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Apple contro NSO, e le sue ricadute sull’industria della sorveglianza

Apple contro NSO, e le sue ricadute sull’industria della sorveglianza

Apple ha fatto causa a NSO Group, l’azienda israeliana produttrice dello spyware Pegasus al centro di una serie di inchieste giornalistiche che hanno denunciato come questo strumento (ufficialmente venduto ai governi per indagare criminalità e terrorismo) fosse usato anche per spiare gli smartphone di giornalisti, funzionari governativi e attivisti. L’azione legale ritiene l’azienda israeliana responsabile di aver attaccato e sorvegliato utenti Apple e si aggiunge a quella intentata da Facebook nel 2019 dopo che lo spyware Pegasus era stato usato contro utenti Whatsapp. E, per prevenire ulteriori abusi, la società di Cupertino cerca anche un’ingiunzione permanente per impedire a NSO Group di utilizzare qualsiasi software, servizio o device Apple in futuro.

Il gancio degli ID Apple e i termini di servizio

La denuncia rivela anche nuovi dettagli su come l’azienda di spyware infetti i device delle vittime. Sappiamo infatti che NSO Group ha utilizzato un exploit, dei codici di attacco che sfruttano una vulnerabilità, noto come FORCEDENTRY, per violare i device Apple delle vittime e installare il software spia. La vulnerabilità è stata chiusa da Apple. Che però ora dice qualcosa in più: per usare l’exploit sugli apparecchi della Mela morsicata, “gli attaccanti hanno creato degli ID Apple per inviare dati malevoli ai dispositivi delle vittime, permettendo a NSO Group o i suoi clienti di inviare e installare Pegasus all’insaputa della vittima. Sebbene abusati per inviare FORCEDENTRY, i server Apple non sono stati hackerati o compromessi”, ci tiene a specificare l’azienda californiana (qui il suo comunicato). Su questa parte ci torniamo più sotto.

Secondo la denuncia, gli ingegneri di NSO hanno creato oltre 100 Apple ID per eseguire gli attacchi. Nel creare questi account hanno però dovuto sottoscrivere i termini di servizio e le condizioni di iCloud, che pongono la relazione degli utenti con Apple sotto il cappello delle leggi della California. È proprio questo aspetto, scrive il New York Times, che avrebbe permesso all’azienda di iPhone di fare causa a NSO nel distretto settentrionale della California. “È stata una palese violazione dei nostri termini di servizio e della privacy dei nostri clienti”, ha dichiarato Heather Grenier, direttrice senior dei contenziosi commerciali di Apple.  

La denuncia di Apple in dettaglio

Guerre di Rete ha letto la denuncia. Notevole come esordisce. “Gli accusati sono famigerati hacker – amorali cyber mercenari del 21esimo secolo che hanno creato un sofisticato apparato di cyber sorveglianza che invita a palesi e continui abusi. Progettano, sviluppano, vendono, distribuiscono, operano, e mantengono un malware offensivo e distruttivo e prodotti e servizi spyware che sono stati usati per prendere di mira, attaccare e danneggiare utenti Apple, prodotti Apple e Apple. Per il loro guadagno commerciale, mettono i clienti nelle condizioni di poter abusare dei loro prodotti e servizi per colpire singoli individui, inclusi funzionari governativi, giornalisti, imprenditori, attivisti, accademici e anche cittadini americani.”

La denuncia prosegue spiegando come Apple abbia investito e puntato su privacy e sicurezza per i propri servizi e utenti. Si toglie anche qualche sassolino dalle scarpe, dicendo che i suoi prodotti sarebbero ancora più sicuri della concorrenza, citando uno studio secondo il quale il 98 per cento dei malware per apparecchi mobile colpirebbero dispositivi Android. 

“NSO è l’antitesi di quello che Apple rappresenta in termini di sicurezza e privacy”,

scrivono gli avvocati della Mela morsicata.

