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Le iniziative e gli impegni assunti dalla Commissione UE per la COP26

Le iniziative e gli impegni assunti dalla Commissione UE per la COP26

L’Unione europea è leader mondiale nell’azione per il clima, in quanto è riuscita a ridurre le emissioni del 31% a partire dal 1990 registrando, nel contempo, una crescita della propria economia di oltre il 60%. Con il Green Deal europeo, presentato nel dicembre 2019, l’UE ha puntato ancora più in alto per i propri obiettivi climatici, impegnandosi a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050.

Tale obiettivo è diventato giuridicamente vincolante con l’adozione e l’entrata in vigore, nel luglio 2021, della normativa europea sul clima. Quest’ultima fissa inoltre un obiettivo intermedio di riduzione delle emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990. L’UE ha comunicato il traguardo per il 2030 all’UNFCCC nel dicembre 2020, mediante la pubblicazione del suo contributo determinato a livello nazionale nell’ambito dell’accordo di Parigi. Al fine di rispettare questi impegni, nel luglio 2021 la Commissione europea ha presentato un pacchetto di proposte per rendere le politiche dell’UE in materia di clima, energia, uso del suolo, trasporti e fiscalità adatte a ridurre le emissioni nette di almeno il 55% entro il 2030.

La Commissione UE alla COP26

Dall’1 al 12 novembre la Commissione europea parteciperà alla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la COP26, che si terrà a Glasgow, nel Regno Unito. L’1 e 2 novembre la presidente von der Leyen rappresenterà la Commissione al vertice mondiale dei leader che inaugura ufficialmente la COP26. Il vicepresidente esecutivo Frans Timmermans sarà a capo della squadra negoziale dell’UE. Anche la commissaria Kadri Simson parteciperà alla COP26; oltre 150 eventi collaterali avranno luogo presso il padiglione dell’UE.

L’obiettivo della Commissione sarà quello di esortare tutte le parti a rispettare gli impegni assunti nell’ambito dell’accordo di Parigi e a ridurre le emissioni di gas a effetto serra. Incoraggeremo inoltre i paesi sviluppati a stanziare maggiori finanziamenti per il clima per raggiungere l’obiettivo di 100 miliardi di dollari concordato a Parigi, a cui l’UE contribuisce già per un valore in crescita di oltre 25 miliardi di dollari, e lavorare per mettere a punto il “Codice di Parigi”.

Nell’ambito dell’accordo di Parigi, 195 paesi hanno presentato contributi determinati a livello nazionale (NDC) che illustrano i loro obiettivi individuali in materia di riduzione delle emissioni. La somma di tali contributi dovrebbe garantire che il riscaldamento globale si attesti a un livello inferiore a 2°C e il più vicino possibile alla soglia di 1,5°C entro la fine del secolo. L’ultima relazione di sintesi dell’UNFCCC, pubblicata questo mese, mostra come gli NDC attuali non siano però in linea con gli obiettivi dell’accordo di Parigi: ci stiamo pericolosamente avvicinando alla soglia dei 2,7°C, con effetti estremamente dannosi che ci pongono di fronte a una sfida decisiva.

Dal 2020 al 2025 i paesi sviluppati si sono impegnati a stanziare complessivamente 100 miliardi di dollari l’anno di finanziamenti internazionali per il clima per aiutare i paesi più vulnerabili e i piccoli Stati insulari, soprattutto negli sforzi di mitigazione e adattamento. L’UE è il principale donatore, con un contributo superiore a un quarto dell’obiettivo, e la presidente von der Leyen ha recentemente annunciato che l’UE metterà a disposizione ulteriori 4 miliardi di € dal proprio bilancio fino al 2027. Tuttavia, è necessario che anche altri partner intensifichino i propri sforzi per colmare l’attuale deficit, vicino ai 20 miliardi di dollari. I finanziamenti per il clima sono fondamentali per sostenere gli sforzi delle comunità vulnerabili che si ritrovano ad affrontare gli effetti dei cambiamenti climatici e per promuovere un’economia pulita.

