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Banche irlandesi, tedesche, italiane e cinesi in ritardo sui rischi climatici

Banche irlandesi, tedesche, italiane e cinesi in ritardo sui rischi climatici

Una folta schiera di banche centrali teme che il cambiamento climatico possa scatenare la prossima crisi finanziaria. Per questo motivo, le autorità di vigilanza in Europa e nel Regno Unito stanno già iniziando a esaminare la resilienza delle banche al cambiamento climatico, valutando sia le probabili tensioni derivanti dalla transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio nei prossimi decenni, sia l’impatto di condizioni meteorologiche estreme.

“Per il momento, tuttavia, l’ansia delle autorità monetarie non si riflette nei mercati azionari o obbligazionari, che sembrano relativamente poco influenzati dal rischio climatico. Eppure nei prossimi anni il cambiamento climatico potrebbe diventare un motore chiave della performance finanziaria e un fattore importante per gli investitori che valutano le banche”, hanno sottolineato Paul Smillie, analista del credito senior, Rosalie Pinkney, analista del credito senior e Natalia Luna, analista senior investimenti tematici di Columbia Threadneedle Investments, secondo cui sussiste già un’ampia dispersione tra i leader e i ritardatari del settore.

“I rischi per gli utili non mancano neppure nel breve termine, mentre nel medio periodo è probabile che gli istituti con maggiori esposizioni legate al clima dovranno far fronte a requisiti patrimoniali più elevati, per non parlare dei rischi reputazionali. Ma non è solo una questione di rischio. Guardando avanti di qualche anno, potrebbero anche esserci opportunità per le banche che guidano il finanziamento della transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio. In effetti, si stima che gli investimenti e i finanziamenti verdi potrebbero raccogliere fino a 50 miliardi di dollari di ricavi nei prossimi 5-10 anni”, hanno valutato.

Gli esperti credono che presto non sarà più sufficiente per le banche assumere impegni di carattere generale sul clima. Sottoposti a un crescente scrutinio, gli istituti bancari dovranno migliorare le informative sul rischio climatico, dimostrare che le considerazioni sul clima si inseriscono negli standard di sottoscrizione e ridurre le loro impronte di carbonio.

Sebbene l’esposizione delle banche ai combustibili fossili sia relativamente modesta, i settori ad alta intensità di carbonio rappresentano a oggi meno del 10% dell’esposizione creditizia degli istituti europei, secondo i calcoli della Banca centrale europea una crisi climatica potrebbe incrementare le perdite del sistema bancario fino al 60%, con ricadute significative sugli utili, dato che i combustibili fossili rappresentano il 10%-15% dei ricavi generati a livello globale dall’attività bancaria all’ingrosso.

Il rischio reputazionale è già in aumento. Basta pensare alle le critiche rivolte a JP Morgan Chase nel 2020 per i suoi prestiti al settore energetico. In un rapporto compilato da una collaborazione di organizzazioni non governative (ONG), tra cui Rainforest Action Network e BankTrack, si è scoperto che la banca statunitense è il maggior finanziatore di combustibili fossili a livello globale. Vista la crescente sensibilità del pubblico al problema del cambiamento climatico, il possibile danno alla reputazione non dovrebbe essere ignorato.

Le autorità di vigilanza bancaria stanno cominciando a imporre una serie di cambiamenti, specialmente nell’Ue e nel Regno Unito. Le banche centrali francese e olandese hanno eseguito stress test climatici nel 2020, la Bank of England l’ha fatto nel 2021 e la Bce prevede di farlo nel 2022. Guardando al 2025, l’Autorità bancaria europea (ABE) intende introdurre una revisione dei requisiti patrimoniali ESG, che differenzierà il trattamento patrimoniale degli attivi in base ai fattori ambientali e sociali.

Nel Regno Unito, le banche dovranno rispettare gli standard della Task-Force for Climate-Related Financial Disclosures entro il 2025, fornendo informazioni standardizzate sui loro rischi climatici. Anche negli Stati Uniti, chiaramente, un inasprimento della regolamentazione è dietro l’angolo. Nel novembre 2020 la Federal Reserve ha identificato per la prima volta nel cambiamento climatico un rischio per la stabilità finanziaria. Inoltre, il presidente Biden ha dichiarato di considerare il cambiamento climatico una priorità e prevede di richiedere alle società quotate di divulgare informazioni sui rischi finanziari legati al clima.

