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Perché non dobbiamo smettere di chiederci cosa vogliamo fare da grandi: l’importanza del purpose personale

Perché non dobbiamo smettere di chiederci cosa vogliamo fare da grandi: l’importanza del purpose personale

Con il ritorno in ufficio e l’auspicato rilancio dell’economia dopo la lunga crisi causata dal Covid-19, si sarebbe temuto il contrario. Parliamo dell’aumento dei licenziamenti nel mondo del lavoro, anche in virtù dello sblocco che, in ultima istanza, ha riguardato le piccole e medie imprese. E invece, come abbiamo visto parlando di Yolo Economy, non sono poche le persone che decidono di mollare tutto e darsi una chance come liberi professionisti. 

In tutto questo, qualcosa a cui si pensa raramente – e a cui le stesse aziende dovrebbero invece prestare attenzione – è il purpose personale. Parola inglese, purpose, che tradotta alla lettera vuol dire “scopo” e che, accostata all’aggettivo “personale”, identifica chi si è e chi si vuole essere nel mondo, e non tanto – o non solo – il proprio lavoro o la propria professionalità. Domande come “Chi vorresti diventare da grande?” o “Come vorresti che fosse la tua vita?” non sono infatti da porre e da porsi solo quando si è giovani, ma dovrebbero guidare ogni momento della propria esistenza. Ancor di più in un periodo delicato come quello che stiamo vivendo, contrassegnato da una costante incertezza.

Non basta quindi puntare su una versione di se stessi accuratamente progettata per il personal branding sui social e per convincere il mondo esterno di essere content creator, giornalisti, imprenditori, influencer, startupper e così via. Il purpose è lo scopo che guida la storia personale di ognuno di noi e che dovrebbe stare alla base di qualsiasi scelta e percorso intendiamo intraprendere. Un po’ come la vision di un’azienda, ma andando molto più in profondità. Se poi il purpose coincide con l’headline su LinkedIn o su Instagram, ben venga. Ma questo deve avvenire solo in seguito. 

Perché cercare il contesto giusto

Il fotografo keniano Boniface Mwangi, durante un Ted Talk intitolato The day I stood alone, ha fatto notare come siano due i giorni più “potenti” nella nostra vita: quello in cui nasciamo e quello in cui scopriamo perché siamo nati. E il purpose è legato a questo: avere uno scopo personale, o anche più di uno, porta a uscire dalla propria zona di comfort, a superare i propri limiti e a cercare il contesto giusto in cui poter raggiungere il proprio obiettivo. E, di conseguenza, ad abbandonare quelle realtà che non permettono di essere ciò che si vuole e cercarne di nuove, come dipendenti o come freelance. 

Un concetto, quello di purpose personale, su cui dovrebbe puntare anche chi si occupa di hr in questo momento. Se la pandemia ha sconvolto tutti, mettendo in discussione certezze consolidate, è anche vero che questo cambiamento riguarda le persone da un punto di vista molto più profondo e può portarle a compiere scelte inaspettate.  

Come individuare il proprio purpose

Come individuare il proprio scopo personale? Partendo dalle domande giuste. Non tanto “Cosa vuoi fare nella vita?”, quanto “Quali sono le cose che ti fanno davvero stare bene?”. E per rispondere a questa domanda bisogna liberarsi dalla propria routine e da quello che gli altri si aspettano da noi. Il consiglio è di rispondere in maniera istintiva e poi aggiustare il tiro. 

Facciamo un esempio: se una cosa che fa stare bene è aiutare i bambini in maniera concreta, ma questo non è centrale nel proprio lavoro né tantomeno nella propria giornata, riconoscerlo è comunque già un buon punto di partenza. Rispondere a questa domanda, poi, potrebbe portarci a stilare un elenco di cose su cui riflettere e da far maturare dentro di noi. Una lista da riguardare successivamente e capire se quelle cose ci rendono sempre felici. 

Un’altra domanda, successiva alla prima, potrebbe essere: “Se potessi scegliere adesso il mio lavoro e i miei impegni, sceglierei ciò che faccio attualmente?”. Il consiglio è di rispondere solo dopo aver pensato alle cose che si ama fare e aver già immaginato un proprio scopo personale. Alla luce di questo, quali impegni attuali aumentereste? Quali ridurreste? E cosa, invece, dovreste eliminare per darvi la possibilità di raggiungere il vostro scopo? E su quali nuove attività puntereste?

Queste domande non sono affatto banali: spesso riduciamo le cose che ci piace fare ai cosiddetti “tempi morti” o “ore buche”, finendo così per non farle perché la giornata si conclude, oppure perché siamo sopraffatti dalla stanchezza e dagli impegni familiari. E ciò genera molta frustrazione. Ragionare per aumentare la parte di giornata dedicata alle cose piacevoli è un ottimo modo per venire incontro al proprio purpose.

In questa ricerca si può chiedere anche il supporto altrui. Si può provare a chiedere alle persone di cui ci si fida, una volta individuato il proprio scopo: “Secondo voi lo sto mettendo in atto o mi sto prendendo in giro?”. Anche perché quello che è interessante analizzare è come gli altri percepiscono non tanto le vostre attività, ma come le portate avanti. E anche il perché. 

Infine, un’altra domanda che però potrebbe lasciare spiazzati è chiedersi la mattina: “Oggi perché mi sto alzando dal letto?”. Se da un lato può far entrare in crisi, dall’altro la risposta può dare una forte motivazione. Anche se si lavora in un supermercato o come revisore dei conti. Nel primo caso una risposta potrebbe essere: “Per regalare un sorriso alle persone che vengono a fare la spesa”. Nel secondo: “Per cercare di aiutare aziende in crisi e, magari, fare felici le loro famiglie”. Certo, non è sempre detto sia così, ma ci si prova.

