1

La prima sconfitta elettorale di Twitter (e di Salvini)

La prima sconfitta elettorale di Twitter (e di Salvini)

Nel 2017 Jonathan Bright, un ricercatore dell’Istituto di Internet di Oxford esperto nel combinare le scienze sociali con un approccio computazionale, pubblicò una ricerca destinata a divenire una pietra miliare negli studi fra social network e politica. Si intitola: “Fare campagna elettorale sui social media può fare la differenza?”. Prendeva in esame due campagne elettorali piuttosto ravvicinate nel Regno Unito, nel 2015 e nel 2017, confrontandole; e i risultati erano netti: un politico poteva aspettarsi un 1 per cento in più di voti aumentando il numero di tweet di un certo fattore. Era automatico, vinceva chi twittava di più.

Nel 2016 c’erano stati l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca e il referendum della Brexit a indicare una forte correlazione fra tweet e risultati elettorali, ma quella ricerca diceva di più. Diceva: non è un caso, con i social si vincono le campagne elettorali. In realtà era vero anche il contrario: attraverso i social si capiva chi avrebbe vinto una campagna elettorale. Dal 2013, anno dell’exploit del M5s, in Italia i vincitori non li abbiamo previsti sui giornali o tramite i sondaggi ma seguendo le timeline di Twitter. A volerla dire tutta non era chiarissimo quale fosse la causa e quale l’effetto e fino a che punto: ovvero se twittare molto portasse voti, o se le conversazioni su Twitter fossero indicative delle opinioni degli elettori. Ma questa cosa esisteva, ha funzionato per sette anni e moltissime tornate elettorali. Fino a lunedì scorso. 

Il 21 settembre per la prima volta Twitter ha perso. Intanto ha perso il referendum. Nettamente. Se uno avesse dovuto fare una previsione a partire dai tweet dell’ultimo mese il No avrebbe vinto 78 a 22. In realtà, qualcuno lo ha fatto: i ricercatori di KPI6, una società specializzata in queste ricerche (ma anche Matteo Flora). E’ finita esattamente al contrario. Strano, no? Per la prima volta Twitter non ha funzionato come fotografia degli elettori, ma come una bolla. Quelli del No twittavano, gli altri, zitti, votavano. Molto strano. Di solito si diceva che sui social ci stavano i populisti, ma il No era raccontato da partiti e leader interpreti di una linea opposta. 

La rottura non deve essere stata casuale perché, secondo i dati di KPI6, si è replicata alle regionali. Fra i candidati, solo in Liguria ha vinto il candidato che ha twittato di più (Toti, 430 tweet in un mese). Per esempio Giani, che con la sua rimonta in Toscana ha sorpreso tutti, nello stesso periodo ha fatto appena 20 tweet contro i 101 della rivale leghista. La cosa si fa ancora più interessante se guardiamo ai cinque leader politici che si sono molto spesi in campagna elettorale. Per loro KPI6 ha costruito un Twitter Impact, un indice che tiene conto del numero di tweet, dei retweet, dei like e dei voti ottenuti dal rispettivo partito. E’ qui insomma che si misura davvero come sono andate le cose e che si vede che Twitter non ha funzionato né come portatore e né come indicatore di voti. Prendiamo Salvini: 1230 tweet, più di 40 al giorno, una media alla Trump: Twitter Impact, 722. Ultimo posto. Risalendo la classifica troviamo Renzi: 80 tweet, con un “impact” di 2832. Poi la Meloni, 114 tweet, “impact” 6430; Di Maio, 31 tweet, uno al giorno, “impact” 17659; al primo posto Zingaretti, 58 tweet, meno di due al giorno, “impact” oltre 20 mila. 

Sono solo i dati delle elezioni del 20 e 21 settembre 2020, potrebbero essere una eccezione, dalla prossima tornata elettorale tutto potrebbe tornare come prima. Oppure no. Oppure Twitter è diventata una bolla, come i centri storici delle grandi città che votano sempre in modo differente dalle periferie, il famoso fattore ZTL. O magari stiamo crescendo e dopo qualche anno ci siamo iniziati a immunizzare dalle campagne a tappeto sui social. Non ci facciamo più sedurre da chi twitta di più, ma da chi ha qualcosa da dire. Se così fosse si spiegherebbe perché il primo partito in questo momento sia guidato da un segretario che sui social ha la stessa disinvoltura che ho io quando ballo lo Schiaccianoci sulle punte. E che negli Stati Uniti il 3 novembre potrebbe diventare presidente un signore che si fa aiutare dalla nipotina ad usare lo smartphone. Non è un ritorno al passato, forse è un passo avanti.




Sfruttava i braccianti africani, sequestrata l’azienda da 7,5 milioni fondata dal nobile bocconiano

Sfruttava i braccianti africani, sequestrata l'azienda da 7,5 milioni fondata dal nobile bocconiano

L’azienda pluripremiata da Coldiretti, modello di start up fondata da un giovane bocconiano di nobili origini, Guglielmo Stagno d’Alcontres, sfruttava i braccianti africani a una quindicina di chilometri di Milano. E’ l’ipotesi che emerge dall’inchiesta ‘Corsa contro il tempo’: quella che, secondo i finanzieri del comando provinciale di Milano, dovevano fare i lavoratori per raccogliere le fragole il più in fretta possibile, minacciati altrimenti di licenziamento o di essere messi in ‘pausa di riflessione’ per un paio di giorni a casa.

