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Allarme deepfake, così l’intelligenza artificiale ci aiuterà (forse) a combattere i falsi creati dall’intelligenza artificiale

Allarme deepfake, così l’intelligenza artificiale ci aiuterà (forse) a combattere i falsi creati dall’intelligenza artificiale

L’ultimo esempio è quello più innocuo, ma che però ha creato più scalpore: un finto Tom Cruise, praticamente identico all’originale, che scherza e ride in una serie di video molto condivisi su TikTok. Talmente condivisi da suscitare un ampio dibattito online e da spingere il loro creatore a rimuoverli temporaneamente dal social network, dimostrazione pratica del livello raggiunto dai cosiddetti deepfake, quei falsi (immagini, video, audio) realizzati grazie all’utilizzo di algoritmi basati sull’intelligenza artificiale, che partendo da un volto è in grado di simularne un altro, anche ricreando la mimica facciale e le espressioni.

Quelle clip erano (sono) fatte per divertire e infatti su TikTok sono tornate e sono rimaste, ma il timore di molti è che siano un antipasto di quello che ci attende in futuro, quando i deepfake saranno utilizzati per imitare in maniera incredibile (anzi, molto credibile) un esponente politico, un personaggio pubblico, un vicino di casa, la maestra di nostra figlia. E farle dire qualsiasi cosa. Come faranno le persone a capire che cosa è vero e che cosa no? Come faranno i giornalisti? Facendosi aiutare dalla tecnologia, ovviamente.

Le IA usate contro le IA

Alcuni ricercatori dell’Università di Buffalo, negli Stati Uniti, hanno trovato un modo per distinguere i volti umani da quelli generati da un computer, analizzando il riflesso negli occhi. Nel documento stilato dagli scienziati (che è questo, in pdf) viene ricordato che la cornea funziona un po’ come uno specchio e riflette la luce che si trova di fronte: nel caso degli esseri umani, quello che si vede riflesso nei due occhi è pressoché uguale, perché hanno davanti gli stessi oggetti e le stesse fonti luminose; nel caso dei deepfake questo non succede, o comunque non succede quasi mai, perché (semplificando) i volti artificiali (come questo) vengono creati da database di facce che vengono combinate insieme per ottenere il risultato desiderato e gli occhi possono anche arrivare da due visi diversi. 

Per trovare i falsi, i ricercatori hanno utilizzato un software che ha imparato a riconoscere gli umani dopo avere studiato decine di migliaia di occhi e i loro riflessi, cioè un’intelligenza artificiale per contrastare un’altra intelligenza artificiale. E i risultati sono piuttosto soddisfacenti, visto che sfiorano il 95% di affidabilità.

Uno dei video del falso Tom Cruise su TikTok

Una battaglia che è appena iniziata

Con qualche controindicazione, evidenziata dagli stessi ricercatori: il sistema funziona (molto) bene se davanti al viso c’è una fonte di luce abbastanza chiara ed evidente da generare un riflesso sulle cornee e soprattutto se entrambi gli occhi sono visibili, così che l’IA possa metterli a confronto; inoltre, un successivo lavoro di post-produzione sul “falso” potrebbe intervenire anche a livello di questi dettagli, così da armonizzare fra loro i riflessi su occhio destro e occhio sinistro.

Col tempo, comunque, è probabile che queste contromisure diventino ancora più efficaci (nell’aiutarci), cosa che però faranno anche i deepfake (nell’ingannarci). Insomma, è solo l’inizio dell’ennesima battaglia fra buoni e cattivi… solo che questa volta riguarda le macchine.