Storie di purpose personale

Infine, qualche esempio di purpose personale tratto da una conversazione su Reddit: “Il mio purpose personale è aggiungere valore al mondo quando ho l’opportunità di farlo. Crescere come un emarginato mi ha portato a essere una persona che non si preoccupa molto di ciò che pensano gli altri. Penso che la mia capacità di farmi avanti, quando tutti gli altri hanno paura di farlo a causa del potenziale rifiuto, sia uno dei doni più grandi che possa fare agli altri”. 

E ancora: “Il mio scopo nella vita è non smettere mai di imparare e di cercare e impegnarmi sempre in opportunità che mi portino a raggiungere questo scopo”. Ora non resta che trovare il proprio scopo personale che ci aiuti a superare anche i momenti più difficili e, qualora sia necessario, ci faccia fare quel salto in più.




Arte, smascherati i profili Instagram falsi di 4 noti collezionisti

Arte, smascherati i profili Instagram falsi di 4 noti collezionisti

I profili Instagram di quattro noti collezionisti questa mattina sono stati cancellati: Carlo Alberto Ferri, Pier Paolo Lonati, Beatrice Rinaldi e Raffaele Sartori non esistono più, ma la notizia è che in verità queste quattro persone non sono mai esistite, erano dei fantasmi.

La faccenda è complicata. Mettiamo ordine nello svolgimento dei fatti: tutto parte grazie al gallerista Federico Vavassori che nota un’opera di un suo artista sul profilo di Pier Paolo Lonati, e dopo le dovute verifiche scopre che si tratta di un falso. Decide quindi di segnalarglielo direttamente con un messaggio Instagram, come spiega lo stesso Vavassori: «Uno stimato art advisor con cui collaboriamo regolarmente ci ha segnalato la presenza di un dipinto, esplicitamente attribuito a un artista da noi rappresentato, su un profilo Instagram che si presentava come l’account personale di un collezionista privato di nazionalità italiana e residente in Svizzera (Pier Paolo Lonati). Una tempestiva verifica con l’artista ha confermato i nostri dubbi sull’autenticità dell’opera, che è risultata essere un’intenzionale manipolazione di un dipinto realmente esistente e reso quasi irriconoscibile. L’ambigua reazione del titolare di quell’account nel momento in cui gli abbiamo comunicato la falsità dell’opera, richiedendo anche precise delucidazioni sulla provenienza, ha generato una catena di sospetti che ci hanno portati a verificare i rapporti intrattenuti da questo individuo con svariati altri profili Instagram analoghi. È così emersa una sconcertante rete di account fittizi che, mediante frequenti scambi di like, tag e commenti, miravano a convalidare la reciproca esistenza, mostrando interessi e attività compatibili con reali profili di collezionisti d’arte contemporanea. Attraverso chat private con alcuni di questi profili, da noi simultaneamente avviate allo scopo di raccogliere maggiori informazioni, abbiamo potuto rilevare numerose incongruenze e una evidente correlazione tra i diversi account. Fondamentale è stato il rapido scambio di informazioni con numerosi nostri colleghi e collezionisti, molti dei quali avevano avuto precedenti contatti con queste identità fittizie, sempre iniziati su Instagram e a volte proseguiti condividendo con questi soggetti informazioni sensibili via email, senza mai arrivare a incontri fisici».

Rispondi Inoltra

Ma veniamo ai quattro fanta-collezionisti e a chi dicevano di essere: Raffaele Sartori viticoltore di Verona, Beatrice Rinaldi manager di un’importante azienda di moda, Pier Paolo Lonati imprenditore bresciano di base a Zurigo e Carlo Alberto Ferri aitante ereditiere bergamasco.

Lo schema era semplice: quattro collezionisti postavano spesso opere della loro collezione interagendo con collezionisti veri e riconosciuti, mescolandosi e mimetizzandosi perfettamente e legittimando così le loro identità. I personaggi erano costruiti benissimo e con un sicuro dispendio di tempo, Sartori foodie appassionato mostrava spesso i piatti di ristoranti stellati, la Rinaldi non lesinava fotografie di Parigi e Carlo Alberto Ferri ha passato il lockdown in una splendida casa nobiliare in Sicilia, dalla nonna. In un post si vede un dipinto di Rita Ackermann regalato a Lonati per il compleanno da una generosissima Rinaldi.

La rivelazione

Una volta scoperto l’inganno da Vavassori arriva la confessione direttamente dal profilo dello stesso Ferri. Ecco qui le dichiarazioni: «I profili che hai trovato sono stati creati da un gruppo di ragazzi con lo scopo di fare intrattenimento culturale e niente più». Ispirati, in salsa social, alle false teste di Modigliani nell’estate del 1984 ritrovate nel Fosso Reale di Livorno? Alla faccia dell’intrattenimento culturale, nell’immagine lo screen-shot dell’intera conversazione.

Ricostruendo la cronologia degli eventi spicca la figura di Carlo Alberto Ferri che esce allo scoperto per la prima volta nell’ottobre 2020 quando una sua intervista appare su critical collecting, progetto curato da Antonio Grulli per ArtVerona che ogni anno racconta la storia di alcuni collezionisti attraverso delle interviste, da allora vari media sono caduti nella trappola. L’immagine del Ferri campeggia ancora sul sito di ReA! Art Fair a corredo di un suo intervento. Vittime tutti dello stesso inganno.

