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Finlandia, Svezia e Danimarca sul podio della sostenibilità europea. L’Italia? È 23esima

Finlandia, Svezia e Danimarca sul podio della sostenibilità europea. L’Italia? È 23esima

Finlandia, Svezia e Danimarca: sono tre Paesi del Nord Europa a salire sul podio della sostenibilità nel Vecchio Continente, in una sorta di classifica che mette insieme sia la strada percorsa verso i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile indicati come prioritari dall’Onu, sia il punteggio ottenuto in un indice specifico che si chiama «Leave No One Behind Index», che misura le disuguaglianze rispetto a quattro parametri: povertà, servizi, genere, reddito. L’Italia? È solo al 23esimo posto (con un punteggio di 68 su 100), dopo la Spagna e prima della Croazia, nell’elenco di 34 Paesi europei che include anche le nazioni candidate a entrare nell’Unione. Il lato positivo è che negli ultimi anni i nostri progressi verso gli Obiettivi di sviluppo sostenibile sono stati pressoché costanti, saliamo di qualche punto percentuale a ogni classifica. (A questo LINK la mappa interattiva sull’Italia e gli altri Paesi europei e i loro progressi rispetto agli Sdgs).
I conti li ha fatti il nuovo «Rapporto sullo sviluppo sostenibile in Europa 2021», realizzato da Sustainable Development Solutions Network (Sdsn), rete dell’Onu che mobilita competenze scientifiche e tecniche del mondo accademico, della società civile e del settore privato per sostenere la risoluzione pratica dei problemi per lo sviluppo sostenibile a livello locale, nazionale e globale.
Il report evidenzia anche che, per la prima volta dall’adozione degli Obiettivi di sviluppo sostenibile nel 2015, nel 2020 il punteggio medio dell’ «SDG Index dell’UE» non è aumentato, anzi è leggermente diminuito in media, principalmente a causa dell’impatto negativo del Covid su aspettativa di vita, povertà e disoccupazione. Aspetti che hanno tutti a che fare con la «s» dell’acronimo Esg, il risvolto «sociale» di uno sviluppo più equo e che punti al riequilibrio di accesso a beni e servizi. Eppure, è evidente come le due tematiche siano correlate: i Paesi che sono in cima all’SDG Index sono anche in cima al Leave No One Behind Index, indicando che lo sviluppo sostenibile e la riduzione delle disuguaglianze sono obiettivi che si rafforzano reciprocamente.

Finlandia, Svezia e Danimarca sul podio della sostenibilità europea. L’Italia? È 23esima

La classifica

Secondo il report di Sdsn, la Finlandia è in cima all’Indice della sostenibilità per i Paesi europei (e mondiali) proprio perché è tra le nazioni meno colpite dal Covid, soprattutto rispetto alla maggior parte degli altri Paesi della Ue. Europa che, in generale, è ancora indietro nella mappa dei 17 Obiettivi, soprattutto sui temi della dieta e dell’agricoltura sostenibile, del clima e della biodiversità (obiettivi 2, 12-15). Proprio su questi fronti, l’analisi dei Piani di ripresa e resilienza di due nazioni come Italia e Spagna, che sono destinatarie di grosse fette dei fondi Ue e che hanno per il 90% obiettivi legati agli Sdgs nei loro piani, non sembra convincente: secondo l’organismo delle Nazioni Unite a questo obiettivi vengono dedicate misure di minor impatto rispetto a quanto servirebbe.
Sono poi necessari ulteriori sforzi per rafforzare la convergenza degli standard di vita nei paesi europei. L’Obiettivo 9 (Industria, Innovazione e Infrastrutture) è l’obiettivo con il maggiore spread di performance, con molti paesi europei che ottengono risultati molto buoni (pannello “verde”) ma anche molti paesi con risultati molto scarsi (pannello “rosso”), come si vede nel grafico sopra.