A sei anni dalla sua adozione, l’UE porterà avanti i negoziati anche con altre parti nell’ambito della COP26 per perfezionare il “codice di Parigi”, con norme e procedure per l’attuazione dell’accordo di Parigi. In particolare, l’UE cerca un’intesa che garantisca l’integrità ambientale dei mercati globali del carbonio e che disciplini inoltre gli obblighi di trasparenza e comunicazione. Un mercato internazionale del carbonio efficiente può portare a ulteriori investimenti nella transizione verde e ad accelerare le riduzioni delle emissioni, garantendo efficienza in termini di costi.

Frans Timmermans, Vicepresidente esecutivo responsabile per il Green Deal europeo, ha dichiarato: “Sarà fondamentale trarre vantaggio dalla scienza, dal sostegno popolare e dall’intensa attenzione cui saremo sottoposti nelle prossime due settimane per compiere passi coraggiosi a favore dell’azione globale per il clima. Solo se lavoreremo insieme potremo proteggere il futuro dell’umanità sul nostro pianeta. Nelle ultime settimane ho collaborato con partner di ogni continente per gettare le basi dei colloqui futuri. Abbiamo tutti il dovere di agire subito, per perfezionare il codice dell’accordo di Parigi, accelerare le riduzioni delle emissioni e garantire i finanziamenti per il clima di cui il mondo ha bisogno.

In vista dell’apertura della COP26, la Presidente Ursula von der Leyen ha dichiarato: “Il mondo è ora in gara per raggiungere zero emissioni entro la metà del secolo. Lavorando insieme possiamo uscirne tutti vincitori. Alla COP26 abbiamo il dovere di proteggere il nostro pianeta per le generazioni future. In Europa abbiamo tutti gli strumenti a disposizione per riuscire a raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 e ridurre le emissioni di almeno il 55% entro il 2030. A Glasgow esorterò gli altri leader mondiali a fare altrettanto, per innovare e investire in una nuova strategia di crescita più sostenibile, per prosperare e costruire società più sane, garantendo nel contempo un futuro migliore per il nostro pianeta.”

Durante il vertice del G20 a Roma, la von der Leyen ha ricordato che le venti maggiori economie lì presenti rappresentano l’80% delle emissioni mondiali. Per questo motivo gli impegni che verranno presi a Roma sui cambiamenti climatici saranno una sorta di pace-maker per la COP26. È essenziale, ricorda il capo dell’esecutivo, stabilire misure efficaci e credibili per la decarbonizzazione, con lo scopo di raggiungere l’obiettivo dello zero netto entro la metà del secolo, oltre a ridurre le emissioni in questo decennio.

Sempre nel corso del suo intervento al G20, la von der Leyen dichiara che la COP26, sul fronte europeo, riguarderà tre pilastri principali: l’ambizione nel raggiungere la soglia di 1,5 gradi, i finanziamenti per il clima e il regolamento sui mercati internazionali del carbonio. È fondamentale che i negoziati di Glasgow vertano su questi punti, chiarisce la Presidente dell’esecutivo.

Verranno inoltre lanciate nuove iniziative durante la conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. La prima, già recentemente accennata, in collaborazione con gli USA e altri 60 paesi, è il Global Methane Pledge. Con questo impegno, l’UE si prodiga a ridurre le emissioni di metano di almeno il 30% entro il 2030. La seconda azione riguarda, invece, un contributo finanziario di 1 miliardo di euro al Global Forest Pledge, includendo 250 milioni di euro per il bacino del Congo. La terza iniziativa che l’Unione è intenzionata a lanciare verte sull’innovazione. Difatti, quest’ultima è la chiave per combattere il cambiamento climatico e progredire verso un’economia circolare con procedure di produzione pulite e consumi più sostenibili, dimostrando che gli investimenti alle innovazioni verdi pagano. Per tali ragioni verrà lanciata durante la COP26 una partnership insieme a Bill Gates e al suo programma “Breakthrough Energy Catalyst“. In ultimo, è in cantiere un progetto che vede la collaborazione con Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia e Unione Europea, per avviare, insieme al Sudafrica, una Just Energy Transition. L’obiettivo è quello di sostenere il Sudafrica nell’eliminazione del carbone e dedicarsi sempre più rapidamente allo sviluppo delle energie rinnovabili.

Eventi UE a margine della COP26

Nel corso della conferenza, l’UE ospiterà oltre 150 eventi collaterali, sia nel proprio padiglione a Glasgow che in modalità virtuale. Gli eventi, organizzati da diversi paesi e organizzazioni a livello europeo e mondiale, affronteranno un ampio ventaglio di questioni connesse al clima, come la transizione energetica, i finanziamenti sostenibili, la ricerca e l’innovazione.

