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Gli effetti della pandemia sulla moda e la ripartenza per il settore retail

Gli effetti della pandemia sulla moda e la ripartenza per il settore retail

Uno dei settori più colpiti dalla crisi economica causata dal Covid-19 è quello della moda. Il lockdown, non ha provocato solo la cancellazione di eventi e sfilate, ma anche l’arresto della filiera produttiva in ogni suo aspetto, dal recupero di materie prime fino alla distribuzione, decretando un calo nei guadagni del -14,1% (report Area Studi Mediobanca). The State of Fashion 2020, il recente report di The Business of Fashion e McKinsey prevede che l’industria della moda globale quest’anno subirà una contrazione del 27-30%.

Ed ora che siamo nella fase della ripartenza? Sono due le domande che agitano il settore, secondo Fashion United: da un lato, come disinfettare i capi dopo ogni prova, dall’altra, come comportarsi con le grandi quantità di merci accumulate nei magazzini. Inoltre ci si chiede: “Con questa crisi che vige nel paese, quanta voglia c’è di fare shopping?” Secondo ricerca dell’Assirm, i consumatori italiani stanno acquistando abbigliamento, accessori e scarpe prevalentemente per necessità (45%), più che per sfizio personale (17%). Sì, perché nessuno in questo momento ama “provare vestiti che possono essere stati indossati poco prima da altre persone”. Inoltre si preferisce acquistare capi comodi, funzionali, rispettosi dell’ambiente e duraturi nel tempo.

Le prossime indagini sulla moda riveleranno sicuramente un quadro più chiaro dell’impatto del COVID-19 nel settore dell’abbigliamento. Per adesso, le uniche certezze degli studiosi dicono che:

  • nonostante il lockdown è rimasta invariata la fedeltà ai brand
  • le ricerche si sono orientate principalmente verso capi di athleisure
  • solo chi si ingegna ha possibilità di migliorare la propria rendita

Fedeltà ai brand: il risultato del report di Lyst Index

Secondo Lyst Index, durante il primo trimestre del 2020 i top 3 brand più desiderati su scala mondiale sono stati Off-white, Balenciaga e Nike. 

Off-White si è confermato come il brand più desiderato in assoluto, per il 3° trimestre consecutivo, grazie ad un’idea di lusso sovversiva e anti-sistema. L’approccio digitale adottato nelle prime settimane di emergenza sanitaria, sia dal brand che dal suo fondatore Virgil Abloh, hanno fatto registrare un esponenziale aumento di engagement sui social media: la quarantena è stata trasformata in una nuova occasione per creare fidelizzazione tra brand e clienti, rafforzando ulteriormente la brand identity del marchio.

Balenciaga è salito di una posizione, raggiungendo il 2° posto della classifica (l’ultima volta era successo nel 3° trimestre 2019). Con il passare delle stagioni, il brand ha proposto collezioni sempre più avvincenti, capaci di mescolare lo stile Haute Couture con la semplicità dello street style ed un’atmosfera apocalittica.

Nike è uno dei marchi che ha scalato più velocemente la classifica: è schizzato al 3° posto, salendo di ben nove posizioni e scalzando Gucci (ora 4°). Il colosso dello sportswear è stato spinto in alto da una serie di importanti iniziative globali del brand e da un aumento delle richieste dei consumatori di prodotti come felpe, pantaloni della tuta e calzoncini. 

In generale, la classifica dei brand più desiderati del primo trimestre del 2020 vede una stabilità di numero dei marchi italiani più ricercati, segno che, nonostante il COVID-19, sembra rimasta invariata la brand loyalty, ovvero la percezione che i consumatori hanno della marca.

Tecnologia

Sono cambiate le ricerche in termini di abbigliamento?

La pandemia non ha solo cambiato solo le nostre abitudini, ma anche le nostre ricerche e gli acquisti online. In una recente intervista a WWD, Net-à-Porter ha dichiarato di aver registrato un incremento del 40% nelle vendite online, con un particolare interesse per i pantaloni della tuta. Anche una ricerca di XChannel ha rivelato un cambiamento nelle ricerche, che va verso una tendenza alla comodità (56%), all’informalità (21%) e alla sportività (17%).