Gli artisti citati dal nostro collezionista immaginario come facenti parte della sua collezione: Carl Andre, Rudolf Stingel, Frank Stella, Christopher Wool, praticamente mezza storia dell’arte con l’aggiunta di due giovani pittori bresciani: Francesco de Prezzo Federica Francesconi. Artisti che ricorreranno spessissimo sulle pagine social dei nostri quattro fanta-collezionisti. Un caso?

Gli aspetti legali

Non solo una buffonata ma varie ipotesi di reato secondo i legali ascoltati da Arteconomy24 tra cui l’avvocato Virginia Montani Tesei e l’avvocato Francesco Francica: sostituzione di persona (articolo 494 codice penale), alterazione e modifica di un’opera d’arte costituiscono una violazione del diritto morale d’autore (art. 20 della legge sul diritto d’autore), chiunque altera, riproduce o contraffà un’opera d’arte è punito con la reclusione da uno a tre anni o con una multa da 103 a 3.009 euro (art. 178 del codice dei beni culturali, d. lgs 42/2004), furto di immagini, la legge parla di diritto all’immagine che si esplica principalmente nel divieto di esporre o pubblicare l’immagine altrui, o qualsiasi rappresentazione delle altrui sembianze, senza il consenso dell’interessato legge 633/1941 e ss.mm.

A quanto pare questa è solo la prima puntata di una faccenda che non lesinerà sviluppi e forse magari chiarimenti. E chi sono le persone a cui questi profili hanno rubato le immagini? Qual era lo scopo ultimo? Legittimare la carriera di qualche artista e farlo comprare a collezionisti reali? Qualcuno ha comprato opere, addirittura falsi, tramite questi profili? E la transazione a chi veniva accreditata?

Gli interrogativi sulla sicurezza e l’affidabilità ricadono inevitabilmente anche su Instagram, il marketplace del momento. Anche il mondo dell’arte ha quindi la sua truffa-romantica e il collezionista miliardario che prometteva di cambiare la vita a tutti gli artisti è scomparso per sempre nel nulla.




Il repricing degli asset Esg ha ancora molta strada da fare

Il repricing degli asset Esg ha ancora molta strada da fare

In finanza esiste il concetto di “premio per il rischio”. Gli investitori pretendono cioè un rendimento tanto più alto quanto più è rischioso l’asset che sono disposti a mettere in portafoglio. Questo fa sì le attività più rischiose abbiano i prezzi più bassi, proprio per garantire un rendimento extra agli investitori. Viceversa gli investimenti più sicuri sono i più cari. In questo caso non si parla di “sconto per la sicurezza” ma il concetto è esattamente quello. Questa logica finanziaria sta trovando una nuova applicazione nel campo degli investimenti sostenibili che, per l’appunto, vengono ritenuti più sicuri da parte degli investitori. Essi mettono il detentore degli asset al riparo da possibili strette normative e dall’acuirsi della crisi ambientale.

Un esempio pratico è utile a capire i termini del problema: un produttore di auto con motori endotermici rischia di finire velocemente fuori mercato, cosa che invece non rischia una casa specializzata in veicoli elettrici; quest’ultima dunque presenterà molto probabilmente quotazioni più elevate della concorrente, anche se le sue vendite sono di gran lunga inferiori.

Grafico a cura di Silvano Di Meo 

I mercati si stanno già adeguando a questo nuovo paradigma ma il repricing, ovvero la crescita dei prezzi delle attività Esg, potrebbe solo essere agli inizi. Almeno questo è quanto emerge da una recente ricerca di BlackRock, secondo la quale siamo ben lontani da una bolla speculativa. Gli investitori istituzionali stanno infatti progressivamente aumentando la loro esposizione verso prodotti Esg e questo fa sì che la domanda resti molto sostenuta.

Secondo l’indagine svolta dalla casa di investimenti statunitense fra 175 suoi grandi clienti (con masse gestite complessive per circa 500 miliardi di dollari), tre quarti degli intervistati (75%) afferma di utilizzare, o prevede di utilizzare, strategie sostenibili per la costruzione dei propri portafogli, mentre il 45% prevede che i suoi investimenti risulteranno conformi con gli articoli 8 e 9 della Sustainable Finance Disclosure Regulation (Sfdr) della Commissione europea. La maggior parte degli intervistati (62%) dice inoltre di voler investire solamente in fondi conformi con l’articolo 6 del Sfdr nel caso in cui le alternative previste dagli articoli 8 e 9 presentino significativi disallineamenti sia in termini di performance che di tracking.

“I tassi bassissimi e l’aumento dell’inflazione hanno eroso il reddito dei titoli di stato che storicamente hanno stabilizzato i portafogli, mettendo seriamente in discussione il classico approccio 60-40, percentuali che indicano rispettivamente la quota di portafoglio riservata alle azioni e al reddito fisso – afferma Pierre Sarrau, co-head and chief investment officer for multi-asset strategies and solutions di BlackRock -. Un altro fattore che spinge gli investitori a riconsiderare la costruzione del portafoglio e valutare la sua resilienza è la transizione verso l’energia verde, che presenta sia rischi che opportunità. Mentre l’attuale contesto è favorevole alle attività rischiose, c’è parecchia incertezza su un orizzonte di tempo più lungo”.