Le fragole ‘da Oscar’ dei milanesi 

Frutti succosi e brillanti che da qualche anno spuntano agli angoli di Milano sui camioncini dell’azienda di Cassina de’ Pecchi, la cui sede è nel Parco agricolo Sud, vincitrice dell’Oscar Green di Coldiretti nel 2013 e 2014 e di altri riconoscimenti in tema di sostenibilità ambientale, oltre che seguita su Instagram da sei milioni di follower attratti dalle immagini bucoliche.

.Ora i finanzieri hanno messo sotto sequestro, su disposizione di un giudice, tutti i beni della società, consistenti in 53 immobili, tra terreni e fabbricati, 25 veicoli e 3 conti correnti e hanno nominato un amministratore giudiziario ai fini della continuità aziendale. Valore complessivo, 7,5 milioni di euro. Sette i denunciati per intermediazione illecita e sfruttamento della manodopera, tra cui d’Alcontres,un altro amministratore, due sorveglianti, due impiegati amministrativi e il consulente dell’azienda che predisponeva le buste paga.

Nessun rispetto delle norme anti-Covid, potenziale “bomba a orologeria”

Agli investigatori i braccianti, provenienti da centri di accoglienza tra Milano e la Brianza, con regolare permesso di soggiorno, hanno detto tutti la stessa cosa: “Dovevamo raccogliere e confezionare le fragole a 4,5 euro all’ora per più di nove ore al giorno in tempi impossibili altrimenti alla sera, quando si faceva il bilancio della giornata, ci sgridavano. Nei casi peggiori ci mettevano in punizione a casa due giorni o non ci facevano più lavorare”. “Condizioni degradanti per un salario misero”, aggravate dal mancato rispetto delle misure anti-Covid. “Una potenziale ‘bomba a orolgeria’”, spiega una fonte all’AGI, “decine di lavoratori gli uni vicini agli altri, senza mascherine, bagni, docce. Per fortuna, dai primi riscontri non sono emersi casi di positività”. L’indagine, durata due mesi, era partita dall’analisi delle banche dati a disposizioni dei finanzieri, insospettiti dal fatto che la StraBerry prendesse e mandasse a casa nel giro di due giorni numerosi lavoratori. Per il momento gli indagati non sono stati ancora sentiti in Procura.

“Costretti a usare i diserbanti senza protezione”

Stando ai loro racconti, i braccianti sarebbero stati anche costretti ad utilizzare i diserbanti e i fitofarmaci che rendono ‘più rosse’ le fragole senza dispositivi di protezione,come tute, occhiali e guanti, né il patentino previsto dalla legge per effettuare questo tipo di attività. Del tutto inapplicate, secondo i riscontri di Ats e Vigili del Fuoco, le più elementari norme igieniche.

C’era un solo  un bagno chimico che, da un punto all’altro dei terreni di raccolta, distava una ventina di minuti a piedi. Inoltre, non era previsto neanche un piano antincendi. Durante le operazioni di raccolta, i braccianti hanno spiegato agli inquirenti che non potevano parlare tra di loro perché anche quella era considerata una ‘distrazione’ rispetto all’obbiettivo primario di produrre senza sosta. 

La storia della StraBerry  dall’inizio

“Un esempio riuscito di agricoltura che valorizza il territorio nel segno dell’eco‐sostenibilità”, così Coldiretti nel 2014 laureava con l’’Oscar Green’ Guglielo Stagno d’Alcontres, fondatore della Straberry, l’azienda agricola da 7, 5 milioni di euro sequestrata ieri dalla Guardia di Finanza di Milano per sfruttamento dei braccianti, per lo più africani.

  Un riconoscimento vinto per due anni di seguito, assieme ad altri che celebravano il sogno della fragole pure e lucenti cresciute a “15 chilometri dal Duomo”, come si legge sul profilo istagram dell’azienda, che conta oltre sei milioni di follower.

Tutti incantati dalla narrazione del frutto incontaminato e dalla ricette multicolori per valorizzarne gli aromi.  A 24 anni il giovane messinese con nobili radici (ora  ne ha 31) aveva deciso di investire  2 ettari e mezzo dei terreni di famiglia a Cassina de’ Pecchi, periferia nord est di Milano, per la costruzione di cinque serre fotovoltaiche di 5 mila metri quadrati l’una dove coltivare circa 200 mila piantine di fragole e seimila lamponi.  

Dopo sono arrivati i mirtilli, le more, i succhi e i frullati e e perfino le fragoline di bosco, una vera rarità, che faceva brillare gli occhi ai milanesi quando le vedevano spuntare da una delle tante Ape car col marchio StraBerry disseminate in città. E anche le visite didattiche, l’orto comune “per portarvi a casa tutto il sapore di StraBerry”, l’area picnic, le aperture domenicali alla famiglia.

Insomma, la creazione di una clientela che si identificava nel sogno incontaminato alle porte della grande città.  L’ultimo progetto confidato ai media da d’Alcontres era “un franchising perché il nostro modello potrebbe essere esportabile”. Per adesso l’azienda è nelle mani di un amministratori giudiziario, in attesa degli sviluppi dell’indagine.




Sostenibilità: da Winni’s nuovo ecoformato in plastica monomateriale

Sostenibilità: da Winni's nuovo ecoformato in plastica monomateriale

Un packaging in plastica monomateriale completamente riciclabile che si aggiunge ad un risparmio fino all’84% di plastica rispetto a un flacone di pari formato. Sono i nuovi Ecoformati Pouch di Winni’s, linea ecologica di Madel S.p.a. Il nuovo pack è già disponibile per i formati da 1 litro e verrà introdotto entro la fine del 2020 anche nei formati da 1,5l e da 500ml.