Ma, quali sono stati i prodotti più ricercati al mondo? Secondo Lyst, il prodotto da uomo più ricercato a livello globale è la mascherina nera con frecce bianche di Off-White. Nel corso del trimestre questo prodotto ha registrato il sold out presso tutti i rivenditori fisici (al prezzo di 95 dollari) perciò attualmente è venduta solo sulle piattaforme online, a tre volte in più rispetto al suo prezzo originale (secondo Madame Figaro queste mascherine avrebbero raggiunto il prezzo record di mille dollari sul sito Farfetch, ma sarebbero poi state ritirate, a causa delle polemiche scatenate sui social).

Certamente, la pandemia di COVID-19 ha spinto molti brand a buttarsi su questo mercato e ha scatenato un’impennata del 496% delle ricerche, ma non si tratta di un nuovo trend: Off-White è stato il primo a lanciare mascherine fashion sul mercato e in passato sono state indossate da rapper del calibro di Travis Scott, Future e Young Thug. La maglia in pile con mezza zip di Loewe, ispirata alla natura, è stata il secondo prodotto da uomo più desiderato del trimestre: dopo essere stata indossata dagli attori Timothée Chalamet e Josh O’Connor e dal cantante Justin Bieber, ha registrato una flessione del +88%. In terza posizione, invece, troviamo la felpa con cappuccio di Gucci x Disney, mentre le sneakers Kobe 4 Protro Carpe Diem di Nike, che rendono omaggio alla stella dell’NBA Kobe Bryant, si sono posizionate al quarto posto.

La top 3 della classifica femminile di Lyst è stata dominata dalla borsa matelassé Cassette di Bottega Veneta, dal body morbido in pizzo di Off-White e dalla borsa shopper di Telfar (una borsa tote con logo goffrato, spesso in sold out presso i suoi rivenditori). Visto il periodo di incertezza, molte consumatrici di abbigliamento e accessori di lusso sono andate alla ricerca di pezzi vintage di seconda mano, decretando la decima posizione della famosissima borsa Classic Double Flap di Chanel (+75% delle ricerche). 

The Lyst Idex 2020

Quali sono state le principali iniziative della moda durante il lockdown?

Molti brand come Armani, Prada, Gucci, Trussardi, Versace, Bulgari e fashion icon come Chiara Ferragni, Kylie Jenner e Mariano di Vaio si sono schierati in prima linea nella lotta contro il Coronavirus, attraverso generose donazioni. Le case di moda hanno riconvertito i propri stabilimenti per la produzione di mascherine o altri dispositivi di protezione.

Armani ha invitato le altre maison a fermarsi a riflettere: è il momento ideale per combattere la “fast fashion, ovvero il concetto di “moda istantanea” che rende i prodotti obsoleti dopo poco tempo dal lancio, sostituiti da merce nuova che non è mai poi troppo diversa. Tra i brand che ha accettato con buoni propositi questo invito è stato Gucci, che ha deciso di rallentare i ritmi di produzione per tornare a dar valore alla creatività. Anche la direttrice di Vogue e Condé Nast, Anna Wintour, in una recente intervista rilasciata a Naomi Campbell, ha dichiarato di essere d’accordo con questo diktat, affermando: “Siamo tutti d’accordo che bisogna mostrare di meno, che bisogna puntare di più sulla sostenibilità e sulla creatività, e meno sul lusso. Questo terribile evento ci ha fatto capire che dobbiamo cambiare e che saremo in gradi di farlo”. 

Ma non solo, il lockdown è diventato anche un’occasione per lanciare “servizi fotografici fai da te. La campagna di Zara per la primavera-estate 2020, ad esempio, è stata ripresa in autonomia dalle modelle che hanno ricevuto a casa i prodotti e dopo aver scelto un angolo instagrammabile della propria casa, hanno realizzato un autoscatto. Il risultato ottenuto è quello di fotografie in veste “casalinga, caratterizzate da pose semplici e naturali, senza trucco e senza acconciature. Altra campagna scattata direttamente dai modelli, senza l’aiuto di truccatori, hair stylist e fotografi, è quella di Gucci per l’autunno-inverno 2020-2021. 

Ma soprattutto, non sono mancate le social challenge, per continuare a coinvolgere e intrattenere la propria community, anche durante il lockdown. Versace, ad esempio, con la campagna #VeryVersace, ha invitato la propria fanbase a fotografare oggetti, paesaggi, spazi e scene che ricordavano l’iconica V del brand. Alexander McQueen ha lanciato il progetto #McQueenCreativeCommunity, che consisteva nel pubblicare immagini inspirational, allo scopo di invitare gli utenti a replicare con sketch e disegni da ri-pubblicare sui propri canali social. Per non parlare di Louis Vuitton, che tramite il progetto #FLWfromhome intratteneva i propri utenti con concerti, tour virtuali, masterclass online. E Nike, che con l’iniziativa #PlayInsidePlayForTheWorld, ha animato il proprio canale IG di sorprese ed eventi sportivi.

