Banca d’Italia, Dragotto: “La reputazione è un bene intangibile che si alimenta ogni giorno con credibilità e fiducia”
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L’ecosistema della comunicazione sta attraversando un mutamento profondo, caratterizzato sempre più dalla necessità di quella che viene definita ‘comunicazione integrata’. Qual è il suo concetto di ‘comunicazione integrata’? Quali le opportunità e i rischi? E come è cambiata e sta cambiando la professionalità richiesta a un comunicatore in generale e a un comunicatore istituzionale in particolare? Una comunicazione integrata contribuisce a creare e veicolare la visione d’insieme dell’azienda: l’identità, i valori, la cultura. È un’opportunità, non un rischio. È necessario però che alla “comunicazione” sia riconosciuto il rango di funzione d’impresa e non solo di supporto alle altre funzioni ritenute core. E questo purtroppo non sempre accade. Poi, entrano in gioco le abilità di chi comunica: saper ascoltare e interagire con gli stakeholder, che possono essere molto eterogenei tra loro; riuscire ad utilizzare in modo sapiente ed equilibrato strumenti e canali; parlare e coinvolgere i diversi pubblici esterni e quello interno all’azienda. Sto parlando di sinergia e coordinamento. Se tutto questo si realizza, siamo sulla strada giusta per una comunicazione efficace. In questo senso non faccio differenze tra chi comunica per un’Istituzione e chi lo fa per un’impresa.
Molti esperti del settore affermano che, nel nuovo ecosistema della comunicazione, i brand – anche quelli istituzionali – hanno bisogno di uscire dalla loro ‘comfort zone’ per andare incontro al pubblico. A suo parere, cosa significa – o dovrebbe significare – in concreto in termini di strategie comunicative, di linguaggio, di approccio? E cosa significa per le massime realtà istituzionali di economia e finanza italiane, a cominciare dalla Banca d’Italia? La “comfort zone”, per mia esperienza, è venuta meno da tempo. Il pubblico è sempre più attento ed esigente e chiede alle istituzioni – su cui mi soffermo visto che è il mio campo di attività – di dare conto del loro operato. Le istituzioni, dal conto loro, hanno bisogno di farsi conoscere e comprendere per poter consolidare l’affidamento da parte del pubblico. Internet e i social network hanno modificato il paradigma comunicativo. Le piattaforme digitali sono grandi piazze in cui si conversa alla pari anche su argomenti complessi e di cui non si conoscono le possibili sfaccettature. Il rischio di disinformazione è elevato e così anche il danno per un’istituzione che sconta scelte a volte impopolari e un linguaggio tecnico non accessibile. Trasparenza e accountability sono a mio avviso due fattori fondanti di una strategia comunicativa finalizzata a sviluppare una relazione durevole con il pubblico: far conoscere l’istituzione, i suoi valori, le sue funzioni, le sue attività. Il linguaggio merita un discorso a sè stante: è sempre più necessario trovare un punto di equilibrio tra tecnicismo, formalità e semplificazione. Elemento chiave della comunicazione è la reputation. Come si conquista, ma soprattutto come si mantiene nel nuovo ecosistema comunicativo? E qual è l’atteggiamento che un comunicatore deve tenere quando esce una notizia che, potenzialmente, mina la reputation dell’azienda o dell’Istituzione per cui lavora? Mi riaggancio a quanto dicevo prima. La reputazione è un valore intangibile che si costruisce ogni giorno ed è alimentata da credibilità e fiducia che a loro volta non possono prescindere da comportamenti trasparenti e responsabili. La Comunicazione svolge un ruolo strategico nel veicolare questi principi e valori. Con queste armi si affronta una notizia potenzialmente lesiva. L’Italia, secondo un’indagine dell’Ipsos Mori Social Research Institute, è tra i Paesi sviluppati il primo per ‘Misperception Index’, che analizza e confronta il divario accumulato in 37 Paesi fra la percezione della realtà e la realtà stessa. Perché, a suo parere, questo avviene in modo particolare nel nostro Paese? Non ho una risposta sul perché. In generale, credo che più fattori possano contribuire ad una percezione diversa della realtà. Pensiamo ai media. Il risalto o il mancato risalto che danno ad un evento, il modo in cui lo raccontano può contribuire alla sua lettura. Informazioni eccessive a volte discordanti, a volte non accurate nè verificabili, magari amplificate dall’utilizzo dei social possono provocare confusione e alterare la percezione dei fatti. Lo abbiamo visto durante questo periodo di emergenza sanitaria: notizie discordanti hanno creato incertezza nei comportamenti e disorientato anche sulle precauzioni da adottare. Sulle piattaforme social a volte si perde il confine fra fatto e opinione e anche questo contribuisce ad alterare la percezione della realtà. Il senso di disapprovazione e le emozioni che originano da un evento, il contesto socio-economico ma anche le esperienze personali a loro volta influenzano gli stati d’animo, la lettura della realtà, le risposte ad un’indagine.