“Il dipartimento di Ricerca&Sviluppo di Winni’s – fa sapere l’azienda in una nota – ha creato per primo una nuova pouch interamente in Polipropilene (PP) capace di garantire gli stessi standard qualitativi e la robustezza della versione precedente. Sia la busta sia il tappo, termosaldato, sono dello stesso materiale, così da rendere l’intera confezione completamente riciclabile nella plastica. Inoltre queste confezioni permettono un minore utilizzo di plastica rispetto ai flaconi di pari formato”.

“L’ecologia per Madel S.p.a. è un progetto globale, che parte dall’azienda e arriva al prodotto – spiega Mattia Testa Direttore Tecnico dell’azienda – e l’implementazione di un packaging di così facile smaltimento nella plastica è un ulteriore passo avanti in questa direzione. Come marchio leader della categoria, siamo stati i primi a lanciarlo per i liquidi detergenti e questo non è che una delle novità in campo di packaging ecologico su cui stiamo lavorando”.

Madel spa, si legge, in tutti i suoi processi produttivi prevede “il massimo impegno nella salvaguardia dell’ambiente con attività che vanno dallo smaltimento differenziato dei rifiuti al riutilizzo degli scarti di produzione, sia plastici che liquidi, fino al riciclo dell’acqua calda proveniente dal processo industriale per riscaldare il reparto di produzione”.

E il sito produttivo, “grazie all’impiego di un impianto fotovoltaico di 2.6 MW su una superficie complessiva di 58mila metri quadri e un cogeneratore di ultima generazione, che offre il suo contributo di 0.65 MW, è in grado di raggiungere così la completa autonomia elettrica. Anche l’illuminazione dell’azienda è sostenibile, grazie alla sostituzione di tutte le luci al neon con quelle al led, per un risparmio del 40%”.




Rai pubblica il bilancio sociale, ma solo per pochi

Rai pubblica il bilancio sociale, ma solo per pochi

Non avviene sicuramente in nessun Paese del mondo, ma in Italia invece sì: il “public service broadcaster” approva il proprio “Bilancio Sociale” – relativo all’esercizio 2019 – ma non gli assegna alcuna pubblicità, se non la pubblicazione, alla chetichella, in una specifica sezione del proprio sito web (www.rai.it/trasparenza).

Non un comunicato stampa, non una promozione comunicazionale seppur minima.

Formalmente, il “Bilancio Sociale” è stato approvato dal Consiglio di Amministrazione di Viale Mazzini il 28 maggio 2020, ed ha ricevuto l’imprimatur della società di revisione Kpmg spa (a firma del socio Marco Maffei) l’8 giugno, ma è rimasto documento ad esclusiva circolazione interna per oltre un mese: il file, in formato .pdf, risulta creato il 2 luglio, e risulta pubblicato su web il 7 luglio 2020.

Non è la prima volta che si registra questo fenomeno incomprensibile, e lo abbiamo già segnalato – anzi (ci si consenta) – denunciato su queste colonne, nel silenzio dei più: come se si trattasse di un documento minore, di un report tecnico… Come se non fosse questo lo strumento cognitivo attraverso il quale gli “stakeholder” della tv pubblica dovrebbero verificare se la Rai svolge effettivamente “servizio pubblico”, o più simpaticamente dichiara di svolgerlo.

Il silenzio, totale, da parte della comunità professionale, ma anche delle istituzioni e della politica è veramente impressionante.

Eppure, il documento è ricco di dati, di analisi, di stimoli, che potrebbero (dovrebbero) provocare una discussione pubblica sulla materia “servizio pubblico”…

Eppure la Commissione bicamerale di Vigilanza della Rai dovrebbe leggere, anzi studiare, discutere questo “bilancio”, pagina per pagina, e farne oggetto di sana analisi critica.

Silenzio totale anche da parte della commissione presieduta dal senatore Alberto Barachini (esponente di Forza Italia).

Una qualche ragione di questa inerzia assoluta (tacita connivenza?!) deve pur esserci.

Permangono domande senza risposta: perché la Rai assegna a questo “bilancio sociale” una circolazione semi-clandestina?

Perché la Rai non promuove una pubblica discussione con la società civile, con la cittadinanza tutta che pure è costretta a pagare il canone attraverso l’automatismo della quota sulla bolletta delle utenze elettriche?!

Sono in fondo i cittadini tutti gli effettivi “stakeholder”, e non soltanto gli azionisti (Ministero dell’Economia e delle Finanze per il 99,5583 % e la Società Italiana Autori Editori – Siae per lo 0,4417 %), i dipendenti ed i collaboratori, ed anche, in qualche modo, le istituzioni legislative ed esecutive, i sindacati, le autorità di controllo… E finanche gli investitori pubblicitari, ed anche  i fornitori…

Forse la risposta è tra le righe dell’incipit della “Lettera agli Stakeholder”, che apre il bilancio: “Il Gruppo Rai attribuisce valore al Bilancio Sociale/Dnf 2019, non solo come risposta alle previsioni della normativa, ma con l’obiettivo di fornire a tutti una articolata raccolta di informazioni e relative chiavi di lettura, sull’attività svolta dal Gruppo, per contribuire allo sviluppo sostenibile dell’intero sistema Paese”, firmano l’Amministratore Delegato Fabrizio Salini ed il Presidente Marcello Foa. Forse si tratta di simpatica… ipocrisia istituzionale: Salini e Foa “si vivono” questo documento come un mero atto dovuto, un report formale. Scrivono “alfa”, ma in cuor loro pensano “il contrario di alfa”?!