Tuttavia finora vi sono poche indicazioni che le banche stiano riducendo i prestiti legati ai combustibili fossili, con l’importante eccezione del carbone. “Gli investitori potrebbero, però, iniziare presto a distinguere tra leader e ritardatari, grazie ai migliori dati estratti dalle informative obbligatorie. Inoltre, l’engagement degli azionisti e l’attivismo delle ONG potrebbero ripercuotersi in tempi brevi sulle valutazioni delle azioni bancarie. Abbiamo condotto un esercizio di engagement con più di 50 banche a livello globale, ponendo domande sulla strategia climatica e sulla gestione del rischio climatico e facendo seguito con una serie di incontri”, affermano gli analisti di Columbia Threadneedle Investments che hanno riscontrato così l’emergere di alcune chiare tendenze.

In particolare, secondo gli analisti di Columbia Threadneedle Investments, alcune banche britanniche, olandesi e svizzere si distinguono in positivo. Le banche nordiche, francesi, spagnole e giapponesi sono leggermente indietro, mentre quelle irlandesi, tedesche, italiane e cinesi sono in ritardo. Anche per Citi il deterioramento delle condizioni climatiche può rappresentare un rischio per la qualità degli asset delle banche e per il capitale, “ma vorremmo anche evidenziare le potenziali opportunità derivanti dalla consulenza ai clienti e dall’emissione di finanziamenti verdi/sostenibili. Crediamo che le banche più orientate alle imprese potrebbero generare ricavi legati all’ESG, quindi quelle francesi e svizzere, con Deutsche Bank e Skandinaviska Enskilda Banken che hanno già indicato opportunità in questa direzione, il che può mitigare l’impatto del riequilibrio dei prestiti”.

Columbia Threadneedle Investments ha iniziato a tenere conto dell’esposizione delle banche ai rischi climatici nella nostra ricerca. Il cambiamento climatico non incide ancora sugli utili o sui requisiti patrimoniali delle banche, ma potrebbe farlo già tra due o cinque anni. Dato che nella nostra valutazione delle aziende adottiamo un orizzonte prospettico di due anni, incorporiamo questa dimensione nella nostra ricerca obbligazionaria e assegniamo i relativi rating alle banche. Queste valutazioni cominciano a influenzare la costruzione del portafoglio”, avvertono a Columbia Threadneedle Investments. “A nostro avviso, non passerà molto tempo prima che gli investitori inizino a operare una distinzione tra leader e ritardatari. Ciò creerà un’opportunità per gli investitori attivi, premiando al contempo le banche che hanno agito tempestivamente per affrontare il cambiamento climatico con un costo competitivo del capitale”.




Le strategie dei colossi del digitale per influenzare le politiche dell’Unione europea

Le strategie dei colossi del digitale per influenzare le politiche dell’Unione europea

Le multinazionali della Rete spendono 97 milioni di euro l’anno per fare pressione sulle istituzioni europee e influenzare le politiche digitali. Si tratta del settore che spende di più per attività di lobbying nell’Unione europea, più delle industrie farmaceutiche e fossili. È quanto riportato nel report “The lobby network. Big Tech’s web of influence in the Eu” realizzato dall’organizzazione Corporate europe observatory, che traccia un profilo degli attori coinvolti e delle relazioni opache tra aziende, società di consulenza, think tank e altre organizzazioni finanziate dai colossi digitali, spesso assenti dal registro europeo per la trasparenza.

Come ha raccontato ad Altreconomia Margarida Silva, ricercatrice di Corporate europe observatory e coautrice dello studio, “abbiamo contato 612 aziende e organizzazioni di categoria coinvolte nell’azione di lobbying del settore ma, da sole, le prime dieci industrie tech -Google, Facebook, Microsoft, Apple, Huawei, Amazon, Intel, Qualcomm, Ibm e Vodafone- spendono un terzo del budget totale (32,7 milioni di euro)”.

Anche chiamate “Gafam” -dalle iniziali di Google, Apple, Facebook e Microsoft-le “Big Tech” sono poche e dominano il mercato. Da quando nel 2019 la nuova Commissione europea ha deciso di proporre normative più stringenti per il settore digitale, la spesa per lobbying delle aziende tech ha cominciato a crescere, parallelamente alla loro influenza politica. Da allora, dei 271 incontri della Commissione per discutere delle politiche digitali, 202 sono stati in presenza delle industrie tech, mentre solo 52 con Ong, sindacati e associazioni per i consumatori. “C’è un’enorme sproporzione nell’accesso alle attività di lobbying tra la società civile e l’industria digitale”, si legge nello studio.

