una risposta ufficiale del marchio all’incresciosa vicenda, Gregoire Audidier – che è International Communication and Client Experience Strategy Director di Chanel Fragrance and Beauty – ci ha tenuto a specificare in una mail che no, loro non hanno mai bloccato nessuno su TikTok, neanche la fastidiosa signorina del calendario dell’avvento (attenzione, non è una traduzione letterale), perché il loro «non è un account attivo e non è stato mai pubblicato nessun contenuto sulla piattaforma», aggiungendo anche che il marchio si sarebbe impegnato a «condividere le nostre creazioni con i nostri follower su tutti i social network su cui siamo attivi. Le nostre pagine sono aperte a tutti e i nostri follower sono liberi di esprimere i propri sentimenti e le proprie opinioni, siano esse entusiaste o critiche». Il che potrebbe significare che Chanel non sbarcherà tanto presto su TikTok o magari che sta già lavorando con la stessa Hermon a una serie video con cui ribaltare la débâcle del maledettissimo calendario dell’avvento, e riconquistare così il favore della Generazione Z. A dire la verità, più di un mese fa erano stati i clienti cinesi ad accorgersi che questo calendario era un po’ una mezza pippa e se ne erano lamentati anche loro, come riporta JingDaily, come spesso succede da quelle parti, dove le collaborazioni e le attivazioni speciali dei brand, che siano anniversari o collezioni pensate per le festività cinesi, sono sempre sotto scrutinio da parte di un consumatore medio che, a differenza di Harmon, è tutt’altro che estraneo al lusso.

Ma perché tanto risentimento per un oggetto di questo tipo? Cosa rende un prodotto virale in questo momento storico, nel bene e nel male? Le ipotesi sono molteplici, a partire dal fatto che sì, il calendario di Chanel era effettivamente costoso per quello che offriva – il prezzo dei calendari degli altri marchi si aggira tra i 300 e i 500 dollari in media – ma era anche la prima volta che la maison francese ne realizzava uno, e si sa che tipo di attaccamento c’è, nell’utente medio di internet più che nel consumatore finale vero e proprio, verso il logo di Chanel. Quell’attaccamento, quella desiderabilità, è ora un’arma a doppio taglio, perché se c’è una cosa che i social ci hanno insegnato è che, qualsiasi cosa si pubblichi, ci sarà sempre qualcuno scontento. L’episodio, intanto, ha generato una discussione sulla piattaforma su cosa significa oggi “lusso”, come dimostra il delizioso video realizzato da Charles Gross, 26enne appassionato di moda con una voce che meriterebbe un podcast, che in risposta a Bryanboy – il quale sosteneva che in questi casi si paga il brand e non il contenuto – ha parlato di qualità, di aspettative e standard. Una diatriba in realtà piuttosto vecchia, ma che oggi si riformula grazie al potere di espressione di cui ogni consumatore, abituale o no, esperto o no, sincero o no, gode sui social: ci sarà sempre una Elise Harmon per ogni Chanel.




Consob, stabile in numero di società che pubblica la DNF, ma cresce il ruolo dei Cda sui temi ESG

Consob, stabile in numero di società che pubblica la DNF, ma cresce il ruolo dei Cda sui temi ESG

Nel 2020 il numero di società che ha presentato una Dichiarazione non finanziaria (DNF) è rimasto invariato rispetto al 2019 a 151, ma è aumentata la loro consapevolezza sui temi ESG e il loro impegno nell’attuazione e nell’integrazione nelle strategie aziendali anche con il coinvolgimento dei consigli di amministrazione. Sono questi i risultati dell’analisi effettuata dalla Consob sulla rendicontazione non finanziaria delle imprese, con l’obiettivo di valutare i comportamenti delle società quotate che possono segnalare progressi nel processo di trasformazione culturale legato alla considerazione dei fattori ESG nella definizione dei modelli di business, dei piani operativi e della corporate governance.

Un quadro che indica un miglioramento dell’integrazione dei fattori ESG nelle strategie delle società quotate a piazza Affari, come sintetizza il “III Rapporto CONSOB sulla rendicontazione non finanziaria delle società quotate italiane”, presentato dal Commissario Consob Carmine Di Noia in un webinair in cui è stato anche fornito il risultato di una surveysulla “Consapevolezza degli amministratori verso i temi ESG” realizzata da Nedcommunity, l’associazione italiana degli amministratori non esecutivi e indipendenti, su board leadership e business sostenibile.

Il report parte dall’analisi dei documenti pubblicati dalle società come DNF, concentrandosi sulle informazioni concernenti l’analisi di materialità, e sui Piani strategici presentati agli investitori con l’obiettivo di comprendere, come rileva Giovanna Di Stefano, Consob, se l’informativa non finanziaria possa giocare un ruolo come leva di trasformazione. Nel 2020, le società con azioni ordinarie quotate sull’MTA che hanno pubblicato una DNF sono 151, incluse 3 imprese non obbligate. In continuità con gli anni precedenti, la maggior parte delle imprese ha pubblicato la sola DNF (137 casi), anche attraverso un Bilancio di Sostenibilità.