Vivek Paul, senior portfolio strategist del BlackRock Investment Institute, ricorda invece come un paio di anni fa la casa d’investimenti americana avesse previsto come il massiccio impiego di capitali per combattere il cambiamento climatico avrebbe influito sul prezzo degli asset: “Allora però questo effetto doveva ancora concretizzarsi e ci mancavano i dati per capire se fosse già all’opera. Oggi invece siamo convinti che questa dinamica sia reale e che stia influenzando i prezzi. Il costo dei capitali per l’acquisto di attività green sta scendendo e viceversa. Il grosso del repricing deve però ancora arrivare. Questo ci porta a concludere che gli asset sostenibili beneficeranno di questo trend e che, per ora, siano ben lontani da una bolla speculativa”, conclude l’esperto di BlackRock.




Il naufragio della Costa Concordia e il ricordo di Franco Gabrielli: «Vidi un grottesco gioco delle parti»

Il naufragio della Costa Concordia e il ricordo di Franco Gabrielli: «Vidi un grottesco gioco delle parti»

A volte, il destino. «Scendo dalla nave, il mio posto sarà da oggi occupato dal nuovo Capo del dipartimento… Gli lascio un organismo che è conosciuto solo in piccola parte come una nave da crociera di cui la pubblicità fa vedere solo i ponti soleggiati, le cabine, la piscina e gli impianti sportivi, ma che naviga sicura e funziona in ogni dettaglio».

Emergenza

Era il 12 novembre 2010. Guido Bertolaso lasciava la guida della Protezione civile con una lettera che a rileggerla oggi sembra un presagio. Poco più di un anno dopo, nella notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012, Franco Gabrielli, il suo successore, si sarebbe trovato di fronte alla Costa Concordia riversa su un fianco, a una emergenza senza eguali nella nostra storia recente, che pure di emergenze purtroppo abbonda. Ci mise quasi una settimana, per arrivare sull’Isola del Giglio. E non per colpa sua. Dovette aspettare la nomina a commissario delegato del governo per la gestione di quest’ultimo disastro. A quel tempo, la Protezione civile viveva un momento particolare, e stiamo usando un gentile eufemismo. Dopo gli anni in cui aveva allargato a dismisura le sue competenze arrivando a organizzare manifestazioni sportive, concerti ed eventi di ogni genere, era venuta la stagione in cui la politica si riprendeva il potere perduto, e al tempo stesso si tutelava creando una barriera tra la gestione delle emergenze e la sua responsabilità.

Sottosegretario

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La copertina del libro

Gabrielli divenne così il primo capo della Protezione civile ad avere responsabilità personale di ogni singola ordinanza, portatore unico di ogni possibile ricaduta. «Un vero e proprio capolavoro di tartufesco “scarico di responsabilità”, che purtroppo ancora oggi resiste» sostiene nel suo «Naufragi e nuovi approdi» (con Francesca Maffini, Baldini+Castoldi, in libreria da giovedì 13). Non solo un amarcord di quella incredibile vicenda, ma una riflessione sull’Italia. E nonostante oggi ricopra ancora cariche importanti, è sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti, in omaggio al suo temperamento toscano, l’autore non le manda a dire, chiamando cose e persone con il loro nome, dettaglio che rende la lettura ancora più interessante. Date le premesse, l’accoglienza non poteva essere delle migliori. Trovò ad attenderlo uno striscione appeso all’esterno dell’hotel Bahamas. «Gabrielli, togli la nave cazzo». Con quella citazione della frase divenuta subito celebre in tutto il mondo, pronunciata dall’allora ufficiale della Capitaneria di porto di Livorno Gregorio De Falco per far risalire a bordo il comandante Francesco Schettino, i gigliesi gli fecero subito capire quel era la loro priorità.

Burocrazia

Non erano gli unici, ad avere bisogno di cancellare dalla vista quella immagine così umiliante per un intero Paese. E in questi giorni di anniversario tondo, non era facile ripercorrere una storia nota e ancora ben impressa nella memoria da un angolo inesplorato. Gabrielli invece ci riesce, facendo ricorso al proprio vissuto. Nel suo racconto, i soccorsi senza speranza e poi il riscatto del raddrizzamento della nave e della sua partenza dal Giglio, diventano una perpetua lotta contro il male endemico del nostro Paese, la burocrazia che blocca tutto, usata spesso come arma da una classe politica che talvolta bada più alla propria convenienza immediata che all’interesse generale. «Come si può pensare di dover quantificare e autorizzare preventivamente, prima degli interventi, la spesa per gli uomini e i mezzi di soccorso? Come si può immaginare che un’emergenza duri soltanto 60 giorni? Come si può pretendere che la deliberazione dello stato di emergenza preveda già quale sia l’amministrazione che subentrerà nell’ordinario? Come siamo potuti, come Paese, arrivare a un tale punto di miopia?».

Gioco delle parti

Non è uno sfogo fatto con il senno di poi, dieci anni dopo. Gabrielli fu il principale rappresentante di uno Stato che all’interno di una impresa mastodontica dove pubblico e privato agivano insieme, gli aveva affidato un budget di cinque milioni di euro, a fronte di un costo totale di un miliardo, ma insisteva comunque nell’imporre le proprie pretese.

Come avvenne con il surreale tentativo di far giungere il relitto nel porto di Piombino, inadatto e bisognoso di lavori che sarebbero durati anni. «Fino all’ultimo assistetti a un fuoco di fila fatto di pressioni palesi, avvertimenti poco edificanti, conditi da dossier in cui si alludeva a mie “cointeressenze” con Fincantieri, sceneggiate più o meno folkloristiche… con amministratori e ministri che, invece di affrontare con determinazione e coraggio i nodi che la soluzione prospettata imponeva, in un grottesco gioco delle parti avevano menato il can per l’aia, da una parte, e dall’altra ci si era fatti “menare”, nonostante le mie sollecitazioni ad aprire gli occhi».

