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Su Twitter “vince” la destra, l’azienda ammette il bias dell’algoritmo

Su Twitter “vince” la destra, l’azienda ammette il bias dell’algoritmo

L’unico Paese in cui l’algoritmo di Twitter appare “imparziale” è la Germania. Ma in Canada, Francia, Giappone, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti i contenuti politici di destra vengono amplificati rispetto a quelli di sinistra. Lo ammette la stessa azienda nel suo blog rivelando i risultati di una ricerca interna secondo cui, spesso, l’algoritmo che mostra i post agli iscritti, preferisce contenuti “conservatori”.

I risultati dello studio

Nel complesso, e soprattutto nei periodi pre-elettorali, i contenuti politici finiscono con l’avere una predominanza sugli altri e, di questi, ad essere stati mostrati più frequentemente sono stati quelli di destra. Tuttavia, Twitter non sa ancora cosa abbia causato lo sbilanciamento. La società ha sottolineato che “l’amplificazione algoritmica non è problematica in sé: tutti gli algoritmi finiscono con l’amplificare i contenuti a cui sono applicati. Diventa problematica se sorge un trattamento preferenziale in funzione di come l’algoritmo è costruito, rispetto alle interazioni che le persone hanno con esso”.

L’azienda annuncia di voler coinvolgere ricercatori esterni, così che possano aiutarla a migliorare i sistemi alla base dell’organizzazione automatica dei contenuti. Non è la prima volta che Twitter evidenzia un apparente pregiudizio nel suo algoritmo. In altre occasioni i ricercatori avevano ipotizzato che la differenza nell’amplificazione potrebbe essere dovuta alle “diverse strategie” utilizzate dai partiti politici per raggiungere il pubblico sulla piattaforma.

Il confronto fra le timeline

Lo studio ha confrontato la timeline “Home” di Twitter – il modo predefinito in cui vengono serviti i tweet ai suoi 200 milioni di utenti, in cui un algoritmo adatta ciò che gli utenti vedono – con la timeline cronologica tradizionale in cui i tweet più recenti vengono classificati al primo posto.

La ricerca ha rilevato che in sei paesi su sette, a parte la Germania, i tweet dei politici di destra hanno ricevuto più amplificazione dall’algoritmo rispetto a quelli di sinistra; le testate giornalistiche di destra erano più amplificate di quelle di sinistra; e in genere che i tweet dei politici erano più amplificati da una linea temporale algoritmica che dalla linea temporale cronologica.

Secondo il documento di 27 pagine, un valore dello 0% significava che i tweet raggiungevano lo stesso numero di utenti sia sulla timeline personalizzata sia su quella cronologica, mentre un valore del 100% significava che i tweet raggiungevano il doppio della copertura. Su questa base, la discrepanza più forte tra destra e sinistra è stata in Canada (liberali 43%; conservatori 167%), seguita dal Regno Unito (laburisti 112%; conservatori 176%). Anche escludendo i massimi funzionari del governo, i risultati sono stati simili, afferma il documento.

Il motivo rimane ancora sconosciuto

Twitter spiega che non è chiaro il motivo della distorsione e annuncia che potrebbe essere necessario modificare il suo algoritmo. Un post sul blog di Rumman Chowdhury, Director of Meta (ML Ethics, Transparency, and Accountability team), Twitter, e Luca Belli, ricercatore di Twitter, afferma che i risultati potrebbero essere “problematici” e che saranno necessari ulteriori studi.

“L’amplificazione algoritmica è problematica se esiste un trattamento preferenziale in funzione di come l’algoritmo è costruito rispetto alle interazioni – si legge nel blog -. È necessaria un’ulteriore analisi della causa principale per determinare quali modifiche, se del caso, sono necessarie per ridurre gli impatti negativi del nostro algoritmo”.

La ricerca verrà resa disponibile agli accademici e consentirà a terze parti un accesso più ampio ai propri  dati: una mossa che, secondo alcuni osservatori, potrebbe esercitare pressioni su Facebook affinché segua il suo esempio.