Fonte: Commissione europea, eprcomunicazione




Un G20 sul machine learning. Ormai Facebook ha addestrato gli algoritmi con riconoscimento facciale

Un G20 sul machine learning. Ormai Facebook ha addestrato gli algoritmi con riconoscimento facciale

Dopo l’annuncio nei giorni scorsi da parte di Meta, il nuovo brand adottato da facebook, di rinunciare ad un uso intensivo del riconoscimento facciale, rimangono ancora sospesi interrogativi e dubbio su quanto sta elaborando il gruppo di Mark Zuckerberg.

Si capisce chiaramente che il social network più diffuso del pianeta stia ora innanzitutto divincolandosi nella presa che stanno esercitando le istituzioni e l’opinione pubblica al di qua e al di là dell’Atlantico.

Dopo il maquillage sul nuovo brand Meta, che arriva nel pieno della campagna scatenata sui giornali dalle dichiarazioni dell’ex dirigente del settore “Integrità” del gruppo Francis Haugen, e dopo l’evocazione di nuovi mondi immersivi come Metaverso, in cui dovrebbe evolversi il social network, l’annuncio della rinuncia ad usare i dati facciali di circa un miliardo di utenti, accumulati, non si capisce come, nei mesi scorsi, segna una nuova frenata.

riconoscimento facciale

Ma come sempre l’esperienza insegna che il gruppo di Menlo Park non rinuncia mai completamente alla sua gallina dalle uova d’oro. Infatti ancora ieri il vice presidente per l’intelligenza artificiale di Meta Jerome Pesenti spiegava che “riteniamo quindi appropriato limitare l’uso di questa tecnologia ad una gamma molto contenuta di casi “. Quali casi e in che modalità e soprattutto per fare che cosa?

Le domande rimangono sospese. E non si riesce mai a concludere una vera istruttoria su uno specifico tema che riguarda la poliedrica attività di Facebook. Su un punto in effetto lo stesso Mark Zuckerberg coglie il vero, quando, non senza un tono provocatorio, denuncia le lacune del sistema normativo su temi sensibili quali appunto anche il riconoscimento facciale. Un alibi per giustificare le incursioni del suo gruppo certo, ma una constatazione che non può rimanere senza risposta.

Nel caso specifico si capisce che da almeno due anni Facebook ha avviato in grade stile una massiccia strategia per accumulare tecnicalità nel campo del riconoscimento facciale. Il metodo è sempre lo stesso, come per Cambridge Analytica: si usa la sterminata platea di utenti come laboratorio e si comincia a sparare nel mucchio usando pretesti apparentemente frivoli, come quei giochini sull’invecchiamento virtuale che forse qualcuno ricorderà: sulla bacheca di ognuno di noi apparivano annunci e sfide per vedere se avevamo il coraggio di comparare le nostre fotografie da giovani con quelle attuali, oppure se volevamo vedere come saremmo diventati fra qualche decennio. 

In questo modo i sistemi algoritmici di facebook hanno accumulato almeno un miliardo di sequenze fotografiche su cui hanno esercitato i propri modelli matematici per decifrare e analizzare non solo le immagini ma le evoluzioni che sono comprese fra due fotografie di uno stesso soggetto.

A questo punto il vero elemento che emerge non è tanto l’accumulo di questi data base che Zuckerberg annuncia di voler distruggere ma è l’addestramento che l’algoritmo di facebook ha ricevuto , impareggiabile con qualsiasi altro concorrente  Solo il governo cinese può ambire ad avere la capacità di esercitare i propri sistemi di  riconoscimento facciale su campioni cosi ampi e dinamici. La Cina e facebook oggi sono i due bastioni di un totalitarismo digitale che sta superando le soglie della nostra struttura biologica.

Il nodo di questa perversione scientifica è proprio il machine learning, ossia la capacità di autoapprendimento degli algoritmi che su larga scala, procedendo in maniera geometrica porta rapidamente ad un’escalation del sistema che cambia natura nella sua vorticosa crescita.

E’ questo il vero punto di frequenza del sistema che deve essere regolamentato a controllato. 