Procedure barocche

Mercoledì 24 luglio 2014, la Costa Concordia lasciò per sempre l’Isola del Giglio trainata da due rimorchiatori oceanici e giunse a Genova, dove sarebbe stata poi demolita. «E allora qual è stato l’esito delle vicende che ho provato a raccontare nelle pagine che precedono? Quali insegnamenti abbiamo imparato dalla dimostrazione dei limiti nella gestione delle emergenze che si sono succedute? Quali “buone pratiche” abbiamo appreso? Credo molto poco». Rimaniamo il Paese del giorno dopo, bravi a mobilitarsi sull’onda dell’emotività, ma incapaci di operare in tempo di pace. «Anche a causa di una legislazione farraginosa e di procedure barocche» conclude Gabrielli. E se lo ribadisce uno dei nostri più importanti servitori dello Stato, forse sarebbe il caso di dargli ascolto.




MULTINAZIONALI DEL FASHION: PRODOTTI GLAMOUR, A BUON MERCATO… E POCO ETICI

MULTINAZIONALI DEL FASHION: PRODOTTI GLAMOUR, A BUON MERCATO… E POCO ETICI

Come ho già a più riprese denunciato, i limiti intrinsechi del modello “ESG – Enviromental, Social and corporate Governance”, tanto di moda negli ultimi anni, risultano evidenti agli occhi di qualunque professionista intellettualmente onesto.

Un’opinione attualmente diffusa vuole che le società che hanno posizioni migliori in classifica sulla base delle metriche ESG otterranno – già solo per questo – migliori rendimenti per gli azionisti: questa convinzione è semplicemente errata.

Certo, come dimostra  il celebre lavoro di Robert Eccles ad Harvard, ampiamente validato da ulteriori e successive evidenze scientifiche, l’introduzione di preoccupazioni di carattere etico nel business, a livello strategico, giova alla redditività delle aziende; ne ho parlato diffusamente anche in una delle mie ultime monografie, e questa verità da anni non è più in discussione, perlomeno in ambito accademico.

Il tema casomai è un altro, ovvero che gli indici ESG sono centrati su uno sguardo del tutto generale, avulso dal particolare e dalla specifica storia e prassi delle aziende esaminate: si tratta in poche parole di una vera e propria mania classificatoria. L’ennesima, tipica del mondo anglosassone.

L’esempio che cito spesso è quello dell’impatto ambientale di una banca, che non è necessariamente rilevante per la performance economica della stessa: una corretta politica di contenimento delle emissioni nocive in atmosfera otterrebbe un alto punteggio sugli indici ESG, ma non influenzerebbe significativamente le emissioni di carbonio globali. Al contrario, l’emissione da parte della banca di prestiti subprime che i clienti non saranno in grado di ripagare – o, peggio ancora, la commercializzazione di titoli tossici – potrebbe avere devastanti conseguenze sociali e finanziarie, come le cronache di pochi anni fa hanno dimostrato. Nonostante ciò, il reporting ESG ha dato credito alle banche per la prima questione, e allo stesso tempo ha tralasciato colpevolmente – o, peggio, dolosamente – la seconda.

Una possibile soluzione potrebbe essere quella di stimolare le istituzioni ad applicare il già esistente regime sanzionatorio previsto per le Dichiarazioni Non Finanziarie in caso di intenzionali scorrettezze nel processo di accountability delle imprese. La normativa attuale prevede, per tali violazioni, sanzioni da 25.000 a 150.000 euro, a seconda dei casi. Ma pare non sia mai stato concretamente applicato, anche perché è evidente la mancanza di expertise dell’istituzione preposta – nella fattispecie, Consob – che dovrebbe effettuare l’accertamento e l’irrogazione delle sanzioni, sulla base di verifiche effettuate a campione, sulle quali, paradossalmente, non esiste però alcun report pubblico, con il risultato che chi dovrebbe vigilare sulla corretta rendicontazione non rendiconta a sua volta.

Nell’attesa che la magistratura trovi il mordente necessario a far applicare la legge, e il legislatore motivi buoni per irrobustire l’apparato normativo, a dispetto delle discutibili azioni di lobby delle organizzazioni di categoria degli imprenditori, impegnate dietro le quinte a esercitare pressioni, al contrario, per consolidare l’attuale “laissez-faire”, le trasgressioni del patto etico e di trasparenza che dovrebbe legare aziende e stakeholder si moltiplicano, nell’indifferenza generale.

Il mondo della moda: come chiudere gli occhi e vivere felici

In un bell’articolo pubblicato qualche tempo fa sulla rivista americana The Nation, Maria Hangeveld denunciò come le certificazioni etiche, specie nel mondo della moda, e in particolare del fast-fashion, ovvero il settore delle aziende che produce capi di abbigliamento adeguandosi rapidissimamente alle mode del momento, siano sì ispirate all’auditing finanziario, ma fortemente marketing-oriented: di fatto, più che uno strumento di valutazione e controllo, sono invece un traguardo da raggiungere a fini di mera comunicazione esterna, un certificato da “appendere al muro” e soprattutto da veicolare sui Social e sui comunicati stampa, nonostante le condizioni di lavoro degli operai, lungo la filiera, restino quanto meno discutibili.