La denuncia ricorda un dato importante: questo genere di malware sofisticati interessano ancora un numero limitato di persone (persone che sono indagate nell’ambito di un’inchiesta della magistratura, e questo sarebbe l’uso legittimo e ufficiale, ma anche persone che sono nel mirino di governi per ragioni politiche). 
La denuncia prosegue ricordando alcuni dei maggiori casi di cronaca che hanno riguardato l’uso e abuso di Pegasus: dal Pegasus Project, le inchieste coordinate dal consorzio giornalistico Forbidden Stories con altre 17 testate insieme al supporto tecnico del Security Lab di Amnesty International, fino al recente caso del ritrovamento dello spyware sui dispositivi di sei attivisti palestinesi (di cui ho scritto due settimane fa, facendo notare come uno di questi avesse cittadinanza americana, un dato che viene sottolineato anche da Apple).

Infine si addentra nell’attacco che ha utilizzato il già citato exploit FORCEDENTRY. Cerco di mantenere la traduzione fedele, quindi il linguaggio risente del gergo legale. “Gli accusati hanno eseguito l’exploit prima usando i loro computer per contattare i server Apple negli Stati Uniti e all’estero in modo da identificare altri apparecchi Apple. Gli accusati hanno contattato i server Apple usando i loro ID Apple per confermare che il target stesse usando un device Apple. Poi avrebbero inviato dati malevoli creati dagli accusati per questo attacco attraverso i server Apple negli Usa e altrove. I dati malevoli sono stati inviati al telefono della vittima attraverso il servizio  iMessage di Apple, disabilitando il logging sul device preso di mira così da poter mandare di nascosto il payload (il codice malevolo vero e proprio, ndr) di Pegasus attraverso un file più grande. Tale file era temporaneamente salvato in forma cifrata e illeggibile ad Apple su uno dei server iCloud di Apple negli Usa o altrove per la consegna (delivery) al target”.

Apple prosegue sottolineando anche i costi che avrebbe dovuto sostenere per identificare e investigare l’attacco e sviluppare le relative protezioni e correzioni (patches). E aggiunge di non aver individuato attacchi contro iOS 15, invitando gli utenti ad aggiornare i propri iPhone.

Il riferimento alla entity list e alle inchieste giornalistiche

Uno degli aspetti che colpiscono della denuncia sono i riferimenti agli ultimi fatti di cronaca. È chiaro che il testo è stato aggiornato nelle ultime ore prima di essere depositato, e che alcuni di questi fatti costituiscono, quanto meno agli occhi dei legali Apple, un volano. Come se fosse da tempo tutto pronto ma si aspettasse che succedessero alcune cose. Ad esempio, ed è un dato fondamentale, l’inclusione di NSO nella entity list del Dipartimento del Commercio americano (di cui avevo scritto qua), citata più volte. “Come conseguenza della sanzione del governo – scrive la denuncia – alle aziende Usa è fatto divieto di esportare certi prodotti e servizi a NSO senza una speciale licenza (su cui il governo Usa applicherà una presunzione di rifiuto per qualsiasi richiesta da parte di aziende americane [significa che la richiesta è automaticamente negata a meno di dimostrare specifiche circostanze da parte di chi la presenta, ndr]).

10 milioni per i ricercatori anti-malware governativi

Nel comunicato stampa, Apple dice anche un’altra cosa importante. Dopo aver lodato il lavoro di Citizen Lab e Amnesty Tech (i due gruppi di ricercatori che più di altri hanno fatto emergere l’uso e abuso di spyware governativi contro giornalisti e attivisti), dice che donerà 10 milioni di dollari alle organizzazioni che si occupano di questo genere di ricerca, oltre ai risarcimenti ottenuti con l’azione legale. E che sosterrà anche gli altri ricercatori su questi temi con assistenza tecnica e threat intelligence pro-bono (va detto che su Twitter alcuni noti ricercatori di sicurezza hanno mostrato una certa dose di incredulità rispetto alla promessa di collaborazione di Apple).

Nondimeno, un giorno dopo l’annuncio, Apple ha anche inviato delle notifiche ad alcuni suoi utenti, in quanto presi di mira da “attaccanti sponsorizzati da Stati, che avrebbero cercato di compromettere da remoto gli iPhone associati al tuo Apple ID”. Tra questi utenti ci sono sei attivisti e ricercatori thailandesi; dodici dipendenti salvadoregni della testata online El Faro, critica del governo, oltre a due leader della società civile e due politici dell’opposizione in Salvador; e il presidente del partito democratico in Uganda, Norbert Mao. 

Che succede ora a NSO?