La normativa europea attualmente nel mirino delle Big Tech è il pacchetto Digital services act (Dsa), proposto dalla Commissione nel dicembre 2020, che tenta di arginare le pratiche di concorrenza sleale, di vendita di dati privati a fini di profitto, di pubblicità mirata online e sistemi di raccomandazione. “Il Dsa package è un’opportunità per regolamentare una serie di problemi che stanno assumendo sempre più importanza da un decennio a questa parte”, sostiene Silva. “I rischi cui siamo esposti in quanto cittadini riguardano da un lato un modello di business ingiusto, basato sullo sfruttamento per profitto dei dati degli utenti, e dall’altro una situazione di tipo quasi monopolistico, dove i colossi dettano le regole del mercato: una combinazione tossica”.

Dalla disinformazione alla violazione della privacy, la necessità di regolamentare il mercato digitale per proteggere utenti e piccole imprese è emersa soprattutto negli ultimi anni. “Lo scandalo Facebook-Cambridge Analytica è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso”, afferma Silva riferendosi a quando nel 2018 venne rivelato che i dati di 87 milioni di utenti Facebook erano stati venduti a loro insaputa alla società di consulenza Cambridge Analytica per scopi di propaganda politica legati alla Brexit, alle elezioni statunitensi del 2016 e a quelle messicane del 2018.

L’azione di lobbying delle Big Tech si concentra in particolare sul Digital market act (Dma), la parte del pacchetto Dsa che punta a sviluppare concrete norme di comportamento -una lista di obblighi e divieti- dirette alle piattaforme più grandi, le cosiddette “gatekeeper”, delle quali faranno parte sicuramente Google, Amazon, Facebook e Apple. Tra le misure, ci sarebbe il divieto di trattamento preferenziale dei loro prodotti e servizi a scapito dei concorrenti (pratica per la quale Google è già stata multata tre volte dalla Commissione europea) e l’obbligo di consentire agli utenti di scegliere di non combinare i propri dati personali tra i vari servizi. Il Dma obbligherebbe inoltre i gatekeeper a permettere l’interoperabilità, dando quindi la possibilità alle piattaforme rivali di interagire con il loro sistema operativo.

Chi fa pressione in Unione europea per conto delle Big Tech? In che modalità e incontri? Queste informazioni spesso non sono accessibili secondo quanto raccolto da Corporate europe observatory e LobbyControl, che denunciano la mancanza di trasparenza nelle azioni di lobbying, e un utilizzo molto arbitrario da parte delle aziende del registro europeo per la trasparenza, in cui sarebbero chiamate a segnalare le organizzazioni da loro finanziate per influenzare le politiche e il budget connesso a queste attività.

I 97 milioni di euro potrebbero essere solo la punta dell’iceberg perché, come spiega Silva, “ci sono scarsi controlli sul registro per la trasparenza”. Inoltre, secondo un regolamento introdotto due anni fa gli eurodeputati dovrebbero dichiarare gli incontri con i lobbisti ma, racconta l’autrice del report, “questa regola non è quasi mai rispettata”.

Ancora meno trasparenti sono le informazioni relative agli incontri del Consiglio, definito spesso la “scatola nera” della politica europea: “per i cittadini è molto difficile scoprire che cosa avviene negli incontri a porte chiuse del Consiglio europeo e quali organizzazioni di lobbying sono presenti”, afferma Silva. Per scoprire qualcosa in più, i ricercatori del rapporto hanno inviato delle richieste di accesso agli atti a diversi governi europei: solo quello estone ha risposto, rivelando che su sette incontri organizzati per discutere del pacchetto Dsa, sei erano in presenza di aziende di Big Tech (Google, Amazon, Facebook e Apple), ma non era disponibile alcun verbale.

Non è tutto. I colossi digitali si servono anche di organizzazioni terze per indirizzare la politica digitale europea: società di consulenza, studi legali e think tank sono usati come veri e propri attori di lobbying, pagati dalle aziende per influenzare i decisori politici con pareri di esperti, report, conferenze, incontri. “In questi eventi pubblici e studi, la sponsorizzazione delle Big Tech spesso non compare, facendo passare per neutrali le organizzazioni finanziate per riflettere gli interessi di una determinata azienda”, spiega Silva. È soprattutto attraverso questi attori terzi, raramente contati nel registro di trasparenza, che le aziende cercano di diffondere la loro “narrazione politica”.