Le origini storiche del “Bilancio Sociale” della Rai

Procediamo con ordine, precisando che chi redige queste noterelle conosce assai bene la materia, perché ebbe il piacere (l’onore) di segnalare ad Anna Maria Tarantola, Presidente della Rai (in carica dal giugno 2012 all’agosto 2015), l’opportunità di dotare il Gruppo Rai di un “bilancio sociale”.

Pochi mesi prima della scadenza del suo mandato, nella nostra veste di consulenti Rai, suggerimmo infatti alla allora Presidente di promuovere una prima edizione del fino ad allora mai realizzato “Bilancio Sociale” Rai: sapevamo di toccare corde sensibili, anche perché Tarantola si era interessata della questione quando era stata alla guida della Banca d’Italia (di cui è stata Vice Direttrice Generale fino al 2012), e basti ricordare che nel 2014 Banca d’Italia ha pubblicato la prima edizione del suo “Rapporto ambientale”.

Fu quindi realizzato il cosiddetto “numero zero” del “Bilancio Sociale” Rai, e fu presentato in pompa magna, di fatto a mo’ di ultimo atto pubblico del duo Anna Maria Tarantola – Luigi Gubitosi (Dg): eravamo nell’estate del 2015, il Bilancio Sociale presentato era riferito ovviamente all’esercizio 2014, e ne scrivemmo con dovizia di particolari anche su queste colonne (vedi “Key4biz” del 29 luglio 2015, “Il numero zero del ‘Bilancio Sociale’ Rai: più ombre che luci).

Crepi la modestia: possiamo farci vanto di essere stati tra i primi in Italia ad aver posto la questione dell’esigenza di un “Bilancio Sociale” per la Rai (clicca qui, per leggere la nostra “Lettera aperta al nuovo Cda della Rai”, sul mensile “Millecanali” di dieci anni fa): scrivevamo nel marzo del 2009, “deve essere comunque redatto un Bilancio Sociale (da inviare per via postale a tutti gli abbonati), con documentazione accurata che evidenzi in modo chiaro e netto “cosa” è finanziato dal canone, in quale proporzione e soprattutto per quale ragione”…

Correva l’anno 2015: può peraltro sembrare incredibile, ma incredibile non è, a distanza di 3 anni tre, Viale Mazzini ha “pubblicato”, soltanto nel luglio del 2018, la prima inedita edizione del “Bilancio Sociale” (quello presentato nel luglio 2015 era giustappunto una sorta di “numero zero”), ma assegnandogli – anche allora – zero attenzione, e zero visibilità: non fu diramato nemmeno un comunicato stampa, e la notizia non è stata degnata di alcuna attenzione mediatica, anche perché Rai si è limitata a “inserirlo” nell’elenco dei documenti della già citata sezione “Trasparenza” (che certo non gode di audience… di massa).

Unica testata giornalistica ad aver reso nota l’avvenuta pubblicazione è stata giustappunto “Key4biz”, a metà novembre del 2018: vedi l’articolo “Bilancio Sociale Rai 2017, di male in peggio” (edizione del 16 novembre 2018)……

Il “Bilancio Sociale” Rai presentato nel 2018 e nel 2019: nessuna presentazione pubblica

Più esattamente, il primo (sedicente) “Bilancio Sociale” della Rai è stato formalmente approvato l’11 giugno 2018, e reca la firma della allora Presidente Monica Maggioni (in carica dall’agosto 2015 al luglio 2018) e dell’allora neo Direttore Generale Mario Orfeo: la decisione di mantenerlo come documento semi-clandestino potrebbe essere stata allora co-determinata dalla volontà del direttore entrante di non accendere i riflettori sul predecessore. Peraltro, il Dg Mario Orfeo era entrato formalmente in carica il 9 giugno 2018, mentre Antonio Campo Dall’Orto era cessato dall’incarico il 6 giugno… Rimandiamo al succitato nostro articolo di commento critico: come si evince dal titolo, l’evoluzione del “Bilancio Sociale” – dal “numero zero” del 2014 alla “prima edizione” del 2017 – poteva essere sintetizzata con un “di male in peggio”.

E veniamo al 2019, relativa all’esercizio 2018: basti citare il titolo dell’articolo di “Key4biz” del 5 luglio 2019: “La Rai pubblica il ‘Bilancio Sociale’ 2018 senza avvisare nessuno”. Il bilancio era stato pubblicato, ancora una volta in sordina, il 18 giugno sul sito “Trasparenza”. L’anno scorso, però, curiosamente, discreta attenzione (retorica) era stata dedicata all’iniziativa, con un comunicato stampa Rai del 9 maggio (approvazione sia del bilancio di esercizio sia del bilancio sociale da parte del Cda), nel quale ben 17 righe venivano dedicate al “bilancio sociale”, a fronte delle 37 del “bilancio di esercizio”. Il bilancio sociale, nella versione 9 maggio 2019, era stato approvato all’unanimità dal Cda, ma alcuni consiglieri avevano richiesto degli approfondimenti, a partire dal consigliere eletto dai dipendenti, Riccardo Laganà (come ha segnalato lui stesso sulla propria pagina Facebook). Approfondimenti non pervenuti nella versione finale “pubblicata” il 18 giugno 2019, a distanza di oltre un mese dall’approvazione da parte del Cda…

Anno 2020: silenzio totale…..

“Bilancio Sociale”: una patata bollente che passa di mano, da una direzione all’altra

Mutatis mutandis, la patologia (perché non può essere considerata altrimenti) si riproduce, e, quindi, si aggrava.