Finlandia, Svezia e Danimarca sul podio della sostenibilità europea. L’Italia? È 23esima

Gli impatti sulle emissioni

Ma c’è anche un altro aspetto che il report mette in evidenza. Se è vero che il Vecchio Continente è responsabile dell’emissione di solo l’8-10% della CO2 a livello globale, con l’Asia che pesa per il 60%, non va però dimenticato che gli stili produttivi e di consumo europei portano a impatti molto pesanti dal punto di vista ambientale e sociale, che si evidenziano non tanto e non solo in «casa», quanto all’estero. Si pensi alla deforestazione, sul fronte ambientale, oppure, su quello sociale, alla tolleranza verso standard di lavoro scadenti nelle catene di approvvigionamento internazionali può danneggiare i poveri, in particolare le donne, in molti paesi in via di sviluppo. Sdsn stima ad esempio che ogni anno nel mondo le importazioni di prodotti tessili nell’Ue siano legate a 375 incidenti mortali sul lavoro (e a 21,000 incidenti non mortali).
Sul fronte degli impatti ambientali si possono fare altri tipi di calcoli. Come questo: attraverso le importazioni, ad esempio di cemento e acciaio, l’Europa genera emissioni di CO2 in altre parti del mondo, tra cui Africa, Asia-Pacifico e America Latina. Mentre le emissioni domestiche di CO2 sono diminuite da molti anni nell’UE, le emissioni di CO2 emesse all’estero per soddisfare il consumo dell’UE (le cosiddette emissioni di CO2 importate) sono aumentate nel 2018 ad un ritmo più rapido del Pil (vedi grafico sotto).
«La proposta di un meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (Cbam), di altri meccanismi di adeguamento e di clausole specchio, e il nuovo regolamento sulla Due Diligence possono aiutare ad affrontare e a monitorare le rilocalizzazioni delle emissioni di carbonio e gli altri impatti negativi causati da catene di approvvigionamento non sostenibili», spiega il rapporto. Che aggiunge: «Tuttavia, per evitare la trappola “protezionista”, questi meccanismi dovrebbero essere accompagnati da una maggiore cooperazione tecnica e da un maggiore supporto finanziario per accelerare i progressi verso la sostenibilità nei Paesi produttori, compresi i Paesi in via di sviluppo.

Finlandia, Svezia e Danimarca sul podio della sostenibilità europea. L’Italia? È 23esima

Le sfide

Il rapporto evidenzia inoltre che strumenti europei come il Multiannual Financial Framework, il NextGenEU e la Recovery and Resilience Facility sono una potenza finanziaria per accelerare la trasformazione dell’UE nel periodo 2021-2027. Tuttavia, le linee guida fornite agli Stati Membri per preparare i loro piani nazionali di recupero e resilienza non includono alcun riferimento agli Obiettivi si sviluppo sostenibile. «Una sfida importante sarà garantire che l’insieme dei piani nazionali di rilancio si aggiunga a trasformazioni coerenti e ambiziose degli Sdgs a livello dell’Ue, compresa la trasformazione dei sistemi energetici e alimentari/del territorio», spiegano gli analisti.




Amazon, come arricchirsi manipolando il mercato

Amazon, come arricchirsi manipolando il mercato

Misurare è conoscere, proclamava nella fase pionieristica dell’industrializzazione del Diciannovesimo secolo il capostipite dei grandi ingegneri inglesi, Lord Kelvin. Si era nella fase della prima rivoluzione tecnologica, quando la grande corsa della misurazione della natura in termini scientifici, iniziata più o meno nel Tredicesimo secolo, era giunta a un tornante decisivo, quello della meccanizzazione. Da allora siamo oggi alla fase delle psico-tecnologie, in cui si misurano pensiero e desiderio e non solo i fenomeni naturali. È vero quel che è certo, ed è certo quel che è misurabile, sintetizza Mauro Magatti nel suo Oltre l’Infinito (Feltrinelli). E oggi solo pochi soggetti, quali i grandi centri tecnologici della Silicon Valley, hanno il potere di misurare, e dunque di segnare, quel fondamentale confine fra il vero e l’incerto.

Amazon sta esercitando con tracotanza questo potere e l’Authority della concorrenza italiana è arrivata a comminare una multa per più di un miliardo di euro per aver esercitato la sua posizione dominante in maniera discriminatoria e penalizzante per i competitori. Si tratta però, per quanto deciso dall’Authority, di un aspetto collaterale dell’azione del gruppo di Bezos: avere privilegiato le proprie strutture logistiche nella visibilità delle merci da vendere sulla propria piattaforma di e-commerce. In sostanza venivano premiati coloro che si avvalevano dei servizi Amazon rispetto alla concorrenza. Ma davvero Amazon guadagna in questo modo?