Renzi denunciava profili fake e bufale, mentre la sua Bestia creava “account falsi” e pagava 260mila dollari per un software israeliano in grado di influenzare il voto

Renzi denunciava profili fake e bufale, mentre la sua Bestia creava “account falsi” e pagava 260mila dollari per un software israeliano in grado di influenzare il voto

“Non perdete tempo e partite. Altro che privacy. I nomi li sappiamo. Dai!”. È il 20 settembre del 2016 e al referendum costituzionale mancano ormai poco più di due mesi. Matteo Renzi impugna il suo telefono e risponde a una mail ricevuta da Fabio Pammolli, docente universitario e consulente del suo governo. Il messaggio di posta fa il punto sulle attività in corso sui social network. Tra le altre cose Pammolli spiega che in quel momento avevano la possibilità di interagire con un’ottantina di pagine facebook per un totale di 20 milioni di contatti, che avevano delineato una strategia basata su messaggi veicolati da persone non associabili alla campagna per il Sì (cita pure gestori di pagine come “calciatori brutti” e “mamme stressate”) e che avevano ottimizzato una lista di attivisti, stabilendo chi doveva essere amico di chi altro. Qui però il renziano chiede al capo un via libera preliminare: il timore, spiega, è che vedendosi inoltrare continui suggerimenti di amicizia qualcuno prima o poi avrebbe potuto lamentare una violazione della propria privacy. È a quel punto che Renzi risponde secco: “Altro che privacy”. C’è anche questo agli atti dell’inchiesta della procura di Firenze sulla fondazione Open. Decine di informative lunghe migliaia di pagine, elaborate sulla base delle mail e delle chat sequestrate agli indagati, che documentano come sia esistita una struttura organizzata e coordinata per il sostegno e la propaganda di Renzi sul web.

La Bestia del Giglio magico

Il team somiglia molto alla nota Bestia leghista creata da Luca Morisi. Alla versione renziana lavorano quasi sempre dagli stessi personaggi, molto vicini all’ex segretario del Pd sin dai tempi di Palazzo Chigi: oltre a Pammolli, Marco Carrai e il suo socio Giampaolo Moscati, poi ci saranno anche la giornalista Simona Ercolani, il marito Fabrizio Rondolino, il responsabile della sicurezza informatica Andrea Stroppa. Questo gruppo userà anche complessi – e costosi – software, come Tracx e Voyager analitics della società di diritto israeliano Bionic Ltd. A procurarli è Carrai, l’imprenditore da sempre molto vicino a Renzi. A cosa servono? Permettono di misurare il sentiment sui social, determinare chi sono gli utenti più seguiti su certi argomenti e individuare gli account fake. Secondo Carrai serviranno per “monitorare e influenzare la campagna”, visto che riescono a trovare per ogni singola persona il gruppo di riferimento, cosa pensa, chi la influenza e come. Il costo? Molto alto: Voyager è stato pagato 260mila dollariTracx invece 60mila euro. Cifre che provocano la reazione anche di Alberto Bianchi, presidente di Open, preoccupato per l’eccessivo esborso. Quei soldi, infatti, arrivano quasi tutti dalla fondazione, così come da Open arrivavano i fondi per stipendiare il gruppo che spingeva la figura di Renzi sui social. Ecco perché per gli inquirenti questa storia è molto interessante: secondo l’accusa dimostra che Open si comportava come una vera articolazione del partito. Val la pena sottolineare che quanto tratteggiato in questi atti non è penalmente rilevante e che nessuna delle persone citate è indagata, fatta eccezione per Matteo Renzi e Marco Carrai, ma per altri fatti. Andiamo con ordine.

