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“Quando decidiamo. Siamo attori consapevoli o macchine biologiche?” di Mauro Maldonato

“Quando decidiamo. Siamo attori consapevoli o macchine biologiche?” di Mauro Maldonato

Prof. Mauro Maldonato, Lei è autore del libro Quando decidiamo. Siamo attori consapevoli o macchine biologiche?, edito da Giunti: la nostra razionalità è un illusione?

Quando decidiamo. Siamo attori consapevoli o macchine biologiche? Mauro Maldonato

Sì, se si identifica la razionalità con la logica. Sebbene sia stata a lungo considerata fondamento della razionalità, la logica non è una facoltà superiore della mente. Per molti secoli, il termine ratio ha designato la capacità di scegliere i mezzi più adatti a perseguire uno scopo. In realtà, i nostri ragionamenti si basano in gran parte su inferenze inconsapevoli, non deduttive. In questo senso, l’orizzonte della logica è ben più ampio di quello della logica formale tradizionalmente intesa; anche se tra la logica e la ricerca delle condotte e dei mezzi più idonei per la sopravvivenza vi è una stretta relazione. Intento del libro è provare a far chiarezza su questa zona di confine. Credo sia necessaria una nuova discussione. Soprattutto in un’epoca in cui la nozione di decisione sembra oggetto di un vero e proprio complotto intellettuale, come evidenzia la generale tendenza alla mediazione e al compromesso.
Per tornare alla sua domanda, a me pare largamente fallace l’idea secondo cui la nostra mente è attrezzata per trarre conclusioni valide a prescindere dalle premesse. Nella prima metà del Novecento intere generazioni di economisti hanno sostenuto che le condotte individuali sono dettate da norme inflessibili e che eventuali deviazioni dipendevano da variabili psicologiche risolte dalle dinamiche macroeconomiche. Gli sviluppi recenti della scienza della decisione hanno revocato in dubbio questa idea di razionalità, restituendo centralità a fattori decisivi come imprevedibilità e incertezza. Nel mondo reale, decidiamo quasi sempre secondo schemi semplificati, spesso condizionati da rappresentazioni e percezioni distorte del rischio: variabili, queste, che rendono altamente improbabili risposte ottimali. Al di là delle informazioni disponibili su avversità, concorrenti e così via, nelle nostre decisioni intervengono fattori extracognitivi come la valutazione emotiva del rischio, la perseveranza, il timore per le conseguenze di un’azione, la tolleranza alle frustrazioni, il coraggio, l’autostima. Per non dire poi delle situazioni di rischio, in cui ci si affida sovente a informazioni parziali o insufficienti

Quali processi mentali si attivano nel processo decisionale?
Al netto dei strutture e delle funzioni neurofisiologiche sottostanti (troppo complesse anche per farvi solo cenno qui), trasformerei così la domanda: come decidiamo nel mondo reale, in tutte quelle situazioni caratterizzate da pressioni temporali, conoscenza incompleta delle alternative, tensione emotiva, incertezza, obiettivi mal definiti, posta in gioco alta e diversi gradi di esperienza del decisore? Lo facciamo a partire da una valutazione globale delle azioni possibili in base alle opzioni disponibili e non al confronto tra le loro caratteristiche specifiche. Inoltre, più che cercare e valutare dettagliatamente le alternative, confrontiamo le possibilità e le azioni potenziali in base alla loro accettabilità. Infine, più che soluzioni ottimali, cerchiamo ciò che è soddisfacente. In situazioni di emergenza, medici, comandanti militari, vigili del fuoco, piloti e altre categorie non seguono modelli teorici astratti. Ad esempio, se il comandante di una pattuglia di vigili del fuoco non decidesse efficacemente e in pochi secondi sul da farsi, rischierebbe di mettere a repentaglio la vita di molte persone. Ma come fa a decidere quando gli obiettivi non sono chiari (mettere al sicuro le persone o estinguere rapidamente l’incendio?), le informazioni incerte (quale è la planimetria dell’edificio in fiamme, che materiale è contenuto?) e le procedure di intervento non sempre codificate (come liberare un ferito da un’automobile dopo un incidente?)? Ecco, gli esperti decidono rifacendosi rapidamente a situazioni ed esperienze note. Individuano gli indizi più importanti da considerare, gli obiettivi da perseguire, i piani d’azione da seguire, la possibile evoluzione della situazione. Non hanno generalmente il tempo per confrontare la propria con altre decisioni: cercano soluzioni plausibili. Sono i principianti ad analizzare e comparare pro e contro di ogni opzione. Gli esperti decidono senza valutare. In situazioni critiche procedono sulla base di pochi indizi o di elementi depositati in memoria. Quando un esperto prende una decisione, ‘fotografa’ la situazione presente e agisce in base all’intuito. L’associazione tra indizi rilevati ed esperienza definisce rapidamente il corso d’azione possibile. Di solito sceglie un’opzione ragionevolmente accettabile. Non si perde in analisi dettagliate: sprecherebbe, infatti, troppo tempo, troppe energie e valuterebbe in modo distorto vantaggi e svantaggi delle opzioni a disposizione.