Tabacco, la guerra segreta di Philip Morris contro l’Oms

Tabacco, la guerra segreta di Philip Morris contro l’Oms

Philip Morris ha creato una Fondazione, la Foundation for a Smoke-Free World, a capo della quale ha messo quello che era il nemico pubblico numero uno del tabacco, Derek Yach dell’Oms, per favorire la propria attività di lobbynginfluenzare i ricercatori e soprattutto promuovere l’alternativa alla sigaretta tradizionale, la Iqos. A raccontare la “guerra segreta di Philip Morris contro l’Organizzazione della sanità” è l’inchiesta firmata da Stéphane Horel per Le Monde realizzata insieme a Ties Keyzer, Tim Luimes ed Eva Schram di “The Investigative Desk” (Paesi Bassi) e con la collaborazione di “Follow the Money” (Paesi Bassi) e “Knack” (Belgio).

Derek cambia vita

Nel lungo racconto pubblicato dal quotidiano francese un ruolo centrale lo gioca Derek Yach medico sudafricano, esperto di salute pubblica di fama mondiale che ha guidato per anni la Tobacco Free Initiative dell’Oms. Considerato una “rockstar nel controllo al tabacco” è stato uno dei principali artefici di uno storico trattato internazionale che blocca l’accesso della lobby del tabacco ai decisori pubblici, Oms in testa. Nel 2017 però la vita e il ruolo di Derek Yach cambiano radicalmente: come ricostruisce Le Monde, dopo aver avuto modo di incontrare l’amministratore delegato di Philip Morris André Calantzopoulos  Derek Yach annuncia a settembre la creazione della Foundation for a Smoke-Free World, di cui ha accettato di assumere la presidenzaCompletamente finanziata da Philip Morris per un importo di 80 milioni di dollari l’anno (67,22 milioni di euro) per dodici anni, ovvero quasi 1 miliardo di dollari (840 milioni di euro), la fondazione  mira a “porre fine al fumo in una generazione”. La dotazione economica è, scrive la Horel, in gran parte destinata a finanziare la “ricerca indipendente”.

Una valanga di proteste accoglie la nascita della fondazione. “Corruzione da 1 miliardo di dollari“, lamenta l’Unione internazionale contro la tubercolosi e le malattie polmonari, una storica organizzazione scientifica. La prestigiosa American Cancer Society mette in guardia dalla tentazione “immorale” di prendere i soldi facili della fondazione, “guadagnati con la principale causa di morte prevenibile nel mondo”. Più di 400 organizzazioni di sanità pubblica, università, istituti di ricerca e riviste scientifiche hanno da allora annunciato di aver rifiutato tutte le sovvenzioni della fondazione, che i presidi delle principali scuole di sanità pubblica del Nord America considerano “finanziamento dell’industria”.

La difesa: “Philip Morris non incide sulla Fondazione”

Le parole più dure vengono proprio dall’Oms dove Yach aveva costruito la sua carriera. Qualsiasi collaborazione con la fondazione, afferma il segretariato della Convenzione quadro  per il controllo del tabacco, “costituirebbe una palese violazione dell’articolo 5.3” che stabilisce come “Funzionari della sanità pubblica e difensori della salute concordano sul fatto che l’industria del tabacco non debba avere voce in capitolo per quanto concerne la definizione delle politiche per la salute”.

In base a quell’articolo è difficile per le compagnie del tabacco fare pressioni se vengono bandite dal tavolo di discussione. La Convenzione quadro è stata firmata da 182 paesi, quasi l’intero pianeta.

Ma l’Oms riserva parole molto dure anche per Derek Yach. Tramite posta elettronica, infatti sollecita il suo ex direttore esecutivo a rimuovere dal sito web della fondazione ogni menzione del suo precedente ruolo.

Sentito da Le Monde, Derek Yach “assicura che lo statuto della fondazione, la sua organizzazione no-profit e le regole per l’assegnazione delle sovvenzioni vietano a Philip Morris di partecipare alla sua governance, decisioni, strategie o attività”. Sarà proprio così?

Chi è stato finanziato

L’inchiesta condotta da Le Monde e The Investigative Desk sulla base di documenti interni, moduli fiscali, procedimenti giudiziari e analisi dei ricercatori delle università di Bath (Regno Unito) e California (Stati Uniti) dimostra per la prima volta che la fondazione serve soprattutto gli interessi dell’azienda.