Da via Giambologna a via Giusti: le due vite della Bestia

Il gruppo social del Giglio magico è un team che ha due vite: nasce per volere di Renzi con l’obiettivo di sostenere il “sì” al referendum, inizia a lavorare nella sede di via Giambologna a Firenze, ma in seguito si sposterà in via Giusti. Per questo motivo sarà chiamato anche “gruppo di via Giusti” per distinguerlo dal “gruppo posta”, che era composto da cinque persone e gestiva la casella di posta elettronica di Renzi. Al gruppo social, invece, lavorano una ventina di ragazzi: l’obiettivo è contenere i commenti negativi che comparivano sui profili di Renzi, sulla pagina del Pd e degli altri big dem. “Ci avevano chiesto di creare anche almeno 10 profili social non veri sempre per contenere i commenti negativi al referendum”, ha raccontato agli investigatori uno dei componenti del gruppo. Sono dunque account fake quelli che vengono creati dalla Bestia del Giglio magico? Di sicuro c’è solo che più volte in passato Renzi si è scagliato contro imprecisati profili farlocchi, creati a suo dire solo con l’obiettivo di attaccarlo. Il 24 novembre del 2017, per esempio, l’ex premier si scaglia contro “una vera industria del falso, con profili social altamente specializzati in diffusione di bufale, fake news, propaganda”. Renzi spiegava che in quel “c’è chi inquina in modo scientifico il dibattito politico sul web diffondendo notizie false solo per screditare gli avversari. Noi lo sappiamo bene, perché ne siamo vittima ogni giorno. E ogni giorno che passa si scoprono notizie più inquietanti sulle modalità di diffusione di queste bufale”. Nel suo post Renzi spiega che di questo parlerà alla Leopolda e avverte: “Astenersi troll e profili falsi, grazie. Tanto ormai vi sgamiamo subito”. Sette mesi prima, nel marzo del 2017, Alexander Marchi, coordinatore del team comunicazione, aveva inviato a Ercolani e Carrai un email con allegato l’elenco “dei nostri alternativi”. Dentro c’è uno schema: 16 persone gestiscono in totale 128 account tra facebook e twitter. Oggi sono quasi tutti disattivati: quelli rimasti online sono inattivi dal 2017 e fino ad allora postavano contenuti contro i 5 stelle e pro Renzi.

Carrai e il programma israeliano per influenzare la campagna referendaria

È in piena campagna per il referendum che invece scende in campo Carrai con i programmi israeliani: il 20 maggio del 2016 l’imprenditore informa Renzi di aver dato via libera a prendere due “software fenomenali” che tra le altre cose riescono a mappare le persone sul web, a capire cosa pensano e da cosa vengono influenzate. Secondo Carrai serviranno per “monitorare e influenzare la campagna”, visto che riescono a trovare per ogni singola persona il gruppo di riferimento, cosa pensa, chi la influenza e come. “Sarà una cosa mai vista”, scrive. Dieci giorni dopo sempre Carrai informa di avere una riunione con “gli israeliani” di Voyager. L’incontro si tiene il 6 giugno e secondo gli investigatori è verosimile che nella prima parte avesse partecipato lo stesso Renzi. Infatti Carrai scrive: “Dopo che siete usciti siamo entrati nell’operativo”. Cos’è l’operativo? Una serie di passaggi tecnici: dall’analisi dei macro temi che possono influenzare le opinioni fino all’analisi di “possibili Benigni“. Pochi giorni prima, infatti, Roberto Benigni si era esposto pubblicamente per il Sì al referendum. Carrai spinge: spiega che bisogna mettere su una task force di almeno cinque persone con uno psicologo cognitivo, un esperto di media e un referente politico che fornisca i messaggi da diffondere. La task force è necessaria perché i software da soli non bastano: “Si rischia di avere una Ferrari e utilizzarla per andare in giro in città”.