Undici società (9 nel 2018) hanno integrato l’informazione finanziaria con le informazioni non finanziarie richieste dalla disciplina, mediante rispettivamente un Rapporto Integrato (8 casi), un Rapporto Integrato insieme a un Rapporto di sostenibilità (2 casi) e la diffusione di un Rapporto Integrato in aggiunta alla DNF (in 1 caso). Inoltre 3 società hanno pubblicato, oltre alla DNF, un Rapporto di sostenibilità. Nel complesso, il 22% delle DNF sono state incluse nella relazione sulla gestione delle imprese.

Fonte: Consob

Quanto al coinvolgimento degli organi di amministrazione nelle tematiche di sostenibilità si nota un incremento della partecipazione del cda. Il numero di società che ha coinvolto il board nell’analisi di materialità è aumentato a 39 società, dalle 21 del 2019. Inoltre sono state 32 quelle che nel 2020 hanno fatto formazione del board attraverso specifiche sessioni di induction su temi di sostenibilità, contro le 28 del 2019, anche se non viene dettagliato il grado di approfondimento.

Inoltre, come sottolinea Angela Ciavarella, Consob, tra le imprese che pubblicano la DNF, ben 73 società hanno costituito un comitato di sostenibilità, con un incremento significativo rispetto alle 54 nell’anno precedente. In particolare 6 imprese hanno istituito uno specifico comitato, mentre 70 hanno assegnato le funzioni in materia di sostenibilità a un comitato con altre competenze, in prevalenza nell’area controlli e rischi.

Ma quando si tratta di attuare le dichiarazioni di intenti, come le aziende integrano i valori ESG nelle strategie? I temi non finanziari e obiettivi di lungo periodo sono stati citati in 28 casi all’interno di Piani Strategici presentati alla comunità finanziaria (su un totale di 59 società), gli SDGs dell’Onu sono ricordati in 15 casi7 società hanno integrato le considerazioni finanziarie e non finanziarie, 1 società ha indicato la materialità come elemento della pianificazione strategica.

Anche i board utilizzano in misura maggiore le tematiche non finanziarie come parametro di riferimento. Elementi ESG sono richiamati in 19 linee guida del board uscente su 50 (38% dei casi vs il 21% del 2018); in 37 autovalutazioni del board (13 nel 2018) e in 32 programmi di induction. I temi più citati sono la sostenibilità in generale e l’innovazione digitale; emergono anche nuove voci relative all’ambiente e alle relazioni con gli stakeholders.

Fonte: Consob

I fattori non finanziari sono inoltre entrati a pieno titolo nei parametri per definire le politiche di remunerazione degli amministratori e dei manager. E’ quasi raddoppiato a 63 società il numero di quelle che correlano la remunerazione dei CEOs a fattori ESG (33 nel 2018), in 53 casi per valutazioni di breve periodo e 29 casi di lungo periodo. La quota di compensi legata a variabili ESG è in media pari al 17% per quanto riguarda le remunerazioni di breve, mentre è del 16% la media di quelle legate a fattori ESG lungo periodo.

Le remunerazioni parametrate a obiettivi sostenibili sono presenti in prevalenza nelle società di maggiori dimensioni, 27 casi per il Ftse Mib e 16 per il Mid Cap. Le imprese finanziarie prevedono parametri ESG in 17 casi, contro i 34 casi de settore industriale e i 12 casi dei servizi. I compensi sostenibili sono più frequenti nelle società a controllo pubblico. Nel breve periodo i compensi sono in prevalenza legati a fattori sociali (34 casi) mentre nel lungo periodo prevalgono i fattori ambientali. 

Fonte Consob

Livia Piermattei, Methodos e NedCommunity, ha presentato un’analisi focalizzata sui consigli di amministrazione per valutare consapevolezza, coinvolgimento, percezioni e aspettative dei membri degli organi di amministrazione e controllo in merito ai profili non finanziari. La ricerca evidenzia come il 76% dei rispondenti, in crescita rispetto al 41% dello scorso anno, sia pienamente convinto che le strategie integrate ESG abbiano un un impatto positivo sulla performance finanziaria.

L’81% dei rispondenti ritiene che gli amministratori indipendenti dovrebbero svolgere un ruolo attivo nell’integrazione degli ESG nelle strategie di lungo periodo, tuttavia solo il 59% dei rispondenti ritiene che in realtà lo facciano. La quota di rispondenti (52%) che ha descritto orientamenti “leading”, proattivi del Cda sulle strategie di lungo termine, è per la prima volta superiore alla quota “lagging” (36%)

Fonte: Nedcommunity survey-Consob

Sara Lovisolo di Borsa Italiana, nella sua presentazione “Reporting di sostenibilità di nuova generazione: Verso la costruzione di una “Equity story” di lungo termine?”, ha identificato i trend più importanti a livello internazionale legati al tema del reporting di sostenibilità. Il primo trend è quello legato a un processo di reporting che si è trasferito da rendicontazione di input a risultati e impatti. Il secondo trend identifica il focus dei mercati su informazioni forward looking. Il terzo trend è quello legato alla standardizzazione.