In realtà, quanto ha sanzionato l’Autorità italiana è un aspetto largamente minore e parziale della reale attività del gruppo monopolistico americano. Cerchiamo di mettere a fuoco quale sia la vera distorsione che sta rivoluzionando dall’interno lo stesso mercato capitalistico da parte di uno dei suoi più rilevanti agenti, quale è appunto Amazon. Cosa fa concretamente il gigante americano?

Amazon semplicemente sfrutta un doppio ruolo – operatore del mercato e commerciante sul mercato – in due modi: primo, implementando politiche di mercato che privilegiano il proprio marchio come produttore e venditore di singole merci, esercitando un controllo totale su marchi e prezzi dei concorrenti che sono costretti a transitare sulla sua piattaforma e, secondo, appropriandosi delle informazioni commerciali di tutti  i terzi agenti operativi sul mercato, siano essi clienti o concorrenti diretti, per profilarli, tracciarli, programmarli e prevenirli.

Un modo in cui Amazon ha favorito i beni e i servizi di Amazon è con il presentarsi come il venditore predefinito, anche quando i venditori del marketplace hanno offerto prezzi più bassi. Un’indagine di ProPublica ha scoperto che Amazon ingegnerizza il suo algoritmo di classificazione per favorire i propri prodotti e quelli venduti dai commercianti che acquistano i servizi logistici e commerciali che il gruppo vende. In sostanza, è come se il titolare di un’unica vetrina in una strada molto frequentata sia anche il titolare di una larga parte dei prodotti che vengono messi in bella mostra su quella vetrina – a danno dei concorrenti che rimangono in fila ad attendere uno scampolo di visibilità. In questo modo si stima che l’82% delle vendite di Amazon si realizzi proprio grazie al privilegio di essere al primo posto, cioè nella posizione privilegiata per raggiungere i clienti, nonostante si tengano delle aste per aggiudicarsi quella collocazione: chiunque vinca la Buy box di Amazon fa vincere, alla fine, sempre e solo Amazon.

E questa azione truffaldina è solo l’atto finale di una ben più grave e destabilizzante strategia che altera i margini minimi della trasparenza del mercato. Amazon, infatti, è essenzialmente un’azienda di storage, cioè di gestione delle memorie e dei data base, che monopolizza le informazioni sensibili di gran parte dell’umanità. Solo nel nostro paese i cloud della pubblica amministrazione, in ultima istanza, risalgono ad Amazon per circa il 70%. E l’imminente nuova architettura del cloud unico, a cui sta lavorando il ministro Colao, si appoggerà inevitabilmente, per segmenti rilevanti, ancora su quella infrastruttura.

Contemporaneamente, Amazon combina le informazioni che custodisce nei suoi cloud con quelle che ricava dalla movimentazione di oltre sette miliardi di pacchi all’anno in tutto il mondo, ricavando una profilazione completa di decine di milioni di utenti. È questa la vera discrasia da regolare, il reato da impedire. E non riguarda solo Amazon, ma tutto il mercato digitale.

Concretamente Amazon  è l’unico soggetto – in un mercato che, per quanto malato, squilibrato e artefatto dalle vocazioni monopolistiche dei suoi protagonisti, mantiene comunque un’alea di incertezza nella previsione dei comportamenti dei consumatori agli occhi dei venditori – che gioca a carte scoperte, creando quella cosiddetta correlazione in grado di determinare, mediante continui e incessanti calcoli algoritmici, ogni diretta conseguenza evolutiva nei comportamenti che vengono registrati sulla sua piattaforma. Le grandi piattaforme del capitalismo della sorveglianza, per dirla con Shoshana Zuboff, si trovano in mano una potenza del tutto inedita e incontrollata per la storia del mercato: sanno, a volte prima ancora degli interessati, cosa vogliono e come lo vogliono i propri clienti. E hanno gli strumenti per interferire su di loro, cosicché – conclude nel suo saggio la Zuboff – “questi gruppi della sorveglianza sanno troppo per essere liberi”.