 
 
 
 
 
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Il modo in cui le persone interagiscono con i brand e fanno acquisti sta cambiando velocemente e il digitale assume un’importanza fondamentale per le case di moda. Secondo Chris Morton, Co-fondatore e CEO di Lyst, “Coloro che si adatteranno più rapidamente ai nuovi scenari, prendendo decisioni basate su dati e faranno affidamento sulle loro stesse forze, avranno maggiori probabilità di crescita”.

sfilata di moda con le mascherine

Fashion renting e personal shopper digitale: nuove idee per la ripresa

Dopo oltre due mesi di lockdown, scatta una nuova sfida per il retail moda, costretto a reinventarsi per offrire un’esperienza d’acquisto in totale sicurezza.

Secondo alcuni esperti, il fashion renting potrebbe essere la soluzione per il post COVID-19. Il noleggio degli abiti, infatti, permetterebbe di soddisfare il bisogno di indossare vestiti nuovi, senza muoversi da casa e con la garanzia che siano stati sottoposti a lavaggi specializzati. Ogni capo, infatti, prima di ogni spedizione verrebbe inviato a tintorie specializzate. I vantaggi? Prezzi alla portata di tutti, rispetto per l’ambiente e sicurezza. 

Un’altra idea per la ripresa può essere quella di introdurre un personal shopper digitale che offra consigli in streaming, mostrando al cliente i look indossati e i relativi prezzi. Alcuni brand che hanno già abbracciato questa idea sono stati OVS e Pinko. Ma non solo. C’è anche chi ha provato a sostituire il personal shopper con un’APP fondata sull’AIThe Yes. D’altro canto, la moda dovrà inevitabilmente affidarsi alla tecnologia: capi progettati e presentati in 3D, sfilate online, virtual fitting room e prototipazione 3D, molto presto, diverranno la normalità.

Infine, c’è chi ha deciso di lanciare una piattaforma on demand con delivery express: si tratta di P448, un negozio di sneakers a Milano che offre un’esperienza d’acquisto veloce e sostenibile, in tutta sicurezza. Per tutti coloro che non vogliono recarsi in negozio esiste, infatti, la possibilità di acquistare online il proprio modello di scarpa preferita e di riceverlo attraverso un servizio gratuito di delivery in bici, entro 90 minuti dall’ordine. 

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Qualcosa unisce le pubblicità post Covid dei brand (e le rende tutte un po’ simili)

Qualcosa unisce le pubblicità post Covid dei brand (e le rende tutte un po’ simili)

Avete notato come è cambiato il tono delle pubblicità nelle ultime settimane? I brand stanno comunicando in modo diverso, come è diverso il momento che stiamo vivendo a causa del Covid-19. Dopo il picco di emergenza sanitaria, il lockdown e i divieti imposti per oltre due mesi, entriamo nella Fase 2, una fase di progressiva riapertura in cui ci ritroviamo a fare i conti con una triste realtà emotiva ed economica.

L’Italia sente l’esigenza di una spinta verso la ripresa. Ci siamo fatti forza con la solidarietà, il “sentirci vicini rimanendo lontani”, le connessioni del quotidiano. Ma ora più che mai abbiamo bisogno di identificarci con valori essenziali e con messaggi positivi ed incoraggianti per affrontare questa nuova fase. Così anche la pubblicità segue una sorta di trend del post-Covid (e non solo in Italia).

pubblicità-post-covid-ikea-ninja marketing

I brand che ci accompagnano ogni giorno si connettono con il momento particolare e fanno sentire la loro vicinanza – o meglio – la loro responsabilità nei nostri confronti. Le pubblicità post Covid raccontano le nostre giornate passate in casa alla riscoperta di tante emozioni che avevamo forse messo da parte. I brand riconoscono nella tecnologia il ruolo fondamentale di connessione tra affetti e condivisione alternata tra momenti di svago e attività lavorative.

In questo momento ritroviamo infatti uno scenario “universale” il cui target è ampio, al limite del generico.

