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Dalla forma arborescente al modello reticolare: l’importanza del linguaggio nelle architetture cognitive dell’essere umano

Un primo quesito da affrontare: perché è importante per te che il concetto di comunicazione e quello di azione siano pensati come inseparabili?

Ci tengo che vengano viste come un binomio perché io appartengo alla scuola che professa che comunicare è agire, questa è una precisa tradizione scientifica che viene dagli studi di linguistica. Mi spiego: qual è il rapporto tra pensiero e linguaggio? Noi generalmente abbiamo la convinzione di pensare in un modo, e poi di “tradurre” questo pensiero in parole. Siccome a volte non abbiamo le parole per dire quello che pensiamo, immaginiamo che il pensiero abbia un certo formato che non conosciamo, e che il linguaggio ne abbia un altro, che invece conosciamo: grammatica e sintassi, che produce semantica. Per meglio dire, come nel modello proposto da Saussure alla fine del XIX secolo,  intuitivamente riteniamo che il pensiero si realizzi in maniera astratta, sia amorfo, e poi si concretizzi in una seconda forma, una struttura complessa fatta da grammatiche, sintassi, semantiche. Fodor[1], il padre della teoria computazionale-rappresentazionale della mente, suggerisce invece che il pensiero abbia già esso un formato “proposizionale”, il che significa che si può pensare solo in termini di predicati, di sintagmi e di nominazioni: è possibile pensare l’agire fuori dal verbo? È possibile pensare il concetto di “andare”, fuori dal verbo “andare”? Sappiamo che il linguaggio coinvolge le aree motorie e premotorie del cervello: per questo, la comunicazione è azione, o meglio, è agire affinché gli altri agiscano.

Dei tanti turn che ci sono stati in questi ultimi 30 anni lo spatial turn è quello più conosciuto, invece tu ti ritrovi nella tradizione del linguistic turn. Corretto?

Sulla questione del linguaggio, e in particolare sulla questione delle origini del linguaggio, c’è un’importante diatriba scientifica, tuttora aperta. Nel 1866 l’Istituto per il Linguaggio di Parigi, che all’epoca era la Société Linguistique de Paris, proibì la presentazione di qualsiasi tesi o ipotesi sull’origine del linguaggio, cioè asserì riguardo al linguaggio che non sapremo mai come si è sviluppato – non esistono fossili, non esiste ricerca archeologica sul linguaggio… – quindi rifiutò qualsiasi tipo di osservazione sulla sua nascita. Questa impostazione è stata dominante per molto tempo, fino a quando Rotry non pubblicò una raccolta di saggi con lo scopo di fornire del materiale per riflettere sulla rivoluzione filosofica più recente, quella della filosofia linguistica. Saussure aveva già postulato che i concetti non possono esistere indipendentemente da un sistema linguistico definito da differenze, poi tra gli negli anni ’60 e ’70 del ‘900 Chomsky, con una banalissima osservazione, notò che i bambini di 3 anni riuscivano a costruire senza alcun problema l’interrogativa su una frase incassata: per comprendere, prendiamo una frase semplice come “Luca ha il computer”. Noi sappiamo produrre frasi incassate del tipo “Luca – che ha un maglione grigio, che ha un orologio nero, che ha una camicia bianca” (e posso proseguire all’infinito) “ha il computer”. Man mano che io aumento la numerosità degli incassamenti, l’equazione diventa sempre più complessa. Chomsky osservò come sarebbe più “naturale” usare una regola lineare, e si chiese: “come mai il bambino seleziona senza sbagliarsi le regole computazionalmente piú complesse, senza mai considerare le regole lineari che sarebbero computazionalmente molto più semplici? Se io dico semplicemente “Luca ha un maglione grigio”, l’interrogativa è semplicissima da formulare: “Ha Luca un maglione grigio…?” Quindi c’è un’inversione dei sintagmi, il sintagma nominale si porta davanti, e il sintagma verbale si porta dietro, le preposizioni seguono, e l’eventuale qualificatore viene dopo. Appare evidente che, per esempio, già con due incassate risolvere l’interrogativa correttamente diventi un’equazione estremamente complessa, che Chomsky chiama R-I, dimostrando che esiste quella che lui chiama dipendenza dalla struttura: solo che non sappiamo da dove venga questa struttura, è già nel cervello? E se si, chi ce l’ha messa? Come è possibile che un bambino di tre anni sia in grado di risolvere computazionalmente un’equazione di questo livello quando potrebbe risolverne una semplice e lineare? La risposta è tutt’altro che banale: bisogna partire, come giustamente fa Chomsky, da una domanda fondamentale, ovvero “che cos’è il linguaggio?”. Noi tenderemmo ad evidenziare che componiamo delle frasi che sono sequenze di parole, che sono all’interno di una linea temporale, e che se queste parole non hanno un significato, la frase non ha un significato: quindi affermiamo, con riguardo all’inizio degli studi moderni sul linguaggio, il primato della grammatica, che possiamo immaginare come una sequenza di anelli che costituiscono la catena della frase. Chomsky invece rivoluziona totalmente il punto visuale e deduce che la costruzione del significato e la produzione di senso non riguardano la grammatica ma riguardano invece la sintassi.

Quindi il paradigma va totalmente stravolto, è la sintassi che stabilisce il significato?

Fino a un certo punto questo è esatto. Qualcuno ricorderà il verso “Il lonfo non vaterca, né gluisce…”: realizziamo, pur con approssimazione, il significato di questa poesia, anche se nessuna di quelle parole è grammaticamente valida, cioè non ha alcun significato reale, perché il “lonfo” non esiste, “vaterca” non esiste e “gluisce” non esiste: è semplicemente la capacità di “ordinare le parole” che genera significato, e si comprende che questa è una computazione; ordinare le parole, quindi, è un fatto computazionale. Come fa un bambino ad avere già la capacità computazionale per risolvere questa complessità? Chomsky – che insegna nella università dei Gesuiti – in particolare questo lavoro viene illustrato nelle cosiddette lezioni di Manila – la risolve in modo relativamente semplice: noi tutti abbiamo un modulo nel cervello che lui chiama GU, Grammatica Universale, che è il modulo che permette di padroneggiare tutte le lingue del mondo, ed è così, in effetti lo dimostra. Dimostra che noi parliamo tutti la stessa lingua, in realtà, ovvero semplicemente delle “varianti di codici”, e quindi è estremamente facile realizzare un algoritmo per comprendere quello che noi verbalizziamo, e fare anche dictations. Tuttavia la ricerca prosegue, e sul linguaggio ci sono ora prospettive centrate sulla pragmatica del linguaggio che cercano di superare la teorési di Chomsky, in particolare nella prospettiva evoluzionistica, penso al lavoro di Corballis e di Ferretti ad esempio. Insomma, su questi appassionanti dibattiti scientifici non è stata ancora detta la parola fine.

Ormai la dictation è utilizzata ovunque, Siri capisce perfettamente quello che diciamo, come anche Alexa, e altri “assistenti vocali”.

Certo. C’è un fatto che tutti conosciamo, cioè che se impari una lingua entro una certa età questa lingua ti rimane dentro, ma da adulto è molto difficile imparare una lingua straniera: questo già ci dice che il cervello si dispone in una determinata condizione per un determinato periodo di tempo e questo periodo, ad un certo punto, finisce. E questo clock, questo timing, ha una sua base che è da ricercare nei cicli circadiani – su cui vertono, tra l’altro, gli studi premiati pochi anni fa con il Nobel[2] – e che ha a implicazioni sul nostro clock base, che è il ciclo di frequenza del neurone[3]. Considerando che il ciclo di frequenza del silicio 0 ,0000009 secondi, e che quindi è infinitamente più veloce di quello del neurone, confidiamo molto nelle possibilità computazionali quantitative delle cosiddette intelligenze artificiali.

Qual è la tua posizione riguardo all’intelligenza artificiale?

Ora, non che io voglia rappresentare la posizione delle scienze cognitive – che non è una disciplina ma un capo di ricerca, non è una scienza ma sono scienze al plurale – ma la mia posizione sul tema delle Intelligenze Artificiali è che non sappiamo ancora che cosa sia l’intelligenza, l’intelligenza naturale: come possiamo allora progettare intelligenze artificiali? Disciplinarmente, dividiamo i sistemi esperti dalle intelligenze artificiali per come le immaginiamo noi. I primi, sono quelle infrastrutture in grado di fare per esempio un’operazione chirurgica, fenomenali a fare solo quello per cui sono stati programmati ma assolutamente non in grado di svolgere qualsiasi altro compito, estremamente “chiusi” all’interno del proprio perimetro di azione e riflessione; possono sicuramente riuscire ad imparare da loro stessi senza problemi, però l’applicabilità di questa intelligenza ad altri domini è tassativamente esclusa. Invece l’intelligenza Artificiale dovrebbe essere una dotazione in grado di offrire risposte su vari domini, esattamente come facciamo noi: il che rende la cosa piuttosto complessa. C’è una famosissima frase che nessun computer riesce a scrivere, che è: “Il lavoro è a buon punto, non manca una virgola.” E non esiste macchina, neanche i computer quantici israeliani, che riesca a risolvere questa frase, il che deve farci riflettere. È lo stesso principio per cui io questa mattina esco e dico: “Ah, stamattina piove!” e voi capite perfettamente che sono ironico perché invece c’è il sole, ma il significato letterale di quello che io sto dicendo è altro, e una macchina, per capire il vero significato di ciò che voglio comunicare, dovrebbe diventare ermeneutica, quindi imparare a costruire interpretazioni, rilevare l’intenzione e quindi fare “mindreading”, leggere la mente degli umani e attribuirgli stati mentali, attività che noi produciamo incessantemennte attraverso un’apposita architettura cognitiva. È questo è veramente un salto quantico.

Costruire macchine ermeneutiche non potrebbe essere pericoloso? Perché una macchina costruita per interpretare quello che diciamo, potrebbe semplicemente interpretare male, e quindi agire non secondo il nostro volere, ma sulla base di un’interpretazione sbagliata. Basti pensare ai sistemi di guida: se l’auto iniziasse ad interpretare quello che gli viene detto si complicherebbe tutto.

Esattamente, questa attività di dictation può funzionare – attualmente – solo all’interno di certi perimetri. Però questa è la situazione attuale, a questo livello computazionale, ma quando avremo capacità di calcolo di peta-byte[4] a frequenze secondo la legge di Moore[5], chi lo sa cosa potrà succedere? Come ha sostenuto Chris Anderson in un noto articolo del 2008, a quel punto forse le correlazioni saranno talmente significative che non ci sarà più bisogno di ulteriori teorie scientifiche a sostegno. Questo nuovo empirismo è stato accolto da diverse critiche, ma la verità è che si tratta di qualcosa che oggi non possiamo e non riusciamo a prevedere.

Torniamo un attimo al funzionamento della nostra mente: ogni giorno nuove ricerche in questo campo ci portano a riconsiderare alcune nozioni che davamo per consolidate…

Eccome. Clark, ad esempio, sostiene la seguente tesi: riteniamo generalmente che il nostro sistema di visione funzioni raccogliendo informazioni dal mondo (frequenze di luce in questo caso) che “entrano” nella nostra mente attraverso i nostri occhi, e che poi vengao realizzate in rappresentazioni dal cervello. E invece no, il nostro cervello non funziona così. Nella visione, il flusso di informazioni maggiore non va da “fuori” (mondo) verso “dentro” (noi), ma esattamente il contrario. Noi perlopiù pre-vediamo e confermiamo, quello che i nostri occhi rilevano sono solo le discrepanze rispetto alla previsione. Un ribaltamento radicale.