Nell’ottobre 2020, ad esempio, il think tank Ecipe ha pubblicato uno studio interamente finanziato da Google -e ampiamente criticato da diversi accademici- in cui si sostiene che l’implementazione del Digital services act (in quel momento non ancora reso pubblico dalla Commissione europea) comporterebbe una perdita del Prodotto interno lordo europeo di circa 85 miliardi di euro. L’obiettivo è diffondere l’idea che la normativa digitale europea provocherà un danno alla popolazione: la stessa Google, in un documento trapelato nell’ottobre 2020 ha scritto che una delle sue strategie di lobbying mirate a “resettare la narrazione politica” è focalizzarsi sul fatto che la “Dsa minaccia gli interessi di consumatori e imprese”.

Tra le altre strategie usate dalle Big Tech e individuate nel report, c’è quella di concentrarsi su aspetti specifici della normativa per sviare l’attenzione dalle politiche più vaste e far credere che una maggiore regolamentazione sia un ostacolo per l’innovazione e possa favorire l’ascesa delle aziende cinesi a scapito di un’Europa destinata alla decadenza. “Di innovativo c’è ben poco nelle strategie delle Big Tech: sono analoghe a quelle impiegate da anni dalle aziende fossili, e precedentemente usate dalle industrie di tabacco -conclude Silva- purtroppo però possono influire fortemente sulla politica, soprattutto se i prodotti delle attività di lobbying vengono ingiustamente presentati come informazioni e pareri imparziali”.




Faro Sec su Dws (Deutsche Bank): indagine sulle metriche Esg del gruppo

Faro Sec su Dws (Deutsche Bank): indagine sulle metriche Esg del gruppo

Non è tutto oro quel che è green. Potrebbe scoprirlo a sue spese Dws Group, la divisione di asset management di Deutsche Bank, sotto osservazione da parte della Sec dopo che l’ex responsabile della sostenibilità, Fixler, ha accusato il gruppo ai aver sovrastimato le metriche della sua strategia di investimento nella gestione degli asset Esg. L’inchiesta del regulator a stelle e strisce è ancora allo stadio preliminare, ma ciò non permette a Dws di evitare il tonfo alla borsa di Francoforte: quasi il -13,5% a poco più di 36 euro per azione (41,72 alla chiusura di ieri).

Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, Dws si sarebbe trovata in difficoltà di fronte alla gestione delle strategie Esg, scegliendo pertanto di ritoccare la situazione, per renderla più rosea di quanto in realtà non fosse. Una situazione complessa anche per Deutsche Bank, che è azionista di maggioranza di Dws, e che in borsa sta perdendo oltre il 2,3% di capitalizzazione.

L’inchiesta sarebbe una conferma dell’attenzione sempre maggiore che le Authority di tutto il mondo stanno riservando a quelle società di gestione che offrono prodotti con impatti tangibili sul piano Esg. Già a inizio anno, infatti, la Sec aveva istituito una task force per sorvegliare eventuali affermazioni fuorvianti in tema di sostenibilità attribuibili a consulenti di investimento e società pubbliche. 

Per Dws la tematica Esg svolge un ruolo cruciale. Nel rapporto annuale 2020 pubblicato a marzo è stato evidenziato che più della metà dei 900 miliardi di dollari di asset in gestione sono stati investiti utilizzando un sistema di classificazione delle società sulla base di metriche Esg, anche se una valutazione interna effettuata un mese prima affermava che solo una frazione più esigua della piattaforma aveva applicato le procedure di sostenibilità. 

Dal canto suo, l’asset manager tedesco ha confermato il resoconto annuale, ribadendo che la revisione condotta da una società di terze parti non ha riscontrato alcuna anomalia che supporti le accuse mosse da Fixler. “Gli standard Esg”, ha ribadito un portavoce della casa d’investimenti, “sono in continua evoluzione, e Dws è stata vista dal mercato come più prudente rispetto alla maggior parte dei suoi concorrenti”.




Come si consuma il digitale?

Come si consuma il digitale?

Un maggior utilizzo dello smartphone

Stando ai dati raccolti dal Global Web Index, una società incaricata di analizzare il comportamento dei consumatori digitali, il 50,1 % del tempo passato online è trascorso connessi tramite lo smartphone. Quasi il 92 % degli utenti si connette ad internet così, senza tuttavia dimenticare i computer.