Anche il giornalista Meta Krese ne ha parlato, più recentemente, sulla rivista americana In These Times, ricordando come il Burkina-Faso sia ad esempio il più importante produttore ed esportatore di cotone dell’intero continente Africano: duecentomila piccoli coltivatori conferiscono ogni anno settecentomila tonnellate di cotone alla Sofitex, la Societé Burkinabé de fibres texiles, che le imbarca dai porti del Benin e della Costa d’Avorio verso l’Asia, dove vengono lavorati e poi rivenduti – previo confezionamento secondo le linee guida delle aziende europee e americane, apparentemente molto attente alla sostenibilità – a marchi occidentali del fast-fashion come H&M, Gap e Zara.

Sofitex paga alle fattorie un prezzo di circa 36 dollari per ogni chilo di cotone acquisito, il che si traduce per i lavoranti in uno stipendio di 360 dollari all’anno, circa 1 dollaro al giorno. I contadini cercano di utilizzare semi di cotone OGM, così da ridurre un po’ l’uso di pesticidi, dal momento che gli irroratori sono sempre in pessime condizioni e loro quindi usandoli, finiscono con il respirare sostanze velenose. Le sementi OGM della Monsanto, però, producono fibre sempre più corte ad ogni generazione, abbassando la qualità del cotone e quindi il prezzo finale di vendita. Di tutto questo, alle aziende occidentali, incluse quelle green, interessa poco o niente.

In Bangladesh, dove si confezionano i tessuti con il cotone del Burkina-Faso, la situazione è di poco migliore: lo stipendio è di circa 90 dollari al mese, e le spese vive per pagare il cibo e l’affitto, in una casa che è poco più che una baracca, ammontano a circa 73 dollari. Il risultato è che alle sarte – quasi sempre donne – restano 17 dollari al mese per vivere. Sindacalisti indipendenti attivi sul posto osservano come, nel momento in cui le condizioni di lavoro dovessero migliorare, con un decoroso aumento dei salari, ciò che succederebbe sarebbe che – su pressione delle multinazionali della moda, indisponibili a pagare di più il prodotto confezionato – la produzione verrebbe spostata in nazioni con un costo del lavoro più conveniente, gettando sul lastrico centinaia di migliaia di famiglie. Per questo, funzionari governativi e padroni delle fabbriche locali collaborano tra loro per contrastare qualunque iniziativa sindacale a favore dei lavoratori. Un esempio eclatante è quello di H&M: la multinazionale svedese dell’abbigliamento a buon mercato, che veleggia attorno a 2 miliardi di profitti all’anno, ha un’articolata policy sulla sostenibilità pubblicata sul proprio sito web e vanta anche la speciale collezione “Conscious Exclusive” a basso impatto ecologico, con abiti composti con tessuti derivanti da foglie di ananas, scarti della canapa, etc., ma delle criticità legate al controllo della filiera non fa accenno nella propria rendicontazione sociale, e anche noi cittadini siamo disponibili a chiudere gli occhi e non farci domande, ben lieti di pagare capi di moda a un prezzo assai accessibile.

Stesso dicasi per la Cina, dove si produce il 20% del cotone mondiale. Nella regione cinese dello Xinjiang, a raccoglierlo e lavorarlo è un esercito di oltre mezzo milione di cinesi appartenenti alla minoranza islamica degli Uiguri, trattati come schiavi nei campi di “lavoro e rieducazione”. Un problema enorme, visto che il cotone è la seconda fibra più usata a livello globale per la produzione di abiti, dopo il poliestere, e che molti marchi di fast fashion e sportswear, ma anche del lusso, si riforniscono da aziende attive proprio in questa regione. Tra i membri delle istituzioni più nettamente schierati su questo tema c’è l’Ambasciatore ed ex Ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata, Presidente del Global Committee for the rule of law, ONG che si occupa di progetti internazionali sul tema dello Stato di diritto:

“È incredibile come molti marchi anche assai famosi girino la testa dall’altra parte senza prendere posizione contro questi abusi promossi dal Partito Comunista Cinese, con la scusa che loro acquistano da intermediari e quindi non sanno da dove proviene esattamente il cotone. Lo sanno eccome, in realtà, ma trovano forse comodo chiudere gli occhi dinnanzi allo strapotere cinese”.

Con buona pace delle certificazioni etiche ed ESG delle aziende occidentali.

Il Cile invece è diventato da tempo un polo internazionale di raccolta dove confluisce l’abbigliamento di seconda mano e invenduto, prodotto in Cina e in Bangladesh, e che passa attraverso l’Europa, l’Asia o gli Stati Uniti prima di arrivare in sud America, dove nel deserto di Atacama, vero e proprio paradiso naturale, vengono ammassate a cielo aperto circa 40.000 tonnellate all’anno di vestiti invenduti o di seconda mano provenienti dal settore del fast fashion: si stima infatti che 500 miliardi di dollari vengano persi ogni anno a causa di indumenti appena usurati e raramente riciclati.

Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2019, l’industria della moda è responsabile del 20% dello spreco totale di acqua a livello globale (per fare un singolo paio di jeans ci vogliono ad esempio 7.500 litri di acqua), e “ogni secondo della giornata, una quantità di tessili equivalente a un camion della spazzatura viene sepolta o bruciata” a causa delle attività industriali del settore moda. Attualmente – nonostante gli sforzi degli ultimi anni per ridurre le emissioni – l’industria del fashion presenta ancora a riguardo una tendenza assai preoccupante, per cui si prevede che le emissioni di gas serra di questo comparto – che già oggi sfiorano il 10% delle emissioni globali di Co2! – aumenterà ancora di un ulteriore terzo, raggiungendo l’enorme cifra di 2.7 miliardi di tonnellate annue entro il 2030.