Nel frattempo possiamo però tentare di studiare come avviene la cognizione. Prima hai accennato ad un modulo del cervello.

Sappiamo che esiste anche grazie al lavoro del precitato Fodor, che è il teorico della cosiddetta mente modulare. Però sappiamo anche che alcune parti del cervello sono moduli e altre no, ad esempio la memoria non ha un suo spazio specifico nel cervello: la scienze cognitive distinguono diversi tipi di memoria, di lavoro, biografica, semantica,  lungo termine, breve termine, possiamo dire che ciò che chiamiamo memoria nel cervello appare globalizzata, mentre il linguaggio coinvolge sia elementi modulari come area di Broca[6] che se viene danneggiata non è riparabile, che altre architetture non modulari. Sappiamo tuttavia che ci sono stati dei fenomeni per cui l’area di Broca, dopo un danneggiamento, dopo qualche tempo si è riprodotta dall’altra parte: è dovuto al  cosiddetto concetto di plasticità cerebrale, però si tratta di fenomenologie che sono in corso di studio, seppure sono state determinanti per gli studi evoluzionistici. Ma il senso non cambia: alcune parti del cervello, se osservate dal punto di vista funzionale, hanno localizzazioni diffuse, altre più specifiche.

A proposito di studi evoluzionistici e di linguaggio, si tende spesso a ritenere che il fattore discriminante per distinguere un uomo in quanto uomo sia la capacità di linguaggio, eppure a pensarci bene anche gli animali hanno un loro linguaggio più o meno sviluppato, basti pensare ai delfini o alle balene. Allora qual è il discrimine?

Il Professor Ferretti[7], in apertura delle sue lezioni, è solito interrogare uno studente a caso chiedendo: “Mi dimostri che il collega seduto accanto a lei è umano e non è una macchina”. E al di la della provocazione non è una dimostrazione semplice. Alla fine, più o meno tutti arrivano ad asserire che “è umano chi parla”, che è un po’ anche l’idea greca: è greco chi parla greco, chi non parla greco è barbar, ovvero balbettante, e da qui i barbari. Tuttavia, come dimostra un esperimento piuttosto famoso nell’ambito cognitivo, è stato addestrato un bonobo (Pambanisha) a capire e parlare perfettamente l’inglese attraverso un dispositvo a lessigrammi, quindi anche gli animali capiscono quello che diciamo e possono rispondere (come sperimenta qualsiasi possessore di un cane ad esempio!), ma ovviamente non per questo sono esseri umani. Quindi quale sarà la risposta alla questione posta? Ecco, quello che si scopre è che la produzione del linguaggio di questo tipo di primati, che sono della stessa nostra macrospecie, produce un linguaggio di tipo solo solo “richiestivo”, ovvero non possiede contemporaneamente le tre caratteristiche del linguaggio umano, che è allo stesso tempo direzionale, cumulativo e progressivo.

Quindi l’animale in qualche modo non è in grado di elaborare un pensiero complesso, tende a fare domande e richieste orientate a soddisfare i propri bisogni, non ha capacità di pensiero autoriflessiva?

Esatto, è proprio questo il punto, noi umani non solo sappiamo, ma sappiamo di sapere, la cognizione umana è in realtà metacognizione, almeno ad un certo livello. Ovviamente non possiamo esserne certi che non ci sia pensiero riflessivo negli animali non umani al di la di ogni ragionevole dubbio, ma finora questo è ciò che pare evidente. Qual è davvero il centro della questione? A Roma Tre Ferretti sta dimostrando che ciò che rende propriamente gli umani “umani” è niente meno che la capacità di raccontare storie. Brutalizzando la questione: da dove viene il linguaggio? Subito si entra nel solito frame primitivo, l’uomo deve procacciarsi il cibo e per organizzare la caccia ha bisogno di parlare. Alcuni però hanno osservato che durante la caccia – paradossalmente – non si parla, giusto? Ma magari si raccontano le gesta di caccia attraverso la pantomima, attorno al fuoco, dopo aver mangiato, e questa facoltà narrativa sarebbe addirittura anteriore ai sapiens, coinvolgerebbe l’homo ergaster, 1,8 milioni di anni fa. Gli stessi hanno osservato che nelle comunità di macachi Rhesus succede un fatto particolare: quando il maschio alfa dorme, alcune femmine “tradiscono” il capo famiglia con maschi più giovani, si appartano, e se vengono visti da altri membri, le femmine fedifraghe “parlano tra di loro” di questi fatti, a volte indicando chiaramente l’oggetto del discorso, ovvero l’ultimo partner, e costruiscono alleanze, se vogliamo “amicizie”, attraverso un agire persuasivo, perché ne va della loro sopravvivenza, e quindi qualcuno ha anche azzardato: vuoi vedere che il linguaggio è nato per il gossip? In ogni caso, inquadrato in questa cornice, il linguaggio sembra essere qualcosa nato appunto per raccontare storie, più che per risolvere bisogni materiali. È questo, permettetemi, è molto affascinante.

Il fatto che il linguaggio serva a raccontare storie può sembrare banale, ma forse non lo è, perché tramite il racconto di una storia si crea immaginazione, credenza, e quindi affiliazione, come dico sempre si costruiscono esperienze emozionali che attirano gli altri nel nostro universo cognitivo. Chi si affida alla fede, per esempio, è affiliato in fondo a una grande narrazione…

La fede è il massimo della produzione di credenze stabili e infettivore attraverso una storia. In più, pensandoci, noi siamo fondamentalmente figure, organismi che si orientano nello spazio. Come si orienta una persona nel proprio spazio vitale? Le persone che appartengono ad un luogo non si orientano certo solamente tramite “mappe”, ma, se ci riflettiamo, attraverso le storie associate ai vari luoghi. Quelle che chiamiamo “mappe mentali” non hanno niente a che vedere con la topografia, ma piuttosto con il prevedere i movimenti del nostro corpo. Rodolfo Liinás ha dimostrato come lo sviluppo del sistema nervoso umano serve primariamente per muovere il nostro corpo, orchestrare azione e inazione, e non, come si potrebbe pensare, solo per mettere in atto processi cognitivi. Insomma, il cervello in definitiva non servirebbe per “pensare”.

Anche la nascita dei cognomi gravita attorno a questo, la storia del barcaiolo o del mestierante si trasforma poi in un cognome. Quindi questa capacità di raccontare potrebbe essere ciò che ci distingue. A livello cognitivo come funziona?

Le storie sono dei potenti meccanismi relazionali che hanno scopo persuasivo, servono ad installare credenze nell’altro. George Lakoff propone un’idea per la quale appare centrale un’architettura cognitiva chiamata frame, ovvero cornici. Per spiegare sommariamente che cosa è un frame, si pensi alla situazione in cui qualcuno dice “ospedale”: in quel momento non si sta attivando nella mente solo la semiosi (il processo di corrispondenza tra codice arbitrario e memoria semantica), cioè il significato della parola “ospedale”, che è una convenzione tra i due interlocutori, ma anche tutto un corollario di immagini e significati, quindi gente con il camice, con la mascherina, ricordi personali, i corridoi, gli odori…ecco, quello è il frame “ospedale”. Questi percorsi sono vere e proprie strutture neurali individuabili, e in effetti alcune sono state individuate. Ad esempio, si ritiene che esistano dei frame base, delle strutture base, reti di neuroni che sono in collegamento tra loro, e una di queste sarebbe la cosiddetta “struttura container”, formata da tre gruppi, che hanno le seguenti funzioni: un gruppo ha la funzione di dirci “cosa è fuori”, un gruppo ha la funzione di dirci “cosa è dentro” e l’altro “quale è il confine”, il limite. È un concetto applicabile a tutto il mondo, perché tutto, ma davvero tutto, è in fondo costituito da questi tre elementi: dentro, fuori e separazione.

Proprio su questo argomento, in quale misura noi riusciamo ad organizzare la nostra conoscenza con questa dinamica a tre, fuori, dentro e confine? Se andiamo a fare un’analisi della comunicazione, anche semplicemente di quella politica, c’è un fortissimo utilizzo del fuori e del dentro, e non c’è invece uno sviluppo sulla permeabilità del confine. Nel 2008 ho scritto un saggio, discutendo animatamente con buona parte dei relatori pubblici italiani, per sconfessare la visione dominante che sosteneva che ci fossero categorie di pubblici di una qualunque organizzazione che fossero stakeholder [8]e altri che invece non lo fossero. Si tendeva a indentificare un punto “al di la del quale” non si era più stakeholder, un punto oltre il quale le cose dovessero uscire dalla nostra visuale. A me pareva un approccio Aristotelico, binario (vero/falso) e sequenziale: per la prima volta ho provato ad applicare la logica Fuzzy[9] alla costruzione di una mappa di stakeholder. Ritengo infatti che tutti i pubblici siano influenti, è solo una questione di gradi di approssimazione. Così ho inventato una mappa stakeholder da cui emerge il grado di qualità e di interazione tra i pubblici e l’organizzazione. Questo ha un impatto anche dal punto di vista filosofico, ne discende che si deve alzare il livello di responsabilità, a livello di potere delle interazioni e di reti sociali, perché anche cosa succede a 10.000 km di distanza mi interessa, in ragione di quanto può influire sul mio futuro, o sul futuro di altri che sono connessi a me…

Hai perfettamente ragione. Hai ragione anche sul tema “influire”, “influenza”, “influencer” che ricorre ben più che spiegare, insegnare, imporre, proporre. Influenzare è forse la funzione principale della cultura. La questione del “gossip” è una teoria vera e propria indagata da vari scienziati, per lo più evoluzionisti. Riguarda gli aspetti di in- group, quindi di socialità, e fondamentalmente coincide – risponde, per così dire – alla aspettativa della funzione molecolare, che è quella, sostanzialmente, di riprodursi, oseri dire “replicarsi”. In questa prospettiva abbiamo sempre parlato di homo sapiens, ma probabilmente avremmo dovuto invece parlare di una “donna sapiens” che ha originato il linguaggio. Possiamo facilmente ritenere che l’evoluzione umana sia attribuibile a chi ha avuto bisogno di comunicare per favorire sopravvivenza  e la riproduzione, ovvero ciò che chiamiamo “fitness”, insomma: l’accudimento, piuttosto che non la caccia del cibo.

In effetti, così inquadrato, il concetto di gossip perde quella sua caratteristica di futilità che solitamente gli attribuiamo, e si riorientata alla sopravvivenza, che è il primario dei bisogni, funzione strategica di prosecuzione e riproduzione della specie. Ecco, partendo da questo, come sei arrivato a ipotizzare che ci fosse bisogno all’interno della comunità accademica e di ricerca di nuovi modelli da utilizzare, di nuovi schemi e nuove mappe?