Infatti, la stima delle connessioni ad internet è così ripartita:

  • 53,3 % via smartphone
  • 44 % tramite computer fissi e portatili
  • 2,7 % con tablet
  • 0,07 % con altri dispositivi (soprattutto le console)

E ciò nonostante, la navigazione online non rappresenta la maggior parte del tempo trascorso sul telefono. Infatti i dati mostrano che le app sono più usate e costituiscono il 91 % del tempo speso con lo smartphone. 

Viste le varie misure di confinamento e restrizioni messe in atto nel mondo a causa della pandemia, il nostro uso delle applicazioni da mobile è fortemente aumentato.  Che fosse per tenersi in contatto con i propri cari, per divertirsi, per fare sport, per praticare un hobby o persino per trovare l’amore, le app sono divenute un tassello indispensabile della nostra vita. Tra i tipi di app più utilizzate troviamo le app di:

  • Messaggistica con l’89 % degli utenti le usa
  • Acquisti online di cui ne fa uso ben il 66 % delle persone
  • Intrattenimento o Video streaming con il 65 % degli utilizzatori
  • Musica che sono utilizzate dal 52 % dei consumatori
  • Gioco con il 47 %
  • Bancarie che sono diffuse tra il 35 % degli utenti

Tutto ciò non fa che rinforzare e sottolineare l’importanza dello smartphone nella nostra vita quotidiana e nelle nostre abitudini di navigazione su internet.

Lo sapevate?

Più di 5 miliardi di persone nel mondo possiedono e usano uno smartphone ogni giorno.

Forte crescita dei social media

Il 2020 sarà stato un anno incredibilmente fruttuoso per i social. Infatti, con la chiusura delle frontiere ed i diversi lockdown, l’uso dei vari social media è esploso, raggiungendo picchi e percentuali mai viste prime. Stando ad un recente studio sul tema, la metà delle 3,7 ore passate ogni giorno al telefono sono sui social.

Secondo Global Web Index, passiamo circa 2 ore e mezza al giorno sui social media, anche se tale cifra varia da paese a paese. In termini di quali social, Facebook rimane largamente in avanti, con oltre 2 miliardi di utilizzatori attivi al mese. 

Questi numeri pongono l’azienda americana di Zuckerberg ben davanti ai concorrenti come:

  • WhatsApp con 1,6 miliardi di utenti attivi al mese (e di proprietà di FB)
  • Facebook Messenger con 1,3 miliardi  di profili attivi
  • WeChat con 1,1 miliardi di utenti
  • Instagram che ha 1 miliardo di utilizzatori
  • TikTok che viene utilizzato da 800 milioni di persone
  • Snapchat con 382 milioni
  • Twitter con 340 milioni

C’è da rimarcare inoltre che WhatsApp, FB Messenger e Instagram sono tutte parte dell’ecosistema Facebook e dunque proprietà della società americana. In poche parole, 3 su 4 dei maggiori competitor di FB sono proprietà di Facebook stessa. Ciò le dà un potere ed influenza immensa nel mercato dei social. In più, l’altro principale competitor WeChat (con 1,1 miliardi di utenti) è un’app basata esclusivamente su un bacino di utenza che parla cinese.

L’impatto dei videogiochi

Il settore dei videogiochi è ugualmente esploso nel 2020. Più di 4 persone su 5 di età compresa tra i 16 e i 65 anni gioca regolarmente e, per il 69 %, il passatempo videoludico è sul telefono. Nel 2020, le persone hanno speso più di 65 miliardi di dollari per scaricare app o pagare per acquisti in-gioco.

Il 70 % delle spese totali dei consumatori per app su mobile riguarda i videogiochi. Non sono in ogni caso da meno le console: in media un utente passa 70 minuti sullo smartphone ma oltre 2 ore alla console. Tra i paesi con più utilizzatori di videogiochi figurano Thailandia, Filippine e Arabia Saudita. Il settore è in continua crescita con un 150 miliardi di dollari spesi nei videogiochi nel 2020.

L’espansione dello shopping online

Un’altra tendenza del 2020 degna di nota è l’esplosione dello shopping online. Fortemente favorito dalle chiusure dei negozi, lo shopping è cresciuta in maniera esponenziale nel corso del 2020. Si stima che una persona su tre faccia acquisti su internet ogni mese.