Nel processo mentale della decisione, quali sono i meccanismi che ci inducono in errore?
Negli anni ’70 del secolo scorso, due formidabili ricercatori, Daniel Kahneman e Amos Tversky, misero a punto un programma di ricerca per verificare se individui alle prese con problemi decisionali, opportunamente congegnati, ragionassero e decidessero secondo criteri razionali. Tale programma ha permesso di venire a capo dei limiti di elaborazione dell’informazione che spingono un individuo ad adottare soluzioni ai problemi, per così dire, a forte indice adattativo. I due studiosi riconobbero nelle cosiddette “euristiche” alcuni tra gli strumenti più efficaci per ridurre il carico cognitivo e consentire risposte rapide e generalmente efficaci ai problemi decisionali. Ma cos’è, precisamente, un’euristica? È un dispositivo (un mix di ragionamento, intuito ed emozioni) che ci consente di scegliere rapidamente (compatibilmente con la complessità della situazione e i limiti della memoria) aggirando le procedure logiche, deduttive o probabilistiche. In situazioni incerte e rischiose, è spesso l’unico strumento a nostra disposizione. Oggi sappiamo con certezza che anche i nostri brillanti ragionamenti sono condizionati da emozioni e misteriosi congegni che ci fanno saltare subito alle conclusioni. Per queste ragioni l’uomo non può essere una macchina pensante, ma una macchina emozionale che pensa.
In realtà, lo abbiamo sempre saputo. Non abbiamo, forse, sempre saputo che quando guardiamo un paesaggio non vediamo un paesaggio neutro, ma un paesaggio splendido, un paesaggio deprimente, un paesaggio rilassante e così via? Quasi sempre scegliamo quel che ci attrae istintivamente. Solo dopo avanziamo giustificazioni più o meno plausibili. Immaginazione, emozione e decisione, sono fortemente legate. Inoltre, le nostre preferenze dipendono anche da come ci rappresentiamo il compito decisionale. Capita spesso che, di fronte a uno stesso problema, prendiamo decisioni addirittura opposte, a seconda di come ce le rappresentiamo o come ci vengono presentate (magari strumentalmente). Questo chiarisce come le nostre decisioni siano influenzate da fattori esterni a esse: tendiamo, cioè, a “incorniciare” le opzioni disponibili e le rispettive probabilità di successo oppure cerchiamo elementi di coerenza e di razionalità. Il rischio è che potremmo essere influenzati da informazioni esplicite o implicite; essere spinti a considerare solo alcuni aspetti delle alternative; essere indotti a valutare erroneamente le conseguenze di una scelta; essere sollecitati a esaminare solo parte delle informazioni a nostra disposizione; o, infine, essere persuasi a giudicare il valore di un’alternativa non per quel che è, ma in relazione al contesto. Ad esempio, perdite o guadagni hanno un impatto cognitivo differente perché alterano la rilevanza delle informazioni a disposizione e influenzano la propensione al rischio.
Ancora una volta, la nostra mente segue percorsi differenti da quelli postulati dalla teoria della scelta razionale. Decidiamo di fronte a situazioni altamente contingenti e utilizziamo strategie adattative per rimediare ai limiti imposti dalla complessità dei compiti e dei contesti. È così che rimediamo a uno stato di ignoranza iniziale per giungere a un soddisfacente stato di conoscenza finale. Insomma, non adottiamo quasi mai modelli stereotipati, ma strategie flessibili. Inoltre, l’accuratezza e lo sforzo cognitivo non sono variabili indipendenti individuali, ma variabili dipendenti dal contesto decisionale. Questo ci spinge a selezionare strategie per buone decisioni col minor sforzo e in una continua negoziazione con l’ambiente. L’obiettivo è minimizzare il peso emotivo dovuto alla presenza contemporanea di valori in conflitto tra le diverse opzioni e raggiungere decisioni socialmente accettabili e giustificabili. Naturalmente, più accurate sono le scelte più sforzo comportano. A dimostrazione del fatto che ogni decisione è sempre il risultato di un compromesso tra aspirazioni, desideri, vincoli e possibilità.