Tutto ciò di cui abbiamo discusso finora ci conduce al sospetto che probabilmente la conoscenza, la nostra capacità di mettere in relazione – e quindi la cognizione, che avviene per computazione – non è rappresentabile in modo efficace mediante una forma arborescente come abbiamo sempre fatto. Oggi sappiamo infatti che il mondo funziona per causazione sistemica, oltre che per causazione diretta, ma noi da bambini impariamo quasi sempre e solo la causazione diretta: io tocco la scatola e la scatola si muove, causazione diretta; che questo movimento sia poi inscritto in un’altra serie di movimenti, ci appare ininfluente a quell’età, insomma, cosa può cambiare per noi? Pensiamo agli Illuministi francesi Diderot e D’Alambert, che prendono su di sé questo fardello di provare a descrivere l’intera conoscenza umana: l’Enciclopedismo. L’oggetto che meglio la rappresenta, secondo loro, è un albero. La conoscenza è un albero e questo ha un suo senso, insomma, ci sono le radici, il fusto, le ultime conoscenze sono i frutti che pendono dal ramo e tutto è riconducibile a un’unica forma, in un unica sede con delle radici. Ora sappiamo dalla botanica che ci insegna Stefano Mancuso e anche Emanuele Coccia, rispettivamente importanti botanico e filosofo italiano, che l’albero è probabilmente quello che sta sotto il terreno: la parte visibile serve soltanto a trasformare la luce solare in glucosio ed ossigeno, ma l’albero vero e proprio è quello che sta sottoterra, quindi proviamo ad invertire le prospettive. È anche naturale che si prenda l’albero ad esempio perché è qualcosa di ramificato, e le nostre conoscenze ci sembrano ramificate. Tuttavia, questa forma non riesce a spiegare la causazione sistemica bensì solo la causazione diretta, perché da una radice si può arrivare direttamente ad un ramo: ma in effetti il mondo non funziona così.

Come rappresentare efficacemente la causazione sistemica?

Sicuramente in forma reticolare. Io mi sto occupando recentemente di un artista contemporaneo, Banksy, un artista misterioso, complesso, il cui repertorio è frutto di tante influenze, sia artistiche che politiche, sociali, storiche, contingenti e anche ideologiche. Per rappresentare questo sistema di influenze non posso quindi avvalermi di un albero, semplicemente perché non c’è una radice unica. Potrei fare la genealogia della famiglia attraverso un albero, perché in effetti funzionerebbe, ma tutto questo sistema non ha un percorso a causazione diretta, è appunto una causazione sistemica. Per riuscire a fare questo, insieme al mio gruppo di ricerca, abbiamo iniziato a elaborare dei cosiddetti “schemi relazionali” partendo da piccole applicazioni che venivano usate per fare gli algoritmi, le mind maps, le mappe mentali. Gli algoritmi sono intorno a noi. Prendiamo ad esempio il mio cane, Tricky.  Prendiamo anche uno degli algoritmi principali della nostra sopravvivenza, l’algoritmo “if then”, “se allora”. Ora, dovete sapere che, rispetto al portone del mio palazzo, il parco si trova a destra e il bar per far colazione si trova a sinistra. Quindi la mattina noi usciamo e andiamo a sinistra, al bar, e poi dobbiamo ripassare davanti al portone al ritorno per andare al parco. Sulla strada del ritorno possono avvenire due cose: o io continuo dritto e vado al parco, oppure mi fermo e rientro a casa. Bene, Tricky si ferma 10 metri prima del portone e realizza l’algoritmo if, then. Se io vado dritto lui mi segue, se io vado a casa lui si ferma e non vuole salire. Quindi io per farlo andare a casa lo devo ingannare, devo andare dritto, lui realizza l’algoritmo if, “si va dritto” ovvero “si va al parco”, arriva da me, io lo prendo, torno indietro e torno a casa. Questo è un esempio banale e quotidiano del fatto che non solo noi, ma anche altri animali, utilizzano algoritmi, ogni giorno.

Infografica Relazionale di Banksy – Stefano Antonelli e Giulia Buonanno

Assodato che gli algoritmi sono ovunque, tentare di spiegare questa complessità che ne emerge può essere assai impegnativo…

Si, ma gli schemi relazionali sono delle immagini, e non hanno la pretesa di mostrare in un tempo rapido l’intera complessità delle cose, perché ciò impossibile. La funzione a cui assolvono è quella di dimostrare immediatamente che esiste la complessità e che essa non è riducibile, non è semplificabile. Un fatto complesso è complesso, che ci piaccia o no. Poi, in questa complessità, possiamo seguire delle parti di causazione diretta scoprendo che la causazione sistemica è fatta da molta causazione diretta combinata.

Sono così tante però queste “parti” che non si rischia di perderne la determinazione?

Sì, è un rischio, quindi abbiamo creato queste mappe. In questo caso specifico, Banksy è un artista complesso, che emerge nella narrazione mediale solo tramite gli aspetti di maggior appealing[10], e cioè che è una persona anonima e misteriosa, famosa e che vende opere a milioni di euro. Questi tre fattori sono sufficienti e necessari perché si crei attenzione massmediale. Ora, come possiamo mostrare ad un pubblico generalista il fatto che l’enorme successo di questo grande artista non è casuale, bensì è determinato da una serie di fattori, e che questi fattori sono a tutti gli effetti fattori di influenza? Il modo in cui abbiamo pensato di risolvere questo problema è creare appunto delle mappe cognitive che sono anche mappe relazionali, “pongono in relazione” occorrenze correlate ma che magari a prima vista fatichiamo a mettere a fuoco, e che in qualche modo, nel contempo, potrebbero essere dei circuiti neurali stabili, come i sentieri battuti di un bosco, quindi delle strutture che presiedono alla comprensione delle cose. Quando si parla di circuiti neurali dobbiamo tenere a mente alcune considerazioni: ad esempio, noi abbiamo un circuito evolutivo apparentemente innato per il cibo, ma non ne abbiamo uno per il denaro. Quindi il cervello come interpreta il denaro? Abbiamo scoperto grazie agli studi di neuroscienza che il denaro usa lo stesso circuito neurale del cibo, e per questo motivo il nostro comportamento riguardo il denaro appare irrazionale, infatti abbiamo esperienze bulimiche e anoressiche, basti pensare, banalmente, allo spendaccione e al tirchio.

Quindi nei casi in cui noi non si posseda un circuito neurale genetico per una determinata risorsa, il cervello semplicemente ne utilizza uno del quale già dispone?

Esatto. Quindi queste mappe che utilizziamo cercano di mostrare ad un pubblico generalista, che non ha specifica competenza in materia, anzitutto l’aspetto di complessità, cercando di educare a individuare i nessi, a seguire gli snodi relazionali, che come vedremo non sono mai lineari, ma, come ho detto, inevitabilmente reticolari. Sono delle mappe che in prima battuta possono avere un aspetto alquanto complesso e non familiare, quindi ne abbiamo costruite di più tipi con il mio gruppo: la più semplice assomiglia molto alla classica mappa della metropolitana, abbiamo usato il circuito della metropolitana che è perfetto, perché sfrutta una familiarità immediata. Se per andare da Picadilly Circus a Victoria Station potessi andare da A a B, secondo le leggi della fisica, userei il percorso più breve, una retta: peccato che la vita e il mondo non sono fatti di rette, e quindi dovrò passare per altre stazioni, e magari passando per queste stazioni potranno succedere delle cose che influenzeranno l’esito del mio arrivo a Victoria Station. L’architettura cognitiva che presiede a questa facoltà è chiamata Mental space travel, e ci serve per orientarci nello spazio, ma anche per raccontare storie, e tenere intatto il “filo del discorso”.

Come avete applicato queste mappe relazionali alla vita di un artista così, appunto, complesso?

Innanzitutto abbiamo preso i dati dalle sue pubblicazioni, dai suoi libri. Banksy ha scritto quattro libri che sono pieni di informazioni su di lui: sappiamo che nasce e cresce a Bristol, che va in una scuola pubblica, che prende brutti voti in disegno, che poi viene espulso dalla scuola; sappiamo che ascolta la musica Hip pop, sappiamo che è influenzato dall’estetica del punk, tramite il grafico che ha curato tutta l’immagine dei Sex Pistols e che è facilmente riscontrabile dentro le immagini che produce; sappiamo anche che alcuni incontri della sua vita hanno cambiato la sua prospettiva, come succede spesso per chiunque. Ognuno di noi magari è legato ad un professore che lo ha particolarmente ispirato o ad una mostra d’arte gli ha cambiato la vita, e questi sembrano essere fatti totalmente casuali, no? In realtà non sappiamo se siano casuali, se non lo sono, se è il destino, e via discorrendo: ecco queste considerazioni si intersecano fra loro, ma ciò che è certo è che ogni singolo incontro condiziona noi e quindi ci fa successivamente condizionare coloro che ci circondano. Di sicuro questi aspetti non sembrano appartenere ad una narrazione codificata, per ora, ma piuttosto ad un’entropia, una forma di caos, che in qualche modo agisce su di noi; allo stesso modo, noi agiamo sull’entropia in un rapporto di feedback continuo. E questa ciclicità complessa è quella magari che risponde maggiormente alle idee più moderne, più avanzate della filosofia “inventrice” di Gilles Deleuze[11], che si oppone alla filosofia della riflessione di Hegel, meramente dualistica, che oppone tradizionalmente il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato, il bianco e il nero. Questa dottrina ci dice che la filosofia ci serve per riflettere sulle cose; ma Deleuze ci dice anche gli umani riflettono sulle cose da millenni senza il bisogno di alcuna filosofia, e quindi la filosofia non serve a riflettere ma piuttosto, secondo lui, a “fabbricare concetti”. I concetti non sono lì, preesistenti, li devi costruire i concetti, li devi realizzare, elaborare, strutturare, e poi regalarli alla società. La verità, è che siamo costantemente, irrimediabilmente, immersi in ecosistemi con infinite variabili: dobbiamo farcene una ragione, abbandonare le nostre certezze e imparare a “surfare” nella complessità.


* Stefano Antonelli è curatore d’arte e ricercatore in scienze cognitive della comunicazione. Fondatore e direttore artistico di 999Contemporary, é stato tra i pionieri in Italia nella sistematizzazione delle pratiche curatoriali dello spazio pubblico e di museoformazione urbana. Ha curato la realizzazione di opere pubbliche di alcuni tra più importanti artisti italiani e internazionali. È ideatore e curatore di progetti come il M.A.G.R., Museo Abusivo Gestito dai Rom, Ostiense District e il Museo Condominiale di Tor Marancia che ha rappresentato l’Italia alla Biennale di Venezia, 15° Mostra di Architettura. Ha curato nel 2016 “Guerra, Capitalismo e Libertà”, la prima mostra monografica mai realizzata su Banksy (Fondazione Roma Museo), oltre ad aver curato mostre per il MACRO di Roma, Palazzo Ducale di Genova, Palazzo dei Diamanti a Ferrara e altri musei pubblici e privati. Consulente culturale di amministrazioni pubbliche e imprese, è attivo nella diffusione e divulgazione culturale attraverso pubblicazioni, conferenze, seminari, laboratori e docenze presso istituzioni e università tra cui Luiss Guido Carli, La Sapienza, IULM, Roma Tre, Macro e PAC di Milano. È inoltre autore di saggi critici, articoli e cataloghi d’arte, oltre ad essere regista, autore, scrittore e drammaturgo.


Note

[1] Jerry Alan Fodoor è uno psicologo cognitivista e filosofo della mente statunitense. La modularità della mente è l’ipotesi, da lui formulata. secondo cui la mente può, almeno in parte, essere composta da strutture o moduli neurali innati che hanno distinte funzioni evolutivamente sviluppate.

[2] Michael Rosbash and Michael W. Young sono i vincitori del premio Nobel per la medicina nell’anno 2017. A loro il merito di aver scoperto i meccanismi molecolari che regolano i ritmi circadiani, motivazione con la quale la giuria del Premio del Karolinska Institute di Stoccolma ha assegnato il Nobel n° 108.