Nel giro di pochi mesi l’azienda di spyware si è trovata al centro delle rivelazioni del Progetto Pegasus, con 17 testate che hanno mostrato casi in cui lo spwyare era usato contro giornalisti e attivisti (anche in Europa). Il governo Usa l’ha messa nella sua entity list. Ha due cause legali mosse da due delle più grandi aziende tech, Facebook (Whatsapp) e Apple. E a tal proposito, a novembre, un tribunale americano (nella causa Whatsapp contro NSO Group) ha stabilito che NSO e Q Cyber (società madre menzionata e accusata anche nella denuncia di Apple) non godono di “immunità sovrana” per il fatto di vendere spyware ai governi. Inoltre Moody ha appena declassato NSO di due livelli. E, a detta di alcuni osservatori, l’azienda rischierebbe il default su un prestito da 500 milioni di dollari. Inoltre la Francia, ha rivelato giorni fa la MIT Technology Review, avrebbe cancellato una commessa che aveva in ballo con NSO dopo le rivelazioni del Pegasus Project che hanno raccontato come perfino dei politici francesi, e lo stesso presidente Macron, fossero tra i target di chi usava Pegasus (i sospetti in questo caso ricadono sul Marocco). Il morale fra i dipendenti dell’azienda israeliana è basso, rivela sempre MIT Technology Review. E il nuovo CEO ha subito mollato poco dopo essersi insediato.

La mossa (tardiva?) di Israele

Non solo. In questi giorni è emerso che a novembre Israele avrebbe ridotto da 102 a 37 il numero di Paesi a cui è permesso esportare strumenti di cybersicurezza da parte delle aziende locali. In pratica la nuova lista di Stati a cui è possibile vendere da parte di società israeliane include perlopiù nazioni europee, Stati Uniti, Canada, UK, India, Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda. Non è menzionata l‘Ungheria, dove Pegasus è stato trovato sui dispositivi di giornalisti. L’Italia è nella lista. Probabilmente la mossa è stata presa per convincere il governo americano a indietreggiare sull’inclusione di NSO e Candiru nella sua lista nera sull’export, l’entity list. Il settore della cybersicurezza in Israele produce 10 miliardi di dollari di ricavi annuali, con il comparto offensivo che copre il 10 per cento delle vendite, scrive Calcalistech.

n punto di svolta nell’industria degli spyware?

Dunque per la prima volta dopo anni, l’industria degli spyware – che è cresciuta senza limiti nell’ultimo decennio, come ho raccontato a settembre in questo lungo approfondimento in 3 parti – sembra essere arrivata a un punto di svolta. Le mancanze della politica in questo settore, l’assenza di trasparenza e accountability sono state colmate dalle iniziative sparse della società civile (i ricercatori che hanno lavorato sui malware governativi, primi fra tutti Citizen Lab e Amnesty Tech, ma non solo loro, e poi i giornalisti che se ne sono occupati), dagli interessi e dalla discesa in campo di colossi tech, dalla nuova amministrazione americana che ha deciso di includere NSO nella sua entity list.
Il clima sta cambiando per tutto il settore. Anche se ancora manca un quadro regolatorio certo e anche se latitano i dati dettagliati sulle esportazioni di questi prodotti (l’Ue ci sta provando, ma col freno a mano tirato da alcuni Stati membri), esportare strumenti di sorveglianza in qualsiasi Paese senza controlli e remore è una scelta che alla lunga può diventare un boomerang, anche per le aziende che li producono.




Greenwashing e pubblicità ingannevole: prima azienda punita per comunicazione scorretta

Sostenibilità ambientale e rispetto per l’ambiente, siamo certi che sia sempre tutto vero ciò che leggiamo nella pubblicità? Il nuovo faro per l’industria è allontanarsi dall’uso di materiali di origine fossile (petrolio), per abbracciare la nuova onda green che avanza inesorabile anche in settori molto critici come quello dell’automobile e della moda, dove i materiali sintetici derivati dal petrolio rappresento percentuali elevatissime. In un mercato sempre più ispirato ai temi della “sostenibilità ambientale” e del “supporto al pianeta”, capita sempre più spesso che parole come “ecologico” o “amico dell’ambiente” vengano utilizzate per sostenere anche le caratteristiche di prodotti evidentemente di origine fossile per renderli più appetibili sia al grande pubblico dei consumatori sia a quello delle grandi aziende che utilizzano semilavorati.