Lei definisce il nostro cervello un “sistema aperto”: cosa significa?
A differenza di qualche decennio fa, il cervello umano appare oggi come un sistema aperto che fluttua entro dinamiche costantemente distanti dall’equilibrio: un sistema continuamente esposto a vincoli interni e dinamiche esterne che generano livelli crescenti di instabilità e creano nuove strutture d’ordine. La struttura e le funzioni del cervello sono continuamente influenzate da fattori diversi e imprevedibili (povertà e ricchezza sensoriali, qualità e intensità percettiva) che ne condizionano lo sviluppo e le connessioni. Si tratta di un processo antichissimo, iniziato già nelle prime fasi dell’ominazione, quando le cure materne e l’interazione culturale sollecitarono fortemente la crescita delle connessioni neuronali del cervello. Su tutto questo abbiamo fatto progressi formidabili, ma abbiamo domande vertiginose aperte davanti a noi. Ad esempio, da cosa hanno origine le innumerevoli interazioni tra le singole aree cerebrali; lo scambio di tracce e dati sensoriali tra intricatissime reti neuronali; la costante rielaborazione delle informazioni preesistenti; la collaborazione e la competizione tra le strutture corticali e sottocorticali? Quale meraviglioso algoritmo biologico governa gli effetti della contingenza e dell’irreversibilità storica, l’azione di processi non lineari, la creazione artistica, i sistemi etici, la visione scientifica del mondo? Ecco, credo il vero miracolo dell’universo sia proprio l’esistenza della natura: la stessa natura governata dalle implacabili leggi della fisica e della chimica. Fin dall’origine, la materia si è costituita in forme di crescente complessità. Nei suoi formidabili mutamenti ha imparato ad assimilare e a trasmettere l’informazione, a diventare un eccezionale veicolo di immaterialità. Non ha molta importanza che si tratti di stelle, di galassie o di esseri umani. La materia decade e si trasforma, si rinnova e si separa. L’informazione, invece, si espande costantemente, lasciando traccia di sé in nudi aggregati molecolari, ma soprattutto generando un impensabile aumento di senso nella storia dell’universo. Se non riconosceremo tutto questo resteremo inesorabilmente prigionieri dell’antica dicotomia tra materia e spirito.

È possibile ottimizzare il processo decisionale rendendolo il più possibile razionale ed esente da condizionamenti?
Temo sia una sfida perduta in partenza. È una pia (e drammatica illusione) concepire comportamenti umani oscillanti entro schemi predefiniti che riassorbono tensioni interne ed esterne per ripristinare un equilibrio ottimale. I comportamenti reali e gli stati psicologici sostenuti da fini e progetti tendono motu proprio ad alterare gli stati di equilibrio preesistenti, a creare dinamiche sempre nuove. Anche per questo, una decisione non corrisponde mai, in nessun caso, a un “primato dell’astratto”, ma è una permanente oscillazione tra un’intenzione efficace e veloce e la forma che la realtà assume in seguito alla soluzione di un problema. È poi argomento vacuo considerare irrazionale il carattere non ottimale del ragionamento. Non ottimizzante non significa irrazionale. Semmai è la razionalità astratta a non riconoscere i vincoli della realtà esterna e i limiti cognitivi dell’uomo. Insomma, solo in un mondo astratto è tutto già al suo posto. Nel mondo reale, ogni decisione ha un prima, un mentre e un poi. Certo, si possono commettere errori. Ma ogni conoscenza implica, di per sé, il rischio dell’illusione e dell’errore. Difficile riconoscerli. Vi siamo tutti esposti. La stessa scienza, che è un potente strumento di individuazione degli errori e di controllo razionale delle illusioni, per quanto rigorosa, non può evitare errori al proprio interno. Né può affrontare da sola le questioni che l’assillano. D’altro canto, spesso senza accorgersene, gli uomini mentono a se stessi: per egocentrismo, auto-giustificazione, alibi. Molte fonti di errori risiedono nella nostra memoria, che ci fa privilegiare i ricordi vantaggiosi e piacevoli e rimuovere quelli svantaggiosi e spiacevoli. Si tratta di meccanismi che deformano fortemente i ricordi, al punto da farci credere arbitrariamente di aver vissuto (o, se rimossi, di non aver vissuto) eventi anche importanti della vita. Le nostre idee possono essere non solo fallaci, ma anche dissimulare errori e illusioni. Non c’è da sorprendersi, dunque, quando ci accorgiamo che i nostri eleganti ragionamenti non ci conducono alla verità. La nostra cognizione delle cose non può offrirci alcuna certezza di verità. Essa contempla nella sua stessa essenza quell’incertezza che ci mette, sempre in modo nuovo, davanti ai problemi. Dopotutto una percezione non è mai uno specchio del mondo, ma una traduzione e una ricostruzione di segnali captati e modificati dai nostri sensi. Siamo inevitabilmente esposti al rischio dell’errore perché i nostri metodi, le nostre interpretazioni sono pregiudicati dalle inevitabili proiezioni delle nostre aspettative, dalle nostre paure, dalle nostre speranze.