[3] I neuroni cerebrali pulsano con un ritmo costante, che è dell’ordine di circa 10 oscillazioni (cicli) al secondo

[4] È un’unità di misura dell’informazione o della quantità di dati, il termine deriva dalla unione del prefisso peta (dal termine greco penta, a indicare la quinta potenza di 1000) con byte, e ha per simbolo PB. Un Petabyte è quindi eguale a 1 000 000 000 000 000 byte = 10005 = 1015 byte = 1 biliardo di byte. 

[5] “La complessità di un microcircuto, misurata ad esempio tramite il numero di transistor per chip, raddoppia ogni 18 mesi (e quadruplica quindi ogni 3 anni)”. La legge è tratta da un’osservazione empirica di David House, direttore esecutivo di Intel, commentando la precedente osservazione di Gordon Moore, cofondatore di Intel: nel 1965, Moore, scrisse infatti un articolo su una rivista specializzata nel quale illustrava come nel periodo dal 1959 al 1965 il numero di componenti elettronici fosse raddoppiato ogni anno.

[6] L’area di Broca (o area del linguaggio articolato) è una parte dell’emisfero cerebrale dominante, localizzata nel piede della terza circonvoluzione frontale, la cui funzione è coinvolta nell’elaborazione del linguaggio.

[7] fiorentino classe 1951, è Professore Ordinario di Ortopedia e Traumatologia e Direttore della Scuola di Specializzazione Ortopedia e Traumatologia all’Università “La Sapienza” di Roma

[8] pubblici rilevanti per l’organizzazione (o l’individuo), ovvero interessati o interessati per essa.

[9] La logica fuzzy è una logica alternativa a quella Aristotelica (secondo la quale, semplificando, una cosa non può essere vera e falsa nello stesso momento) in cui si può attribuire a ciascuna proposizione un grado di verità compreso tra 0 e 1. È una logica polivalente, ossia strettamente legata alla teoria degli insiemi sfumati. Una proposizione può essere nel contempo vera e falsa, nel senso che può rappresentare un punto intermedio e sfumato tra il valore 0 (falsa) e il valore 1 (vera).

[10] Capacità di attrarre

[11] Deleuze propone un pensiero detto “rizomatico”, termine che si riferisce alle radici vegetali, che si originano sì in un unico punto, per poi però dispiegarsi apertamente in molteplici direzioni, e creando nuove interconnessioni. Un pensiero rizomatico avrebbe fondamentalmente il carattere di consentire una circolazione aperta fra i concetti, favorendo percorsi differenziati e connessioni inedite: il senso tradizionale dell’univocità del significato, così come la deterministica produzione dialettica della forma concettuale tipica, verrebbero meno, istituendo una non-relazione tipica del pensiero aperto.




RETI DI RELAZIONI E CANALI DI COMUNICAZIONE: DALLA NATURA,UN MODELLO VINCENTE

RETI DI RELAZIONI E CANALI DI COMUNICAZIONE: DALLA NATURA, UN MODELLO VINCENTE

È praticamente preistoria, ormai, il contributo di Rudolf Virkhow, il patologo e antropologo tedesco padre del consolidamento della teoria cellulare moderna e della legge di derivazione cellulare – al quale pure la scienza dev’essere assai grata – che nell’Ottocento immaginò le cellule come tante piccole “cellette”, microcosmi a sé stanti e isolati. Oggi questo concetto si è molto evoluto, e si parla infatti di super-organismo: nel corpo umano vi sono 30.000 miliardi di cellule fortemente interconnesse, nonché 40.000 miliardi di batteri, che formalmente non sono parte del nostro organismo e non hanno il nostro DNA, ma a tutti gli effetti vivono nel nostro corpo e lo condizionano tangibilmente. Esiste persino una stretta dipendenza tra il codice genetico dei batteri e il nostro, fenomeno che prende il nome di microbioma: tra l’altro, i ricercatori stanno ipotizzando che probabilmente essi influenzino la nostra fisiologia in modo molto più marcato rispetto a quanto fino ad oggi si era supposto. Non è quindi più valido da tempo il modello di una sola singola unità indipendente dalle altre, bensì quello di miliardi di elementi armonicamente interdipendenti fra loro: banalmente, le cellule si combinano per formare i tessuti, i tessuti per formare gli organi e gli organi per formare gli organismi viventi, che poi agiscono tra loro organizzandosi in sistemi sociali.

Ne scrivevo in un mio saggio pubblicato nel 2020, Apri la tua mente, in cui riflettevo sulla necessità di abbandonare un modello di pensiero binario-sequenziale per abbracciare definitivamente un modello circolare, complesso, fluido, più vicino a quello illustrato dalle più recenti scoperte nel campo della medicina dei sistemi, e – decenni prima – da Ludwig von Bertalanffy, il biologo austriaco noto soprattutto per aver fatto muovere i primi passi alla Teoria generale dei sistemi: d’altra parte la natura, nel micro come nel macro, obbedisce a leggi basate, appunto, sulla complessità.

Il passaggio a un livello di interazione superiore, con l’ipotesi di quasi otto miliardi di esseri umani interdipendenti che comunicano tra loro anche grazie alle molecole sine materia costituite dalle emozioni, è assai affascinante come ipotesi di studio, ed apre nuovi orizzonti di riflessione: l’essere umano come un sistema di flusso, in continua relazione al proprio interno e con gli altri esseri umani, e non solo, anche in contatto virtuoso/vizioso con l’ambiente nel suo complesso. Scomoda, forse, come consapevolezza, in quanto richiama a un ben più alto livello di responsabilità, ma assai stimolante.

La natura, d’altra parte, è fonte di continua ispirazione in termini di analogie con i sistemi complessi creati dall’uomo: ne avevo già parlato in diversi miei lavori, ultimo dei quali un articolo nel quale analizzavo la fisiologia del polpo. I neuroni e le sinapsi di questo affascinante animale, sorprendentemente, sono infatti all’esterno della sua testa, sparsi cioè sulle sue braccia e nelle sue ventose, con oltre 10.000 neuroni per ognuna di esse. Tramite le braccia, quindi, il polpo percepisce sapori e odori, vanta una memoria locale a breve termine ed è anche in grado di ricevere stimoli visivi da tutto il corpo, con appositi fotorecettori.

In quel lavoro sostenevo l’esistenza di analogie tra l’architettura complessa del sistema nervoso centrale dei polpi e le migliori buone pratiche per l’amministrazione di gruppi umani organizzati quali sono le aziende, che dovrebbero rompere e abbandonare i tradizionali schemi rigidi, gerarchizzati e dialogico-sequenziali, e riporre al centro l’Uomo secondo modelli centrati sull’importanza delle interazioni positive, sfruttando l’effetto anabolizzante dell’essere costantemente immersi nella costruzione di scenari futuri.

Perché questo mio antico interesse per la ricerca delle correlazioni tra il mondo animale, vegetale o minerale, e le organizzazioni sociali complesse come aziende ed enti pubblici? La verità è che penso sarebbe interessante provare ad applicare i modelli elaborati da  etologi, botanici e altri ricercatori, sia alle teorie sullo stakeholder engagement sia alle strategie di comunicazione in generale, tentando di definire l’esatto “punto di non ritorno” oltre il quale un’azienda è in grado di creare innovazione e percorrere nuove strade – anche dissonanti e distintive rispetto alla concorrenza – dimostrando tangibilmente e in modo misurabile di aumentare in modo direttamente proporzionale le proprie chance di sopravvivenza all’interno di un dato sistema.

Sono convinto infatti dell’opportunità di adottare un modello di business e di comunicazione flessibile, che preveda il vantaggio di agire in maniera armonica in una certa fase di cooperazione, ma che includa anche la capacità di andare contro-corrente, “scombinando” le aspettative della controparte all’interno di scenari fortemente concorrenziali e critici, esattamente come fanno molti animali e – non sorprenda – anche molti vegetali, in ossequio appunto a un modello di comportamento tutt’altro che lineare e, anzi, assai complesso.

Per dare maggior concretezza a questi ragionamenti, ho piacere di citare e commentare un bell’articolo pubblicato su The New York Times Magazine dallo scrittore Ferris Jabr, che ci accompagna nell’assai stimolante mondo delle foreste, sistemi viventi nei quali – sorprendentemente – enormi reti sotterranee di funghi permettono agli alberi di comunicare e cooperare tra loro, in un enorme e straordinario internet delle piante.

Secondo queste ricerche, sotto la superfice del terreno, alberi e funghi formano delle correlazioni denominate microrrize: si tratta di funghi filiformi che avvolgono le radici degli alberi fino a fondersi con esse, aiutandole a estrarre acqua, fosforo e azoto in cambio di zuccheri ricchi di carbonio, che le piante producono grazie alla fotosintesi. Gli esperimenti in laboratorio avevano già dimostrato che le microrrize collegano una pianta all’altra: ma qual è in effetti il livello di interazione tra questi elementi, se esiste?

La Professoressa Suzanne Simard, che insegna ecologia forestale all’Università della British Columbia, segue questa linea di ricerca da almeno 30 anni, e – analizzando il DNA delle radici e tracciando il movimento delle molecole sotto terra – ha scoperto che le microrrize collegano tra loro quasi tutti gli alberi di una foresta, anche di specie diverse, in un enorme rete biologica. E – incredibilmente – non solo per facilitare il trasferimento di sostanze nutritive, bensì anche di ormoni e di segnali di allarme: ad esempio, le risorse tendono a fluire dagli alberi più vecchi e grandi a quelli più piccoli e giovani, e i segnali chimici di allarme o stress generati da un albero preparano gli alberi vicini al pericolo. Un albero ormai vecchio e in punto di morte, rilascia una notevole quantità di carbonio in eredità ai propri vicini, mentre le piantine separate da questo reticolo di comunicazione hanno maggiori probabilità di morire rispetto a quelle interconnesse.

Inutile ricordare il ruolo essenziale delle foreste per la sopravvivenza della specie umana, dal momento che catturano il 25% di tutte le nostre riserve globali di carbonio, ma per dirla con parole della Simard stessa, riconosciuta dai suoi colleghi come una delle ricercatrici più rigorose e nel contempo innovative del mondo della biologia, “la foresta è qualcosa di più che un insieme di alberi”.

In un esperimento – al quale la prestigiosa rivista scientifica Nature dedicò niente meno che una copertina – la Simard dimostrò che in un appezzamento forestale misto di piccoli abeti di Douglas e di betulle, in estate quando – a causa della conformazione della foresta – gli abeti erano più riparati dal sole, un flusso di carbonio scorreva dalla betulla all’abete, e quando invece in autunno l’abete – sempreverde – cresceva, e la betulla invece perdeva le foglie, la direzione del flusso si invertiva: nessuno aveva mai riscontrato e dimostrato una tale cooperazione finalizzata allo scambio di risorse mediante reti microrriziche tra specie vegetali differenti in natura. In successivi esperimenti, la scienziata dimostrò che in una foresta di abeti ogni albero era connesso all’altro, sottoterra, da non più di tre gradi di separazione, e che quando le piantine di abete erano private delle foglie e quindi rischiavano di morire, inviavano segnali di stress e una notevole quantità di carbonio a un robusto pino giallo nelle vicinanze, che accelerava la produzione di enzimi difensivi.