Tutto questo può configurare un caso di comunicazione ingannevole che, in tema ambientale, viene definita “greenwashing”, ossia un tentativo di mascherare il reale impatto sull’ambiente prodotto da questi materiali. Per questo è destinata a fare giurisprudenza l’ordinanza cautelare del tribunale di Gorizia, la prima in Italia (tra le prime in Europa) in merito a una vicenda di comunicazione scorretta che riguarda una azienda friulana che commercializza materiali sintetici per il settore automotive e moda.

La segnalazione al tribunale friulano era arrivata dal colosso milanese Alcantara, azienda celebre per i suoi tessuti utilizzati nel settore auto e oggi in quello della moda e del lusso, che nei mesi scorsi aveva rilevato come una concorrente in particolare utilizzava claim fortemente impattanti dal punto di vista della coscienza ambientale per proporre prodotti evidentemente inquinanti. Il tribunale di Gorizia ha rilevato che “la sensibilità verso i problemi ambientali è oggi molto elevata e le virtù ecologiche decantate da un’impresa o da un prodotto possono influenzare le scelte di acquisto”.

Sebbene le normative in merito alle dichiarazioni ambientali siano spesso ancora piuttosto confuse e lascino spazio a diverse interpretazioni, con questa convinzione ha sancito che le “dichiarazioni ambientali verdi devono essere chiare, veritiere, accurate e non fuorvianti, basate su dati scientifici presentati in modo comprensibile”. Per questo ha riconosciuto come un potenziale pericolo per il mercato la commercializzazione di prodotti sintetici con claim quali per esempio: “La prima microfibra sostenibile e riciclabile”, “100% riciclabile”, “Riduzione del consumo di energia e delle emissioni di Co2 dell’80%”, “Amica dell’ambiente”, “Scelta naturale” e “Microfibra ecologica”. Laddove non esiste la possibilità di verificare in modo scientifico le caratteristiche.

Milano, 10 dicembre 2021 – Sostenibilità ambientale e rispetto per l’ambiente, siamo certi che sia sempre tutto vero ciò che leggiamo nella pubblicità? Il nuovo faro per l’industria è allontanarsi dall’uso di materiali di origine fossile (petrolio), per abbracciare la nuova onda green che avanza inesorabile anche in settori molto critici come quello dell’automobile e della moda, dove i materiali sintetici derivati dal petrolio rappresento percentuali elevatissime. In un mercato sempre più ispirato ai temi della “sostenibilità ambientale” e del “supporto al pianeta”, capita sempre più spesso che parole come “ecologico” o “amico dell’ambiente” vengano utilizzate per sostenere anche le caratteristiche di prodotti evidentemente di origine fossile per renderli più appetibili sia al grande pubblico dei consumatori sia a quello delle grandi aziende che utilizzano semilavorati.

Tutto questo può configurare un caso di comunicazione ingannevole che, in tema ambientale, viene definita “greenwashing”, ossia un tentativo di mascherare il reale impatto sull’ambiente prodotto da questi materiali. Per questo è destinata a fare giurisprudenza l’ordinanza cautelare del tribunale di Gorizia, la prima in Italia (tra le prime in Europa) in merito a una vicenda di comunicazione scorretta che riguarda una azienda friulana che commercializza materiali sintetici per il settore automotive e moda.

La segnalazione al tribunale friulano era arrivata dal colosso milanese Alcantara, azienda celebre per i suoi tessuti utilizzati nel settore auto e oggi in quello della moda e del lusso, che nei mesi scorsi aveva rilevato come una concorrente in particolare utilizzava claim fortemente impattanti dal punto di vista della coscienza ambientale per proporre prodotti evidentemente inquinanti. Il tribunale di Gorizia ha rilevato che “la sensibilità verso i problemi ambientali è oggi molto elevata e le virtù ecologiche decantate da un’impresa o da un prodotto possono influenzare le scelte di acquisto”.