In particolare il mercato viene distorto e squilibrato, in modo molecolare, mediante il meccanismo del cosiddetto pricing discriminatorio, come ha denunciato il premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, nel suo saggio Popolo, potere e profitti (Einaudi): poiché l’intelligenza artificiale e i megadati consentono alle piattaforme di stabilire quale sia il valore che ciascun individuo attribuisce ai diversi prodotti, e che quindi è disposto a pagare, essi danno a queste aziende il potere di discriminare i prezzi, “facendo pagare di più a quei consumatori che hanno più bisogno di quella merce o che hanno meno opzioni”.

A questo punto non si tratta più di procedere con interventi palliativi, occasionali multe che, per quanto rilevanti, rimangono episodi marginali nel flusso continuo di immensi profitti accumulati, e soprattutto nella dinamica distorta di quella risorsa che era sempre rimasta inviolata nel capitalismo industriale, cioè appunto il processo psicologico di organizzazione della relazione fra valori, bisogni e azioni che ogni individuo organizza nella sua esistenza di tutti i giorni. Siamo in presenza di un salto di qualità nella sopraffazione che la proprietà esercita nei confronti dello scenario sociale in cui agisce. Non si tratta più di mitigare gli eccessi di una prevaricazione nell’esercizio della produzione e della distribuzione da parte dei detentori dei mezzi di produzione; siamo dinanzi a un’omologazione preventiva di intere popolazioni e meccanismi neurali, che non sono nemmeno percepiti dai consumatori come intrusioni da parte dei proprietari degli algoritmi.

Quando la merce che una piattaforma distribuisce, riproducendo il meccanismo che abbiamo sommariamente riassunto per Amazon, mediante l’accumulo dei dati individuali, la combinazione di questi dati fra loro e la capacità infinita di calcolo per estrarre da questi dati alchimie psico-attitudinali degli utenti – non beni di consumo materiali, ma beni immateriali, come sensazioni, emozioni, valori o più consuetamente informazioni –, cosa accade? Accade quanto è già accaduto con Cambridge Analytica: salta il banco della democrazia e bisogna faticosamente risalire all’origine di questa manomissione. Ma ogni volta il meccanismo è meno individuabile, meno rilevabile, meno arginabile. Dunque è indispensabile arginare questa forma di arbitrio, neutralizzando la materia che rende asimmetrica la relazione sociale: il controllo dei dati medianti algoritmi.

Non si tratta di sanzionare un eccesso, quanto piuttosto di stroncare una spirale di sostituzione del diritto con la potenza di calcolo privata. Questo è oggi in gioco. C’è un partito, un sindacato, un movimento capace di organizzarsi su questo crinale per ricostruire modelli di conflitto?




La Filippa è davvero un’altra cosa

La Filippa è davvero un'altra cosa

Parlare di Economia Circolare sembra oggi se non obbligatorio quantomeno inevitabile, sia per l’effettiva necessità di convertire le produzioni lineari verso soluzioni più concilianti con le risorse limitate di questo nostro pianeta, sia per quel certo allure che le tematiche ambientali hanno ormai decisamente assunto anche all’interno del dibattito economico. Ma ci sono aziende, ci sono storie, ci sono persone che lavorano e agiscono da tempo con “circolarità”, ancora prima della consapevolezza terminologica e nella piena coerenza delle proprie idee.

Questa storia parte da una discarica e ce la racconta Massimo Vaccari, ideatore circa vent’anni fa, assieme al fratello Carlo, de La Filippa di Cairo Montenotte, in provincia di Savona.
“Ho cominciato a lavorare nel 1981 e rappresento la quarta generazione di una famiglia di imprenditori dell’industria del laterizio e dei materiali da costruzione. All’epoca il nostro era un settore già maturo, non c’era niente da inventare, ti giocavi tutto sull’abbattimento dei costi di produzione, sull’utilizzo della tecnologia e sulla riduzione dei costi di manodopera. Poca creatività, poca innovazione. C’era ancora il mercato perché resisteva la domanda ma qualcosa doveva cambiare. È stato proprio in quel momento che insieme a mio fratello Carlo abbiamo pensato di innovare. Non avevamo a disposizione grandi strutture di ricerca e sviluppo alle spalle o grandi investimenti. Avevamo però la convinzione profonda di guardare alle cose che esistono e riprogettarle trasformando i fattori negativi in aspetti positivi. Visione? Credo di aver avviato un mio percorso personale di sostenibilità senza nemmeno saperlo perché ho iniziato a guardare le cose in modo diverso. Volevo aggiungere loro valore e progettarne il loro riutilizzo nel futuro”.