A questo punto, è evidente: a Rai, retorica a parte, del “bilancio sociale” importa nulla. È veramente un “atto dovuto”.

Questa sorta di “palla al piede” passa poi di… mano in mano, come palla da biliardo, da una direzione all’altra di Viale Mazzini:

  • 2015: per il Bilancio Sociale 2014, il progetto è stato curato dalla Struttura Sostenibilità e Segretariato Sociale, all’interno della Direzione Comunicazione e Relazioni Esterne; questa iniziativa – va rimarcato – era stata realizzata in anticipo rispetto alla normativa poi emanata;
  • 2018: dopo 2 anni di “non pervenuto”… esce dal cappello magico il Bilancio Sociale 2017, il cui progetto è stato curato dalla struttura Responsabilità Sociale della Direzione Rapporti Istituzionali, facente parte della Direzione Comunicazione, Relazioni Esterne, Istituzionali e Internazionali;
  • 2019: per il Bilancio Sociale 2018, il progetto è stato curato dalla struttura Bilancio Sociale della Direzione Finanza e Pianificazione, dal “Chief Financial Officer” (Cfo); Dirigente responsabile, Piero Gaffuri;
  • 2020: per il Bilancio Sociale 2019, il progetto è stato curato addirittura da una struttura dedicata: si tratta giustappunto della Struttura Bilancio Sociale Rai, affidata a Maurizio Rastrello dal luglio 2019 direttamente dall’Amministratore Delegato (Rastrello è stato da dicembre 2017 a marzo 2019 Direttore dello Staff Direttore Generale, Direzione che da agosto 2018 è stata denominata Staff Amministratore Delegato).

In sostanza, attualmente la Struttura Bilancio Sociale è “a diretto riporto” dell’Amministratore Delegato nella cosiddetta “Corporate” (al pari – per capirci – della Direzione Marketing o della Direzione Creativa o della Direzione Ufficio Studi): quindi, se il “Bilancio Sociale” è in… sordina, si deve al… pianista Fabrizio Salini.

Insomma, la “patata bollente” passa di mano in mano: purtroppo, tra un passaggio e l’altro, non si ha chance di osservare un percorso evolutivo granché significativo. Prevale, come spesso accade a Viale Mazzini, una deriva conservativo-inerziale.

“Bilancio Sociale” e “Dichiarazione Non Finanziaria”: una voluta confusione, un brutto ircocervo

Assolutamente necessaria una precisazione “metodologica”: questo “Bilancio Sociale” si pone come creatura ibrida, un brutto ircocervo.

In effetti, esso è “atto dovuto” sulla base di due disposizioni, una normativa ed un’altra regolamentativa (comunque rilevante in termini normativi).

È “Bilancio Sociale” ma anche “Dichiarazione Non Finanziaria” ovvero – dall’acronimo “Dnf”: l’obbligo di “Bilancio Sociale” è stato infatti introdotto nel 2017, mentre la “Dnf” nel 2016: la “Dnf” è antecedente, e si è deciso – a parer nostro errando – di considerare il “Bilancio Sociale” una sorta di integrazione, una specie di appendice del Dnf, snaturandone così la vera funzione. Si mischiano mele e pere, ovvero si cerca di salvare capre e cavoli.

Si ricordi che sono obbligate a produrre la “Dnf”, le grandi imprese considerate enti di interesse pubblico (banche, assicurazioni, società quotate…) con almeno 500 dipendenti e uno stato patrimoniale superiore a 20 milioni o ricavi di almeno 40 milioni di euro. È un documento altro – vogliamo rimarcare – rispetto al “Bilancio Sociale”.

Si legge nel “Bilancio Sociale” 2017, il primo imposto per legge, che è esso è “redatto anche recependo quanto, ad integrazione del citato Decreto (quello che impone la “Dnf”, appunto, nota nostra), indicato all’art. 12 della Convenzione tra Ministero dello Sviluppo Economico e la Rai del 2017” Da segnalare che nell’anno 2017 vigeva ancora – incredibilmente – il “contratto di servizio 2010-2012”! Il successivo “contratto di servizio”, per il triennio 2018-2020, ha visto la luce soltanto nel marzo del 2018…

Quindi, questo benedetto “Bilancio Sociale” è stato “imposto” dalla Convenzione del 2017, che ha durata decennale, e dal successivo Contratto di Servizio (quello 2018-2020), che ha durata triennale.

L’articolo 12 della Convenzione tra Mise e Rai, perfezionata il 27 luglio 2017, recita, al comma 2: “La società concessionaria redige annualmente, entro quattro mesi dalla conclusione dell’esercizio precedente, un bilancio sociale, che dia anche conto delle attività svolte in ambito  socio-culturale, con particolare riguardo al rispetto del pluralismo informativo e politico, alla tutela dei minori e dei diritti delle minoranze, alla rappresentazione dell’immagine femminile e alla promozione della cultura nazionale. Il bilancio sociale dà altresì conto dei risultati di indagini demoscopiche sulla qualità dell’offerta proposta così come percepita dall’utenza e della corporate reputation della società concessionaria”.

Il Bilancio Sociale è previsto dal vigente Contratto di Servizio tra Stato e Rai per il triennio 2018-2020 (si ricordi che questo evanescente contratto ha avuto complessa gestazione ed è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale soltanto nel marzo 2018), mentre la “Dichiarazione consolidata di carattere non finanziario” è obbligatoria ai sensi del Decreto Legislativo 254 del 30 dicembre 2016, di attuazione della Direttiva 2014/95/Ue, e descrive le iniziative e i principali risultati in ambito di “sostenibilità” raggiunti.