La fase 2 e la “propaganda antigrillina”

Dalle carte in mano agli investigatori si evince che Renzi non osserva soltanto il lavoro di Carrai e degli altri. Più volte chiede d’intervenire, per verificare per esempio il consenso delle varie categorie professionali sul suo lavoro. Per tutta l’estate e durante l’autunno l’allora premier è costantemente informato dell’operato del gruppo social, considerato molto utile proprio perché in grado di capire in tempo reale l’opinione dell’elettorato sul web. Il 29 novembre è Stroppa che scrive all’allora premier per spiegare come gli indecisi decideranno negli ultimi giorni, citando anche la strategia di Donald Trump, che poche settimane prima era stato eletto alla Casa Bianca. Il lavoro è enorme se i renziani arrivano a menzionare l’odiato presidente americano, ma non porta al risultato sperato. Dopo la sconfitta al referendum comincia quella che sembra essere una fase 2: “Affiora la volontà di attuare una ‘strategia social a sostegno di Renzi e, nei primi mesi del 2017, di realizzare una struttura ‘di propaganda antigrillina”, è come la descrivono gli inquirenti. È il 7 gennaio quando Renzi inoltra a Carrai una mail ricevuta da Rondolino. L’oggetto è “Antigrillo” e in allegato c’è un documento che si chiama “Tu scendi dalle Stelle”. “Caro Matteo – scrive l’ex Lothar di Massimo D’Alema – eccoti un primo appunto sulla struttura di propaganda antigrillina che ho preparato con Simona in questi giorni”. In fondo c’è un post scriptum con un consiglio: “Se già non lo usi, ti consiglio questo sistema di posta criptata”. Il cuore del documento allegato invece è rappresentato da una riflessione: dopo il Movimento per gli elettori dei 5 stelle c’è soltanto l’astensione e non invece il ritorno all’ovile del Pd. Per questo Rondolino scrive: “Non dobbiamo perdere tempo a riconquistare l’elettorato: dobbiamo spingerlo a non votare più”.

Quanto costa la Bestia fiorentina

Ecco perché gli investigatori spiegano che l’attività di propaganda sul web relativa al refererendum “è parte di un progetto più ampio voluto da Renzi per contrastare la presenza sul web del Movimento 5 Stelle”. Analizzando le email sequestrate a Carrai la Guardia di Finanza ha documento che l’attività social della Bestia renziana è proseguita con gli “stessi attori” e uno schema organizzativo ben definito, sia durante la campagna per le Primarie del Pd del 2017 e fino alle elezioni Politiche 2018, seppur con un impiego economico nettamente minore. Di soldi, in effetti, la struttura social del Giglio deve costarne parecchi. In una mail del 17 marzo del 2017 che Carrai invia a Renzi si prevede un totale dei costi da 931mila euro, più almeno 57mila euro al mese per il gruppo di via Giusti.

Una Bestia di nome Bob

Denaro che serve, tra le altre cose, per lo sviluppo di una piattaforma social media, per l’analisi dei contenuti social, per il sito internet In cammino. Ci sono poi 25mila euro, arrivati sempre da Open, usati per Bob, una piattaforma che avrebbe dovuto fare da contraltare a Rousseau. Per lavorarci viene creata una chat in cui ci sono tutti: Carrai, Ercolani, Rondolino ma pure esperti di marketing come Cristiano Magi e Paolo Dello Vicario, statistici come Valentina Tortolini. Il gruppo si anima quando c’è da trovare un nome alla nuova piattaforma: “Noi stiamo pensando a un nome tipo Holden o acronimo”, scrive Ercolani. Tortolini chiede: “In inglese no?”. Pammolli scherza e propone: “Cav“. Acronimo di cavaliere? No: “Collettivo autonomo viola“. Tortolini propone: “Go on“. Pammolli replica: “Tutto perché non volete Avanti …. banda di post democomunisti“. In effetti il professore sembra uno di quelli più ironici. Infatti poco dopo propone di chiamare “Bettino” la piattaforma social di Renzi. Ercolani invece vorrebbe solo “On”, che a un certo punto sembra il nome prescelto. Ma interviene Carrai per portare un po’ di serietà: “Prendete tutti quelli che hanno fatto mi piace suo post di Matteo. E fateci un database e datemelo, chi lo fa?”. Alla fine arriva Pammolli con la decisione definitiva: “Sembra Bobby, riferito a Bob Kennedy“. Carrai non è soddisfatto: “Alla fine del parto che sembrava la scelta del nome di un figlio avete partorito il nome di un cane”. Rondolino allarga le braccia: “Non noi, il principe“.