L’inganno influencer Il 45% non è umano

L'inganno influencer Il 45% non è umano

Un sondaggio che arriva dall’Inghilterra sostiene che il 28% dei ragazzi sogna di fare l’influencer. Cioè di fare soldi sui social pubblicizzando oggetti, luoghi, alberghi, ristoranti e vestiti, convincendo altre persone a spendere per averli.
Anche in Italia probabilmente la percentuale è molto simile a quella inglese. Ciò che nessuno dice ai ragazzi, inglesi o italiani che siano, è che diventare influencer è un lavoro. E persino faticoso. Tanti invece pensano che sia un divertimento molto ben pagato e basta. Di più: che sia una splendida scorciatoia digitale per avere facilmente successo e fare soldi a palate. Forse un tempo per qualcuno è stato davvero così, ma in futuro sarà sempre meno facile diventare ricchi e famosi sui social. Più cresce il mercato del cosiddetto “influencer marketing” (è la pratica che consiste nel pagare un influencer per fare pubblicità a un prodotto) e più vengono affinati i sistemi di controllo che ne certificano il valore reale e che smascherano i bugiardi. Per capire meglio la portata del mercato, ecco alcuni dati: Zara, per esempio, nel 2020 ha usato per farsi pubblicità oltre 42mila influencer, mentre il suo concorrente Shein 30.800 circa. Se la Nike ha arruolato 42.300 influencer, Spotify ha fatto di più: ne ha usati 46 mila 994. Più di Netflix (38.244) e Amazon (32.836). Secondo l’ultimo rapporto di HypeAuditor, solo su Instagram (che ha più di 1 miliardo di iscritti), nonostante la pandemia, nel 2020 il mercato degli influencer è stato pari a poco più di 5 miliardi di dollari. E per questo 2021 si prevede che crescerà del 15% arrivando a toccare quota 5,8 miliardi di dollari.
A rendere così interessante Instagram per il mercato degli influencer ci sono due fattori. Il primo è che il social delle immagini (delle emozioni, della forma sul contenuto). Il secondo motivo è che l’80,9% degli utenti di Instagram ha meno di 34 anni. E ben il 43% ha un’età tra i 25 e i 34 anni. Il 31% ha tra i 18 e i 24 anni, mentre l’8% è rappresentato dalla fascia 13-17 anni.
I temi più gettonati sono quelli della moda, del divertimento, della bellezza e dei viaggi, seguiti a ruota da musica e fotografia. Al quinto posto nella classifica delle categorie più gettonate dagli influencer c’è la famiglia. Penserete: la famiglia? Sì, sempre più spesso le famiglie giovani amano raccontare la loro vita quotidiana sui social. E grazie a questo diventano un veicolo per far passare messaggi pubblicitari per prodotti che vanno dalle pappe dei figli agli oggetti per la casa.
A ben vedere, però, il dato più interessante di questa ricerca è un altro. E cioè che oltre 50% degli influencer nel 2020 è rimasto coinvolto in una qualche forma di frode e falsificazione. Come spiega Pierluca Santoro di DataMediaHub, “le tattiche più comuni utilizzate includevano l’acquisto di follower, like e commenti e l’acquisto di visualizzazioni di storie. Nonché la pratica di creare gruppi di utenti di Instagram che si riuniscono per interagire tra loro con i post dei membri del gruppo così da far credere di avere più successo di quello che hanno”.
I maggiori colpevoli delle frodi sono i cosiddetti mega-influencer di Instagram (cioè quelli con più di un milione di follower). “Due terzi di questi account sono stati coinvolti in qualche forma di attività fraudolenta».
Il rapporto di HyperAuditor squarcia il velo anche su un vero e proprio scandalo: «Solo il 55% degli account Instagram è gestito da persone reali».
Nel rapporto c’è anche un piccolo dato positivo: rispetto al 2019 la percentuale di attività truffaldine degli influencer è diminuita dell’8%.
Conclude Santoro: «L’influencer marketing de noantri cresce, e prospera, perché le aziende sono ancora alla ricerca di volume e non di valore. Dimenticando che popolarità ed influenza sono due concetti che talvolta possono essere anche molto distanti tra loro».