Nel mese di maggio 2019 è cessata la pubblicazione on line dei verbali delle riunioni del consiglio della Fondazione for a Smoke-Free World. “L’identità dei membri del suo consiglio scientifico, sciolto in data ignota, non è mai stata resa nota“, precisa Le Monde. Per quanto riguarda i 40 milioni di euro di contributi concessi dalla fondazione in più di tre anni di esistenza e i 96 milioni promessi, non solo gli importi e i nomi dei beneficiari non sono pubblici, ma i criteri di aggiudicazione sono sconosciuti.

In totale, circa 100 entità in tutto il mondo hanno ricevuto finanziamenti. Il gruppo di ricerca sul controllo del tabacco dell’Università di Bath ha estratto i dati dalle dichiarazioni della fondazione alle autorità fiscali statunitensi. Scrive la Horel: “La sua analisi sul sito web di riferimento di Tobacco Tactics mostra che i beneficiari più dotati sono tre ricercatori incaricati di creare ‘centri di eccellenza’ attorno alla questione della riduzione del danno. Negli Stati Uniti quello guidato da Jed Rose, inventore del cerotto alla nicotina, ha ricevuto 4 milioni di euro. Il Centro neozelandese di Marewa Glover sulla ‘sovranità degli indigeni e il fumo’ ha ricevuto poco più di 6 milioni di dollari per promuovere la riduzione del danno tra le popolazioni indigene”.

Poi c’è l’Università di Catania e in particolar modo il “Centro di eccellenza per l’accelerazione della riduzione dei rischi, che ha ricevuto 6,8 milioni di euro dalla Fondazione, che si è impegnata a versarle ulteriori 18 milioni, secondo i documenti fiscali del 2019″. Nel 2017, poi Philip Morris, prosegue l’inchiesta de Le Monde “ha affidato a Riccardo Polosa quasi 1 milione di euro per valutare la sigaretta elettronica e Iqos”. Il professor Polosa, è personaggio noto nel mondo del tabacco. Scrive di lui TobaccoTactics: “È un sostenitore della riduzione del danno da tabacco ed è stato descritto come uno degli autori accademici ‘più prolifici’ nel settore delle sigarette elettroniche. Ha fatto pressioni sui governi a favore di una regolamentazione meno restrittiva per i prodotti a rischio potenzialmente ridotto e ha una storica collaborazione con le aziende del tabacco”.

Siamo indipendenti dal nostro finanziatore. Questa non è un’affermazione, è un fatto legale, etico e non negoziabile “, ha tuttavia assicurato Derek Yach sulla rivista  The Lancet nel 2019.

Gli interessi sul tabacco high-tech

Facciamo una pausa e cerchiamo di capire cosa succede sul mercato e quali sono le strategie di Big Tobacco. In una decina d’anni, le vendite complessive di sigarette sono diminuite del 20% nei paesi ad alto reddito, il loro mercato principale. Quindi, senza rinunciare alla propria attività, le principali aziende hanno investito nella nicotina high-tech, sigarette elettroniche e sistemi a tabacco riscaldato come l’Iqos.

Il business delle sigarette elettroniche, apparso nel 2009, è dominato, scrive ancora Le Monde, dalle aziende del tabacco che hanno gradualmente acquisito piccoli produttori. La casa madre di Philip Morris Usa, Altria, ha così acquisito il 35% di Juul Labs, leader negli Stati Uniti, “che le autorità americane accusano di aver creato una “epidemia” di vaping tra i giovani attraverso un marketing aggressivo”. Dal 2014 il produttore di Marlboro si è affidato principalmente al suo Iqos, un dispositivo che utilizza la tecnologia heat not burn: riscaldati senza arrivare alla combustione, Heets, mini sigarette di tabacco, emettono tra il 90% e il 95% di componenti nocivi in ​​meno rispetto al fumo di sigaretta, assicura Philip Morris con i propri studi. Le vendite del dispositivo generano quasi 6 miliardi di euro all’anno, ovvero quasi un quarto del fatturato della multinazionale.