Facebook pronta a cambiare nome. Così Zuckerberg proverà a smarcarsi dal social

Facebook pronta a cambiare nome. Così Zuckerberg proverà a smarcarsi dal social

Lo ha già fatto Google, che da qualche tempo si chiama Alphabet. E adesso potrebbe toccare anche a Facebook. Secondo quanto riporta il sito TheVerge, infatti, il colosso di Menlo Park starebbe pensando di cambiare nome a partire dalla prossima settimana. Attenzione, chiariamo subito un equivoco: non sarebbe il social network Facebook a cambiare nome, ma l’azienda Facebook Inc., che detiene molti altri servizi e piattaforme a partire da WhatsApp e Instagram.

Cambio di strategia

Il prossimo cambio di nome, che Mark Zuckerberg potrebbe svelare durante “Connect”, la conferenza annuale in programma il prossimo 28 ottobre, sembra avere uno scopo ben preciso e ambizioso. Per Facebook è arrivato il momento di essere conosciuto per qualcosa di più dei social media (e di tutti i mali che ciò comporta). È indubbio che con il rebrand, l’app blu di Facebook diventerebbe uno dei prodotti della società come WhatsApp, Instagram, Oculus e altri. E Zuckerberg proverebbe così a svincolare l’intera azienda dal social network che nell’ultimo periodo è un mix molto aleatorio di gioie e dolori.

E forse tutto questo servirebbe anche per procedere in modo spedito verso l’obiettivo ormai dichiarato: il metaverso. Facebook ha già più di 10.000 dipendenti che costruiscono hardware di consumo come gli occhiali AR che Zuckerberg ritiene che alla fine saranno onnipresenti come gli smartphone. Qualche mese fa, il ceo ha detto che nei prossimi anni, «passeremo effettivamente da persone che ci vedono principalmente come una società di social media a una società del metaverso».

L’esempio di Google

Come detto in apertura, Facebook non sarebbe la prima grande azienda tecnologica a cambiare il nome della società. Nel 2015, Google si è riorganizzata interamente sotto una holding chiamata Alphabet, in parte per segnalare che non era più solo un motore di ricerca, ma un conglomerato tentacolare con aziende che producono auto senza conducente, smartphone, tecnologia ad uso sanitario e molto altro. Anche Snapchat è stato rinominato in Snap Inc. nel 2016. La prossima dovrebbe essere Facebook. Sulle ipotesi del nuovo nome, però, non traspare nessun indizio. Almeno per ora.




In Olanda 200 casse «lente» al supermercato contro la solitudine degli anziani

In Olanda 200 casse «lente» al supermercato contro la solitudine degli anziani

Fare la spesa lentamente, senza preoccuparsi di dover poggiare sul rullo, in tempi da record, i prodotti dentro il carrello. Fermarsi a chiacchierare con la cassiera o il cassiere, senza pensare alla fretta della persona in coda dietro di noi. Tornare a immaginare (anche) il supermercato non come «un non luogo», ma come uno spazio di socialità, soprattutto per gli anziani. È questa l’idea del programma lanciato dal governo olandese «Uno contro la solitudine» («One Against Loneliness»), con il quale l’esecutivo di Mark Rutte vuole combattere (anche) la piaga dell’isolamento delle persone della terza età. In 200 supermercati del Paese — nel 20222 — verrò lanciata l’idea della «cassa leggera» — «Kletskassa» — per chi vuole, anzia desidera, fare la spesa tranquillamente. Accompagnata da altri esempi: nei Paesi Bassi gli studenti universitari possono — ad esempio — evitare di pagare l’affitto nel caso in cui decidano di anziani residenti come coinquilini.