Momenti e spazi condivisi

Lo spot Chiquita celebra l’originalità tutta italiana dimostrata durante il lockdown. Una serie di foto e video che dietro un momento storico difficile mostra un vissuto simpatico, espresso da ognuno attraverso i propri spazi e impegnando la propria creatività. Un ringraziamento agli italiani, che non si sono arresi e che con la stessa forza e originalità sono pronti a ripartire. (Agency: Bitmama)

Sulle note della canzone My Favourite ThingsMulino Bianco ci ricorda che la felicità è fatta di piccole cose, dai gesti quotidiani ai piccoli vizi golosi. Le immagini raccontano questi ultimi mesi, ripercorrendo quegli attimi che ci hanno reso protagonisti nelle nostre case, allo stesso modo. Sono proprio questi momenti di positività su cui il brand si fa forza per restituircela, per accompagnarci al ritorno della normalità senza dimenticare di fare tesoro delle belle emozioni riscoperte. (Agency: Publicis)

Così anche Carrefour ci fa compagnia in casa dove, per noi amanti del buon cibo, gli ingredienti non sono un semplice elenco di prodotti ma un insieme di occasioni per tenerci uniti(Agency: Publicis)

Vicinanza ed empatia anche per Jeep che attraverso i volti dei lavoratori, l’inventiva e lo spirito combattivo degli italiani incita ad un nuovo inizio. L’augurio del brand è quello di una nuova ripartenza, la nostra e quella dell’economia italiana. (Agency: Leo Burnett)

I brand dunque ci spronano, assicurano la loro vicinanza, promettono di tenerci la mano in questa risalita. Forse per questo, per l’uso di parole rassicuranti, toni e musiche pacate, scene di convivialità, riconosciamo una certa somiglianza tra le pubblicità post Covid.

Del resto in questo particolare momento, l’insight che ritroviamo è lo stesso per tutti, per i diversi brand e anche per noi.

Alcuni spot però, almeno nella narrazione sono riusciti a distinguersi dagli altri, distaccandosi da una esagerata ricerca dell’effetto empatico e da una rincorsa ai buoni sentimenti. 

Pibblicità post-covid: ripartire consapevoli di emozioni riscoperte

Milano è una delle città sfortunatamente protagoniste di questa pandemia. Ma Milano non si ferma: come un leone colpito si rialza fiera, un passo alla volta, con la voglia di rialzarsi ancora più forte.

Il rapper Ghali, tra i diversi quartieri, ci racconta una città ferita, ferma ma impaziente di ricominciare, che si adatta, aspetta, si reinventa. L’alba è quella tanto attesa da una metropoli che si sveglia ancora assonnata ma con la determinazione di ripartire con le sue mille attività. Perché dopo il buio arriva sempre l’alba che si apre in “quel cielo di Lombardia, così bello quando è bello” (cit. Manzoni, Promessi Sposi). (Agency: TBWA)

Mentre il mondo è andato in pausa, le emozioni e le esperienze hanno continuato ad esistere in casa con ognuno di noi. Uno specchio di vita, di preoccupazioni, di cambiamento, di amore, di riscoperte raccontate proprio dai nostri spazi più familiari.

Ed è da lì che Ikea ci sprona a ripartire e continuare, anche se in modo diverso, quella vita che almeno dentro casa non si è mai fermata(Agency: DDB)

Lavazza inneggia al sentimento di un’umanità ritrovata, alla sensibilità individuale che fa eco nella comunità. Il rispetto e la responsabilità verso ciò che è diverso, verso il nuovo e quello che già esiste grazie anche al ruolo della tecnologia e della scienza: queste sono le parole tratte dal discorso finale di Charlie Chaplin nel suo film “Il Grande Dittatore”.

La ricerca di ciò che è giusto per tutti attraverso un consapevole annullamento degli stereotipi e delle prevaricazioni. Sembra strano realizzare che queste parole, attuali più che mai, siano state pronunciate nel 1940. (Agency: Armando Testa)

https://youtu.be/P9cxIxMatnE

C’è chi dice basta alla pubblicità post-Covid

Eppure, c’è sempre un rovescio della medaglia. Dopo esser stati bombardati da messaggi rassicuranti, ringraziamenti e celebrazioni di una nuova fase c’è qualcuno che mal sopporta queste pubblicità.