Certificazioni etiche e criteri ESG: molta apparenza, poca sostanza

Esistono certificazioni etiche apparentemente rigide, come la SA8000, che prevede – tra le altre cose – la verifica del rispetto delle norme in materia di sicurezza, uno stipendio adeguato e assistenza medica ogni qual volta necessaria. Peccato che per le società di auditing i profitti paiano venire prima della sincera preoccupazione per gli standard etici tanto sbandierati dalle aziende di abbigliamento. Le ispezioni sono pagate dalle stesse aziende che le commissionano, e le società di certificazione non hanno particolare interesse a “contraddire il loro cliente”. Senza contare che i report – spesso ingannevoli o tali da sottostimare i rischi – non sono accessibili a coloro i quali dovrebbero tutelare, ovvero i lavoratori.

Sono una decina le multinazionali che si contendono il ricco mercato delle certificazioni etiche, come la francese Bureau Veritas, la tedesca TUV, la britannica Interteck e anche l’italiana RINA, Registro Italiano Navale, organizzazione nata per classificare e certificare le navi mercantili, che poi ha notevolmente espanso il proprio business.

In generale, per pressoché quasi tutte le società di certificazione, la situazione degli standard applicati è abbastanza desolante, in quanto questi organismi paiono essere disponibili a molti compromessi pur di acquisire un cliente. Sono stati documentati casi – riferisce la Hengeveld – nei quali le ispezioni sono ampiamente preannunciate e “addomesticate”, solo una minima parte dei rischi per la salute e la sicurezza viene riportato nei rapporti, i contenuti dei report sono a volte copia-incollati da un’ispezione all’altra, il numero dei dipendenti sistematicamente sottostimato, e anche il banale dato delle ore lavorate al giorno viene falsificato e ridotto dalle reali 12/13 ore alle più tollerabili 8 ore.

Questi e altri sono i motivi alla base di disastri come quello della fabbrica di abbigliamento Ali Enterprises a Karachi, in Pakistan, dove 250 operai morirono intrappolati al primo piano del palazzo, dietro finestre con le sbarre di ferro, le uscite di emergenza chiuse a chiave, e senza estintori funzionanti. L’azienda era stata certificata SA8000 proprio dal RINA poche settimane prima del disastro. Fatti come questo fanno sorgere ovviamente molte preoccupanti domande, e seppure il RINA ha successivamente dichiarato di aver rivisto le sue policy di certificazione, la situazione non pare del tutto rassicurante.

Certo, da quei tempi sono stati fatti dei progressi, e SAI (Social Accountability International, l’organismo che elabora questo genere di standard) ha finalmente rilasciato due anni fa una versione rivista delle linee guida per la certificazione SA 8000. Ma la sensazione che comunque ne ricavo è che l’immagine di progresso sociale e dei diritti dei lavoratori fornita dalle aziende della moda, grazie alla complicità di queste società di certificazione, è molto distorta, ad usum Delphini, utile principalmente per rassicurare i cittadini e i clienti, che necessitano di serenità circa il profilo etico dei propri acquisti, in chiave green, così da auto-giustificare le proprie scelte di consumo. I prezzi predatori applicati dalle multinazionali del fashion alle forniture, inoltre, non fanno che peggiorare lo scenario, azzerando qualunque margine per migliorare le condizioni di sicurezza sul posto di lavoro e la qualità della vita di operaie e operai.

Un’ulteriore utile angolazione per osservare questo fenomeno, la fornisce Cesare Saccani, esperto in certificazioni e promotore di Get It Fair, uno schema di rating ESG che intende far tesoro di alcuni problemi verificati nell’ambito della certificazione dei sistemi di gestione.

“Al giorno d’oggi vi è grande attenzione alla valutazione dei rischi ESG, o non finanziari, ma non possiamo permetterci di commettere gli stessi errori già accaduti in passato nel mondo della certificazione di sistema di gestione. È necessario focalizzare l’attenzione sui rischi reali, piuttosto che sulle procedure puramente formali. Una cosa è verificare se l’azienda ha un sistema di manutenzione dell’impianto elettrico, tutt’altra cosa è verificare se i quadri elettrici sono in ordine, il circuito di terra funziona, etc.. Passare dalla mera verifica di conformità dell’azienda rispetto ai requisiti di un sistema di gestione, a una vera e propria stima del grado di esposizione a un rischio, è complicato. Lo è ancora di più se si deve soddisfare una domanda che chiede valutazioni dei rischi con carattere predittivo, orientata ai rischi di eventi che potrebbero accadere in futuro. Osservando quanto accaduto in passato, occorre innanzitutto fissare bene la soglia di aspettativa. Un esempio banale? Per un’azienda che produce torte, un sistema di gestione della qualità ben implementato dovrebbe assicurare che tutte le torte prodotte dall’azienda siano esattamente uguali alla ricetta pensata originariamente per la torta in questione, ma se la ricetta della torta è orribile, un sistema di gestione ISO 9001 ridurrà i rischi di deviazione del processo rispetto allo standard programmato e così facendo assicurerà soltanto che migliaia di torte saranno orribili allo stesso modo. Eppure, nel mondo si è diffusa la vulgata che la torta realizzata da un’azienda con sistema di gestione certificato ISO 9001 sia di per sé buona, e lo stesso accade per l’ambiente, la sicurezza o la responsabilità sociale”.