Tra l’altro il titolo della copertina di Nature che dibatteva sulle scoperte della Prof. Simard portava come titolo, proponendo un gioco di parole con il nome in inglese della rete internet, “The Wood-Wide-Web”, a ricordarci che molte delle invenzioni dell’Uomo – magari inconsapevolmente – traggono ispirazione da fenomeni, strumenti o concetti già presenti in natura.

Jabr, nel suo articolo per il NYT Magazine, ci ricorda come queste scoperte finiscano per contraddire, in parte, le teorie darwiniane della perpetua contesa tra le specie viventi, centrate sulla lotta di ogni organismo per sopravvivere e riprodursi, tutti governati da “geni egoisti”, e portino invece fortemente l’attenzione sul tema del valore della cooperazione tra i singoli appartenenti di un sistema complesso: in una foresta c’è inevitabilmente conflitto, ma anche negoziato, reciprocità e solidarietà, come in un vero grande “super-organismo”.

Le ultime ricerche scientifiche suggeriscono inoltre che simili reti microrriziche siano presenti anche sotto la macchia, la tundra, la prateria: insomma, ovunque vi sia vita vegetale. In poche parole, un magnifico, sorprendente e inaspettato enorme modello di cooperazione che avvolge gran parte del Pianeta Terra, e che va ben oltre il complesso vegetale strictu senso: il rumore delle mandibole di insetto induce la produzione di difese chimiche, le radici crescono in direzione del suono dell’acqua corrente (!) e alcune piante da fiore addolciscono il proprio nettare quando rilevano i battiti delle ali di un’ape. Gli alberi percepiscono molte cose, al punto che – provocatoriamente – la Simard si interroga: “Perché quindi non dovrebbero in qualche modo percepire anche noi, reagendo ad esempio agli ormoni e ad altri messaggeri chimici rilasciati nell’aria attraverso la nostra epidermide?”. Le ricerche della brillante scienziata sono certo non finiranno di stupirci, nel prossimo futuro.

Concludendo questa riflessione, non posso non ricordare come l’essere umano sia spesso impegnato in una continua lotta, spesso violenta, per il predominio sulle risorse, con risultati quanto mai disastrosi, dinnanzi agli occhi di tutti, più che mai evidenti in questo turbolento XXI secolo. Anche l’economista Adam Smith, ricorda Jabr, sosteneva che l’efficienza della società nel suo complesso dipendeva inevitabilmente dalla concorrenza in un mercato libero tra individui intrinsecamente egoisti; Darwin egualmente ha fatto delle sue riflessioni sui processi di competizione in natura e di selezione aggressiva un punto di forza della Teoria sull’evoluzione della specie, giustificando l’eventuale altruismo tra esseri viventi – per esempio nelle colonie di formiche o di api – come una limitata manifestazione di egoismo genetico esclusivamente riscontrabile tra individui del medesimo tipo, a fine di protezione della loro stessa specie. Le più recenti scoperte scientifiche sulla cooperazione tra specie vegetali diverse appartenenti a un macrosistema biologico complesso ribaltano questi ragionamenti e ci chiamano in causa, stimolando un’assunzione di responsabilità a livelli molto più alti che in passato.

“Abbattere una foresta primigenia significa non solo distruggere singoli alberi – scrive Jabr – bensì far crollare un’antica repubblica il cui patto basato sulla reciprocità e il compromesso tra le specie è essenziale per la sopravvivenza della Terra”. Lo scrittore ci ricorda inoltre che tutto sommato gli alberi storicamente sono sempre stati simbolo di connessione: nella mitologia meso-americana, ad esempio, al centro dell’universo cresce un immenso albero che allunga le radici verso gli inferi e avvolge contemporaneamente la Terra e il cielo nei suoi rami.

Oggi, la scienza della complessità studia, come sappiamo, i sistemi complessi e i fenomeni emergenti a essi associati, occupandosi con una visione interdisciplinare di studi relativi ai sistemi adattativi, alla teoria del caos, all’intelligenza artificiale e cibernetica; approcci che hanno mosso i primissimi passi alla fine del XIX secolo, in seguito alla constatazione che la logica Aristotelica e il dualismo Cartesiano erano ormai inadeguati a comprendere le regole che animano le complesse interazioni del mondo moderno.

In relazione a ciò, sarebbe davvero straordinario se relatori pubblici, comunicatori e imprenditori ritrovassero queste antiche consapevolezze, corroborate inaspettatamente dalle più recenti ricerche scientifiche, e abbandonassero una volta per tutte le strutture organizzative fortemente gerarchizzate e basate sull’asfissiante competizione, a favore di modelli aperti basati sulla complessità e sull’interazione collaborativa, contribuendo così a costruire ben maggior valore per la propria organizzazione, per se stessi e in definitiva per il mondo intero.




Al G20 c’è un bel Clima. L’intesa possibile grazie all’asse Italia-Usa

Al G20 c’è un bel Clima. L’intesa possibile grazie all’asse Italia-Usa

La due giorni di lavori del G20 Ambiente, clima ed energia si è conclusa con un applauso liberatorio che ha riempito il Palazzo Reale di Napoli, in una piazza Plebiscito blindata per il timore di assalti no-global. La ragione: l’assenso della Cina al documento finale su energia e clima, con il quale sono state superate anche le posizioni più dure, come quella dell’India.

Se ieri che si discuteva di ambiente era filato tutto abbastanza liscio con l’approvazione di un comunicato comune su tutela di ecosistemi e biodiversità, oggi la strada era in salita. Di trattativa “particolarmente complessa” ma anche di “risultato importante” ha parlato il padrone di casa, Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica, chiamato a presiedere il primo G20 in cui clima e politica energetica e dunque industriale vengono affrontanti assieme. Basti pensare che la conferenza stampa attesa per le 17 è invece iniziata ben oltre le 18.

Sono stati proprio Cingolani e John Kerry, inviato speciale del presidente degli Stati Uniti Joe Biden per il clima, a procedere di concerto contattando uno per uno i delegati dei Paesi per arrivare a un documento condiviso. Già alla vigilia del summit su Formiche.net sottolineavamo l’intesa tra Roma e Washington.

Come previsto, la decarbonizzazione è stato il tema più difficile da affrontare. Da una parte Stati Uniti, Regno Unito e Unione europea, decisi ad accelerare sul passaggio alle fonti rinnovabili per contenere il riscaldamento globale al 2030 entro 1,5 gradi dai livelli preindustriali. Dall’altra Cina, Russia, economie emergenti e Paesi petroliferi: c’è chi, come Cina e India, non può rinunciare alle fonti fossili per alimentare la loro forte crescita, e chi, come Russia e Arabia Saudita, basa la propria economia sugli idrocarburi.

“Come vedete dallo stato della mia camicia, non è stato particolarmente semplice”, ha scherzato il ministro presentando il communiqué di 58 paragrafi e spiegando che due di questi sono rimasti fuori. “Non c’è disaccordo” bensì “disallineamento” con “quattro-cinque” Paesi su 20, ha spiegato Cingolani. Il primo punto è mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi in questa decade. Il secondo riguarda l’abbandono del carbone entro il 2025.

Abbiamo capito che “oltre un certo livello non si può andare”, ha spiegato Cingolani con riferimento ai due paragrafi. Il ministro, sottolineando che nessun Paese hanno messo in discussione l’accordo di Parigi, ha citato esplicitamente l’opposizione di Cina, India e Russia e ha evidenziando che alcuni suoi colleghi avevano bisogno di un confronto con il loro ministero delle Finanze vista la portata del tema. Per questo, entrambi i punti rimasti fuori dal documento finale di Napoli verranno discussi a ottobre al G20 di Roma riservato ai capi di Stato e di governo. Non senza un occhio alla Cop26, la conferenza delle Nazioni Unite che si terrà a novembre a Glasgow, organizzata dal Regno Unito in partnership con l’Italia.

Comunque, “quello che è successo oggi, quattro mesi fa era impensabile”, ha dichiarato con orgoglio Cingolani sostenendo che fino a poco fa molti Paesi di certe questioni non volevano “neppure parlare”.

Impossibile ignorare, però, che anche i Paesi più ricchi si trovino in difficoltà. Dinnanzi a loro la sfida degli impatti della decarbonizzazione sulle industrie nazionali, in particolare sull’automotive o sulle acciaierie. Un dilemma che riguarda da vicino l’Italia, come anche recentemente raccontato su Formiche.net.

Basti pensare che al termine della prima giornata di lavori il ministro Cingolani ha citato la vicenda dei gilet come esempio dei possibili “danni collaterali” della decarbonizzazione: una tassa sui carburanti imposta per spingere la gente ad andare meno in auto, è stata vista come un ulteriore balzello da chi (come gli agricoltori francesi) era costretto a usare il mezzo privato e non poteva permettersi un’auto elettrica. Altro problema speso citato dal ministro è stato il dumping ecologico: i Paesi più ricchi possono impegnarsi a produrre acciaio con tecnologie pulite, ma poi rischiano di subire la concorrenza dell’acciaio più a buon mercato prodotto da Paesi che non rispettano standard di sostenibilità.

(Foto: Twitter, @MiTE_IT)


scheda:

G20 Energia e Clima: un accordo storico che guarda al futuro e punta alla COP26. Sintesi del documento finale della ministeriale

Napoli, 23 luglio – “Una società prospera, inclusiva, resiliente, sicura e sostenibile che non lasci indietro nessuno”: così i ministri dell’ambiente e dell’energia dei grandi Paesi della Terra, riuniti dalla Presidenza italiana del G20 a Napoli, in presenza e da remoto, hanno sottoscritto il documento finale della ministeriale Energia e Clima.

Un documento che mette insieme, su temi divisivi come la transizione energetica, i cambiamenti climatici e la necessità di tenere la temperatura del Pianeta sotto il grado e mezzo, Paesi tra di loro molto distanti, non solo geograficamente.

Tutti, da Cina a India, a Stati Uniti, Russia e paesi Europei, hanno concordato che, soprattutto dopo la fase pandemica, la transizione energetica verso le energie rinnovabili sono uno strumento per la crescita socio-economica inclusiva e veloce, la creazione di posti di lavoro e deve essere una transizione giusta che non lascia nessuno indietro.

La comunità internazionale del G20 riconosce nella scienza un ruolo fondamentale, su cui la politica dovrà basarsi. E, soprattutto, viene riconosciuto uno stretto nesso tra clima ed energia e la necessità di ridurre le emissioni globali e migliorare l’adattamento al cambiamento climatico.

1 – Azioni contro il cambiamento climatico

Vengono riaffermati gli impegni dell’Accordo di Parigi come il faro vincolante che dovrà condurre fino a Glasgow, dove si svolgerà, a novembre, la COP 26. Obiettivo comune è mantenere la temperatura ben al di sotto dei 2° e a proseguire gli sforzi per limitarla a 1,5° al di sopra dei livelli preindustriali. I Paesi del G20 concordano nell’aumentare gli aiuti ai paesi in via di sviluppo affinché nessuno resti indietro.
Rimane centrale il ruolo del dell’impegno finanziario da 100 miliardi, così come previsto dall’Accordo di Parigi, con l’impegno ad aumentare i contributi ogni anno fino al 2025.
E un ruolo, per l’aumento di questi fondi, è richiesto in particolare alle istituzioni finanziarie per lo sviluppo e alle banche multilaterali.
La transizione è necessaria e indispensabile, però deve essere giusta, e assicurare sostegno e solidarietà alle categorie e ai paesi più fragili.
Unanimemente si riconosce il ruolo del cambiamento climatico nella perdita di biodiversità.