Prendiamo Zucherberg in parola che colmiamo la lacuna che lui denuncia. L’Unione Europa deve elaborare sistemi tecnologici e piattaforme di monitoraggio in grado di registrare e documentare la progressione dei sistemi di calcolo. Come giustamente prevede il nuovo regolamento sull’intelligenza artificiale europea , il DMS, proprio la capacità di imparare dei modelli matematici deve essere trasparentemente condivisa. Io devo sapere come sta evolvendo il sistema che mi sta contendendo la mia discrezionalità, e come comunità devo anche avere la piena informazione su quale sia l’obbiettivo e l’approdo di un sistema di learning machina applicato ai comportamenti sociali o alle strutture biometriche.

Su questo punto bisogna produrre esattamente la stessa mobilitazione che si sta realizzando sul clima. In campo bisogna mettere non solo capacità legislative ma anche esperienze negoziali e conflittuali di gruppi sociali e soprattutto comunità, quali città e università, in grado di contestare ai proprietari dei grandi gruppi l’assoluta ed esclusiva potestà di disporre della potenza di singolarità tecnologica che si sta intravvedendo all’orizzonte. Un G20 della trasparenza del calcolo sarebbe un segnale forte ed adeguato.




Bilancio di sostenibilità, solo l’1,76% delle aziende italiane lo presenta

Bilancio di sostenibilità, solo l’1,76% delle aziende italiane lo presenta

AGlasgow la Cop26 discute di come limitare a 1,5 gradi l’innalzamento della temperatura del globo, in Italia – però – la sostenibilità «è ancora un miraggio», e le imprese sono lontane dall’adottare «politiche realmente sostenibili e in grado di influire sull’ambiente e sul benessere della collettività».

Lo rivela la ricerca “Sostenibilità alla sbarra”, report realizzato da ConsumerLab – centro studi specializzato in sostenibilità – e dedicato ad analizzare lo stato di avanzamento della trasformazione sostenibile delle imprese e le influenze che orientano i consumi.

Dallo studio emerge come in Italia solo l’1,76% delle piccole imprese con più di 20 addetti pubblichi un Bilancio di Sostenibilità, percentuale che crolla allo 0,63% per le aziende con meno di 10 dipendenti. Analizzando le grandi realtà, si scopre che solo il 28,2% delle 1.915 principali imprese italiane presenta un bilancio: di queste le prime 345 banche operanti in Italia si fermano al 18,2%; delle 76 Società di Assicurazione il 27,6% lo presenta. Tutto ciò nonostante quasi una pubblicità su cinque diffusa nel nostro paese (il 19% del totale) inserisca la parola sostenibilità nei messaggi diretti al pubblico: di queste quasi la metà (il 46%) fa riferimento al tema della sostenibilità ambientale.

«La parola Sostenibilità è sulla bocca di tutti ma pochi sanno veramente in cosa consista – afferma il presidente di ConsumerLab, Francesco Tamburella – Le imprese cercano di vestirsi in ogni modo di Sostenibilità come se fosse una nuova certificazione di qualità, ma dall’esame delle loro attività appare evidente che il vero senso di tale concetto è raramente centrato. La comunicazione resa ai cittadini/consumatori è così fuorviante e ingannevole, perché non ha riscontro in maniera concreta e dimostrata nella realtà».

Non meraviglia dunque che la maggioranza dei cittadini italiani sia scettica sul reale impegno delle imprese per la trasformazione sostenibile: circa due terzi del campione intervistato da Consumerlab non ritiene sincera e trasparente la comunicazione delle Imprese e la relazione che intrattengono con il servizio clienti, e vorrebbe un maggior impegno sul tema della sostenibilità da parte delle imprese.

«I cittadini consumatori sentono una crescente esigenza di avere informazioni trasparenti e puntuali, oltre la qualità e il prezzo, sulla capacità di ogni impresa di creare valore nel tempo, non solo per se stessa – analizza Tamburella – Tutte le imprese, dalle grandi alle piccole, devono uniformarsi in maniera corale all’esigenza di uno sviluppo sostenibile, organizzando il coinvolgimento degli stakeholders e dei Consumatori in testa, sfruttando l’opportunità offerta dal Pnrr che, con i 190 miliardi destinati alla trasformazione ecologica, alla lotta al cambiamento climatico e allo sviluppo della mobilità sostenibile, può rappresentare una scossa per la trasformazione sostenibile nel nostro paese». 