I robot umanoidi si superano nelle acrobazie del parkour VIDEO

I robot umanoidi si superano nelle acrobazie del parkour VIDEO

Nuovo spettacolare video dei robot della Boston Dynamics: questa volta si dedicano al parkour, lo ‘sport’ urbano che prevede salti e acrobazie per superare ostacoli di ogni tipo e occasione perfetta per spingere al limite le capacità di questi robot umanoidi.

Nato negli anni ’80 in Francia da un gruppo di appassionati di salti e arrampicate come una disciplina freestyle il cui obiettivo è quello di mettersi alla prova per superare con fluidità qualsiasi tipo di ostacolo urbano, il parkour è già da anni una disciplina sportiva riconosciuta ufficialmente.

Da qualche tempo è diventato anche banco di prova per le capacità dei robot. A distanza di un paio di anni dall’esordio i robot umanoidi Atlas della Boston Dynamics tornano in video per dimostrare le loro abilità. Sessanta secondi spettacolari che vedono protagonisti una coppia di umanoidi correre e saltare tra una varietà di ostacoli simili a quelli presenti in un ambiente urbano. Il parkour, spiegano i ricercatori a margine del video, è l’occasione perfetta per sperimentare nuovi comportamenti, in cui cercare di spingere sempre più in alto i limiti dei robot e scoprire così nuove possibili applicazioni per il futuro.




False dicotomie, reloaded

False dicotomie, reloaded

Le reazioni deboli e scomposte alle due ultime novità sul tecnocontrollo globale hanno colpito duramente Cassandra.

Per chi avesse vissuto su un albero negli ultimi due mesi, è utile ricordare che l’Unione Europea ha approvato una direttiva, nota con il soprannome di Chatcontrol, che permette di intercettare a tappeto e in maniera preventiva tutte le comunicazioni elettroniche eccetto quelle telefoniche.

Sempre per gli ipotetici arborei lettori, pochi giorni or sono Apple, con l’aria candida come un quarto di pollo allevato in batteria, ha annunciato che introdurrà nei suoi sistemi operativi una funzione che analizzerà tutte le foto scattate con tecniche di Intelligenza Artificiale per localizzare immagini pedopornografiche, segnalandole direttamente alle autorità.

Una spia in ogni iPhone o iCoso, che potrà essere successivamente rediretta verso qualsiasi contenuto venga ritenuto (o imposto) come socialmente pericoloso.

Le reazioni, ahimé, sono state poche e poco convinte; il Generale Agosto ha probabilmente contribuito; non è certo un caso che certe “novità” vengano annunciate in prossimità della stagione delle ferie.

Ma è ancora più preoccupante che molte delle giuste e spesso irate reazioni a questi due abomini di tecnocontrollo globale siano facilmente bersaglio di false dicotomie come “vogliamo la privacy o salvare i bambini?”

Sembra che la maggior parte delle persone, e incredibilmente anche degli attivisti dei diritti civili digitali, non siano dotati della minima nozione di dialettica; è necessario avere persone più dotate di strumenti dialettici per affrontare dibattiti sulla privacy e sui diritti civili, da quelli fatti al bar fino all'”empireo” di Porta a Porta. 