Il tutto partendo da una discarica, il luogo che serve a tutti ma che nessuno vuole vicino a casa, uno dei paradigmi inevitabili della modernità più contestati dal mondo ambientalista.
“Era anche il luogo migliore dove rendere evidente la diversità del pensiero che c’era alle spalle. Ho cominciato da piccole azioni: in discarica serviva una vasca in cemento armato per evitare che l’acqua piovana entrasse a contatto con i rifiuti. Costava 300mila euro e sarebbe stata utilizzata per un numero limitato di anni prima di essere demolita e smaltita. Quando il mio ingegnere è venuto in ufficio e per ridere mi ha detto… ho il progetto della piscina, io l’ho guardato e ho pensato, perché no? E abbiamo davvero realizzato la vasca nell’ottica di usarla in futuro come piscina. Perché degli oggetti oggi ne faccio un uso e domani un altro ma occorre pensarci da subito e progettare il loro utilizzo futuro sin dall’inizio della loro storia “.

E inizia così questa piccola rivoluzione chiamata La Filippa. Quello che oggi è un modello di sostenibilità riconosciuto a livello internazionale, una discarica che smaltisce rifiuti non pericolosi adottando soluzioni progettuali e gestionali che vanno ben oltre gli standard previsti dalla legge. Le condizioni ambientali dell’area, che rappresentano assetti di valore anche economico, sono costantemente monitorate e diventano elementi costitutivi di un esempio dinamico attorno a un tema, quello dell’economia circolare, che ora sta venendo fuori in modo prepotente.
“L’economia circolare nasce da una questione gigantesca, che è quella dell’impatto ambientale delle attività antropiche: generano scarti e inquinano l’ambiente. In questo momento gli imprenditori si rendono conto che il problema non è più il mercato ma la precondizione necessaria di non avere più materia per produrre gli oggetti di consumo. Non serve più dire non spreco perché non è etico. La questione è sostanziale. Abbiamo la consapevolezza definitiva che stiamo esaurendo le risorse e che dobbiamo rimettere in circolo quelle che abbiamo”.

Questo approccio che prevede di comprendere nel costo dell’investimento anche il fine vita o la seconda vita del prodotto può alimentare la rivoluzione definitiva e consapevole del sistema della produzione, la chiusura del cerchio?
“In certi casi si può lavorare per allungare la vita di oggetti e materiali, in altri è bene pensare che i prodotti finiti siamo smontabili, riutilizzabili, rigenerabili. Nel nostro caso siamo partiti dalla riprogettazione della discarica che è di per sé un’attività temporanea perché nel momento in cui tu hai esaurito i volumi di riempimento il lavoro è finito. Tutte le discariche del mondo sono state pensate per durare un tempo limitato e questo cosa ha portato? Che tutte le infrastrutture necessarie per utilizzarle, dall’urbanizzazione agli scarichi civili e industriali, dalle telecomunicazioni all’illuminazione e alla fibra sono tutte provvisorie, tutta roba che smonti e butti. Noi abbiamo sostenuto l’investimento pensando,invece, al fine vita degli oggetti. Tutto doveva avere una seconda vita, un secondo scopo, una seconda utilità. Alla Filippa l’ufficio è una casetta di legno che un domani potrà venire utilizzata per un agriturismo piuttosto che per la reception di un parco e la vasca come ho detto prima è pensata per diventare una piscina. Quando abbiamo progettato La Filippa ho pensato: mio padre ci ha lasciato un’area meravigliosa dove viviamo il 70% del nostro tempo, il luogo dove lavoriamo deve essere un luogo salubre, in cui stare bene ma anche un fattore di coesione sociale, culturale ed economico per tutta la comunità che ci circonda e per il suo territorio. Abbiamo fatto una scommessa. Dimostreremo a tutti che, alla fine, l’area su cui stiamo intervenendo avrà un valore economico a metro quadrato superiore a quello di prima”.