La posizione dell’Oms sulle “alternative” alla sigarette tradizionali è molto netta: “Ci sono ancora molte domande senza risposta sulle alternative al fumo. Ma la ricerca necessaria per rispondere non dovrebbe essere finanziata dalle compagnie del tabacco“. Tuttavia la Convenzione quadro dell’Organizzazione mondiale della sanità è contraria ai prodotti del tabacco elettronici. Dunque, prosegue l’inchiesta di Le Monde “anche se la Fda negli Usa ha concesso lo status di ‘tabacco a rischio modificato‘ nel 2020, Iqos deve essere monitorato. Quanto all’Oms, che dà l’indirizzo al resto del mondo, disapprova l’uso di prodotti alternativi”.

Dividere i ricercatori

Per far passare la linea del “rischio ridotto” e della “riduzione del danno”, Big Tobacco ha intrapreso in questi anni varie strategie: innanzitutto ha amplificato le posizioni dei sostenitori della “riduzione del danno” contro quella dei proibizionisti cercando di far passare “il concetto di riduzione del danno come legittima politica pubblica nella regolamentazione del tabacco”.

Inoltre, spiega ancora Le Monde, si è cercato di “stabilire la legittimità dei produttori di tabacco a partecipare al dibattito normativo sui ‘prodotti a rischio ridotto’”. L’obiettivo dichiarato? Cancellare l’articolo 5.3 della Convenzione. Ruth Malone, ricercatore accreditato del settore, ha spiegato a Le Monde: “Accedere alla Convenzione quadro e sbarazzarsi dell’articolo 5.3 che ostacola la loro capacità di influenzare i decisori politici: questo è il vero obiettivo di Philip Morris“.

Nel maggio 2020 ci pensa ancora una volta Derek Yach a dare il suo contributo: “descrive la Convenzione quadro come ‘congelata nel tempo’ e bisognosa di ‘modernizzazione‘. ‘Essendo diventato un ostacolo al cambiamento‘, l’articolo 5.3 ‘perpetua lo status quo’, e i governi  – insiste – ‘devono impegnarsi in un dialogo sostenuto con le compagnie del tabacco per accelerare la loro trasformazione’”.

L’accusa dell’ex capo della comunicazione

L’accusa più imbarazzante di “connivenza” tra la Fondazione e la multinazionale viene dall’interno. Scrive Le Monde: “In un contenzioso per licenziamento ingiusto, l’ex direttore dei media digitali e social della Fondazione accusa l’organizzazione di ‘riferire a Philip Morris e Altria’, società madre di Philip Morris USA. La Fondazione, afferma Lourdes Liz nella sua denuncia, datata gennaio 2021, ‘dirotta il suo status di organizzazione no-profit esentasse per agire come organizzazione di facciata per l’industria del tabacco e promuovere un messaggio a favore dello svapo tra i giovani e gli adolescenti, dannoso per la salute pubblica’”.

“Durante l’estate del 2018 – prosegue –  Derek Yach ha incontrato rappresentanti di Altria e ha voluto inserire elementi del linguaggio dell’azienda nella comunicazione della Fondazione. Pochi mesi dopo la partenza del dipendente, a settembre 2020, l’accordo è stato aggiornato e si è aggiunta una frase: ora la fondazione è libera di ‘scambiare informazioni o interagire con terzi’… Come Altria o Philip Morris”, aggiunge maliziosamente la giornalista del quotidiano parigino.