2 – Accelerare le transizioni verso l’energia pulita

Faro acceso sulla transizione energetica con un impegno preciso sulla cooperazione nell’impiego e nella diffusione di tecnologie rinnovabili, necessari alla transizione e strumento essenziale per promuovere e realizzare l’Accordo di Parigi.
Gli impatti del cambiamento climatico sono già stati sperimentati in tutto il mondo, dimostrando la necessità di implementare le azioni di adattamento.

Transizione ed efficientamento. Tutti i Paesi sono attivi nella transizione energetica totale, impiegando i 2 miliardi di dollari delle risorse dei Climate Investment Funds (CIFs). Si sottolinea il grande potenziale delle rinnovabili offshore, dell’energia oceanica e della possibilità di implementare questo tipo di tecnologia.
L’efficienza energetica ha un ruolo chiave per la riduzione dei gas serra e e la promozione della crescita economica sostenibile. È opportuno agire su efficienza, modelli di produzione e consumo sostenibili e circolarità, consapevoli che nessun singolo carburante o tecnologia da solo può consentire all’intero settore energetico di ridurre le emissioni di GHG. Perno dell’economia energetica del futuro è l’idrogeno, in chiave della riduzione delle emissioni soprattutto nei settori difficili da abbattere.
Si riconosce la necessità di continuare a investire per le tecnologie rinnovabili, insieme alla riduzione dell’uso del metano, e di procedere spediti verso la riduzione della povertà energetica. Viene riconosciuto che sistemi energetici convenienti, affidabili, sostenibili e moderni sono essenziali per proteggere il nostro pianeta e la sua gente. Inoltre, si sottolinea l’importanza degli sforzi esplorando la più ampia varietà di opzioni in base ai contesti nazionali al fine di raggiungere transizioni energetiche green ambiziose e realistiche, garantendo al contempo un approvvigionamento energetico stabile. Riaffermiamo il nostro impegno a ridurre le emissioni nel settore energetico e ci impegniamo a farlo ulteriormente attraverso la cooperazione sull’impiego e la diffusione di tecnologie pulite.
Anche Russia e China si sono impegnati a eliminare gradualmente la produzione di energia dal carbone sena sosta.
L’efficienza energetica è un fattore cruciale nelle transizioni di energia pulita e nella crescita economica, per questo il G20 si impegna ad aumentare le iniziative multilaterali già esistenti a livello mondiale.

3 – Allineamento dei flussi finanziari a Parigi

Viene data un’importanza centrale a orientare gli sforzi finanziari ed economici dei paesi del G20 verso gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, tenendo conto degli sforzi per sradicare la povertà, verso una transizione giusta e inclusiva.

L’allineamento dei flussi finanziari e degli sforzi per la ripresa con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi può infatti rappresentare un’opportunità per la crescita economica facilitando gli investimenti per aumentare l’adozione di soluzioni già disponibili, tra le quali la generazione di energie rinnovabili e tecnologie a basse emissioni.
A questo scopo è riconosciuta la necessità di sfruttare meglio l’intera gamma di leve e strumenti politici disponibili, inclusi i diversi pacchetti adottati per la ripresa dal COVID19.

Le strategie di adattamento e resilienza possono essere ulteriormente integrate nei flussi finanziari nazionali e internazionali anche attraverso la mobilitazione di ulteriori risorse pubbliche e private.
In questo senso viene riconosciuta l’importanza di garantire la considerazione dei rischi climatici attuali e futuri in tutte le agende di investimento e politiche, verso lo sviluppo di standard di riferimento globali di rendicontazione.

4- Ripresa sostenibile e inclusiva e soluzioni tecnologiche energetiche innovative

È stato riconosciuto che le misure di ripresa in linea con l’Accordo di Parigi e con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile hanno il potenziale per portarci oltre l’approccio tradizionale, aumentare la resilienza economica e sociale globale e condurci, quindi, sulla strada per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi.
In questo senso l’introduzione di politiche, strumenti e tecnologie sostenibili possono consentire progressi sostanziali verso gli obiettivi a lungo termine dell’accordo di Parigi e per un futuro resiliente ai cambiamenti climatici, che garantisca e fornisca sia un impulso al benessere sociale che alla crescita e allo sviluppo economico sostenibile.

Pur riconoscendo la necessità di continuare a dare priorità agli sforzi per far fronte al Covid-19, i G20 si impegnano a destinare una quota ambiziosa dei fondi per i piani nazionali di ripresa e resilienza a favore di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici.

Si raccomanda, inoltre, di usare al meglio i piani di ripresa per stimolare e ridurrei i rischi di investimento nel settore privato, anche attraverso la promozione di strumenti di finanziamento congiunti pubblico-privato e partenariati pubblico-privato, al fine di stimolare contemporaneamente la crescita economica, creare posti di lavoro, valorizzare le donne, i giovani e le categorie emarginate.

4A – Condividere le migliori pratiche per una ripresa sostenibile, resiliente e inclusiva
I G20 sottolineano l’importanza di costruire un’efficace valutazione preventiva delle misure di ripresa a livello nazionale e di condividere le migliori esperienze, politiche e strutturali, al fine di promuovere una ripresa duratura e sostenibile.

4B – Sfruttare le opportunità offerte dalle tecnologie innovative all’interno dei pacchetti di recupero in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi
I G20 riconoscono il ruolo chiave che pacchetti nazionali ben progettati per la ripresa svolgono nel guidare le azioni a breve termine (NDCs) e nel definire e supportare strategie a lungo termine (LTS) per il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi, facendo leva anche sulle opportunità offerte da tecnologie innovative e all’avanguardia.

4C – Il ruolo dell’innovazione e della ricerca e sviluppo
Innovazione e R&S non solo rivestono un ruolo chiave per il futuro ma per i G20 è necessario aumentarne i livelli, sia nel settore pubblico che in quello privato sulla base anche di collaborazioni a livello internazionale.
Saranno promosse ricerca e istruzione verso un miglioramento delle tecnologie, dei programmi di formazione e della disseminazione per divulgare la scienza del climae e le politiche connesse, aumentare la consapevolezza, la partecipazione e l’accesso pubblico alle informazioni.
Parte degli investimenti in R&S dovrebbero essere orientati specificatamente ad aumentare le soluzioni innovative per un migliore mix energetico sostenibile, per l’efficienza energetica, modelli di produzione e consumo sostenibili e nuovi modelli di business. Prevedendo la possibilità di politiche fiscali e di sussidi che promuovano gli investimenti verso l’innovazione sostenibile e progetti mirati che tengano conto sia degli aspetti economici che di sociali e ambientali.

5 – Smart city

Le città sono particolarmente vulnerabili ai cambiamenti climatici e, contemporaneamente, possono essere attori importantissimi nelle azioni di mitigazione. Per questo si favorisce, e incoraggia, azioni di governo che contemplino una collaborazione attiva e continua con le città e le aree metropolitane. In questa chiave sono importanti le iniziative dal basso verso l’alto come il Patto globale dei sindaci, il C40. Viene riconosciuta anche l’importanza di vivere in armonia con la natura, costruire la resilienza e accelerare la riduzione delle emissioni di gas serra.

Nell’ambito della mobilità si ribadisce l’urgente necessità di promuovere una mobilità sostenibile e conveniente, comprese tutte le relative infrastrutture, tenendo conto dell’analisi dell’intero ciclo di vita per raggiungere l’ obiettivo a lungo termine dell’Accordo di Parigi.
Si incoraggia il progresso continuo nell’uso estensivo e negli investimenti delle tecnologie digitali nei conglomerati urbani, per l’integrazione di sistema dell’energia rinnovabile variabile, compresi lo stoccaggio di energia, le reti intelligenti, le centrali elettriche virtuali, la gestione dell’offerta e la gestione della domanda, nonché il ruolo dell’energia idroelettrica e della moderna bioenergia per la stabilità del sistema e l’interazione e il coordinamento tra fonte di energia-rete-accumulo-carico.
Vengono sostenute la generazione distribuita sostenibile locale e le comunità energetiche come mezzi concreti per facilitare l’accessibilità, l’affidabilità, la redditività, l’accessibilità e la sostenibilità dell’energia.

Sono accolte con favore gli sforzi per migliorare la quantificazione e il monitoraggio delle soluzioni basate sulla natura al fine di informare, se del caso, le decisioni di pianificazione, i modelli finanziari e di business sostenibili.




pratica__ newsletter di Lifegate.it, luglio 2021

Guida al PNRR per le imprese
Missione 2: rivoluzione verde e transizione ecologica

Il contesto: le sfide ambientali e le riforme per un’Italia verde e sostenibile

A che punto è il nostro Paese nel percorso di transizione verde? Come sottolineato nel Piano nazionale di ripresa e resilienza l’Italia è particolarmente esposta ai cambiamenti climatici e deve accelerare il passo per raggiungere gli ambiziosi obiettivi previsti dal Green Deal: decarbonizzare l’Unione europea, azzerare l’impatto climatico degli stati membri entro il 2050 e tagliare le emissioni del 55% già entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990. Il nostro Paese,infatti, nonostante ci siano stati progressi significativi, con una diminuzione di emissioni di gas serra del 19 registrato tra il 2005 ed il 2019, presenta ancora “notevoli ritardi e vulnerabilità”. Ma vediamoli nel dettaglio.

Per quanto riguarda il settore della mobilità, in Italia, sostiene Transport & environment, nel corso degli ultimi quarant’anni i trasporti hanno strappato all’industria il titolo di comparto più inquinante. Di sicuro non aiuta il fatto che il nostro Paese abbia il numero di autovetture ogni mille abitanti più alto tra i principali Paesi europei e una delle flotte di autoveicoli più vecchie dell’Europa occidentale, con un 45 di Euro 0, 1, 2 ed Euro 3. Per favorire il passaggio ai modelli elettrici bisognerà investire in modo molto più coraggioso sulle infrastrutture di ricarica: oggi si contano 13.721 colonnine in 7.203 stazioni accessibili al pubblico, ma la mappa è fortemente sbilanciata verso poche regioni del Nord ed è carente sulle autostrade. Inoltre l’estensione della rete ferroviaria italiana in rapporto alla popolazione è la più bassa tra i principali Paesi europei.

Per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico la Commissione europea ha aperto tre procedure di infrazione per l’inquinamento contro l’Italia per particolato e ossidi di azoto. Sostanze che entrano nei nostri polmoni e ci fanno ammalare. I dati sono drammatici: l’inquinamento atmosferico è il più grave rischio ambientale per la salute dei cittadini del Vecchio continente, con almeno 400mila morti premature l’anno,seguito dall’inquinamento acustico che ne provoca oltre 12mila.Attualmente il 3,3% della popolazione vive in aree in cui sono ampiamente superati i limiti europei di inquinamento. In un’analisi di The Lancet, “Premature mortality due to air pollution in European cities: a health impact assessment” sulla maggiore mortalità causata dall’esposizione a polveri sottili e biossido di azoto, tra le prime 30 posizioni ci sono 19 città del Nord Italia, con Brescia e Bergamo ai vertici della classifica. Anche l’inquinamento del suolo e delle acque è decisamente elevato, in particolar modo nella Pianura Padana, “sfavorita” da un mix di conformazione orografica, clima e densità di centri abitati che ne fanno una delle aree più inquinate in assoluto.