Gli acquisti fatti online riguardano soprattutto:

  1. L’abbigliamento con una spesa complessiva di 620 miliardi di dollari
  2. L’elettronica che ha visto una spesa di 456 miliardi
  3. L’arredamento con 316 miliardi
  4. Il cibo con 168 miliardi

Secondo la ricerca di Global Web Index, l’e-commerce conoscerebbe uno sviluppo trasversale nel mondo. Infatti i maggiori fautori dell’e-commerce vengono da Polonia, Indonesia e Thailandia.

Chi utilizza di più il digitale

Digitale e parità: gli uomini più connessi delle donne

In base ai numeri dell’UIT (Unione Internazionale delle Telecomunicazioni, in inglese TUI), gli uomini si connettono di più delle donne, soprattutto nei social. Questo divario è particolarmente presente nel sud-est asiatico.

Dal rapporto GSMA Intelligence traspare che la metà delle donne in India non sa che internet è disponibile ed accessibile da telefono. Secondo le Nazioni Unite, la disparità numerica tra uomini e donne si spiega attraverso “norme e pratiche sociali profondamente radicate”.

Chi sono le persone “non connesse”?

Nel 2021, il 40 % della popolazione mondiale non ha accesso ad Internet per circa poco più di 3 miliardi di persone. Di queste 3 miliardi di persone “non connesse”, il 31 % vive nel sud-est Asiatico e il 27 % in Africa.

Affinché il divario numerico tra le popolazioni non si allarghi ulteriormente, le Nazioni Unite richiedono a gran voce una maggior accessibilità ad internet per le donne.

Quali sono i paesi dove si consuma di più l’internet?

Da molti anni a questa parte, e la tendenza si è solo che accentuata nel 2020, i dati mostrano che il grosso del traffico internet si sposta verso l’Asia. L’importanza di certe app e siti cinesi conferma questo trend.

Non a caso, nella classifica dei 20 siti più visitati al mondo, ritroviamo 5 siti di e-commerce cinesi e il motore di ricerca Baidu.

Non sorprende infatti che la Cina abbia il maggior numero di utenti internet al mondo con oltre 700 milioni di utilizzatori, ovvero il 53 % della percentuale globale. Segue l’India con 390 milioni e gli USA con 240 milioni.

Quali sono le sfide del digitale?

Qual è l’impatto delle grandi big GAFAM?

Il termine GAFAM designa le 5 grandi multinazionali americane che dominano il mercato del digitale. Queste 5 grandi imprese sono:

  1. Google
  2. Apple
  3. Facebook
  4. Amazon
  5. Microsoft

Queste imprese sono riuscite a imporre un vero e proprio controllo sull’economia mondiale grazie all’importanza dei loro servizi e dei profitti che ne derivano. In effetti, eccetto Facebook, la capitalizzazione finanziaria di ciascuna impresa supera i 1000 miliardi di dollari.

Malgrado però tutta la loro potenza, l’influenza delle GAFAM è sempre più criticata. Infatti, diversi paesi, tra cui la Francia e l’Italia, hanno protestato contro le pratiche di ottimizzazione fiscale usate da queste società.

Una “web tax” o “tassa GAFAM” venne creata e approvata nel 2013 ma venne rinviata e poi cancellata unilateralmente da Renzi nel 2014. Reintrodotta e rinviata in seguito, è entrata in vigore dal 1° gennaio 2021 imponendo un’aliquota del 3 % sui ricavi di società con un fatturato globale superiore a 750 milioni di euro e incassi online in Italia di 5,5 milioni.

Inoltre, il consumo di energia da parte di queste grandi compagnie è elevato e sembra crescere sempre più. C’è bisogno di un uso sempre più efficiente delle risorse ma soprattutto di attingere a fonti di energia rinnovabile, per permettere una crescita sostenibile nel lungo termine.

Digitale e i timori sulla protezione dei dati

Quando si parla delle sfide poste al digitale, si pensa spesso alla protezione dei nostri dati personali. Secondo Global Web Index, il 64 % degli utenti internet sono preoccupati riguardo alla propria privacy quando navigano.

Dal 25 maggio 2018 è operativo in Europa il GDPR (General Data Protection Regulation) che protegge i dati personali delle persone fisiche in rete. Il GDPR nasce come regolamento con precisi scopi: offrire un’armonizzazione e una maggior semplicità nella gestione del trattamento dei dati personali offrendo al contempo una protezione efficace ai privati cittadini. Il regolamento punta a regolare il trasferimento di dati personali dalla UE verso le altre parti del mondo ed è consultabile qui.