Il piano Sunrise: “Rompere il fronte dei ricercatori”

giugno 2020 l’autorevole rivista scientifica American Journal of Public Health pubblica un numero speciale sulle sigarette elettroniche. Il movimento antifumo scopre con stupore un articolo a difesa degli aromi degli e-liquidi firmato da Derek Yach, Patricia Kovacevic, ex dipendente di Philip Morris, e Brian Erkkila, vicepresidente della fondazione responsabile salute, scienza e tecnologia (che diventerà – scrive Le Monde – direttore degli affari normativi presso Swedish Match, un produttore di tabacco svedese, nel marzo 2021). Mentre i direttori in capo della rivista si sono giustificati sostenendo che “le imprese e i loro interessi hanno voce in capitolo nel processo di regolamentazione”, dozzine di scienziati hanno protestato contro il “pericoloso precedente” rappresentato da questa “legittimazione” dell’industria del tabacco in una rivista dedicata alla promozione della salute pubblica.

Ma la causa viene portata avanti da molti anni e l’articolo sull’American Journal of Public Health è solo l’ultimo tassello di una strategia decennale. Documenti interni analizzati da Ruth Malone “descrivono un piano che Philip Morris stava promuovendo nel 1995 per ‘dividere e conquistare meglio’: il progetto Sunrise. Per rompere l’unità all’interno del movimento anti-tabacco ‘sfruttando le differenze di opinione’ tra moderati e ‘proibizionisti’, l’azienda ha quindi progettato di ‘creare una scissione tra i diversi gruppi anti-tabacco’ e ‘promuovere un dibattito che divide gli antiproibizionisti’”.

Più di vent’anni dopo Philip Morris è riuscita nell’intento: le divisioni all’interno del movimento antifumo sono evidenti e  sul tema dei nuovi prodotti i sostenitori della riduzione del rischio hanno superato i “proibizionisti”.




Facebook vuole cambiare l’algoritmo del News Feed per farci arrabbiare di meno

Facebook vuole cambiare l'algoritmo del News Feed per farci arrabbiare di meno

Facebook ha annunciato l’intenzione di cambiare il modo con cui il suo algoritmo mostrerà i post agli utenti sui loro News Feed. L’intenzione del colosso di Menlo Park è semplice, e solo apparentemente scontata: mostrare agli utenti solo post dai contenuti dal contenuto positivo, lasciando nascosti alla vista quelli divisivi o contrari al proprio credo.

Verso la fine di marzo, il social network ha battezzato nuovi filtri per consentire agli utenti di personalizzare il loro feed. Ora è interessato a far sì che l’algoritmo impari a distinguere ciò che un utente apprezza e ciò che non gli piace o ne scatena reazioni negative, mettendo da parte i contenuti politici che pure hanno – col loro tasso di engagement – fatto la fortuna di Facebook e prediligendo ciò che Menlo Park definisce “post d’ispirazione” di carattere più pratico o legato agli hobby e interessi personali.

Per addestrare al meglio l’algoritmo, Facebook sfrutterà i feedback degli utenti e una serie di sondaggi che misurano il peso e le influenze di amici, pagine e gruppi preferiti dall’utenza. “Se le persone dicono che un post vale il loro tempo, mireremo a mostrare post come quello più in alto nel feed di notizie; e se non vale il loro tempo, li metteremo in coda, in fondo al News Feed”, ha scritto Aastha Gupta, Product Management Director di Facebook sul blog della società.

Facebook afferma anche che chiederà agli utenti quali argomenti non sono interessanti, in modo da poter mostrare loro altri post più pertinenti ai loro interessi, migliorando il sentiment medio della piattaforma.

Tra le novità annunciate, è importante sottolineare la scelta di Facebook di dare meno importanza ai post politici. Questa decisione è arrivata dopo l’ultima convocazione in udienza che i vertici della società hanno avuto a marzo al Congresso degli Stati Uniti, per discutere del ruolo che il social network ha avuto nell’aumentare la divisione politica negli Stati Uniti.




In Italia c’è una scuola dove si insegna il fallimento

In Italia c’è una scuola dove si insegna il fallimento

Uno sbaglio sul lavoro. Un esame non superato. Un compito non portato a termine in azienda. Una frase detta male sui social o magari un pensiero non condiviso che scatena l’umiliazione pubblica. Quando si studia, si lavora o semplicemente si porta avanti la propria vita, la disfatta è dietro l’angolo. Solo che nessuno insegna solitamente come gestire un insuccesso e come trarne persino giovamento. 