Per questo, Cassandra vi ripropone oggi nella pagina che segue la parte più pertinente di una pillola di privacy, che vi aveva già somministrato nel lontano 2008, per l’esattezza il 29 febbraio 2008. Enjoy.

Tecnocontrollo e diritti civili

Cassandra Crossing/ La necessità di scegliere tra privacy e sicurezza è una falsa dicotomia.

he cos’è una dicotomia?

È una categoria logico/filosofica, spesso impiegata nelle discussioni in maniera strumentale e insidiosa. Una dicotomia tra A e B significa che o è vero A, o è vero B, e che non esistono altre possibilità (C ambedue veri, o D ambedue falsi).

Una dicotomia falsa è quella che pretende di enunciare “A oppure B” tacendo che esistono anche altre possibilità C, o D; ad esempio tacendo che esiste l’enunciato “vogliamo la privacy e salvare i bambini!”. Basta cambiare una congiunzione e un segno di interpunzione.

Cadere o far cadere qualcuno nella trappola logica di una falsa dicotomia è un metodo dialettico estremamente comune per guidare una discussione fuori dai binari fattuali, prendere vantaggi sull’ingenuo avversario e portare a conclusioni false e strumentali.

È una situazione che ricorda quella del vantaggio che negli scacchi il bianco assume, avendo la prima mossa, quando il nero risponde con una mossa non ponderata a dovere: se il nero gioca d’istinto piuttosto che di ragionamento e cultura, passa certamente in svantaggio.

Accettare una dicotomia in una discussione equivale a lasciare all’avversario scelta di campo, di armi e di momento; un probabile modo di pianificare la sconfitta dialettica della propria posizione. 

A maggior ragione accettare una falsa dicotomia significa accettare false premesse e quindi ritrovarsi a discutere fuori dai binari della realtà, rendendo forzatamente sterile e fazioso il dibattito e accettando di essere guidati dall’avversario verso un terreno arbitrario dove lui è preparato e voi no, dove lui dimostrerà una tesi falsa o strumentale.

Facciamo un esempio familiare ai lettori di questa rubrica.

In un dibattito, in una esposizione che riguardi la privacy è ormai una certezza sentire prima o poi enunciare la falsa dicotomia “Privacy oppure sicurezza?”. Tradotto: si ha più sicurezza sacrificando una parte di privacy.

Avremo un bene primario sacrificando un bene “secondario”. Sconfitta totale delle posizioni pro-privacy in 3 rapide mosse, a causa dell’accettazione di una falsa dicotomia, di una falsa premessa che “sembra” vera ma è solo verosimile.

Perché è falsa?

Perché è una affermazione non provata logicamente o scientificamente.
Perché ammette banali controesempi che la smentiscono.
Perché agevola posizioni paternalistiche e posizioni pigre.
Perché agevola estensioni arbitrarie del potere esecutivo.
Nulla prova storicamente che in generale introdurre “misure di sicurezza” lesive della privacy (e dei diritti civili) porti a una maggiore sicurezza.

C’è invece abbondanza di controesempi, in cui grandi sacrifici della privacy e dei diritti civili (decreto Pisanu, controlli negli aeroporti) non portano a nessun vantaggio in termini di sicurezza reale, ma portano ad un gioco mediatico rassicurante destinato al popolo bue (controlli negli aeroporti) o a un vantaggio collaterale per il potere esecutivo (che non può essere ammesso o perseguito esplicitamente, essendo impresentabile) di un maggiore e più economico controllo sociale indiscriminato e a priori.

Non è affatto detto che sacrificando la privacy si otterrà più sicurezza: il decreto Pisanu espone le persone ad abusi compiuti da chi ha accesso a dati che, riguardando cittadini innocenti, non avrebbero dovuto essere memorizzati, tanto meno per tempi biblici.

Senza vantaggi certi e dimostrati non si devono memorizzare dati sulle persone, che sono intrinsecamente pericolosi in quanto tali. È anche la posizione del Garante.

È anche la posizione dell’establishment politico quando i dati memorizzati e abusati riguardano loro.

Non è affatto detto che aumentando la privacy si diminuisca la sicurezza: ad esempio, le uniche misure efficaci negli aeroporti secondo Schneier sono, vedi caso, quelle che sulla privacy non hanno nessun effetto, mentre cose come la no-fly list non sono mai servite a nulla se non a far restare persone innocenti a terra per tutta la vita.

