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I dati biologici: una garanzia che non c’è. Subito un G20 sui dati sanitari

I dati biologici: una garanzia che non c’è. Subito un G20 sui dati sanitari

L’avventura capitata nei giorni scorsi ad Eugenio Finardi, salvato in aeroporto dal suo smartphone che gli ha segnalato il sopraggiungere di una fibrillazione atriale, ci ripropone la necessità di bonificare questo ormai ineludibile mondo della sensoristica medica. Come nel caso del cantautore che è stato salvato da una tempestiva diagnosi anche sulla base dei dati che erano stati registrati dal suo orologio digitale, siamo in presenza di sistemi che diventano sempre più utili per integrare una strategia di assistenza in patologie delicate, come appunto le cardiopatie. E di conseguenza sono davvero molti ormai coloro che  si  affidano a sistemi di monitoraggio permanente, o tramite sistemi wearable o più direttamente agli smartwatch.

Analisi dati già al pronto soccorso

In molti ospedali, al pronto soccorso, ormai ci sono computer che decifrano direttamente il flusso dei dati di coloro che arrivano in emergenza.  Il mercato mondiale di questo settore  sta superando i 100 miliardi di  euro. Si tratta di un fenomeno che sta entrando a pieno titolo nelle forme dell’assistenza sanitaria ordinaria. Pensiamo ad esempio al mondo dei diabetici, dove i dispensatori automatici di insulina sono una scelta di necessità per milioni di pazienti che riescono a fronteggiare le forme più instabili della malattia solo grazie a questi sistemi. O pensiamo alle nuove app che sono in grado di analizzare, solo grazie ad una fotografia con il telefonino, il contenuto di glucosio di una pietanza.

La medicina diventa big data. Ma chi controlla?

La medicina sta diventando big data, ma chi sta controllando queste informazioni vitali ? Siamo nel pieno far west.

Il flusso di queste delicatissime e vitali informazioni che si stanno accumulando in quantità vertiginosa rimane affidato alla semplice discrezione delle piattaforme di servizio. In genere i singoli service provider che forniscono questi servizi  di monitoraggio o mediante smartwatch o con sensori specifici, quali ad esempio i microinfusori di insulina, si appoggiano ai soliti noti che forniscono capacità di archiviazione e gestione della memoria. Siamo sempre nelle mani di Google, Amazon, Apple, che stanno raccogliendo direttamente i dati biologi su milioni di pazienti e li combinano con i  dati sulle attività ordinarie di mobilità o di consumo degli stessi soggetti, ricavando profili dettagliatissimi sull’evoluzione delle personalità e dei bisogni di ognuno di questi utenti. Il quadro clinico di Eugenio Finardi come quello delle migliaia di malati di diabete che attualmente dipendono dai microinfusori sono catalogati  da queste piattaforme senza nessuna garanzia né trasparenza.

Al di là della profilazione commerciale

Siamo oltre alla profilazione commerciale, siamo entrati nella ricostruzione e previsione del destino di ognuno di questi utenti di sistemi digitali, che diventano dossier di un metaverso biologico che pochi individui possono controllare. E’ un buco nero che attiene alla sostenibilità della nostra vita non meno dei vincoli ecologici.

La pandemia ha reso poi questo aspetto ancora più pressante. Il conflitto che si è aperto sulle strategie sanitarie ci avverte che siamo ormai entrati in una nuova fase della storia politica ed istituzionale che Michel Faucoult avrebbe definito di biopolitica, dove proprio la conoscenza e la gestione delle variabili biologiche si sostituirà alle dinamiche solo economiche.

Cura e prevenzione sanitaria, nuovi diritti alla luce del cloud nazionale

La democrazia deve prendere atto che la gamma dei diritti e delle esperienze che compongono la vita di una comunità oggi debba estendersi  inevitabilmente a questo aspetto della nostra attività: la cura e la prevenzione sanitaria. Con quali strumenti e quali livelli di controllo pubblico sarà possibile continuare a curarsi ma, ancora di più, continuare a organizzare autonomamente le nostre relazioni sociali ed istituzionali se tutti i dati, tutte le informazioni, anche le più intime saranno preda di pochi centri tecnologici. Su questo tema dovrebbe intervenire con forza la comunità politica globale. Un G20 sulla trasparenza e la correttezza della gestione di questa dimensione della nostra vita legata ai monitoraggi sanitari è oggi urgente, non meno che per il riequilibrio ambientale.