Per tentare di diffondere una cultura più attenta a comprendere scopi e finalità delle norme, e quindi le aspettative sulle certificazioni, Saccani ha recentemente promosso la costituzione dell’Associazione per la Responsabilità d’Impresa e Sviluppo Sostenibile “Diligentia ETS”. “Nell’ambito dei rischi non-finanziari, i metodi basati sull’ auto-valutazione o sulla compilazione di checklist hanno già ampiamente dimostrato tutti i propri limiti”, dichiara Saccani. “La valutazione dei ESG con carattere predittivo è impossibile senza effettuare un assessment presso l’azienda, grazie a auditor di comprovata esperienza, competenza e integrità, e ove possibile, superando i limiti della ‘frequenza e preavviso di un audit’ prestabiliti a priori. Passare da un preavviso di settimane se non più, a un preavviso di pochissimi giorni, sarebbe già un importante miglioramento. Purtroppo, nell’ambito della valutazione dei rischi ESG, non è possibile fidarsi di dichiarazioni o questionari di auto-valutazione compilati dall’azienda o, peggio ancora, di informazioni pubblicamente accessibili su internet, e ancor meno su di una visita soltanto, senza monitoraggi periodici, per capire se l’azienda sta peggiorando, mantenendo costante o migliorando il grado di esposizione ai rischi non finanziari. In definitiva, se tutto il processo fosse ri-orientato sulla concreta predizione dei rischi futuri, faremmo davvero grandi passi avanti”, conclude Saccani.

“Occorre sviluppare un’offerta di schemi e fornitori di servizi in grado di assicurare competenza, assenza di conflitti di interesse, ma soprattutto minore dipendenza da obiettivi di volumi commerciali e margini reddituali delle società di certificazione”, ha aggiunto la Dott. sa Giorgia Grandoni, ricercatrice del centro studi della start-up innovativa Reputation Management. “Tutto questo deve essere supportato da un mercato dei fornitori di servizi di consulenza più maturo, professionalizzato e meglio formato. Se tutto questo accadesse, probabilmente – sostiene Grandoni – non si verificherebbero molte delle distorsioni già verificate nel passato, che possono a posteriori impattare molto negativamente sulla reputazione delle imprese, la quale, come sappiamo, è l’asset immateriale più importante e di maggior valore per qualunque azienda”.

Non solo moda

Peraltro la situazione non pare migliore in altri comparti, come hanno denunciato due giornalisti in un servizio sul The Guardian: Philip Morris, British American Tobacco e Imperial Brands, ad esempio, comprano tabacco raccolto da immigrati africani in Italia sfruttati senza un contratto, con paghe nettamente inferiori a quanto stabilito dalla legge, costretti a lavorare 12 ore al giorno sotto il sole senza accesso all’acqua potabile e costantemente minacciati dai loro capi. Eppure nessuna di queste criticità è oggetto di analisi o di rendicontazione da parte delle multinazionali del tabacco, e tanto meno noi fumatori ci poniamo alcuna questione quanto acquistiamo un pacchetto di sigarette: “qualcuno forse se ne occuperà, non riguarda me”, è il pensiero che probabilmente ci passa per la testa. D’altro canto, i responsabili per la comunicazione esterna di queste multinazionali sottolineano come procedure e codici di condotta vengano applicati proprio per minimizzare questo genere di rischi e garantire standard contrattuali adeguati da parte dei loro fornitori: evidentemente, anche in questo caso tra quanto scritto su carta – e validato dalle società di certificazione – e la realtà, esiste ancora una significativa discrasia.

Nuove generazioni: qualcosa sta cambiando?

Conforta sapere che mentre le multinazionali si dedicano al “maquillage” nel tentativo di convincere i cittadini delle loro (presunte) intenzioni etiche, questi ultimi paiono invece privilegiare un approccio responsabile e sostenibile. Secondo il 6° Osservatorio nazionale sullo stile di vita sostenibile di LifeGate, se nel 2016 solo il 7% di persone dichiarava di acquistare capi di abbigliamento naturali o sostenibili, nel 2018 questa percentuale è aumentata all’11%, e nel 2020 al 16%.

A guidare questo cambiamento sono in particolare le giovani generazioni, come dimostra il rapporto The state of fashion, elaborato dalla società di consulenza McKinsey e dalla rivista The business of fashion, che afferma che già il 31% per cento dei consumatori appartenenti alla generazione Z, la generazione che detterà i trend di mercato nei prossimi anni, dichiara di essere disposta a pagare qualcosa di più per prodotti con il minor impatto ambientale. La speranza quindi è che le aziende possano essere incentivate a cambiare nel concreto, anche se il processo virtuoso non sarà certo breve.

Tornando in conclusione al disastro dei 250 operai morti in Bangladesh, il RINA, che aveva confermato la fabbrica come pienamente rispondente ai requisiti di certificazione, si è inizialmente rifiutato di collaborare con chi poneva domande per comprendere quanto accaduto quel giorno, ha “secretato” i rapporti e i documenti di audit rendendoli indisponibili alla pubblica opinione, ha sostenuto che la fabbrica era conforme agli standard “il giorno dell’ispezione” (sic!) e si è dichiarata indisponibile a risarcire in modo congruo le famiglie dei morti.

Davvero uno scenario preoccupante per un organismo di certificazione che dovrebbe a sua volta vigilare sugli standard etici delle aziende, ma – come al solito – business is business.


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