Protegge le informazioni personali di miliardi di utenti internet è dunque la sfida principale del mondo digitale: come continuare a garantire fruibilità e privacy insieme?




Dagli X-Men agli Eternals: com’è cambiata l’inclusività nel mondo dei supereroi

Dagli X-Men agli Eternals: com'è cambiata l'inclusività nel mondo dei supereroi

Gli Eternals sono atterrati al cinema con le loro origini cosmiche, i poteri semi-divini e soprattutto con un cast di supereroi mai così ampio e inclusivo. È il film delle “prime volte” per il Marvel Cinematic Universe: il primo protagonista apertamente omosessuale, la prima protagonista sorda (interpretata da un’attrice sorda, Lauren Ridloff), la prima supereroina dodicenne, e poi tanti corpi, etnie e colori della pelle diversi.

di Chris Claremont
Giant Size X-Men 1

Chi è rimasto stupito dalla diversità degli Eterni non ricorda evidentemente la storia dei fumetti. Nel 1975, gli appassionati di supereroi assistettero con occhi sgranati al rilancio degli X-Men, una testata che aveva perso quasi tutto il proprio appeal nel corso degli anni. Chris Claremont introdusse ai lettori un team quasi del tutto nuovo, e composto da un mutante russo (Colosso), una donna nera dall’Africa (Tempesta), un canadese dal pessimo temperamento e dalla statura decisamente bassa (Wolverine), un tedesco cattolico dall’aspetto diabolico (Nightcrawler) e un nerboruto discendente dei nativi americani (Proudstar) – cui si sarebbe presto aggiunta una tredicenne ebrea (Kitty Pryde).

Giant-Size X-Men 1 fu per il mondo del fumetto quel che The Eternals è oggi per il Marvel Cinematic Universe: un nuovo inizio, per molti spiazzante, con un cast di personaggi costruito a tavolino per essere il più diverso possibile. Allora come oggi, le polemiche da una certa parte dell’opinione pubblica non mancarono. Ma nel corso dei numeri e degli anni, quei personaggi riuscirono a conquistare un posto nel cuore dei lettori – grazie all’energetica immaginazione di Chris Claremont, certo, ma anche grazie all’eterogeneità rispetto a quanto si fosse mai visto prima.

All’epoca, Claremont non fece altro che replicare e amplificare lo spirito delle origini degli X-Men. Lo spirito di quei primi numeri del 1963 in cui Stan Lee e Jack Kirby inventarono un gruppo di giovani supereroi emarginati per la loro diversità, guidati da un leader sulla sedia a rotelle. L’inclusività è presente nel mondo dei supereroi da decenni, anche se ha dovuto compiere una lunga strada prima di diventare matura e onesta – un percorso che non si può ancora definire completo.

Wonder Woman segretaria della JSA negli anni '40
Wonder Woman, segretaria della JSA negli anni ’40

I supereroi nacquero per solleticare le fantasie di potere dei giovani lettori. Nel 1945, Capitan America celebrava la vittoria sui nazisti, Superman sollevava automobili e Wonder Woman… si univa alla Justice Society of America in qualità di segretaria. Solo negli anni ’60, l’intuizione dei supereroi con superproblemi aiutò l’industria dei comic a stelle e strisce a superare il vizio di fondo del genere, ovvero quello di rispondere (in modo più o meno letterale) all’ideale nietzschiano di superuomo, ben poco compatibile con un’idea di diversità. Il primo supereroe inclusivo, in fondo, fu Spider-Man, alias Peter Parker: un ragazzo timido, con gli occhiali, bullizzato dai compagni di classe sin dalla primissima pagina del suo albo introduttivo – anche se qui si continuava a parlare di inclusività selettiva, mirata verso un pubblico di lettori giovani, maschi, bianchi

L’esempio di Spider-Man però può essere importante per far comprendere universalmente l’importanza della rappresentazione. Può servire a esemplificare quanto sia importante, per un giovane lettore, trovare per la prima volta un personaggio in cui identificarsi, e non un semidio indistruttibile e senza preoccupazioni, o uno stereotipo lontano dalla propria esperienza di vita. Può aiutare a dissipare le nebulose critiche di chi fa spallucce dinanzi all’esigenza di introdurre nuovi colori di pelle, etnie, orientamenti sessuali (andando ben oltre al vecchio Peter Parker, che oggi di inclusivo ha ben poco) per raggiungere nuovi lettori, e offrire loro personaggi e storie in cui riconoscersi, come all’epoca fece Spider-Man per decine di migliaia di giovani lettori nerd appassionati di scienze.   