Siamo alla vigilia delle decisioni operative per il cloud nazionale che sarà anche parte del sistema sanitario. Da qui dovremmo partire per connettere la potenza irrinunciabile a sistemi di controllo e monitoraggio individuale efficienti con la garanzia che lo stato deve assicurare ad ogni cittadino dell’inviolabilità dei propri dati e della propria evoluzione biologica. Al momento questa garanzia non c’è.




Clima: banco di prova per il peace-building in Medio Oriente

Clima: banco di prova per il peace-building in Medio Oriente

Lungo le coste del Mediterraneo orientale le temperature sono aumentate mediamente di 2° C dagli anni ’50 e le previsioni correnti preconizzano un loro incremento di altri 4° C entro la fine del secolo. La scarsità crescente di risorse idriche è un processo in atto: i climatologi prevedono una drastica riduzione delle precipitazioni negli anni a venire. Il Mar Morto lungo il confine fra Israele e Giordania si va depauperando sia a causa dei ripetuti prelievi idrici dal fiume Giordano operate nel corso degli anni da Israele, Giordania e Siria sia per i danni inquinanti prodotti dalle industrie minerarie israeliane lungo le sue coste.

Israele, che pure è sulla frontiera in materia di tecnologie ambientali – nell’agricoltura, nella desalinizzazione, nella conservazione di energia solare – che esporta anche ad economie maggiori quali Cina e India, non sarà in grado di conseguire gli obiettivi di zero emissioni nel 2050 – ha rivelato Tamar Zandberg, ministro dell’ambiente nel nuovo governo di coalizione, esponente del partito di sinistra Meretz.

Le ragioni di ciò sono la latitanza dei governi precedenti sul fronte ambientale, il forte incremento demografico del Paese, ed anche il ricorso a giacimenti massicci di metano recentemente scoperti per la produzione di energia. Tuttavia, per la prima volta nella storia del Paese, il Parlamento israeliano discute di un disegno di legge in materia di clima e di transizione ad un’economia a basso contenuto di carbonio.

Green-blue deal

Una sensibilità fattiva in questo ambito nonché al legame fra difesa dell’ambiente e un assetto di coesistenza pacifica nella regione ha spinto Ecopeace Middle East – l’unica Ong trilaterale, israelo-palestinese-giordana attiva sul campo da oltre venti anni – a proporre un piano d’azione articolato detto “green-blue deal” illustrato anche alla Cop26, la Conferenza sul clima di Glasgow. La dimensione “green” riguarda lo sviluppo di energie rinnovabili al fine di ridurre i danni da emissioni di CO2; quella “blue” concerne l’acqua, le modalità con cui produrre e distribuire risorse idriche in quella parte del Medio Oriente. Si noti che un’intesa sull’acqua è stata parte integrante dei negoziati che precedettero e seguirono il trattato di pace di Oslo del 1993.

Il piano, audace nei contenuti e nelle finalità, va assai al di là di quanto Ecopeace ha fino ad ora concorso ad attuare, in particolare la riabilitazione del fiume Giordano, attraverso il trattamento delle acque reflue e il trasferimento di acque pulite dal lago di Tiberiade. Esso si compone di più parti, esige corposi investimenti finanziari e un impegno cooperativo. Le premesse sono peraltro positive perché iniziative precedenti dimostrano come in materia di ambiente in quella parte del Medio Oriente così geofisicamente interconnessa il gioco non è “a somma zero” – vi è infatti una confluenza positiva di interessi e benefici; infine, la protezione dell’ambiente è anche uno strumento efficace di coesistenza e pace. I diritti dei palestinesi a risorse idriche adeguate potrebbero essere conseguiti senza ridurre la disponibilità di acqua per gli israeliani: si dovrebbe consentire ai palestinesi di accrescere l’estrazione da falde acquifere mentre Israele la riduce nel proprio territorio e accentua la desalinizzazione che già assicura quasi il 70% del fabbisogno di acqua potabile del paese.

Barattare l’acqua con il sole

L’essenza e l’originalità del progetto risiedono nello scambio fra energia solare e acqua. La Giordania con le sue vaste aree desertiche gode di vantaggi comparativi nella produzione di energia solare, sostenuta finanziariamente da contributi della Banca europea degli investimenti (Eib) e dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Ebrd).