Sui social, da qualche settimana è diventata sempre più forte l’insofferenza verso questa retorica nella comunicazione. C’è infatti tutto un altro pubblico che non si riconosce in queste esagerate coccole dei brand. Un pubblico che prende voce e si rivolge ai brand, sgridandoli.

La campagna si riferisce all’esasperazione spettacolare di molte pubblicità ideate già prima del Covid ma che per alcuni, calza perfettamente con questo momento. (Agency: 5hort)




Antonio Cerasa (Cnr): «Le riunioni del futuro? Le faranno i nostri ologrammi»

Antonio Cerasa (Cnr): «Le riunioni del futuro? Le faranno i nostri ologrammi»

«Ci saranno ologrammi ovunque: in ogni videochiamata, in ogni webinar, in ogni lezione a distanza». Secondo Antonio Cerasa, neuroscienziato dell’Istituto per la Ricerca e l’innovazione Biomedica del CNR, «in un futuro non molto lontano saranno le nostre immagini tridimensionali a partecipare alle conversazioni e riunioni virtuali».

«Questo avrà dei vantaggi enormi», spiega lo scienziato. «L’olografia, infatti, non solo ci regalerà l’illusione della presenza nonostante i km di distanza – cosa che in parte già a riescono fare piattaforme come Zoom, Google Hangouts, Skype, FaceTime – ma ci consentirà di rappresentare la nostra figura fisica, attraverso le sue tre dimensioni, e di avere un’interazione più umana, più rilassante, più emozionante, e quindi più efficace, con il nostro pubblico».

In pratica, chiarisce Cerasa, «attraverso gli ologrammi mimeremo le nostre relazioni sociali, renderemo le conversazioni simili a quelle reali, arricchiremo il significato delle nostre parole, affiancheremo alla nostra voce anche la mimica facciale, la gestualità, l’espressività». Tutti questi elementi «che saranno finti ma non falsi», e che «lavoreranno sul coinvolgimento emozionale e sensoriale», aggiunge lo scienziato, «saranno importanti non solo perché renderanno (più) affascinante la nostra esperienza, ma anche perché attraverso questa fascinazione saranno in grado di catturare le nostra attenzione e ridurranno il rischio di annoiare e annoiarci».

La «Zoom fatigue» ci attanaglia

Oggi, sottolinea lo scienziato, è molto difficile rimanere concentrati guardando e ascoltando esclusivamente le immagini piatte che sembrano appese ai nostri schermi a due dimensioni. «Osservare e ascoltare delle talking heads – delle teste parlanti – non ci emoziona. Per questo con il trascorrere delle ore, aumenta la tentazione di cedere alle distrazioni», spiega Cerasa. «Se invece dobbiamo resistere a tutti i costi, il nostro cervello si impegna in una dura lotta, e alla fine ne usciamo stravolti».
E infatti, sono molte le persone che raccontano di arrivare a fine giornata completamente stremate e spossate dalla nuova routine imposta da webinar e videochiamate. Così tante che vari scienziati e studiosi hanno dovuto coniare un nuovo termine per descrivere questa sensazione: «Zoom fatigue», l’hanno chiamata. Letteralmente significa «affaticamento da Zoom», ma si applica anche alle videochiamate fatte con qualsiasi interfaccia.

Più distratti di un pesce rosso

La difficoltà a rimanere concentrati, però, non è (solo) un effetto collaterale della pandemia Covid-19. Uno studio del 2015 di Microsoft ha calcolato che la nostra soglia di attenzione è passata da dodici secondi (nel 2000) a otto secondi: in pratica, siamo più distratti di un pesce rosso, che è capace di concentrarsi per nove secondi.
«Solo che oggi», spiega Cerasa, «la nostra già precaria capacità di rimanere concentrati è aggravata dal continuo bombardamento di notifiche che arrivano da tutti i dispositivi elettronici. Queste interferenze rendono ancora più difficile l’esecuzione di alcuni lavori che richiedono lunghi periodi di attenzione sostenuta».