Si legge a pagina 215 del documento Rai: “In considerazione del fatto che il documento ha l’obiettivo di rispondere anche a quanto indicato dall’art. 25 del Contratto di Servizio 2018-2022 tra il Ministero dello Sviluppo Economico e Rai, esso costituisce anche il Bilancio Sociale del Gruppo” (la sottolineatura è a nostra cura). Quell’“anche” – ripetuto – è semanticamente e politicamente fondamentale, per comprendere la funzione di questo report per Rai: accessorio, in sostanza, e subordinato alla “Dnf”. Così – riteniamo – non dovrebbe essere.

Una evoluzione grafica discretamente costosa

Rispetto all’edizione precedente, il “Bilancio Sociale” registra una evoluzione grafico-estetica gradevole, sebbene ci siano errori intollerabili: per esempio viene proposto un sommario, ma il documento che consta di 234 pagine, non ha un indice, e non è c’è nemmeno una datazione né una nota sugli autori e nemmeno sulla struttura aziendale che l’ha prodotto!

È comunque sicuramente più piacevole da sfogliare, e d’altronde Viale Mazzini assegna risorse non indifferenti a questo aspetto del documento, se è vero che nel novembre del 2019 attivava una procedura, a firma della Direttrice della Direzione Acquisti Rai, l’avvocata Monica Caccavelli, per assegnare ben 164mila euro (per la precisione 134.160.160 euro più iva) per il “progetto grafico unitario” e per l’impostazione grafica del bilancio annuale, della dichiarazione non finanziaria alias bilancio sociale, e per il bilancio semestrale, per un periodo triennale. Una somma senza dubbio appetibile per qualsivoglia consulente grafico, trattandosi di ben 56mila euro l’anno. Alla procedura sono stati invitati: LeftloftJekyll & HydeThe Visual AgencyErgoncomZero3Zero9. Ha vinto la Zero3Zero9, che ha offerto 111.352,80 euro, ovvero, al lordo iva, fanno 136mila euro, cioè 45.283 euro l’anno. Non poco, si converrà, dato che qui trattasi di mera consulenza grafica e non di contenuti.

Da segnalare che questa procedura non prevedeva la realizzazione di una sezione di sito web dedicata, ma soltanto il layout grafico, ed infatti il bilancio 2019 è disponibile esclusivamente in forma statica, su un file in formato pdf (sul sito Rai soltanto il primo bilancio sociale – il succitato “numero zero” del 2015 – ha un sito web dedicato).

E non vogliamo qui approfondire i costi per contributi di ricerca e consulenza e studio che sono alla base del “bilancio sociale” e del “bilancio di esercizio”, senza dimenticare gli apporti delle società di revisione…

Qui ci limitiamo a ricordare che nel 2019 Rai ha impegnato risorse per 1.500.000 (un milione e mezzo di euro) per “Servizi di consulenza strategica nello sviluppo di progetti industriali del Gruppo Rai” ed altrettanti 1.500.000 (un milione e mezzo di euro) per “Servizi di consulenza per l’esecuzione operativa di progetti strategici del Gruppo Rai”… Senza dimenticare che ci si domanda se è proprio necessario affidare attività così delicate per la strategia Rai alle solite multinazionali della revisione e della consulenza, da Arthur D. Little a Mc Kinsey a The Boston Consulting Group. L’ultimo piano industriale Rai, presentato al Cda nel marzo 2019, è stato affidato Boston Consulting Group alias Bcg.

Notoriamente il percorso del “piano industriale” Rai è andato a finire su un binario morto, e non soltanto a causa degli effetti del Covid-19…

Il “Bilancio Sociale” Rai, novella edizione, si caratterizza per una impostazione formale per alcuni aspetti ineccepibile, ma quel che riteniamo sfugga è la… vera sostanza.

Il concetto teorico di “sostenibilità materiali”

Ci sono certamente le categorie canoniche, tra tematiche di sostenibilità materiali, e vengono rispettati gli standard internazionali. Il “concetto di materialità secondo i Gri Standards va così interpretato: “Nella rendicontazione finanziaria la “materialità” è solitamente intesa come una soglia per influenzare le decisioni economiche di chi utilizza il bilancio di un’organizzazione, in particolare gli investitori. Un concetto analogo è, altresì, importante nel reporting di sostenibilità, dove però è correlato a due dimensioni, ossia, ad una più vasta gamma di impatti e agli Stakeholder. Nel reporting di sostenibilità la “materialità” è il principio che determina quali temi rilevanti sono sufficientemente importanti da renderne essenziale la rendicontazione. Non tutti i temi materiali hanno pari importanza e l’enfasi posta all’interno di un report dovrà rifletterne la relativa priorità”.

Le tematiche “materiali” identificate sono:

  • “Tematiche sociali”:

Sicurezza dei dati e cybersecurity; Brand reputation; Interazione con gli utenti; Copertura territoriale; Accessibilità, distribuzione dei contenuti e digitalizzazione; Arricchimento storico-culturale e funzione sociale; Impatto economico indiretto

  • “Tematiche attinenti al personale”:

Salute e sicurezza dei lavoratori; Sviluppo, valorizzazione e tutela del capitale umano

  • “Tematiche ambientali”:

Consumo responsabile, emissioni ed elettromagnetismo

  • “Anticorruzione”:

Compliance normativa di settore; Lotta alla corruzione

  • “Diritti umani”:

Diritti umani e diritti dei lavoratori.