Green Lantern 54
Green Lantern 54 (1994)

Nonostante i passi avanti compiuti dagli X-Men negli anni ‘60 prima e ’70 poi, la diversità restò a lungo tempo confinata a protagonisti maschi bianchiPochi personaggi femminili o di colore riuscirono a conquistare uno spazio rilevante sulle pagine dei fumetti: Tempesta degli X-Men, Pantera Nera, John Stewart. Gli anni ‘90 furono un buco nero di misoginia e stereotipizzazione per tutti i supereroi, che diventarono ipertrofici, violenti giustizieri. A questi anni risale il famigerato topos della “donna nel frigorifero” – un termine coniato dalla scrittrice Gail Simone e che si riferisce a una storia in cui la moglie di Lanterna Verde viene uccisa e ritrovata dall’eroe, fatta a pezzi, e conservata nel frigorifero di casa: in altre parole, l’utilizzo seriale di personaggi femminili esclusivamente come vittime sacrificali sull’altare della motivazione dei supereroi maschi.

Per non parlare della rappresentazione LGBTQ+ nei fumetti: basti pensare che sino al 1989 la Comics Code Authority, l’autorità di autovigilanza “etica” cui aderivano gli editori di fumetti americani, proibiva espressamente qualsiasi forma di raffigurazione alternativa della sessualità nei comic book recanti il proprio bollino di approvazione. Il supereroe Northstart, velocista canadese membro del gruppo Alpha Flight, dovette attendere sino al 1992 per poter fare coming out; in precedenza, gli sceneggiatori potevano solo accennare indirettamente alla sua sessualità. E bisognerà attendere sino al 2012 perché lo stesso Northstar diventi il protagonista del primo matrimonio gay in un albo di supereroi.

Son of KalEl il figlio di Superman  bisex
Son of Kal-El, il figlio di Superman è bisex

L’ultimo decennio è stato fondamentale per la storia dell’inclusività nei fumetti di supereroi. Tra le notizie più recenti a suscitare scalpore nei media vi è la conferma di Dc Comics che Jon Kent, figlio di Superman nella serie Son of Kal-El, è apertamente bisessuale; mentre Batman è reduce da un incontro con Midnighter, supereroe molto simile al Cavaliere Oscuro ma gay e sposato con Apollo (a sua volta una versione più radicale di Superman). Nel mondo Marvel Comics, Kamala Khan è dal 2014 una campionessa della rappresentazione musulmana nei fumetti di supereroi, e uno dei migliori esempi di come si possa realizzare un cast di personaggi inclusivi in grado di conquistare i giovani lettori. Daredevil resta il supereroe cieco più famoso, mentre Maya Lopez, aka Echo, è la sua controparte sorda. Cassandra Cain, alias Batgirl, è una giovane cresciuta senza alcun contatto con la società, muta, analfabeta e con gravi carenze sociali.  

Nonostante tutti i passi avanti compiuti nella rappresentazione dei personaggi, il problema dell’inclusività ha una radice meno visibile. Ovvero, quella degli autori che lavorano dietro le tavole di ogni albo. Stando a statistiche elaborate dall’autore e storico Tim Hanley, nel 2020 la percentuale di autrici donne e non binariə oscillava tra il 20% e il 30% tra gli albi Marvel e Dc Comics. A ottobre, la Dc Comics ha annunciato il Milestone Initiative Development Program per identificare e supportare artisti emergenti neri e di etnie diverse. In tale occasione, però, sono emerse delle statistiche disarmanti per l’industria: ad oggi, gli autori neri rappresentano il 4,9% degli sceneggiatori e il 3,4% degli artisti; per gli asiatici le percentuali si attestano al 4,2% e all’8,4% e per gli autori ispanici e dall’America Latina si sale al 7,1% e all’11,7%.

Sorge, allora, una domanda cui il settore dei comic book dovrà necessariamente trovare risposta: quanto sono sinceri, ed effettivi, i passi avanti nella rappresentazione dei supereroi, se l’inclusività resta relegata alle tavole disegnate ma non a chi le firma?