Per quanto riguarda l’economia circolare, nonostante l’Italia si posizioni al di sopra della media UE per gli investimenti nel settore e per la produttività delle risorse, come abbiamo approfondito in un precedente capitolo di pratica_ la presenza di significative disparità regionali e la mancanza di una strategia nazionale per l’economia circolare suggeriscono l’esistenza di ampi margini di miglioramento.

E l’edilizia? Su questo fronte, mette nero su bianco la Commissione, c’è ancora tanto da lavorare. Su scala europea, gli edifici consumano il 40% dell’energia e rilasciano in atmosfera il 36% delle emissioni di gas serra connesse all’energia stessa. Per quanto riguarda il nostro Paese uno studio condotto nel 2017 dal Politecnico di Milano ne delinea un ritratto non troppo lusinghiero. La classe energetica più comune è la G, mentre solo il 7,4 per cento degli edifici residenziali e il 6 per cento di quelli non residenziali è certificato in classe B o classe A.

Per questi motivi il PNRR può essere un’occasione unica per accelerare la transizione ecologicaLa missione 2 intitolata Rivoluzione verde e transizione ecologica, nello specifico prevede investimenti e riforme che contribuiranno alla creazione di occupazione – in particolar modo giovanile – in tutti i settori toccati dal Green Deal europeo, tra cui le energie rinnovabili, le reti di trasmissione e distribuzione e la filiera dell’idrogeno. Alla missione 2 è destinata la fetta più grande del PNRR per un totale di 59,7 miliardi di euro. La Missione 2, è suddivisa in 4 Componenti: C1. Economia circolare e agricoltura sostenibile. La componente 1 si prefigge di perseguire un duplice percorso verso una piena sostenibilità ambientale. Da un lato, si prepone di migliorare la gestione dei rifiuti e dell’economia circolare “rafforzando le infrastrutture per la raccolta differenziata, ammodernando o sviluppando nuovi impianti di trattamento rifiuti e colmando il divario tra regioni del Nord e quelle del Centro-Sud (oggi circa 1,3 milioni di tonnellate di rifiuti vengono trattate fuori dalle regioni di origine)”. Dall’altro punta a sviluppare una filiera agricola/alimentare smart e sostenibile, riducendo l’impatto ambientale in una delle eccellenze italiane, tramite supply chain “verdi”. C2. Energia rinnovabile, idrogeno, rete e mobilità sostenibile. Per raggiungere la progressiva decarbonizzazione di tutti i settori, nella Componente 2 sono stati previsti interventi per incrementare decisamente la penetrazione di rinnovabili, tramite soluzioni decentralizzate e rafforzamento delle reti (più smart e resilienti) per accomodare e sincronizzare le nuove risorse rinnovabili e di flessibilità decentralizzate, e per decarbonizzare gli usi finali in tutti gli altri settori. Sempre nella Componente 2, particolare rilievo è dato alle filiere produttive. L’obiettivo è quello di “sviluppare una leadership internazionale industriale e di conoscenza nelle principali filiere della transizione, promuovendo lo sviluppo in Italia di supply chain competitive nei settori a maggior crescita, che consentano di ridurre la dipendenza da importazioni di tecnologie e rafforzando la ricerca e lo sviluppo nelle aree più innovative (fotovoltaico, idrolizzatori, batterie per il settore dei trasporti e per il settore elettrico, mezzi di trasporto)”.

  • C3. Efficienza energetica e riqualificazione degli edifici. Attraverso la componente 3 si vuole rafforzare l’efficientamento energetico incrementando il livello di efficienza degli edifici, una delle leve più virtuose per la riduzione delle emissioni in un Paese come il nostro, che soffre di un parco edifici con oltre il 60 per cento dello stock superiore a 45 anni, sia negli edifici pubblici (es. scuole, cittadelle giudiziarie), sia negli edifici privati, come già avviato dall’attuale misura “Superbonus 110%”, introdotta dal decreto-legge “Rilancio” del 19 maggio 2020, che punta a rendere più efficienti e più sicure le proprie abitazioni.
  • C4 Tutela del territorio e della risorsa idrica. La componente 4 prevede una serie di azioni specifiche “per rendere il Paese più resiliente agli inevitabili cambiamenti climatici, proteggere la natura e le biodiversità, e garantire la sicurezza e l’efficienza del sistema idrico.”

Come affermato nel piano la transizione ecologica non potrà avvenire in assenza di una altrettanto importante e complessa “transizione burocratica”, che includerà riforme fondamentali nei processi autorizzativi e nella governance per molti degli interventi delineati.

Plastic tax: cos’è e come funziona

Le evidenti criticità circa uno dei temi pilastri dell’economia circolare sono state evidenziate nel rapporto di recente pubblicazione “L’insostenibile peso delle bottiglie di plastica” di Greenpeace che nelle scorse settimane ha lanciato una petizione per chiedere alle aziende leader del mercato di ridurre drasticamente il ricorso a bottiglie in plastica monouso e adottare sistemi di vendita basati sull’impiego di contenitori riutilizzabili.

Il rapporto rivela che: “Circa 7 miliardi di contenitori in PET (Polietilene Tereftalato, il tipo di plastica utilizzato per produrli) da 1,5 litri, usati per confezionare le acque minerali e le bevande, rischiano di essere dispersi nell’ambiente e nei mari. A ciò si aggiungono le emissioni di gas serra generate dalla produzione delle bottiglie non riciclate, pari a 850 mila tonnellate di CO2 equivalenti, che aggravano la crisi climatica”.

Il documento di Greenpeace ha evidenziato inoltre che: “Siamo i primi consumatori di acqua in bottiglia al mondo, con Messico e Thailandia”. E aggiunge: “Se vogliamo ridurre l’inquinamento da plastica nei nostri mari, le multinazionali devono fare la loro parte e promuovere soluzioni a basso impatto ambientale come l’impiego di contenitori lavabili e riutilizzabili”.

Alla vigilia della nuova era plastic free. Infografica dello studio Ipsos sull’atteggiamento dei consumatori italiani nei confronti del packaging dei prodotti © Ipsos

Per questi motivi, al fine di promuovere attraverso lo strumento dell’imposizione fiscale, un disincentivo nell’utilizzo comune dei prodotti di materiale plastico e di favorire, al tempo stesso, la progressiva riduzione della produzione, e quindi del consumo di manufatti di plastica monouso, è stata introdotta Direttiva europea 904/2019 che istituisce un’imposta sul consumo dei manufatti con singolo impiego (MACSI).

Con l’entrata in vigore della plastic tax, prorogata al 1 gennaio 2022–originariamente fissata a luglio 2020, è già stata spostata al 1° gennaio 2021 dal decreto Rilancio, quindi al 1 luglio 2021 con la legge di Bilancio a causa delle condizioni di difficoltà in cui vertono le imprese dei settori interessati– si tenta prevenire e ridurre l’impatto sull’ambiente di determinati prodotti in plastica qualora siano disponibili alternative. L’adozione della plastic tax premierà i contribuenti green più virtuosi, vale a dire coloro che si adopereranno per un adeguamento tecnologico dedicato alla produzione di manufatti compostabili, ai sensi dello standard EN 13432:2002. L’imposta ha un valore fisso di 0,45 centesimi di euro per ogni chilo di prodotti di plastica monouso venduto.

Un impianto per il riciclo di plastica a New York, negli Stati Uniti © Spencer Platt/Getty Images

La Plastic tax fa parte di quelle misure atte a recepire la Direttiva Europea SUP (Single Use Plastics) entrata in vigore a luglio 2019 che prevede l’obbligo di essere recepita dagli stati membri entro due anni, in questo caso, entro il 2021. Con la SUP si vieta l’utilizzo di cannucce, piatti e stoviglie, cotton fioc in plastica e si impone la forte riduzione di altri oggetti come le tazze per bevande e alcuni contenitori in plastica monouso per alimenti.

Ma come funziona la plastic tax? L’accertamento dell’imposta avverrà sulla base delle dichiarazioni trimestrali presentate all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli – che hanno il compito di svolgere le attività di accertamento, verifica e controllo dell’imposta, con facoltà di accedere presso gli impianti di produzione di MACSI-  entro la fine del mese successivo al trimestre solare cui la dichiarazione si riferisce. Entro lo stesso termine dovrà inoltre essere effettuato il versamento dell’imposta dovuta.

10 buone prassi per un packaging più sostenibile

Amplificato dall’e-commerce diventato in tutto il mondo una modalità di acquisto sempre più diffusa, il problema di come ridurre il packaging in eccesso di milioni di prodotti e del suo smaltimento è affrontato dai consorzi di produttori e dai colossi delle vendite online secondo linee guida sostenibili. Intanto, designer e biologi lavorano insieme a ricerche innovative di biodesign, per sperimentare packaging alternativi e sostenibili che utilizzano batteri e microorganismi capaci di sostituire i materiali derivati dal petrolio. Secondo l’indagine condotta dalla società di ricerche di mercato americana Research and markets, una delle più grandi al mondo, la domanda dei consumatori sta progressivamente orientando le aziende verso il packaging sostenibile, il cui mercato globale raggiungerà un valore di circa 440 miliardi di dollari entro il 2025, con un tasso di crescita annuale del 7,7%. L’atteggiamento critico e sempre più sensibile delle persone sugli effetti sociali e ambientali dell’intero ciclo di vita del prodotto si estende anche al packaging che spesso è il primo e più evidente elemento e si rivela fondamentale nel processo decisionale di acquisto. Vediamo dunque 10 buone prassi per un packaging più sostenibile:

1. Condividi le migliori pratiche di smaltimento e riciclaggio con i consumatori. Informa i tuoi clienti sui modi migliori per riciclare e smaltire i materiali di imballaggio. Condividi le migliori pratiche generali etichettando chiaramente gli imballaggi riutilizzabili o riciclabili e spiegando quali sono le corrette procedure standard per farlo.

2. Riutilizza e non sprecareScegli prodotti che puoi riutilizzare e che possono essere riciclati. Come? Un esempio virtuoso è l’azienda Il brand mette a disposizione delle aziende di e-commerce associate una gamma di imballaggi riutilizzabili, e i marchi aderenti, a loro volta, consentono ai propri clienti di scegliere l’opzione di imballaggio RePack, scelta che prevede solitamente un incentivo per l’acquirente. Una volta che il consumatore ha ricevuto e scartato il proprio acquisto, potrà restituire gratuitamente l’imballaggio nella casella postale più vicina, affinché venga riciclato.

Il sistema sviluppato da RePack si inserisce all’interno dell’economia circolare ed è vantaggioso per acquirenti, venditori e ambiente © RePack

3. Spedisci in un pacco più piccoloRidurre la tua impronta ecologica può essere semplice come ridurre i materiali di imballaggio che usi. Ciò significa utilizzare scatole, sacchetti e contenitori più piccoli per i tuoi prodotti. Questo non solo ti aiuterà ad essere più sostenibile, ma può anche ridurre i costi di spedizione.

4. Utilizza materiali di imballaggio riciclati. Gli imballaggi riciclati sono un ottimo modo per prolungare la vita dei materiali utilizzati in precedenza. Il cartone è uno degli esempi più comuni. Viene creato utilizzando pasta di carta usata, è leggero e può essere facilmente tagliato e formato rendendolo ideale per le scatole di spedizione.

5. Scegli l’imballaggio a base vegetaleLe opzioni a base vegetale si stanno rapidamente facendo strada nel mondo del confezionamento dei prodotti. Come suggerisce il nome, questi materiali sono costituiti da fonti biologiche: da funghi e alghe, fino mais e rifiuti alimentari. Le giuste opzioni di imballaggio a base vegetale dipenderanno dai prodotti che dovrai imballare o spedire. 