Israele e Palestina godono di vantaggi rispetto alla Giordania data la loro contiguità con le coste del Mediterraneo nel produrre acqua potabile attraverso tecnologie di desalinizzazione. La Ue sta contribuendo con ingenti investimenti alla costruzione di un impianto del genere nella striscia di Gaza. La Palestina diventerebbe così meno dipendente da Israele per forniture di energia solare e acqua. Inoltre, il Congresso e l’Amministrazione americani hanno introdotto il Middle East Partnership for Peace Act (Meppa) – che stanzia 250 milioni di dollari da destinarsi su un orizzonte di 5 anni in parte allo sviluppo economico del settore privato palestinese e in parte ad iniziative di “people-to-people” da svolgersi sotto l’egida di Ong israelo-palestinesi. Parte di questi finanziamenti potrebbero essere erogati a progetti di carattere ambientale.

Nello scambio che Ecopeace promuove l’energia solare prodotta dalla Giordania potrebbe essere ceduta in parte alle reti israeliane e palestinesi. Gli impianti di desalinizzazione in Israele e in Palestina (Gaza) alimentati da energia solare potrebbero rifornire di acqua le fonti locali e altresì alleviare la scarsità di risorse idriche in Giordania. Impianti di trattamento di acque reflue in Palestina e Giordania e produzioni agricole mosse da energia solare potrebbero inoltre consentire un aumento cospicuo nella produzione alimentare.




A 10 anni dalla nascita, Talent Garden diventa la più importante azienda in Europa dell’edutech

A 10 anni dalla nascita, Talent Garden diventa la più importante azienda in Europa dell'edutech

Talent Garden ha annunciato l’acquisizione di Hyper Island, business school digitale svedese tra le più grandi a livello continentale. La scaleup italiana ha rilevato una quota del 54% con l’opzione per salire fino al 100% nei prossimi anni. Non sono state rese note le cifre dell’operazione. Nel 2018 il gruppo aveva acquisito Rainmaking Loft, una rete di quattro spazi di coworking a Copenhagen. Secondo la società fondata nel 2011 da Davide Dattoli e Lorenzo Maternini, si viene a creare in questo modo il primo player a livello continentale nel settore edutech

Cambia anche la governance: il trentunenne Dattoli lascia il ruolo di amministratore delegato per continuare come presidente esecutivo. Maternini sarà vicepresidente. Il timone passa, invece, a Irene Boni nel ruolo di amministratore delegato: ex co-general manager di Yoox dal 2014, Boni vanta una lunga esperienza nel mondo delle scaleup ed è stata ritenuta la persona ideale per una stagione di crescita che nel giro di tre anni potrebbe portare a una quotazione. Il tutto avviene a pochi giorni dal decennale dalla fondazione, il primo dicembre.  

Un mercato da cinque miliardi di euro

Hyper Island offre formazione accreditata part time e full time, corsi intensivi per dirigenti e master. “Il mercato della digital education vale cinque miliardi a livello europeo e crescerà di quattro volte nei prossimi anni – commenta a caldo Dattoli a Wired -. È estremamente frammentato. In questo abbiamo visto la nostra opportunità. Con questa operazione andiamo a consolidarlo unendo la più grande realtà del sud alla più grande del nord Europa, per andare a formare il player continentale più rilevante per dimensioni”.

Dodici paesi, dalla Svezia al Brasile, da Singapore al Nord America (erano otto), tre continenti, fatturato che raddoppia fino ai cinquanta milioni previsti nel 2022: queste le cifre del nuovo gruppo dopo il closing. Raddoppiano anche i dipendenti, che arrivano a duecentocinquanta. 

Tre le linee di business: oltre alla formazione consumer e a quella aziendale va ad aggiungersi il filone della collaborazione con i governi (b2g, business to government). Una strada già avviata con progetti attivi in Regno Unito, Svezia, Danimarca e Singapore e che grazie al Next generation Eu offre forti prospettive di sviluppo. Attualmente pesa per il 20% del totale delle attività.   




Il vero problema dello spot di Parmigiano Reggiano? Non è Renatino

Il vero problema dello spot di Parmigiano Reggiano? Non è Renatino

Giorni fa ho partecipato a un talk con Giampietro Vigorelli, un vecchio e famoso pubblicitario, “che si è arricchito con il suo lavoro” (cit.) dove abbiamo parlato delle differenze tra vecchia e nuova pubblicità, tra la pubblicità tradizionale e quella social. È emerso che mentre una volta c’erano budget enormi che permettevano produzioni professionali e tempi lunghi per elaborare spot esteticamente memorabili, oggi invece è tutto più veloce, economico e strategico.