L’agricoltura è più sostenibile grazie al digitale

L’agricoltura è più sostenibile grazie al digitale

Il comparto agricolo è stato per lunghi anni la principale voce di spesa e di finanziamento (attraverso la Politica Agricola Europea) della CEE prima e dell’Unione Europea poi.

Col passaggio di investimenti, interessi e occupati da questo ad altri settori come quelli facenti parte del secondario e, ancora di più del terziario e del terziario avanzato, l’agricoltura ha progressivamente perduto parte significativa della sua importanza rimanendo però per molti paesi, tra cui l’Italia, un punto di eccellenza e di riferimento per l’intero sistema produttivo.

Attualmente, anzi l’industria primaria e quella dei servizi potrebbero contaminarsi reciprocamente. Con la rivoluzione digitale, infatti, vi è la possibilità di rilanciare un settore attraverso la congiunzione di una delle più antiche attività umane con le tecniche produttive più avanzate e innovative.   

Anche in questo caso, come spesso accade quando ci troviamo di fronte ad una fase di rottura tecnologica e culturale, vi è il confronto fra tradizione e innovazione che però potrebbe portare a significativi sviluppi positivi per tutto il genere umano.

L’innovazione digitale in agricoltura è, soprattutto, un grande incentivo al miglioramento della competitività e, come tale, richiede un approccio adeguatamente consapevole delle necessità di un sistema tecnologico più orientato alla concorrenza sul mercato e più attento al soddisfacimento dei consumatori. Il mercato agricolo 4.0 nel 2020 è valso per l’Italia circa 540 milioni (circa il 4% del mercato globale), registrando una crescita del 20% rispetto all’anno precedente, in linea con l’andamento pre-pandemia.

La spesa è trainata dalle soluzioni di Agricoltura di Precisione – gli strumenti a supporto delle attività in campo – come i sistemi di monitoraggio e controllo di mezzi e attrezzature (36% del mercato), ed i macchinari connessi (30%). Sono 538 le soluzioni di Agricoltura 4.0 disponibili per il settore agricolo in Italia (oltre 100 in più rispetto al 2019), che usano prevalentemente sistemi di Data Analytics, piattaforme o software di elaborazione e Internet of Things, e trovano applicazione nelle fasi di coltivazione, semina e raccolta dei prodotti in diversi comparti, fra i quali emergono l’ortofrutticolo, il vitivinicolo e il cerealicolo.

I fattori che frenano la crescita sono, tuttavia, diversi, tra questi vi è anche l’assenza di connessione internet nelle campagne e la mancanza di adeguate infrastrutture a sostegno delle attività più avanzate. Il problema relativo alle infrastrutture è piuttosto diffuso in Italia e riguarda anche altri contesti oltre a quello agricolo.

A questo proposito, tutto il nostro Paese necessiterebbe di un piano strutturato relativo alle connessioni veloci indirizzato a coprire l’intero territorio nazionale in maniera capillare, dando seguito all’assioma secondo il quale una connessione internet efficiente è a tutti gli effetti anche uno strumento di cittadinanza.

Come in tanti altri poi, vista anche la sua enorme versatilità, la blockchain rappresenta un capitolo importante per quanto riguarda il settore agricolo, in particolare, per quanto concerne la possibilità di raccogliere, registrare, analizzare, validare e certificare in modo sicuro dai, informazioni e documentazione relativa ad ogni fase dalla supply chain attraverso le sue numerose sfaccettature.

Le tecnologie geo-spaziali possono fornire una connessione importante tra mondo digitale e mondo reale fornendo una più vasta e globale capacità di analisi, che si avvale di una visione complessiva dei fenomeni in corso, mantenendo la possibilità effettuare più minuziosi esami.

Il mercato agricolo italiano, insomma, ha un enorme potenziale di crescita e sviluppo, soprattutto grazie all’intervento della tecnologia. Come per tutti gli altri settori in cui l’innovazione è fondamentale, anche in questo il prerequisito è il possesso di adeguate competenze professionali, in un contesto caratterizzato da un livello di cultura aziendale e processi operativi basati più sul trasferimento di competenze che sull’innovazione e ottimizzazione dei processi produttivi.

Le sfide anche in ambito agricolo non mancheranno di certo in futuro e per l’agricoltura 5.0 queste saranno rappresentate in particolare dall’ingresso della robotica, dalla intelligenza artificiale, e dalla tracciabilità avanzata. Dovremo, però, verificare se la visione di sviluppo italiana sarà in grado di sostenere le prospettive ambiziose che sono necessarie per riuscire ad accrescere in termini competitivi il ruolo del nostro Paese nei confronti degli altri competitor. Questa, nel complesso, sarà la sfida che determinerà le sorti di un importantissimo comparto produttivo che deve riuscire a confrontarsi con avversari sempre più numerosi e agguerriti.