Questo set di indicatori è stato sottoposto a giudizio, con tecniche varie, per la valutazione delle tematiche rilevanti dal punto di vista del Gruppo Rai, integrando quanto scaturito nel 2018 dal Top Management, con il risultato dalla rilevazione online che ha coinvolto i Consiglieri di Amministrazione (ad ognuno dei Consiglieri è stato richiesto di esprimere il proprio giudizio circa l’importanza delle 13 tematiche materiali). Su un totale di 12.850 dipendenti, 9.231 hanno aderito al corso di formazione sulla sostenibilità e risposto al questionario. Per quanto riguarda gli utenti, è stata realizzata una indagine conoscitiva Gfk su 1.214 individui di età dai 14 anni in su, con specifico focus sulle nuove generazioni; è stato somministrato un questionario a 92 utenti pubblicitari…

Rilevazioni che oscillano sempre intorno al 6, ovvero alla “sufficienza”

Tutto questo lavorio di rilevazione ha prodotto una serie di tabelle, rispetto alle quali sia consentito manifestare un ironico giudizio: esattamente come avviene per altri strumenti di rilevazione adottati da Rai, si registra, su scala da 0 a 10, un giudizio medio che oscilla intorno al 6, con un campo di oscillazione di poca (o nessuna) significatività ovvero tra 5,9 e 6,6, per quanto riguarda “il giudizio sulle attività svolte da Rai”. Per quanto riguarda “il livello di importanza percepita per le attività svolte da Rai”, l’oscillazione va da un minimo di 6,0 ad un massimo di 6,4. Per quanto riguarda il cosiddetto “indice di sostenibilità”, oscilla tra 5,9 e 6,6…

Non si deve avere un master in statistica, per evidenziare che questi risultati servono a poco, anzi forse a nulla, se non a riempire decine di pagine di tabelle e inutili commenti.

Si tratta delle stesse obiezioni metodologiche che riguardano le critiche che, da anni, vengono sollevate, da più osservatori (esterni ma anche interni all’Azienda), sul mitico quanto inutile Qualitel, strumento di analisi quantitativa (che vorrebbe essere alternativo ovvero integrativo rispetto al controverso Auditel) che dovrebbe consentire a Rai di monitorare il gradimento e la qualità percepita dell’offerta sulle diverse piattaforme distributive, utilizzando, anche in questo caso, dei punteggi su scala da 1 a 10. In questo caso, il campo di oscillazione oscilla tra il 7 e l’8, con scostamenti la cui analisi sconfina nel filosofico, piuttosto che nel mediologico. Questa strumentazione di misuramento del “gradimento” e della “qualità percepita” si conferma sostanzialmente inutile.

E non andiamo oltre, rispetto ad altri fantasiosi indicatori: “indice di corporate reputation” all’ “indice di relazione”, dall’ “indice di esperienza” al fondamentale “indice di servizio pubblico”. Ad essere molto severi, anzi molto cattivi, si potrebbe bollare il tutto come “fuffologia” allo stadio spinto, anzi allo stato puro.

Parte significativa del “bilancio sociale” è poi dedicata ad una analisi impostata secondo la logica della cosiddetta “Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”, approvata nel 2015 dall’Assemblea Generale dell’Onu, che fornisce a tutti i Paesi un modello condiviso che mira a porre fine alla povertà, a lottare contro l’ineguaglianza, ad affrontare i cambiamenti climatici e a costruire società pacifiche nel rispetto dei diritti umani. L’Agenda 2030 fissa 17 “Obiettivi di sviluppo sostenibile” (“Sustainable Development Goals”, ovvero “Sdgs” nell’acronimo inglese), da conseguire entro il 2030. Ben 40 pagine del “bilancio sociale” sono dedicate ad una mera elencazione di programmi (da pag. 71 a 113) che vengono classificati secondo questo schema, peraltro con una soluzione grafica assai povera (non viene nemmeno riprodotta una immagine, un frame dei programmi citati, anche soltanto in miniatura).

La domanda è: ma una attività così peculiare, qual è quella di “radiotelevisione pubblica” può essere classificata ed analizzata attraverso parametri così standardizzati?! Riteniamo di no, anche se questo è un sistema per mostrare una qual certa “rispondenza” ad alcuni parametri, assai generali (generalisti).

La parte più interessante del bilancio sociale Rai è quella che riguarda tematiche come il “Contributo alla creazione di un equilibrio sociale e di genere” (cui sono dedicate una ventina di pagine), le “Iniziative per il Sociale” (2 pagine due!), la “Programmazione per i diversi abili” (2 pagine), la “Programmazione per le Minoranze Linguistiche” (1 pagina), la “Inclusione Digitale” (3 pagine), e l’“Analisi dell’impatto socio-economico di Rai sul sistema Paese” (3 pagine).

Ci limitiamo a segnalare che non viene nemmeno proposto l’elenco delle “campagne sociali” messe in onda da Rai (e sarebbe anche interessante misurare la loro audience totale): e ciò basti, per comprendere l’approccio formal-burocratico del documento.

La mitica “coesione sociale”, mal valutata e mal misurata

Una questione essenziale, qual è la “coesione sociale”, viene così definita e risolta (…): “La ricerca si basa su una definizione di coesione sociale, elaborata con il supporto dei più importanti istituti di ricerca operanti in Italia (non viene specificato quali, nota nostra), avendo come riferimento il possibile contributo di una media company di Servizio Pubblico. La definizione individuata è: ‘la condizione che contraddistingue le collettività nazionali caratterizzate dal riconoscimento di una comune identità storica e culturale, da comuni valori e interessi, dal senso di appartenenza a una stessa comunità, dalla presenza di una rete attiva di relazioni sociali e di mezzi di comunicazione che facilitino la partecipazione di tutti alla vita civile, sociale, politica e culturale’”.