Chi è un imprenditore, oggi?
“Come diceva mio padre, il senso autentico del fare l’imprenditore è quello di lasciare delle impronte dopo il tuo passaggio. Quando ho iniziato a lavorare ho capito che per l’imprenditore lasciare delle impronte è la cosa più facile che esista, il problema è che tipo di impronte lasci”.

Intanto ha deciso di occuparsi anche di turismo. Perché?
I parchi italiani e internazionali, in genere, consumano davvero troppa energia. Ho pensato: come faccio a far funzionare un parco in modo sostenibile? Semplice, uso la forza di gravità, i principi della fisica e, soprattutto, metto l’uomo al centro del suo divertimento. Ho progettato delle macchine che si muovono con la spinta del corpo e, allo stesso tempo, sono in grado di offrire a chi le usa emozioni ed esperienze tutte da scoprire. Così è venuto fuori il progetto di un green park in Liguria, un ecosistema naturale dove il vero protagonista del divertimento sarà il benessere di chi lo visita. Anche quando si tratta di mangiare: al parco non troverai cibo già pronto ma chioschi che ti vendono le eccellenze del territorio, dal pane ai formaggi, dai salumi alle verdure. E anche il panino diventerà un progetto da condividere nel senso pieno di una vacanza a contatto con la natura, a impatto zero e con la sola forza dei tuoi desideri”.




Il premio per il migliore studio legale? Agli avvocati di Gkn nel licenziamento di 430 dipendenti (poi bloccato dal Tribunale)

Il premio per il migliore studio legale? Agli avvocati di Gkn nel licenziamento di 430 dipendenti (poi bloccato dal Tribunale)

La rivista Top legal ha assegnato il premio per il miglior studio dell’anno nel diritto del Lavoro a LabLaw Rotondi & Partners. La motivazione è l’assistenza fornita alla multinazionale per la chiusura dello stabilimento di Campi Bisenzio, in Toscana, e il conseguente invio delle lettere di licenziamento di 430 persone. Nel documento sulle motivazioni della premiazione si legge testualmente che lo studio legale premiato è “Stimato per la proattività e la lungimiranza con cui affianca i clienti. Come nell’assistenza a GKN per la chiusura dello stabilimento fiorentino e l’esubero di circa 430 dipendenti”.

Gkn è una multinazionale controllata dal fondo Melrose ed è stata assistita dall’avvocato Francesco Rotondi. Il premio risulta particolarmente curioso visto che il Tribunale ha bloccato i licenziamenti rilevandone la violazione dello Statuto dei Lavoratori. In particolare la multinazionale ha violato l’articolo 28 dello Statuto dei Lavoratori mettendo in atto comportamenti anti sindacali. Dopo la sentenza l’azienda ha comunicato di aver dato “immediata esecuzione” a quanto stabilito dal giudice revocando la procedura “senza che ciò possa considerarsi acquiescenza” e “con ogni più ampia riserva di impugnazione”. Top Legal è una rivista bimestrale in edicola dal 2004, edita da Penta Group. Il fattoquotidiano.it ha tentato senza successo di contattare la redazione.

Dopo l’annuncio del premio lo studio LabLaw Rotondi & Partners aveva scritto su Facebook: “Siamo orgogliosi” e poi, riportando le ragioni della sentenza, “Lavoro di squadra, passione e dedizione, questi i valori nei quali crediamo e che ci spingono a voler raggiungere traguardi sempre più alti”. La pagina Fb dello studio legale è adesso irraggiungibile.