Se si sacrifica la privacy dei cittadini innocenti e si aumenta il tecnocontrollo, si ottiene la possibilità di controllare a posteriori la vita di chiunque.




Dal Cile all’Australia la pandemia rilancia l’energia del sole e del vento

Dal Cile all’Australia la pandemia rilancia l’energia del sole e del vento

È l’estate della chiarezza climatica. Il pianeta sta lanciando segnali inequivocabili: gli incendi sono fuori controllo dalla California al Canada, dalla Turchia alla Siberia; il prosciugamento dei ghiacciai della Groenlandia rischia di mandare in tilt la Corrente del Golfo, portando il gelo sulle coste britanniche e la carestia in Asia; le alluvioni sono diventate parte dello scenario urbano; la deforestazione ha aperto autostrade a virus rimasti confinati per millenni.

È un messaggio talmente netto che tutti, potendo scegliere, preferiscono comprare un pomodoro, una maglietta, una lampadina che diminuiscano invece di aumentare le probabilità di disastro climatico. E infatti, durante la pandemia, il biologico è cresciuto, la green economy si è difesa bene e le fonti di energia rinnovabile sono state le uniche a registrare un aumento netto della capacità totale (+10,3%) stabilendo un nuovo record.

Il problema è che non tutti possono scegliere perché il sistema degli incentivi pubblici continua a penalizzare le scelte a basso impatto ambientale e a premiare quelle più inquinanti. Lo documenta il Rapporto REN21: “Gli investimenti in combustibili fossili delineati nei pacchetti di recupero dal covid-19 in tutto il mondo sono stati sei volte superiori al livello degli investimenti destinati alle energie rinnovabili. Per la prima volta, il numero di Paesi con politiche di sostegno alle energie rinnovabili non è aumentato rispetto all’anno precedente”.

Dunque, al momento della stretta imposta dalla crisi pandemica, nei governi la reazione pavloviana dell’arroccamento sul noto ha battuto la spinta verso l’innovazione. Il pianeta e il mercato spingono verso la sostenibilità, i sussidi, a livello globale, continuano a premiare con centinaia di miliardi di euro all’anno la causa del problema climatico, i combustibili fossili.

Nonostante questa zavorra, il mercato energetico si sta muovendo verso un cambiamento netto. E per avere grandi ambizioni non è necessario avere grandi economie. “Il Cile ha messo a punto uno dei piani più ambiziosi del mondo per le energie rinnovabili, sperando di trarre vantaggio dall’abbondanza di venti robusti nel sud della Patagonia e dalla forza del sole nel deserto di Atacama per generare elettricità verde a prezzi stracciati”, scrive il Financial Time aggiungendo che oltre il 40% degli investimenti diretti esteri in Cile l’anno scorso è andato alle energie rinnovabili e che il Paese è stato classificato al primo posto nel mondo per l’attrattiva dal Climatescope di Bloomberg.

Non è un fenomeno isolato. La Spagna nel 2020 ha installato 4,6 gigawatt di rinnovabili con un contributo importante dei parchi fotovoltaici costruiti senza sussidi, con contratti di vendite ad aziende di vari settori industriali interessati ad acquistare energia elettrica pulita (banche, telecomunicazione, grande distribuzione).

In Australia InterContinental Energy e CWP Global hanno lanciato il progetto di un hub da 75 miliardi di dollari: 50 gigawatt di energia solare ed eolica. L’energia verrebbe utilizzata per produrre annualmente 3,5 milioni di tonnellate di idrogeno verde o 20 milioni di tonnellate di ammoniaca verde.

“Le rinnovabili crescono impetuosamente in molti Paesi”, commenta Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace. “In Spagna le aste di energia solare del dicembre scorso si sono chiuse a chiudono a un prezzo a megawattora che è meno della metà del prezzo medio Borsa elettrica in Italia. E negli Stati Uniti le tecnologie di accumulo dell’energia, nonostante lo shale gas costi un terzo del metano italiano, vanno alla grande sia nella California democratica che nella Florida trumpiana. In Italia invece la strategia di uscita dal carbone è tutta centrata sul gas, trascurando le possibilità che la crescita dello storage in molti Paesi, anche grazie ad aziende italiane, sta aprendo”.