Sebbene le normative in merito alle dichiarazioni ambientali siano spesso ancora piuttosto confuse e lascino spazio a diverse interpretazioni, con questa convinzione ha sancito che le “dichiarazioni ambientali verdi devono essere chiare, veritiere, accurate e non fuorvianti, basate su dati scientifici presentati in modo comprensibile”. Per questo ha riconosciuto come un potenziale pericolo per il mercato la commercializzazione di prodotti sintetici con claim quali per esempio: “La prima microfibra sostenibile e riciclabile”, “100% riciclabile”, “Riduzione del consumo di energia e delle emissioni di Co2 dell’80%”, “Amica dell’ambiente”, “Scelta naturale” e “Microfibra ecologica”. Laddove non esiste la possibilità di verificare in modo scientifico le caratteristiche.https://0f5dbf2cc5055ede443834a0c4ddc7ba.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-38/html/container.html?n=0

Il Tribunale ha ordinato all’azienda friulana a rimuovere i claim e a pubblicizzare l’ordinanza sia sul suo sito sia attraverso comunicazione diretta ai clienti, tra i quali anche marchi molto noti dell’auto. “L’iniziativa realizzata con Alcantara può diventare una prima fondamentale case history che in tema di greenwashing può essere caso di giurisprudenza – ha detto Elena Stoppioni, presidente dell’associazione Save the Planet – Non è tutto green quello che viene presentato come tale e i danni, in termini di concorrenza, possono essere elevati. Infatti secondo un recente studio condotto da McKinsey, sono circa il 70% i consumatori che nelle loro scelte di acquisto sono pronti a optare per prodotti eco-friendly rispetto a quelli tradizionali, anche pagando prezzi più elevati. È evidente quindi come eventuali dichiarazioni non veritiere sul fronte green non solo danneggiano la competitività delle aziende più rigorose, ma sono in grado di influenzare i comportamenti dei consumatori, ingannandoli”.

Il danno può essere anche di carattere strettamente finanziario poiché le obbligazioni green a fine 2021 potrebbero superare i 1.000 miliardi di dollari. È una massa enorme di risorse a cui le aziende possono attingere. Ma è necessario svenare qualsiasi pericolo di greenwashing. Secondo un sondaggio di Quilter questa è la principale preoccupazione per quasi metà degli investitori (44%). “Dopo le decisioni dell’Antitrust e del Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria, anche la magistratura ordinaria ha affermato che la sensibilità dei consumatori verso i problemi ambientali è oggi molto elevata e le virtù ecologiche decantate da una impresa o da un prodotto possono influenzare le scelte di acquisto del consumatore – sottolinea l’avvocato Gianluca De Cristofaro, socio di LCA Studio Legale che ha curato la causa per Alcantara – Pertanto è importante che le dichiarazioni ambientali “verdi” siano chiare, veritiere e accurate, e basate su dati”.

Anche per Antonello Ciotti, presidente Cpme (Associazione Europea dei produttori di Poliestere) questa ordinanza “che inibisce la comunicazione e la diffusione di qualsiasi informazione non verificabile sul contenuto della percentuale di riciclo è una pietra miliare verso una giusta eliminazione di tutti i comportamenti scorretti che possono tradire la fiducia dei consumatori oltre che ingenerare concorrenza sleale”. Sono ancora molte le problematiche aperte dal concetto di materiale riciclato. “La direttiva europea sulla plastica richiede entro il 2025 che in ogni Paese membro ogni bottiglia contenga almeno il 25% di Pet riciclato. Ma nulla dice rispetto al fatto che da fuori Europa possano giungere prodotti che non sono in grado di certificare gli stessi standard”. Entrambe le parti potranno proporre reclamo contro l‘ordinanza.




Canon in Cina fa entrare in ufficio solo i dipendenti che sorridono (o fingono di farlo)

Canon in Cina fa entrare in ufficio solo i dipendenti che sorridono (o fingono di farlo)