Su questa base Rai ha quindi attivato una molteplicità di indagini, i cui risultati vengono riportati in modo molto (eccessivamente) sintetico, allorquando si tratta forse della parte più interessante del “Bilancio Sociale” e ben altra attenzione meritava. L’analisi dei contenuti della programmazione è stata affidata a Cares – Osservatorio di Pavia, che ha effettuato, come l’anno scorso, una rilevazione basata su un campione di 1.100 trasmissioni della programmazione delle tre reti tv generaliste. Sempre Cares ha realizzato la rilevazione sulla “rappresentazione della figura femminile”, così come ha misurato “il rispetto del pluralismo” (basata su un campione di 518 programmi)…

Un florilegio dei risultati?

Pluralismo di genere: “Nel complesso, l’analisi ha fatto emergere diversi elementi positivi…”.

Pluralismo generazionale: “L’analisi ha evidenziato alcuni elementi positivi…”.

Pluralismo socio-economico? “Il dato che emerge in maniera più evidente dall’analisi è come la rappresentazione della struttura socio-economica della realtà risulti alterata dalla “tipica” distorsione mediatica…”. Oh, perbacco!, si intravvede qui un (lieve) rilievo critico…

Un po’ più serio il giudizio sul “pluralismo etnico”: “In questo caso l’analisi ha evidenziato luci e ombre comporsi in un mosaico non sempre nitido, la cui messa a fuoco richiederebbe, forse, un allargamento del campo d’indagine dalla rappresentazione della realtà proposta dal mezzo televisivo, alla realtà rappresentata”. Udite udite…

Una rilevazione quali-quantitativa, realizzata in collaborazione con Bva-Doxa, ha cercato di rilevare il vissuto e le attese della popolazione, ma, anche in questo caso, ben poco di realmente significativo, in termini sociologici e mediologici, emerge.

Un’occasione sprecata: un documento debole, fragile, inutile

Tralasciamo le pagine dedicate al “pluralismo politico”, perché meriteranno un approfondimento ad hoc, tra le rilevazioni della Rai (nel “Bilancio Sociale”, si legge anche di un “indice di imparzialità”) e le rilevazioni dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni – Agcom. Una questione delicatissima che riguarda alla fin fine l’assetto democratico del Paese, ovvero i suoi equilibri politici (elettorali e parlamentari).

Segue poi un capitolo dedicato a “Le nostre persone”, che propone un set di dati in buona parte acquisibile anche dal “Bilancio di esercizio”, un capitolo dedicato all’“impegno verso l’ambiente”, uno dedicato ai “fornitori” ed infine al “sistema di controllo interno e gestione dei rischi”.

In appendice, decine di tabelle che francamente non si comprende proprio a cosa servano, se non a mostrare il rispetto formale (formalistico) per metodologie tassonomiche internazionali (la cui utilità, per lo “stakeholder”, è zero assoluto).

Il tutto viene chiuso con la benedizione della società di revisione di turno, nel caso in ispecie Kpmg, il cui costo – soltanto di questa specifica attività di “giudizio di conformità” rispetto agli standard di legge e internazionali – è anch’esso nell’ordine di alcune decine di migliaia di euro. Stendiamo, anche su questo budget, un velo di pietoso silenzio.

In sintesi, un documento debole fragile inutile, per così come è impostato.

Un documento formalistico e rituale, privo di qualsiasi spirito critico e di approccio dialettico.

Una operazione autoreferenziale e narcististica.

Sarà che per queste ragioni, la Rai ha deciso di pubblicarlo, ma paradossalmente nascondendolo?! Se ne vergogna forse?! Già questa sarebbe comunque una apprezzabile autocoscienza.

Auguriamo che l’edizione 2021 si caratterizzi per un salto di qualità significativo.

Documenti come questo ricordano veramente il tante volte evocato motivetto: la casa potrebbe andare a fuoco, ma si canticchia allegramente “out va très bien, Madame la Marquise”…

Clicca qui, per leggere il “Bilancio Sociale Rai 2019”.




From now on: come far ripartire l’Italia?

La CMO Survey di Deloitte spiega l’evoluzione della Brand Experience dopo il Coronavirus

Com’è cambiata la brand experience per consumatori e aziende?
Quali sono le nuove regole del marketing dopo l’irruzione del Coronavirus nel mondo?
Lo abbiamo chiesto ad oltre 250 CMO – Chief Marketing Officer – del mercato italiano dopo la fine del lockdown: tra incertezze e trasformazioni ancora in corso, la priorità che emerge è la digitalizzazione come chiave di successo per il futuro. Ma non solo, i consumatori saranno sempre più esigenti con i brand e per stare al passo con questo trend, sia i canali di comunicazione che i touchpoint dovranno essere sempre più personalizzati.

C’è una grande attenzione anche alla riorganizzazione interna del lavoro, che dopo il grande esperimento di massa del lavoro agile imposto dal lockdown non sarà più come prima.

Infine, tra le evidenze della survey, emerge l’importanza del brand Made in Italy come via d’uscita dalla crisi che il Covid-19 ha innescato. Un’evoluzione che abbiamo analizzato dal punto di vista dei consumatori, del lavoro e del mercato, ma che è sempre focalizzata su una nuova Brand Experience.

A questo link puoi scaricare la survey completa