Amaro il commento sulla vicenda che la viceministra allo Sviluppo Economico Alessandra Todde affida a Twitter

Di fronte a quello che sembra essere davvero un bel pasticcio di comunicazione aziendale insomma le reazioni indignate non si sono fatte attendere. “Non so voi, ma io sono davvero disgustato”, ha twittato il sindaco di Firenze Dario Nardella. Più sarcastica la replica della Fiom di Firenze: “A noi e ai lavoratori Gkn daranno il premio Nobel”, scrive il sindacato, secondo cui “è offensivo che si vinca un premio per aver messo 422 persone sull’orlo del licenziamento. Chissà cosa spetterà a noi che contro di loro abbiamo presentato e vinto un ricorso in Tribunale per atteggiamento antisindacale! Un grazie ai nostri avvocati Stramaccia e Focareta”. Sarcastico anche il Collettivo di Fabbrica Gkn: “A noi pare che contro la Fiom di Firenze – hanno scritto gli operai su Facebook, riferendosi alla sentenza di settembre del tribunale del Lavoro – avete perso non uno ma due articoli 28, la fabbrica ad oggi non è chiusa, e per quanto ci riguarda abbiamo avuto modo di apprezzare la vostra discutibile presenza in sede sindacale dove non ci sembra abbiate tenuto testa a quattro operai in croce nell’assistere un liquidatore in sede sindacale senza nemmeno forse sapere che forma hanno i nostri semiassi”.




La filiera italiana della fusione nucleare punta sull’innovazione per dare al Paese energia ‘green’

La filiera italiana della fusione nucleare punta sull’innovazione per dare al Paese energia ‘green’

Nella transizione energetica verso le fonti rinnovabili e green ci sono molte incertezze e incognite da sbrogliare. Per esempio, le cosiddette fonti ‘alternative’ a quelle fossili e più inquinanti non possono colmare tutta la domanda di energia necessaria.

Ma c’è anche qualche punto fermo: serve una fonte energetica stabile e programmabile, perché solare ed eolico non lo sono, in grado di soddisfare un bisogno di energia, innanzitutto elettrica, che continua a crescere.

“Questa fonte energetica stabile e programmabile, e che non produce anidride carbonica, può essere il ‘nuovo’ nucleare, tecnologicamente avanzato, innovativo, ad esempio quello generato attraverso i mini-reattori di quarta generazione”, rimarca Umberto Minopoli, presidente Ain, Associazione italiana nucleare, in occasione dell’evento organizzato da Confindustria, presso la sede di via dell’Astronomia a Roma – ma disponibile anche online – sul tema ‘Verso una transizione energetica sostenibile. La filiera italiana della fusione: una filiera industriale strategica per la competitività dell’Europa’.

Un appuntamento che ha messo la filiera italiana della fusione nucleare al centro degli scenari energetici del Paese. Non a caso, il nucleare (più datato e tradizionale) e il ‘nuovo’ nucleare (quello più moderno e innovativo) contribuiscono già oggi a circa un quarto (circa il 25%) del fabbisogno energetico complessivo dell’Unione europea, e di questi tempi “il governo Draghi ha il merito di avere di nuovo legittimato la discussione sull’energia nucleare in Italia, dopo i referendum di trent’anni fa che ne hanno bloccato lo sviluppo”, fa notare Minopoli.

Come ha sottolineato pochi giorni fa in Tv anche il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, “più in là potremmo avere bisogno del nucleare, perché potrebbe non essere sufficiente l’accelerazione data dalle rinnovabili”. Cingolani fa notare: “che in Italia e in altri Paesi si sia deciso di non utilizzare le centrali nucleari di prima e seconda generazione con i vecchi referendum ha un suo senso. Quello che non ha senso è pensare che dietro l’aggettivo nucleare si celino solo ed esclusivamente tecnologie pericolose, poco efficaci e costose”. Il progetto di lungo termine, ha prospettato il ministro, è quello di “avere la fusione nucleare, diversa dalla fissione, dove si rompe un atomo grosso per avere energia, mentre nella fusione si prendono due atomi leggeri e si fanno fondere come succede nelle stelle”.

In questo scenario, operare nella filiera della fusione nucleare costituisce uno stimolo all’innovazione delle imprese, degli impianti e per le attività di ricerca e sviluppo: per il 70% delle aziende censite dall’Associazione italiana nucleare, “la partecipazione alla filiera della fusione ha un impatto molto alto sulla propensione a innovare. La maggior parte delle aziende ha fatto degli investimenti per entrare nella fusione, innanzitutto per l’acquisizione di competenze innovative, per realizzare innovazioni di processo e innovazioni organizzative”.