Vedere i dipendenti di un’azienda sorridere sul posto di lavoro può essere senz’altro indice di armonia e buon umore. Non così però se il sorriso, tutt’altro che spontaneo, viene utilizzato come pass biometrico per accedere ai diversi ambienti dell’ufficio. Come riporta il Financial Times, è quanto sta accadendo in Cina nella sede di Canon Information Technology, una sussidiaria del celebre marchio giapponese di macchine fotografiche (e molto altro), dove è stato installato un circuito di telecamere con tecnologia di «riconoscimento del sorriso» basato sull’intelligenza artificiale: chi non dà l’impressione di essere sempre felice e contento non ha libertà di movimento tra le stanze del quartier generale. Un sistema lanciato dalla stessa Canon lo scorso ottobre allo scopo di portare più allegria in era post pandemica, ma che non poteva non determinare esiti paradossali. Che si sia reduci da un rimprovero del capo, da un litigio con un collega o da qualsiasi altro evento spiacevole, occorre infatti non esimersi mai dallo sfoggiare un sorriso a trentadue denti davanti all’obiettivo. Poco importa se in maniera forzata. Ciò che conta è l’apparenza, pena la mancata apertura delle porte.

Come in «1984»

Se già a questo punto può essere più che lecito considerare quello di Canon Information Technology un ambiente di lavoro distopico, si consideri che in molte altre realtà cinesi la situazione è ancor più assimilabile al futuro immaginato da George Orwell in «1984». Sempre il Financial Times ha infatti riferito che non è ormai raro, nel Paese del Dragone, che le aziende monitorino costantemente i computer dei dipendenti per quantificarne la produttività, che utilizzino la videosorveglianza per misurare la lunghezza delle loro pause pranzo o che ne traccino addirittura i movimenti all’esterno degli uffici attraverso apposite app di geolocalizzazione. «I lavoratori oggi non vengono sostituiti dagli algoritmi e dall’intelligenza artificiale. Al contrario, la loro gestione viene in qualche modo accresciuta da queste tecnologie – ha dichiarato sull’argomento Nick Srnicek, docente di Digital Economy al King’s College di Londra –. Proprio le tecnologie stanno aumentando il ritmo delle persone che lavorano con le macchine anziché rallentarlo, proprio come accaduto durante la rivoluzione industriale nel diciottesimo secolo».

Problema anche occidentale

Nulla di cui stupirsi, si potrebbe pensare, essendo quello cinese un modello politico e socioeconomico autoritario che non si fa scrupoli nel comprimere la libertà dei cittadini. Invece basta pensare per esempio al consenso biometrico che gli autisti Amazon sono obbligati a firmare negli Usa (per non parlare dell’ipotesi del braccialetto elettronico nei magazzini) o ai molti software con cui è possibile spiare i dipendenti da remoto per comprendere come quello della sorveglianza a ciclo continuo in nome della produttività sia un problema anche occidentale. La stessa produttività che, facendo rima con profitto, può indurre a rinunciare scientemente perfino alle più basilari misure di sicurezza, come dimostrato in Italia dai tragici casi di Luana D’Orazio e della funivia del Mottarone. Ma le moderne tecnologie possono anche essere utilizzate per implementare sistemi di sorveglianza di massa basati sul riconoscimento facciale (da Rekognition a Clearview AI): un Far West che l’Unione Europea, su impulso di numerose associazioni sparse sul territorio comunitario, sembra ormai decisa a regolamentare. A quel punto sì che si avrà davvero motivo di sorridere.




La società che ha ingegnerizzato l’influencer marketing. E creato una villa accademia per i tiktoker

La società che ha ingegnerizzato l’influencer marketing. E creato una villa accademia per i tiktoker

Un’azienda con 150 influencer sotto contratto, collaborazioni con altri 400 oltre ai 23 ragazzi nella Stardust House di Capriano, in Brianza. Questo è l’universo di Stardust, l’azienda di influencer marketing che ha collaborato con diverse importanti società internazionali come Poste Italiane, Kfc ed Fca (oggi Stellantis). Tutto questo, dopo poco meno di un anno e mezzo di attività.

In particolare, ha fatto molto parlare l’iniziativa di creare una villa-accademia per i Tiktoker, la Stardust House appunto. Qui gli influencer vengono formati in modo professionale con corsi di inglese, recitazione, canto, produzione e post produzione video. “L’abbiamo aperta il 4 luglio del 2020”, spiega Simone Giacomini, cofondatore e presidente di Stardust durante la sua intervista a Forbes Leader. “L’idea era di coinvolgere creator di TikTok per farli crescere, attraverso la formazione e favorendo l’interazione tra i 23 ragazzi della casa”.