La cultura è una bomba

La cultura è una bomba

Aun certo punto della Storia, tutti hanno cominciato a parlare di soft power, i poteri dolci come etichettato nei ’90 dal politologo statunitense Joseph Nye, ve lo ricordate? Armi pacifiche di persuasione di massa nella lotta a essere dominanti nello scacchiere globale. La cultura per esempio, anche pop (Madonna e il Moma, Obama e il rap, Hollywood e Harvard, Netflix e Google). Meno guerre tradizionali, meno sangue. Meglio così? Non più. Hanno di nuovo tolto l’acqua ai fiori nei cannoni.
«La cultura non è più soft, entertainment, leggerissima, è diventata hard e sharp, forte e tagliente (yoga compreso). È il cavallo di Troia dei regimi di questo millennio». E ci scappa pure il morto come nei migliori crime, ci dice Antoine Pecqueur, musicista passato al giornalismo d’inchiesta per ridisegnare la mappa dei nuovi poteri. E nel suo Atlante della cultura (add editore) dedica un capitoletto di consolazione all’America, rovesciando il luogo comune di chi conta con infografiche psichedeliche che sono abbastanza una rivelazione. Se fosse un programma tv, sarebbe una puntata di Report.
In sostanza, si parla di shopping di Stato: mettete il logo di un museo della catena Moma o Louvre in qualche deserto al posto dei borsoni Balenciaga e Dior in mano alle turiste velate, coi fuochi d’artificio per l’opening al posto dei bagliori verdi dei bombardamenti chirurgici. E il giorno dopo, leggete quanto sia un segnale importante per le magnifiche sorti di un Paese in via di sviluppo. «Come leggo e sento scioccato sui media. Coi giornalisti – gente che non vede l’ora di sedersi sull’aereo per un viaggio stampa tutto incluso a roteare le palle degli occhi davanti a un souvenir grandezza cattedrale, che dica: guardate quanto siamo illuminati pure noi Arabi, o altro. Nonostante siano petrolmonarchie e le loro opere non certo pensate per il popolo. Il fine è un altro. Distogliere l’avversario».

Foto Lea Crespi/courtesy  Flammarion 

Come funziona, che gioco è?
«I numeri parlano da soli: nell’arco di vent’anni le guerre in senso tradizionale si sono dimezzate. E i paesi del Golfo hanno puntato su un settore apparentemente innocuo e strettamente simbolico per riposizionarsi sulla scena mondiale. Così acquistando il marchio Louvre, Abu Dhabi si compra un seggio al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite accanto alla Francia che, come l’Italia, ha meno potere di acquisto perché le democrazie si basano perlopiù sui soldi pubblici. Queste battaglie causano meno morti? Direttamente sì, ma indirettamente sono terribilmente violente. Se il principe ereditario Bin Salman si scopre poi essere il mandante “discreto” dell’omicidio del giornalista oppositore al regime Jamal Kasshoggi».

Quando è cominciata?
«Diciamo che l’11 settembre del soft power è stato proprio il Louvre Abu Dhabi inaugurato 5 anni fa. Che ha poi innescato un’emulazione a catena, e infatti lo psicoprincipe di cui sopra (col suo faccione da joker all’entrata degli shopping mall), imbottito di Islam e manipolatore dello stock market, ha dato il via a Neom, città futura in mezzo al mar Rosso da 500 bilioni di budget. Bomba. Ma si arriva al museo di Doha by Jean Nouvel che è la risposta del ricco e minuscolo “brand” Qatar agli Emirati (il sovrano Bin Khalifa ha le mani ovunque, dagli albergoni in Costa Smeralda ai grattacieli di Milano Porta Nuova come a Londra alla AS Roma nel senso della squadra). Sarà interessante vedere la Tunisia con la Cité de la culture di Ben Ali. E l’Egitto, dove la cultura affronta una censura terrificante (guardate Patrick Zaki)».