La Scuola di Fallimento, con sede a Modena, è la prima e unica realtà in Italia che si occupa di una delle esperienze più comuni e allo stesso tempo più temute: sbagliare. Ha i suoi alunni, lavora soprattutto con multinazionali e scuole, e possiede i suoi corsi e i suoi obiettivi: creare una “cultura dell’errore” che permetta a chi inciampa di non bloccarsi e di non colpevolizzarsi eccessivamente. A chi sta intorno, spetta invece il compito di creare una zona sicura, dove far fallire gli altri senza la paura del giudizio. Facile, no? Chi pensa che si tratti ‘solo’ di filosofia e di coaching non applicato è fuori strada. Perché imparare la sconfitta senza conseguenze drammatiche, significa dare alle aziende e alle persone la possibilità di innovare e sperimentare, quindi di crescere.

Chi sbaglia, cosa fa?

Intanto, il contesto. “​​Nella nostra società – racconta ad upday Francesca Corrado, fondatrice ed ex sportiva – c’è una profonda e radicata cultura della colpa e della critica. Osserviamo la difficoltà di chiedere scusa e di ammettere le proprie responsabilità per paura di essere giudicati o puniti. È una profonda paura di fallire che ostacola, per le aziende, la capacità di innovare e, per le persone, la capacità di innovarsi e reinventarsi. E poi percepiamo il bisogno latente di trovare uno spazio in cui condividere in modo non stigmatizzante i propri errori e di considerarsi di successo anche quando il successo non ha i connotati imposti dalla società dell’apparenza e dei social”. Perfezionismo da social che secondo un’indagine esporrebbe i millennial, i nati tra gli anni ‘80 e ‘90, a puntare al perfezionismo con conseguenze negative sulla salute mentale.

Perché se sbagliare è comunissimo, è tuttavia un fenomeno mal tollerato dalla nostra società. Sui social network l’errore altrui, e ci fermiamo ai casi in cui vengono contestate le parole o le dichiarazioni e non a quelli che riguardano strettamente offese e discriminazioni, scatena comportamenti come quelli della shitstorm, la tempesta di insulti di massa, o il boicottaggio e la vera e propria cancellazione di colui che sbaglia, senza seconda possibilità. Ma anche rimanendo in campo d’impresa, le aziende stesse fanno fatica a gestire il fallimento

Imparare dalle sconfitte sportive

Francesca Corrado non la pensa proprio così rispetto alla possibilità di avere una seconda opportunità. Da ex pallavolista, rivela. “Lo sport mi ha aiutato moltissimo – dichiara- mi ha insegnato a ‘saper giocare’ in squadra; a sviluppare la persistenza: è finita solo quando è finita. Ma soprattutto ad accogliere la possibilità di perdere; ad accettare la sconfitta come uno degli ingredienti del gioco. Nel gioco come nello sport: a volte si vince, a volte s’impara”. A lei è capitato da vicino. “La Scuola è nata per l’appunto da una serie di fallimenti. Fino al 2014 avevo una start up innovativa, un contratto da docente universitaria, un fidanzato e una casa. Nei primi due mesi del 2015 ho perso tutto. A non rendere facile il periodo anche le condizioni di mio padre, malato di Alzheimer, che in quel periodo peggiorarono. Ed è stata proprio la malattia che mi ha permesso di guardare ai miei errori e fallimenti da una prospettiva diversa: non quella della colpa e della rabbia, ma quella dell’accettazione e della comprensione dei propri limiti e delle proprie fragilità”. 

Le parole degli ex alunni 

“Sono sempre stata una ragazza molto severa con me stessa – racconta ad upday Anna Romanini, studentessa di Scienze filosofiche e dell’educazione a Ferrara – ho sempre preteso molto e difficilmente perdonavo i miei errori. Ho imparato a vederli sotto una prospettiva diversa solo da poco. Con la scuola, ho imparato a capire cosa significa la frase “sbagliando si impara” e questo mi ha aiutata a essere meno severa con me stessa e a permettermi di fare i miei errori per imparare cose nuove e uscire dai momenti di crisi come una persona effettivamente diversa”.