6. Opta per le confezioni commestibili. Provengono dalla stessa famiglia del packaging vegetale (ovvero da fonti biologiche), ma fanno un ulteriore passo avanti: sono sicure da mangiare. L’imballaggio commestibile è un’opzione ideale per i rivenditori di cibo e bevande, in quanto rappresenta un plus in linea con il segmento di mercato. La designer polacca Roza Janusz ha creato un imballaggio per alimenti alternativo alla plastica realizzato conmateriale organico che può essere consumato dopo l’uso o compostato. È progettato per conservare alimenti secchi o semi-secchi tra cui semi e noci ma anche erbe e insalata.

7. Adopera un imballaggio piantabile. Si tratta di pacchetti o materiali che dopo l’utilizzo puoi piantare. I pacchetti piantabili hanno semi incorporati al loro interno, che i clienti della tua impresa potranno piantare dopo aver ricevuto il prodotto. L’azienda LifeBox produce scatole da imballaggio innovative e sostenibili che una volta piantate garantiranno la crescita di un albero.

8. Prediligi plastiche compostabili e biodegradabili. Gli imballaggi compostabili sono realizzati con materiali che possono essere compostati a casa e commercialmente (dai 90 ai 180 giorni). Questi imballaggi sono spesso realizzati con polimeri a base vegetale. 

9. Evita un imballaggio eccessivo lungo tutta la catena di approvvigionamento. Sappiamo che materiali di imballaggio sono abbondanti nella catena di approvvigionamento al dettaglio. I prodotti vengono imbustati, imballati o impacchettati prima che arrivino destinazione, spesso utilizzando imballaggi aggiuntivi. Pertanto, è necessario ottimizzare il modo in cui la merce si muove lungo la catena del valore in modo da ridurre al minimo questi materiali e gli sprechi che ne derivano.

10. Seleziona partner di produzione sostenibili. Scegli di lavorare con produttori che danno priorità alla sostenibilità. Usano materiali sostenibili? Cosa stanno facendo per ridurre al minimo la loro impronta ecologica e di carbonio? Indaga e opta per i partner che ti accompagnino nel tuo percorso verde.

I vantaggi della rivoluzione verde: le aziende più sensibili alle tematiche ambientali stanno resistendo meglio alla crisi pandemica

Come già ribadito in diversi episodi di questa newsletter, implementare la sostenibilità per le aziende non è un mero imperativo morale, ma consiste in una leva strategica in grado di produrre benefici tangibili e misurabili. A confermarlo il rapporto GreenItaly 2020 che rivela che le aziende più sensibili alle tematiche verdi stanno resistendo meglio alla crisi pandemica. Secondo la ricerca sono oltre 432 mila le imprese italiane dell’industria e dei servizi che tra il 2015 e il 2019 hanno investito in prodotti e tecnologie green. Un valore in crescita del 25% rispetto al quinquennio precedente. E tra quelle che hanno effettuato investimenti per la sostenibilità, il 16% è riuscito ad aumentare il fatturato contro il 9% delle non green. Un vantaggio competitivo che si conferma anche in termini occupazionali (assume il 9% delle green contro il 7% delle altre) e di export (con aumenti del 16% contro il 12%).

Performance delle imprese che hanno investito nella sostenibilità © GreenItaly 2020

Tendenze confermate dall’Indexing Report di Epson, secondo il quale esisterebbero benefici per le aziende che continuano a impegnarsi nel cammino verso la sostenibilità: l’82% dei responsabili decisionali ritiene che queste iniziative hanno un impatto sulle prestazioni aziendali, in particolare sulla percezione del marchio, sulla fedeltà dei dipendenti e sulla produttività della forza lavoro. “Il coinvolgimento dei dipendenti e la capacità dell’azienda di trattenerli sono maggiori nelle organizzazioni con obiettivi di sostenibilità chiari e ben definiti. Tuttavia, vi è la percezione che questo rappresenti un costo. Ma non è così. Aggiornando la tecnologia, le aziende possono lavorare in modo più efficiente e sostenibile.” Ha dichiarato Darren Phelps, VP business sales di Epson Europa. Infatti, attesta la ricerca, il 90% dei prodotti commercializzati in modo sostenibile ha ottenuto un successo commerciale maggiore rispetto ai concorrenti tradizionali.

L’opinione

Silvio Greco, biologo e docente presso l’università delle Scienze Gastronomiche di Pollenzo e dirigente di ricerca dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) 

Silvio Greco all’Osservatorio Torino sostenibile © Luigi Zanni/LifeGate

Noi non dobbiamo avere paura della plastica, dobbiamo però ricordare che la plastica – come il moplen inventato da Giulio Natta – nasce per essere una sostanza che dura addirittura per centinaia di anni. Il corto circuito, l’ossimoro, è stato l’usa e getta. Noi dobbiamo continuare a usare la plastica, ma possibilmente quella che già abbiamo invece di produrne di nuova che non riusciamo più a gestire. Quella che abbiamo deve durare sempre e, quando finisce di essere una lampada o una sedia, deve diventare altro. Non dobbiamo solo differenziare ma anche riutilizzare e riciclare. Questa è la strada. Dobbiamo abbandonare l’usa e getta che non serve a nessuno.

Good practice Company

Around

La startup Around, il primo aggregatore di servizi zero waste del settore food, offre al mercato italiano un nuovo modello circolare di utilizzo del packaging. E lo fa con l’introduzione di packaging riutilizzabile nei servizi di asporto e food delivery e attraverso la vendita del cibo rimasto invenduto a fine giornata al prezzo scontato deciso dai ristoranti. I contenitori Around possono essere usati più volte e sono dotati di Qr code che rimanda all’app Aroundrs, disponibile su Apple store e Google play. A beneficiare di questo progetto sono sia i ristoranti che i consumatori finali. I primi possono sottoscrivere un abbonamento con vantaggi e servizi differenti in base alle proprie esigenze e diminuire la propria impronta ambientale riducendo la quantità di rifiuti da imballaggio nei servizi di asporto e delivery, grazie ai contenitori riutilizzabili di Around; i secondi, invece, attraverso l’app possono visualizzare i ristoranti che hanno aderito al progetto da cui noleggiare gratuitamente il packaging della startup per il loro asporto e restituirlo entro sette giorni. Del lavaggio si occuperà il ristorante stesso, a meno che non abbia accesso al servizio extra di lavaggio centralizzato di Around.

Good Practice Communication

Radici Group

RadiciGroup lancia sul mercato Renycle, gamma di filati che nasce dal riciclo di nylon, e annuncia l’acquisizione di Zeta Polimeri, azienda italiana con esperienza trentennale nel recupero di fibre sintetiche e di materiali termoplastici. Due azioni concrete messe in campo dal Gruppo italiano nell’ambito della propria strategia di tutela dell’ambiente e di attenzione a un mercato sempre più esigente. In RadiciGroup ogni scarto di produzione diventa una nuova risorsa, il Gruppo è in grado di selezionare i diversi materiali e finalizzarli allo loro seconda vita più appropriata, fino a ieri in ambito tecnopolimeri e da oggi, con Renycle, anche per realizzare filati per pavimentazioni tessili, tappeti e moquette di design, fino ai capi di abbigliamento più preziosi della moda “Made in Italy”. Renycle diminuisce la necessità di ricorrere a nuove materie prime di origine fossile, abbinando la riduzione dell’impatto ambientale alle consuete caratteristiche tecniche di alto livello. Inoltre è 100% riciclabile a fine vita.

Tech News

H&M

Una recente innovazione tecnologica in ambito sostenibile degna di nota è la Green Machine sviluppata dalla collaborazione tra la H&M Foundation e l’Hong Kong Research Institute of Textiles and Apparel (HKRITA). Utilizzando unicamente calore, acqua, pressione e un agente chimico biodegradabile questo rivoluzionario macchinario industriale è in grado di separare poliestere e cotone dal materiale misto composto da questi due tessuti. Una rivoluzione che permetterà il riciclo di filati che fino a poco fa era impossibile riutilizzare, rappresentando un notevole passo in avanti nella direzione di un’industria meno incline agli sprechi e con una ragguardevole diminuzione dei massivi volumi di abiti prodotti e consumati e del loro impatto negativo sull’ambiente.




In vendita i numeri degli utenti Clubhouse e dei loro contatti: 3,8 miliardi le potenziali vittime

In molti, nel periodo d’oro di Clubhouse all’inizio del 2021, avevano avvertito che alcune pratiche adottate dal social per fare incetta di nuovi utenti potevano ritorcersi contro alla sicurezza degli iscritti, e alla fine lo scenario potrebbe essersi verificato: in queste ore è emersa la notizia della presenza online di una colossale banca dati di numeri di telefono rubati dalle liste segrete dei gestori dell’app. Si tratterebbe di ben 3,8 miliardi di numeri di telefono comprensivi non solo dei numeri telefonici degli iscritti al social, ma anche quelli di tutti i loro contatti. Chiunque abbia mai usato Clubhouse o abbia un amico, un parente o un collega iscritto al social potrebbe essere insomma finito coinvolto nell’operazione di rastrellamento emersa in queste ore.

La banca dati in vendita

Tra i primi a dare la notizia c’è il ricercatore informatico Marc Ruef, che ha pubblicato la schermata di un forum online relativa al presunto archivio dei numeri degli utenti Clubhouse, rastrellati nel corso degli scorsi mesi da un venditore la cui identità è rimasta celata. Come prova dell’autenticità dell’operazione il soggetto ha messo a disposizione dei lettori una sottoselezione che comprende più di 80 milioni di numeri di telefono. Stando alle indicazioni fornite nell’intervento sul forum, il pacchetto completo sarà messo in vendita attraverso un’asta che si terrà a settembre e include due elementi che se ben sfruttati possono essere decisamente pericolosi: i numeri di telefono degli utenti del social audio e il valore assegnato loro dal sistema di valutazione dell’app, che prende in considerazione la frequenza con la quale un numero compare nelle rubriche degli altri utenti.

I dati rubati

Tra le informazioni sottratte a Clubhouse non ci sono dunque nomi e cognomi né altri dati sensibili legati ai numeri di telefono; legare un numero di telefono a una identità è una operazione che i truffatori interessati potrebbero svolgere tranquillamente sfruttando altre banche dati illegali messe insieme utilizzando informazioni trapelate da altre piattaforme. Il sistema di valutazione dei numeri messo in piedi da Clubhouse può però dare un’idea di massima su quanto un numero di telefono sia importante rispetto a un altro, e di conseguenza quanto sia importante il proprietario e quanto possa valere la pena bersagliarlo con una campagna truffaldina oppure semplicemente approfondirne la conoscenza.

I dubbi sull’operazione

Non è chiaro come i dati siano stati ottenuti dal social, che al riguardo non ha ancora fornito una dichiarazione. Sul motivo per cui una banca dati di un’app da pochi milioni di utenti possa contenere i numeri di miliardi di individui, una risposta può però arrivare dalla pratica in uso presso parecchie piattaforme social di chiedere l’accesso ai numeri di telefono nella rubrica dei nuovi iscritti. In Clubhouse l’operazione viene portata a termine subito dopo l’iscrizione per dare la possibilità di invitare altre persone all’interno del social, ma così facendo memorizza i numeri di telefono di persone che potrebbero non voler regalare questo dato a un’azienda che neanche conoscono.