La strategia dell’art attack ha radici profonde, dice lei, ma quanto?
«Il re Sole Luigi XIV, non è stato il primo a usare le arti come armi? E non era propaganda lo slogan “viva Verdi, inno che nascondeva l’acronimo “Vittorio Emanuele Re d’Italia”, monarchia, altro che opera. Semmai la differenza adesso in questo tipo di battaglie è tra chi usa i fondi pubblici e chi ha aperto ai privati, vedi in Francia il gruppo del lusso Lvhm di Arnault o il rivale Pinault a Punta della Dogana e nella ex Bourse rifatta da Tadao Ando, mecenatismo deducibile. La “Mécénat” ha alzato il tetto al 60%, per 518 milioni di euro. Anche se restano briciole rispetto alla detrazione monster degli USA, praticamente al 100% con Trump. Meno male che è arrivato Biden ad aiutare gli intellettuali sotto pandemia con ricetta keynesiana pur se moderata (non le tasse che voleva Bernie Sanders). E sarebbe utile che si riavvicinasse all’Eurogruppo per aiutarlo a contrastare gli Orbán e gli Erdogan che hanno imbracciato le guerre culturali per propaganda ipernazionalista, contestati solo da pochi antiregime come l’OHA (rete di accademici) nelle piazze di Budapest. L’illiberalismo in franchising è poi circolato in Serbia, Macedonia, Slovenia (l’Ungheria investe più in cultura di tutta l’UE, ma è come ai tempi del fascismo con l’architettura)».

Ognuno fa il suo shopping, dice lei.
«Dei Paesi del Golfo abbiamo visto come si migliorino l’immagine a colpi di museo, restando dittature, strategia 1. Strategia 2, Paesi asiatici: cultura come arma economica, tipo il K-pop per la Corea. 3, catalizzatore delle politiche identitarie, modello Europa che però ha pochi incentivi e invece Bruxelles è un mediatore essenziale. La sua entrata in campo per la direttiva sul diritto d’autore ci ha dato un buon esempio, mostrandola finalmente unita contro lo strapotere GAFAM (Google Apple Facebook Amazon Microsoft). Perché non continua su questa linea?».

E “l’Ammerica”, ex mainstream?
«In effetti Hollywood arriva dopo la Nigeria e soprattutto l’India, per numero di film prodotti. Dobbiamo riposizionare: anche se questi due-quasi anni di tutti-a-casa sono stati, cinicamente, la fortuna per riacciuffarsi il potere di Netflix e social. Ma ci sono diverse realtà della cultura,  il teatro, la danza, la musica extra-Spotify che dipendono dai fondi pubblici, insufficienti. E le aziende che mirano al profitto. Buoni e no».

Però il cinema di Nolly e Bollywood non è esattamente d’autore.
«No, ma diamogli tempo, guardate in architettura David Adjaye, che si è fatto star in Inghilterra e ultimamente è tornato al Paese di origine con i suoi progetti stramoderni e sostenibili. L’Africa ha riposizionato la cultura al centro, le potenze ex colonialiste si trovano ad affrontare il problema della restituzione delle opere e la “Cinafrica” approfitta della tensione per intromettersi. Pechino in cambio dell’accesso alle materie prime sta costruendo strutture culturali, nella RDC (Kinshasa) o in Algeria. Speriamo che si autonomizzino, il Ghana ha iniziato. E infatti Adjaye è ritornato lì».

E da loro, in Cina, che fanno?
«Multisale come missili! Perfino per distrarre dalla repressione acerrima delle minoranze Uiguri. Ma in gran parte è l’economia con realtà spaventose come il Polygroup, leader in armi e arte. E l’Occidente continua a stringere partenariati, vedi gli Istituti Confucio, perché? Interessi? Ingenuità? L’avviso: fate corsi di geopolitica accelerati a tappeto».

Noi temiamo i Gafams, e al di là?
«Hanno i Batx (Badoo, Alibaba, Tencent, Xiaomi), il loro “arsenale competitivo” che va dall’e-commerce ai social, e il loro governo sta procedendo a una regolamentazione, in questo caso per una crescita di regime e non liberal».

E il dibattito che ha impazzato se la cultura sia di sinistra o destra (cantava Gaber) è ridicolo?
«Un po’ ci credo anch’io. Gli artisti Usa hanno supportato Biden più di Trump. Ma anche qui dipende dai settori, il mercato dell’arte è uno dei più deregolamentati, implicato in ogni scandalo di evasione fiscale, specie fuori UE».