Inutile lavorare 4 ore di fila

Per questo motivo, chiarisce lo scienziato «dal punto di vista neurofisiologico è del tutto inutile, se non addirittura controproducente, cercare di rimanere concentrati per troppe ore consecutivamente: non solo perché il nostro cervello non ce la fa, ma anche perché quando la capacità di attenzione diminuisce per la stanchezza siamo più propensi a commettere errori».
Che senso ha, domanda Cerasa, restare fermi a fissare uno schermo (o un foglio o una macchina) se non riusciamo a rimanere concentrati e attenti? «Forse sarebbe meglio se imparassimo a parcellizzare il lavoro, così come le riunioni e le conversazioni online: funzioniamo meglio, cioè siamo più produttivi, più efficaci, più brillanti, se ci impegniamo per piccoli intervalli su alcuni “tasks” specifici». Cerasa lo spiega bene nel suo libro Expert Brain (FrancoAngeli), dedicato a quegli individui che hanno sviluppato una particolare abilità ed eccellono in essa, al punto che il loro cervello si è modellato di conseguenza (tra cui giocolieri, musicisti, scacchisti e chef).

Se siamo concentrati lo dicono le nostre ciglia

Tutto bello. Ma, specie in Italia, ci sono ancora parecchi datori di lavoro che avvertono un forte bisogno di controllare i propri dipendenti e collaboratori. Come fare allora? «Se un datore volesse misurare il grado di attenzione di un suo dipendente potrebbe installare telecamere che misurano i movimenti degli occhi (le saccadi)», dice Cerasa. «Quando siamo concentrati, o stiamo compiendo uno sforzo cognitivo, i nostri occhi si muovono in un modo completamente differente rispetto a quando siamo distratti o assonati. Non mi stupirebbe se qualcuno lo stesse già facendo». Certo, aggiunge, «può apparire inquietante, ma questo dato potrebbe essere utile per capire qual è la durata ottimale delle videochiamate, delle riunioni e potrebbe essere utile anche per rendere più efficaci le lezioni erogate tramite di didattica a distanza». Lo sanno bene all’Università degli studi di Milano Bicocca, dove una equipe di ricercatori dei Dipartimenti di Psicologia, Informatica e Scienze della Formazione, coordinati da Roberta Daini, sta studiando il rapporto tra la capacità di mantenere l’attenzione nel tempo e le caratteristiche delle lezioni a distanza e una parte del progetto riguarderà proprio la registrazione dei movimenti oculari.

La strada però è ancora lunga

Comunque, prima di vedere ologrammi ovunque, bisognerà attendere ancora un po’. C’è un elemento che ne frena la diffusione massiccia: al momento i costi sono ancora piuttosto alti. «Ma l’evoluzione della tecnologia (soprattutto della velocità di trasmissione dei dati ) e dei contenuti digitali potrebbero favorirne la diffusione, a casa e sul lavoro». La strada è avviata: oggi sono già moltissimi i progetti che hanno richiesto l’impiego di ologrammi: dagli eventi aziendali alle convention di politica, dalle presentazioni di libri e film, alle lezioni alle università, fino alle sfilate di haute couture.




Moda, Giorgio Armani: “Questa crisi è una meravigliosa opportunità per ridare valore all’autenticità”

Moda, Giorgio Armani: “Questa crisi è una meravigliosa opportunità per ridare valore all’autenticità”

Il mondo della moda è, da sempre, il settore che fa da traino all’economia italiana, raccontando il valore del made in Italy nel mondo, e con l’emergenza da covid19 se ne è avuta ulteriore conferma. Il timore di compromettere la propria reputazione e, quindi, il proprio valore economico era legittimo e comune alla maggior parte delle aziende, soprattutto considerando che, allo scoppio dell’emergenza, l’industria del fashion si preparava a lanciare la collezione primaverile, con tanto di campagne già pianificate e budget già investiti.

Le aziende di moda italiane, in passato, si sono spesso rivelate solide e produttive, con un indice di ebit margin, che indica la capacità di generare profitto, in media del 9,3%, contro il 6,2% dei brand sotto il controllo di un player straniero. Un dato che è ancora migliore per quei marchi a controllo familiare, per i quali la media è del 13,4% (dati studio Mediobanca R&S)

Anche in questo caso, alcuni brand italiani non solo sono riusciti a resistere ad una crisi – sanitaria ma anche economica – di portata globale, ma hanno saputo gestire il momento, tanto da uscirne con una reputazione, e di conseguenza un valore economico, migliorata, stando a quanto emerge dall’analisi effettuata con Reputation Rating, algoritmo che pesa e misura le dimensioni della Reputazione, certificando una serie di parametri oggettivi e soggettivi, quali certificati, media intelligence e Sentiment Analysis, attraverso la tecnologia blockchain.

È importante comprendere che la reputazione non è solo “ciò che dicono ti te le altre persone” o l’andamento di parametri finanziari. Per questo, Reputation Rating valuta informazioni differenti, concependo la reputazione in termini di reti e sistemi e stabilendone il peso specifico attraverso la logica dei certificati.