Giacomini, che ha fondato la società insieme ad altri soci, ha raccontato di avere miscelato una dozzina di tiktoker con un pubblico importante (da 1 milione a 2 milioni di audience) con altri emergenti. “Questa è una cosa che ha funzionato moltissimo”, prosegue, “nomino l’esempio di Samara Tramontana, una ragazza che fino allo scorso febbraio sui social non esisteva. Ora ha oltre mezzo milione di follower su Tik Tok e 150 mila su Instagram. Noi volevamo realizzare quello che in America esista da sempre: una sorta di scuola Disney, dove sono nati talenti come Ariana Grande e Selena Gomez. Il nostro è un hub creativo dove si studia e ci si prepara”.

Tutto questo con l’intento di creare un realtà in grado di industrializzare il mondo dell’influencer marketing, composto ancora oggi da tante personalità singole e non organizzate. “Noi volevamo industrializzare il processo dell’influencer marketing”, continua il presidente di Stardust, “lo abbiamo fatto con la decisione di dare una garanzia ai ragazzi, i quali per la maggior parte prendono un compenso garantito mensile che va dai 500 fino ai 3.000 euro al mese. Quindi non devono più rincorrere i brand, ma si possono dedicare alla creazione di contenuti”.

E anche il cliente finale di Stardust, ovvero le aziende, possono comunque contare sulla realizzazione di contenuti professionali. “C’è la filiera stardust che garantisce al brand un’ottima qualità, perché abbiamo un direttore di produzione, gli account che li seguono, e riusciamo a offrire loro sempre contenuti che siano in linea con l’azienda”.

Di questo e di altri temi si è parlato nell’intervista a Forbes Leader che si può trovare qui di seguito.




L’Italia al centro della ricerca sul nucleare “pulito e sicuro”

L'Italia al centro della ricerca sul nucleare "pulito e sicuro"

L’obiettivo dichiarato è sviluppare una tecnologia “pulita e sicura”. Da queste basi, si è costituita ufficialmente newcleo, un’azienda impegnata nel settore dell’energia nucleare e con sede a Londra, ma che inizialmente baserà il suo team di ricerca qui in Italia, a Torino.

La neonata società ha annunciato la chiusura di un primo round di finanziamenti da 118 milioni di dollari (poco più di 100 milioni di euro), a cui hanno partecipato Exor Seeds, LIFTT e Club degli Investitori di Torino. E poi c’è stata l’acquisizione di Hydromine Nuclear Energy (HNE).

Le tecnologie

A “benedire” la nascita di newcleo è stato il premio Nobel e senatore a vita Carlo Rubbia, inventore degli Accelerator Driven Systems (ADS) ai tempi in cui era direttore al Cern di Ginevra. Si tratta proprio di una delle tecnologie usate dalla nuova azienda ed è basata “sull’accoppiamento di un reattore subcritico con un acceleratore di particelle”, specifica la società.

Gli altri sistemi usati sono i “Lead Fast Reactors (LFR), che utilizzano il piombo come refrigerante anziché acqua o sodio”, e “l’uso di combustibile naturale al torio”. Tutto questo, scrive newcleo, porta a diversi risultati:

  • “ridurre drasticamente il volume dei rifiuti radioattivi prodotti, eliminando la necessità di un deposito geologico per gli elementi transuranici;
  • uso molto più efficace del combustibile esistente all’uranio, mentre si procede verso l’uso del torio naturale;
  • evitare incidenti nucleari poiché il nocciolo del reattore rimane sempre subcritico e la cascata nucleare può essere interrotta istantaneamente spegnendo l’acceleratore”.

Il team e la missione

Con Stefano Buono come ceo, un team di 100 “innovatori energetici” sarà guidato da un comitato scientifico per sviluppare un primo progetto chiamato “Re-Act”, che viene definito come “un microreattore modulare a piombo liquido con importanti applicazioni commerciali, per esempio nel settore navale”.

L’obiettivo è realizzare in 5 anni “un prototipo industriale non nucleare a grandezza naturale in collaborazione con ENEA (Agenzia Nazionale per le Nuove Tecnologie, l’Energia e lo Sviluppo Economico Sostenibile)”, che ha un polo a Frascati per progetti sulla fusione nucleare: una tecnologia che piace anche al ministro Cingolani.