In Olanda sono 1,3 milioni le persone che hanno più di 75 anni (su un totale di 17 milioni), e più della metà di loro afferma di sentirsi sola, come dimostra un sondaggio del 2019 della Statistics Netherlands«Il 26 per cento degli olandesi di età superiore ai 15 anni si sente “moderatamente solo”, e questa proporzione sale al 33 per cento tra gli over 75», si legge nella ricerca che chiarisce come la solitudine possa essere intesa come un senso di isolamento sociale o emotivo. E ancora: «Il 12 % di tutte le persone di età pari o superiore a 15 anni sperimenta un grave isolamento sociale, tanto che l’ 8% ha riferito di sentirsi spesso emotivamente isolato». Le persone single e i genitori soli «hanno maggiori probabilità di segnalare l’isolamento sociale rispetto alle coppie e ai bambini che vivono in casa. La solitudine moderata è più diffusa tra gli anziani che tra le persone di età inferiore ai 75 anni», tanto che una persona su 3 di età pari o superiore a 75 anni dichiara di sentirsi un po’ sola, mentre la quota è di circa 1 su 4 tra gli under 75.

L’idea del progetto è quella di «aiutare le persone a stabilire un contatto reale con i cassieri. Un piccolo gesto, ma molto prezioso», spiega afferma Colette Cloosterman-van Eerd, chief creative officer di Jumbo, la catena di supermercati che ha deciso di aprire le casse «relax» nei Paesi Bassi. «I nostri negozi sono un importante luogo di incontro per molte persone e vogliamo giocare un ruolo nella riduzione della solitudine».

La condizione di solitudine dei cittadini, in particolare quelli anziani, non riguarda — ovviamente — solo l’Olanda. A livello globale, infatti, il 41% delle persone ha dichiarato di essere diventato più solo nei sei mesi precedenti, a partire da marzo 2020. Tanto che il metodo della «chat checkout» sta prendendo piede in diverse parti del mondo: in Scozia, ad esempio, il marchio Sainsbury’s ha aperto l’anno scorso delle «relaxed lanes file relax», casse in cui c’è il tempo per fare anche amicizia con gli altri clienti in coda. Sempre in Scozia, Tesco ha previsto delle casse speciali per chi ha bisogno di più tempo, compresi i malati di patologie come l’Alzheimer. In Francia l’idea era stata sperimentata prima dei lockdown da un Carrefour e, visto il successo all’estero, potrebbe tornare in voga.




Cyberspazio, troppe aree grigie: l’Italia spinge su un upgrade delle norme internazionali

Nel cyberspazio quale legge si applica? E come può uno Stati difendersi, o reagire, di fronte a un cyberattacco? Il dibattito per stabilire le regole del mondo cibernetico è tutto aperto. L’Italia dà il suo contributo con un nuovo position paper (SCARICABILE QUI) inviato dal ministero degli Affari esteri alle Nazioni Unite in cui si sottolinea il valore della legge internazionale, ma si portano anche all’attenzione alcune aree grigie su cui occorre trovare un’interpretazione o applicazione univoca della legge.

Uno dei nodi essenziali è rappresentato dalle possibili violazioni del principio di non intervento nel cyberspazio. Questo è particolarmente vero nel caso di attività volte a influenzare le politiche di uno Stato, come la sua capacità di salvaguardare la salute pubblica in caso di una pandemia, o a manipolare le intenzioni di voto.

Protezione della sovranità nel cyberspazio e violazioni del principio di non intervento; applicazione della legge sulla responsabilità internazionale degli Stati alle attività svolte nel cyberspazio; cyber-operazioni e uso della forza; applicazione della legge internazionale sui diritti umaniruolo degli stakeholder privati; cooperazione internazionale nel cyberspazio, sono i temi affrontati nel paper su “applicabilità del diritto internazionale allo spazio cibernetico: contributo a dibattito multilaterale per stabilità e sicurezza internazionali”.