Tra coloro che meglio identificano le eccellenze della moda italiana, e che dovrebbe essere preso ad esempio per la gestione dell’emergenza, c’è sicuramente Giorgio Armani, noto anche come Re Giorgio. Intervistato da Reputation Review, lo stilista ha discusso le modalità della ripartenza in questo settore così fondamentale per il nostro Paese. Un’azienda che conta oggi più di 7 mila dipendenti nel mondo, con un fatturato globale pari a 2.1 miliardi di euro. Ma ciò che maggiormente caratterizza Armani è la sua straordinaria leadership e la capacità di valorizzare in primis sempre il contributo del fattore umano.

«Questa crisi è una meravigliosa opportunità per riallineare tutto, per ridare valore all’autenticità – Racconta Re Giorgio nell’intervista pubblicata sul numero 22 della rivista – Il momento che stiamo attraversando è turbolento, ma ci offre anche la possibilità, unica davvero, di aggiustare quello che non va, di riguadagnare una dimensione più umana per dar spazio a valori come il coraggio, la solidarietà e lo spirito di sacrificio, che poi sono le caratteristiche della nostra cultura. È bello vedere che in questo senso siamo tutti uniti. L’emergenza attuale dimostra come un rallentamento attento e intelligente sia la sola via d’uscita. Il declino del sistema moda per come lo conosciamo è iniziato quando il settore del lusso ha adottato le modalità operative del fast fashion, carpendone il ciclo di consegna continua nella speranza di vendere di più, ma dimenticando che il lusso richiede tempo, per essere realizzato e per essere apprezzato. Il lusso non può e non deve essere fast.”

È nei momenti di difficoltà, in fondo, che si vede il valore di un vero leader. E Giorgio Armani lo è. In questo momento difficile, ha voluto contribuire alla rinascita economica e reputazionale di Milano, città che lo adottò anni fa e che tanto ama, e dell’Italia, decidendo di riportare nel capoluogo lombardo le sue sfilate di alta moda, dopo anni di assenza, augurandosi che i suoi colleghi facciano lo stesso.

“Dal lockdown, la Reputazione di Armani è cresciuta in particolar modo in riferimento alla Corporate Social Responsibility (CSR), non solo come diretta conseguenza della donazione a concreto supporto sul fronte Coronavirus, ma anche per il costante impegno nel sostenere l’ecosistema nazionale, riportando dopo anni le sfilate di alta moda a Milano. – Commentano Davide Ippolito e Joe Casini, fondatori di Reputation Review, l’unica rivista italiana interamente dedicata all’analisi delle reputazioni – Contestualmente, forti segnali positivi sono stati rilevati per il Driver delle Performance e, parallelamente, nei confronti degli Stakeholder Investitori e Finanziatori, proprio per la forza e stabilità che ha trasmesso Armani durante l’emergenza economico-sanitaria; non per ultima, la Leadership di Armani è stata rilevata in crescita, trascinando con sé un miglioramento della Reputazione percepita da Società e Istituzioni. Dalla ricerca, pertanto, emerge come il capitale reputazionale pregresso, basato fortemente sulla Leadership e sulla Reputazione nei confronti dei Consumatori, abbia consentito al brand di superare in modo brillante questa crisi senza precedenti.”




Ellie Goldstein è la prima modella Gucci con la sindrome di Down

Ellie Goldstein è la prima modella Gucci con la sindrome di Down

Ellie Goldstein è  la prima modella di Gucci con la sindrome di Down

La 18enne di Ilford – a nord di Londra – ce l’ha fatta a realizzare il suo sogno: dopo anni di gavetta tra pubblicità e shooting, Ellie ha sfondato. Una conquista sua e anche del mondo della moda che ha scavalvato pregiudizi e resistenze nei confronti della disabilità.

Ellie è il volto della nuova campagna beauty di Gucci

che sui social ha raccolto migliaia di like. Tre anni fa il suo primo contratto con un’agenzia che rappresenta persone con disabilità, poi le prime pubblicità con brand importanti come Vodafone e Nike. Ellie sponsorizza il mascara L’Obscur ed è la prima modella con la sindrome di Down della nota maison di lusso. Ellie Goldstein vuole anche laurearsi, è  iscritta alla facoltà di arti performative del college di Redbridge.

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