Ma lo sappiamo tutti che le buone idee non arrivano con i soldi e quindi le vecchie e care pubblicità di una volta, sono spesso figlie dei tempi e, anche se alcune rimangono memorabili, altre sono piene di sessismo, patriarcato, razzismo e stereotipi. E per quanto le campagne social possano essere esteticamente inferiori, con un linguaggio meno alto e professionale, sono però più evolute, intraprendenti, coraggiose e, devo dire, anche empatiche. Empatiche perché dopotutto devono fare i conti con gli utenti una volta che vengono pubblicate sui social. La pubblicità tradizionale non aveva e non ha questo confronto immediato.

Registi cinematografici prestati alle pubblicità

Ma non sempre le campagne social sono a basso costo. E non sempre sono fatte solo da digital strategist puristi o da vecchi pubblicitari convertiti ai social, a volte sono delle creature mitologiche per metà TV, per metà social e per metà cinema, create insieme a dei famosi registi cinematografici prestati alla pubblicità. È il caso della campagna pubblicitaria del Parmigiano Reggiano, balzata alle cronache in questi giorni, dove l’investimento complessivo dell’operazione ammonta a oltre 4 milioni di euro per 4 mesi di messa in onda e prevede spot tv, placement e una campagna digital continuativa. La campagna televisiva, ma poi anche digital, consiste in sei spot da trenta secondi ricavati direttamente dal film “Gli Amigos” di Paolo Genovese. In pratica, è stato prodotto un mediometraggio con il linguaggio classico di un film e sono stati ritagliati alcuni spezzoni per usarli come spot da veicolare indistintamente su digital e TV.

La tv perdona, il digital è anarchico

Mentre la TV perdona, il digital è anarchico e si mette dalla parte di Renatino, il ragazzo del caseificio, che nello spot ammette di lavorare 365 giorni l’anno senza fermarsi mai ed è pure felice di farlo. Gli utenti si indignano e accusano Parmigiano Reggiano di celebrare lo sfruttamento dei lavoratori. Ovviamente, è tutta un’iperbole perché il Parmigiano Reggiano viene veramente lavorato ogni giorno per seguire il ciclo produttivo che lo contraddistingue, quindi Renatino è solo una metafora cinematografica.

Il problema è tutto qui. In un film affermazioni e dialoghi di questo tipo possono passare come licenza cinematografica, in uno spot, diventano propaganda. Usare un linguaggio cinematografico senza criterio per fare uno spot pubblicitario è totalmente sbagliato. Usare un linguaggio cinematografico per uno spot TV è ancora più sbagliato e poi usarlo anche per il digital è masochista. Ogni mezzo pubblicitario ha il suo registro linguistico, il suo formato, le sue modalità espressive: usiamole. Lo stesso errore è stato commesso anche quando è stato scelto Gabriele Muccino per raccontare la regione Calabria, che ha realizzato uno spot definito volgare, pieno di stereotipi, con atmosfere mafiose e costato oltre 1 milione di euro.

L’errore anche negli spot per i vaccini

Errore ripetuto e confermato nei 4 spot commissionati al regista Tornatore per la campagna vaccinale. Errore stavolta grave, a mio avviso, visto il tema trattato. Più che uno spot per convincere le persone a vaccinarsi, sembrava un cortometraggio di uno sceneggiatore affascinato dalle tende in PVC. Non riusciva a comunicare l’emergenza in cui versavamo.

Se la gente ancora oggi è dubbiosa sui vaccini, la colpa è anche dello Stato, perché non è riuscito a comunicare efficacemente la necessità e l’affidabilità degli stessi. E anche se ultimamente YouTube ha tolto il contatore dal pulsante “Non Mi Piace” per evitare comportamenti molesti e non offendere il creator, io che sono anarchico mi ero salvato i risultati dello spot.

Il web non dimentica, questa è Sparta.
A proposito, qualcuno sa che fine hanno fatto gli altri 3 spot di Tornatore dopo il pluripremiato, si fa per dire, La stanza degli abbracci?

* Pubblicitario & Social Media strategist, autore tra le altre delle campagne pubblicitarie di Taffo




Nel deserto di Atacama, il cimitero tossico della moda usa e getta

Nel deserto di Atacama, il cimitero tossico della moda usa e getta

Il Paese sudamericano si è specializzato da quarant’anni nel commercio di abiti usati, tra abiti gettati dai consumatori, riduzione delle scorte praticate dalle aziende e capi donati in beneficenza provenienti da Stati Uniti, Canada, Europa e Asia.