Dagli studenti, ai professionisti, tutti tornano sui banchi. “In azienda – spiegano Daniele Righele e Manuela Beltrami, ex corsisti di Banca Credem – abbiamo vissuto l’esperienza di fallimento come uno stato di difficoltà, un ostacolo mentalmente difficile da superare, temendo il rischio di compromettere le relazioni altrui e la nostra autostima. Eravamo i primi a non tollerare i nostri errori, i nostri fallimenti e si faceva fatica anche solo a parlare di errori. Abbiamo avviato un percorso di cambiamento negli ultimi anni per una migliore sicurezza e cultura interna che possa permettere alle persone di esprimersi, provare, osare e sbagliare per il miglioramento e la crescita professionale e personale”. Anche se il successo è una parola da maneggiare con cura: “Insegniamo che il successo – conclude Corrado – è la capacità di far accadere le cose che si reputano di valore, di raggiungere gli obiettivi che sono coerenti con la propria visione e missione e i nostri migliori successi sono quindi le persone e le loro storia”. Guardandosi indietro c’è anche spazio per l’orgoglio. “Aver trasformato una paralizzante paura di fallire nella capacità di rimettersi in gioco con successo di un piccolo imprenditore, aver aiutato una studentessa a superare il blocco degli esami e trasformato la sua fragilità in un punto di forza sono senza dubbio i nostri migliori successi. Sapere di essere stati di supporto a qualcuno in un momento critico della propria vita è il primo indicatore che abbiamo fatto bene”. 




Il social media cinese WeChat ha cancellato molti account lgbtq+

Il social media cinese WeChat ha cancellato molti account lgbtq+

La comunità lgbtq+ continua a essere al centro di discriminazioni e censura in tutto il mondo. Mentre l’Unione europea si trova ad affrontare il problema della legge contro la “propaganda gender” in Ungheriail social media cinese WeChat, di proprietà del gigante tecnologico Tencent, ha deciso di cancellare decine di account per i diritti lgbtq+, perché in contrasto con le leggi sull’informazione online della Cina.

Pur non esistendo leggi che vietino l’omosessualità o la transessualità, la comunità Lgbtq+ cinese è ancora fortemente stigmatizzata e costretta a vivere quasi nell’anonimato. L’unico Pride organizzato in Cina è stato sospeso a tempo indeterminato, dopo che gli organizzatori hanno ricevuto minacce e si sono dichiarati preoccupati per la propria incolumità fisica. Inoltre, le autorità hanno più volte agito per impedire la diffusione di informazioni riguardanti l’identità di genere e la Cyberspace administration of China ha annunciato un giro di vite sui contenuti di questo tipo, ritenuti di “cattiva influenza” per i minori. Il social media Weibo ha già rimosso numerosi contenuti relativi alla comunità lesbica, mentre la community online Zhihu ha censurato tutti gli argomenti relativi alle tematiche di genere.

Nella giornata di ieri, 6 luglio, diversi membri di gruppi Lgbtq+ hanno contattato Reuters sostenendo che l’accesso ai loro account WeChat fosse stato bloccato, per poi scoprire anche che tutti i contenuti condivisi in precedenza erano stati cancellati“Ci hanno censurato senza alcun preavviso, siamo stati spazzati via tutti”, hanno dichiarato alcuni attivisti rimasti anonimi. Reuters riporta di aver provato ad accedere ad alcuni account, ma che ogni tentativo è stato fermato da un messaggio di WeChat secondo cui le pagine hanno violato le norme sugli account che offrono un servizio di informazione sulla rete internet cinese”. Altri account non sono nemmeno apparsi nei risultati di ricerca. La piattaforma social non ha rilasciato ancora alcuna dichiarazione a riguardo.