Il raggiungimento della neutralità carbonica – previsto dall’Unione europea entro il 2050 – “impone investimenti nella ricerca e sviluppo di nuove tecnologie e ha bisogno di politiche industriali e fiscali adeguate”, osserva Maurizio Marchesini, vice presidente di Confindustria per le Filiere e le Medie imprese. Che mette in evidenza: “per filiere forti servono capacità di innovare, e poi credito e finanza per gli investimenti”.

Partnership, competenze e trasferimento tecnologico

Considerando le innovazioni introdotte negli ultimi cinque anni, “si conferma l’importanza di quelle organizzative e di processo, alle quali si aggiungono anche le innovazioni tecnologiche”, rileva Marco Ricotti, presidente del Cirten. Insomma, l’Industria 4.0 e la Transizione digitale dei sistemi interconnessi stanno espandendosi e rinnovando anche il mondo del nucleare. In questo scenario, “alla luce delle opportunità e della posizione di eccellenza raggiunta dall’Italia, la fusione merita senz’altro grande attenzione”, fa notare Ricotti.

Partnership, competenze specializzate e trasferimento tecnologico sono anche i principali fattori emersi da una ricerca dell’Università di Genova, e dalle case histories presentate nel corso dell’incontro, quelle di: Ansaldo Nucleare, Asg Superconductors, Fincantieri SI, Simic, Enea e Consorzio Rfx.

Le imprese italiane dotate di competenze, problem solving e creative thinking hanno un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti di altre nazionalità, e “Ansaldo Nucleare è pronta ad affrontare le sfide della transizione energetica”, sottolinea l’amministratore delegato, Luca Manuelli, “attraverso la visione New Clear, che caratterizza lo sviluppo industriale delle nuove tecnologie nucleari”.

Un settore innovativo per molte Pmi italiane

L’Italia è coinvolta nel più grande progetto internazionale di ricerca e sviluppo nel campo della fusione termonucleare controllata, il programma Iter (International thermonuclear experimental reactor), avviato nel 2006, e sviluppato su scala mondiale, in cui la Ue ha un ruolo di propulsione e leadership.

Il progetto Iter mette sul piatto 21 miliardi di euro, coinvolge imprese e centri di ricerca tra i più grandi al mondo, e “prevede la costruzione di prototipo, con l’obiettivo di creare sulla Terra le condizioni necessarie alla produzione di reazioni di fusione come quelle generate dal Sole”, spiega il presidente Ain: per la costruzione del prototipo sono previsti 15 miliardi di euro, ne sono stati già assegnati circa 7, di cui 1,6 miliardi alla filiera italiana, “che ha imprese d’eccellenza sul piano della ricerca scientifica e produzione industriale”.

L’Italia ha sempre avuto grandi eccellenze anche in questo settore – e nonostante il nucleare nel Paese sia stato accantonato da trent’anni –, “oggi Iter dimostra come attraverso la filiera molte Pmi siano riuscite ad affermarsi in un ambito altamente innovativo”, rileva Marchesini, “nella filiera della fusione le imprese lavorano massimizzando l’efficienza della ricerca scientifica”. E le attività di ricerca e sviluppo svolte in questo campo alimentano l’innovazione tecnologica anche in altri settori, come quello aerospaziale.

I reattori nucleari di quarta generazione

A differenza dei reattori nucleari di seconda generazione (la stragrande maggioranza di quelli attualmente in funzione), e terza generazione (un po’ più moderni), quelli di quarta generazione dovrebbero introdurre spiccate differenze soprattutto nei materiali impiegati, pur continuando a usare come ‘combustibile’ principalmente uranio e plutonio.

I reattori nucleari di quarta generazione sono un gruppo di sei famiglie di progetti per nuove tipologie di reattore nucleare a fissione, che, pur essendo da decenni allo studio, non si sono ancora concretizzati in impianti utilizzabili diffusamente in sicurezza. Alcuni osservatori e tecnici del settore ritengono che saranno disponibili commercialmente non prima di qualche decennio. Il compito delle attività di ricerca e sviluppo è anche quello di migliorarne le caratteristiche e funzionalità, e cercare di accorciare i tempi, che nel mondo dell’energia nucleare sono sempre molto lunghi e dilatati.