Ogni anno 59.000 tonnellate di vestiti arrivano nella zona franca del porto di Iquique, 1.800 km a nord di Santiago. In quest’area commerciale con dazi doganali preferenziali, le balle vengono smistate e poi rivendute nei negozi dell’usato in Cile o esportate verso altre nazioni dell’America Latina.

“Questi vestiti provengono da tutto il mondo”, ha detto all’agenzia di stampa francese AFP Alex Carreño, un ex operaio della zona d’importazione portuale.

Ma di fronte alla crescita della quantità di abbigliamento prodotta a basso costo in Asia per marchi in grado di offrire una cinquantina di nuove collezioni all’anno, il circuito è ormai congestionato e gli scarti di tessuti e vestiti si accumulano in maniera esponenziale.

Circa 39.000 tonnellate di rifiuti vengono così stoccate in discariche abusive ad Alto Hospicio, comune alla periferia di Iquique.

“Ciò che non è stato venduto a Santiago o che non è stato contrabbandato in altri Paesi”, come Bolivia, Perù e Paraguay, “rimane qui”, perché portarlo fuori dalla zona franca non sarebbe redditizio, spiega Alex Carreño, che vive non lontano da una discarica.

“Il problema è che questi vestiti non sono biodegradabili e contengono sostanze chimiche, quindi non sono accettati nelle discariche municipali”, ha affermato all’AFP Franklin Zepeda, che ha appena creato una società di riciclaggio, EcoFibra, nel tentativo di far fronte a questo problema crescente.

Dai grappoli di abiti emergono una bandiera statunitense, gonne in lamé, pantaloni che hanno ancora le etichette, felpe dai colori natalizi.

Una donna, che non vuole dire il suo nome, sprofonda fino alla vita in un mucchio di capi nel tentativo di trovare vestiti nelle migliori condizioni possibili che spera di rivendere nel suo quartiere di Alto Hospicio.

Dei residenti che vivono nelle vicinanze approfittano della situazione per chiedere tra 6 e 12 dollari per tre pantaloni o per riempire un camion. “Non è male, vendo qualcosa e guadagno un po’ di soldi”, dicono.

Più lontano, due giovani migranti venezuelani, che di recente hanno attraversato il confine settentrionale del Cile, sperano di trovare vestiti “per il freddo”, visto che di notte nella zona le temperature possono scendere drasticamente.

In un impianto di riciclaggio di vestiti usati ad Alto Hospicio, Cile, il 27 settembre 2021 – AFP

Secondo uno studio delle Nazioni Unite del 2019, la produzione globale di abbigliamento, raddoppiata tra il 2000 e il 2014, è “responsabile del 20% dello spreco totale di acqua nel mondo”.

Secondo il rapporto, la fabbricazione di capi d’abbigliamento e calzature produce l’8% dei gas serra e, all’ultimo anello della catena, “ogni secondo viene seppellita o bruciata una quantità di tessuti equivalente all’intero carico di un camion di rifiuti”.

Ad Alto Hospicio viene anche seppellito un gran numero di indumenti per prevenire incendi che possono rivelarsi altamente tossici, a causa della composizione sintetica di molti tessuti. Ma che siano sepolti sottoterra o vengano lasciati all’aperto, la loro decomposizione chimica, che può richiedere decenni, inquina l’aria e le falde freatiche delle acque sotterranee.

Il governo ha recentemente annunciato che l’industria tessile sarà presto soggetta alla legge sulla “Responsabilità estesa del produttore”, la quale impone alle aziende che importano abbigliamento di assumersi la responsabilità dei residui tessili e di facilitarne il riciclaggio.

Nella sua azienda con sede ad Alto Hospicio, fondata nel 2018, Franklin Zepeda tratta fino a 40 tonnellate di indumenti usati al mese. I capi sintetici e in poliestere vengono separati dai vestiti in cotone e successivamente sono utilizzati per fabbricare pannelli isolanti per gli edifici.

Dopo dieci anni di lavoro nella zona franca di Iquique, l’imprenditore, stanco di vedere queste “montagne di scarti tessili” vicino a casa sua, ha deciso di “uscire dal problema ed essere parte della soluzione”.