La sovranità nel cyberspazio e il principio di non intervento

La legge internazionale, si legge nel documento, è ritenuta dal nostro Paese “applicabile al cyberspazio” e “strumento fondamentale per assicurare un comportamento responsabile nel cyberspazio”.  Ciò è in linea col supporto dato dall’Italia al valore della legge sia su scala nazionale che internazionale e alla fiducia del nostro Paese nell’ordine e nella cooperazione internazionale basati sulle regole.

Tuttavia occorre continuare la discussione su alcuni punti, perché l’Italia non ha dubbi sul fatto che la legge internazionale si applichi al cyberspazio ma “è consapevole che il modo in cui si applicano le regole e i principi attuali della legge internazionale dà luogo a significative difficoltà inerenti alle caratteristiche tecniche del cyberspazio”.

L’Italia, per esempio, attribuisce importanza fondamentale all’applicazione del principio di sovranità nel cyberspazio, incluse le regole ancillari, come il diritto all’auto-determinazione.

Nel caso dell’uso della forza, l’Italia sottolinea le limitazioni della International humanitarian law, che si applica alla condotta dei belligeranti con effetti negativi sui civili in un conflitto armato, e afferma che riconoscerne l’applicabilità al cyberspazio non significa incoraggiare o permettere l’uso della forza come strumento di aggressione o risoluzione delle dispute internazionali.

Le attribuzioni di responsabilità e la difesa dei diritti umani

Di chi è la responsabilità di una violazione nel cyberspazio? La pervasività delle tecnologie non sempre rende facile o possibile risalire agli attori di una cyber operazione che viola le regole internazionali. Questo è un altro ambito in cui l’Italia invita ad approfondire il dibattito. Il nostro Paese riconosce l’applicabilità della legge come codificata dagli Arsiwa, gli articoli dell’International law commission sulla responsabilità degli Stati per azioni illegittime internazionali. Ma il cyberspazio ha caratteristiche peculiari che rendono difficile, nel concreto, applicare queste norme.

Oltre all’attribuzione delle responsabilità, il position paper passa in rassegna l’aspetto della due diligence, che richiede agli Stati di adottare tutte le misure ragionevoli sulle attività nel cyberspazio che ricadono nella loro giurisdizione al fine di prevenire, eliminare o mitigare possibili ricadute sugli interessi legittimi di un altro Stato o della comunità internazionale.  Per l’Italia l’obbligo di due diligence deve includere, tra l’altro, la difesa dei diritti umani e della pace e della sicurezza internazionale. 

Di conseguenza, gli Stati hanno l’obbligo di non consentire che il loro territorio o le loro infrastrutture Ict siano usate per condurre attività cybercriminali da parte di attori governativi o non governativi.

Il position paper affronta infine la questione delle contromisure in caso di cyberattacco. Il diritto all’auto-difesa è inviolabile, ma l’adozione di contromisure adeguate all’attacco cibernetico è resa complicata, tra l’altro dalla difficoltà nel tracciamento, nella valutazione della violazione e nella stima del danno subito.

In ogni caso le contromisure non devono arrivare alla minaccia o all’uso della forza e devono restare coerenti con le norme vigenti e il rispetto dei diritti umani.

Il ruolo degli attori privati nel cyberspazio

Dato il ruolo fondamentale del settore privato nel cyberspazio, l’Italia considera la cooperazione pubblico-privata essenziale per garantire la cybersicurezza e la costruzione di infrastrutture e strumenti adatti a gestire e difendere il cyberspazio.

Le attività del cyberspazio possono anche danneggiare gli attori privati, sia singolarmente che come parte di un’alleanza con lo Stato per la costruzione e la gestione delle infrastrutture Ict.

L’Italia riconosce anche le responsabilità del settore privato per quel che riguarda i diritti umani nel cyberspazio, in linea con i principi guida dell’Onu su business e diritti umani.