E Macron, la usa o ne abusa?
«Aveva una bomba elettorale: il Culture Pass. Ma i giovani hanno poco da spendere, comprano quello che conoscono e il dispositivo non va verso la diversificazione. Va detto che il governo francese li ha aiutati nella crisi mostrando come i fondi pubblici valgano semplicemente perché non finiscono in gusti e consumi delle élite».

Lo vede Ministro della Cultura eh?
«Sarebbe fantastico, specie dopo che ha pubblicato Capitale e Ideologia (La Nave di Teseo), che affronta la questione diseguaglianze anche in campo culturale, qui da noi ci sono insegnanti al conservatorio che prendono 1500 euro al mese e direttori d’orchestra che viaggiano dai 15 ai 20mila a concerto, esibendosi in sale sovvenzionate al 90% da fondi pubblici. Piketty denuncia “l’illusion philanthropique” dei soldi privati, che se possono essere utili rischiano pure di finire al servizio di ideologie pericolose, mentre le classi medie continuano a pagare le tasse contribuendo alla sacralizzazione dei miliardari».

E la bomba, o la bolla, Unesco?
«Attualmente è in pessime condizioni economiche, peggiorate dal ritiro degli Stati Uniti. La Cina ne ha preso il controllo. Chiarisco, le missioni Unesco restano pregevoli su questioni come il patrimonio armeno nel Nagorno-Karabakh o in Afghanistan. Ma è finito a sostenere regimi, la moglie del dittatore dell’Azerbaigian è loro ambasciatrice di buona volontà! (di qui i meeting a Baku)».
Idem le Capitali della cultura

«La guerra quasi mafiosa a farsi nominare per vedersi ridotti a città gentrificata è assurda. Matera che bisogno aveva di quel kitsch». Qual è il malinteso?
«Guardate il suo trattamento dei giornali. Nelle pagine di cultura si leggono recensioni, interviste ma più raramente inchieste su questioni politiche economiche. Che tu sia un turista, o un giornalista, non si può più essere naïf».




Khaby Lame in uno spot ufficiale con Mark Zuckerberg per il lancio di Meta

Khaby Lame in uno spot ufficiale con Mark Zuckerberg per il lancio di Meta

Di Meta, il nuovo nome della società una volta chiamata Facebook (il social continuerà a chiamarsi Facebook), si è fatto un gran parlare in questi giorni considerando anche quanto il suo ecosistema sia diffuso. Che sia una mossa per “pulirsi l’immagine” e guardare a un futuro diverso (positivo o meno, si vedrà) sicuramente l’impatto sarà grande. Per questo serviva un testimonial d’eccezione, che andasse oltre Mark Zuckerberg. Una persona come Khaby Lame.

https://www.facebook.com/watch/?v=472676484007709&t=8

Se il metaverso è stato lanciato con la frase “siamo all’inizio del prossimo capitolo di internet e del prossimo capitolo della nostra società” scegliere personaggi del Web già noti e con un volto non solo popolare ma anche simpatico e giocoso aiuta a togliersi l’aria da corporation cattiva dei fumetti (o almeno ci si prova).

Khaby Lame nello spot ufficiale per Meta di Zuckerberg

Nel breve filmato di circa 20″ vediamo così apparire Khaby Lame a fianco proprio di Mark Zuckerberg. Ovviamente non potevano mancare i noti sketch comici del ragazzo italiano, unendo però l’elemento Meta nel mezzo. Non si tratta di un video realizzato come goliardia. Questo è un vero e proprio elemento pubblicitario considerando che si trova sulla pagina ufficiale della nuova società su Facebook.

khaby lame meta zuckerberg

E così si salta da un universo all’altro per mostrare le potenzialità della nuova realtà che punterà sull’interazione virtuale ancora più spinta. Non a caso la realtà virtuale/realtà aumentata vengono mostrate come modalità di interazione e immersive (legate a doppio filo ai visori Oculus).

E se inizialmente viene mostrato uno Zuckerberg serio intento a spiegare, verso metà filmato lo si vede sorridente e vestito da schermitore (passione che pratica anche con la figlia). Il video si conclude con il classico gesto che ha reso famoso Khaby Lame mostrando la “semplicità” del concetto di Meta e del metaverso. Basterà a convincere gli utenti che utilizzano i servizi della società? Del resto stiamo parlando di Facebook, WhatsApp, Instagram, Oculus che raccolgono un fetta importante della popolazione mondiale.