Collegandoci alla domanda precedente, c’è il tema delle ‘fake news’. Come una professionista del suo livello le contrasta quando le rileva? Con quali metodi, con quale approccio? Cercando di riportare ordine e correttezza nell’informazione, pubblicando precisazioni su fatti e dati, separando i fatti dalle opinioni. In sintesi, iniziative di fact checking e una reazione decisa e tempestiva che tiene conto della gravità della disinformazione procurata dalla notizia falsa. La notizia manipolata è un incubo per ogni comunicatore, l’impegno è sempre quello di essere chiari e utilizzare un linguaggio univoco per minimizzare il rischio. Detto questo, la rete produce disintermediazione e questo facilita e alimenta le fake news. Ricondurre un’informazione alla sua corretta lettura può tuttavia diventare impresa ardua quando la notizia falsa è sostenuta da pregiudizio e interpretazione strumentale. La fake news resterà nel retropensiero dei lettori e verrà riproposta all’occorrenza. Da molte statistiche e studi emerge che, tra i cittadini dei Paesi sviluppati, gli italiani presentano un livello medio assai basso in termini di conoscenze economico-finanziarie di base. Sono in atto, anche da parte di Banca d’Italia, iniziative concertate di comunicazione per provare a colmare questo gap. Qualche risultato sta emergendo o siamo ancora a notte fonda? La cultura finanziaria è inclusione, autotutela, consapevolezza nelle scelte quotidiane di spesa e di investimento. La comunicazione è focalizzata su questi messaggi. Banca d’Italia e IVASS partecipano e agiscono in sinergia con il Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria. Oggi esiste una strategia nazionale, il mese di ottobre dedicato all’educazione finanziaria, assicurativa e previdenziale; con Soroptimist è stato lanciato un corso dedicato alle donne più fragili. Banca d’Italia ha attivato il portale “L’economia per tutti” nel quale è possibile trovare informazioni per orientarsi nella gestione del denaro, nel risparmio, negli investimenti; ha siglato accordi con il MIUR per la formazione finanziaria nelle scuole; svolge seminari formativi a livello territoriale. IVASS ha pubblicato video-game, quiz e guide didattiche. Le iniziative per lo sviluppo della cultura finanziaria sono numerose. I risultati, anche se lentamente, stanno arrivando e cresce l’interesse degli utenti per queste iniziative. Un’indagine promossa dall’OCSE nel 2020 su 26 paesi, rileva che, in una scala da 1 a 21, il livello medio di alfabetizzazione finanziaria degli italiani è 11,2, in lieve miglioramento rispetto alla precedente rilevazione del 2017 ma ancora indietro rispetto al 12,7 degli altri paesi. Il gruppo di lavoro G20, sotto la Presidenza italiana, ha comunicato che saranno analizzati gli effetti della pandemia sull’inclusione finanziaria delle fasce più vulnerabili della popolazione e delle micro-imprese e che verranno individuate le azioni da intraprendere per colmare i divari generati dalla crisi.
Donne e comunicazione economico-finanziaria. Lei, insieme a Janina Benedetta Landau, ha scritto il libro “#Comunicatrici”, che contiene nove interviste a donne manager impegnate nel mondo della comunicazione all’interno di grandi realtà italiane e internazionali e traccia un’interessante e inedita panoramica sul mondo della comunicazione al femminile. Qual è lo stato d’arte sull’argomento e quale il messaggio cruciale che invia il libro? Le donne hanno, in genere, una predisposizione all’autocritica elevata e una propensione al rischio bassa: queste caratteristiche sovente le spingono a fare un passo indietro piuttosto che a mettersi in gioco. Il libro racconta storie di successo femminile perché intende lanciare un messaggio preciso: credere nelle proprie abilità, investire in sé stesse e nelle proprie competenze costituiscono il primo passo per una crescita professionale, sociale, familiare. È una lettura un po’ diversa perché prova a mettere in luce anche gli ostacoli che le donne pongono a se stesse. Detto questo, il contesto culturale, i comportamenti, il linguaggio spesso non sono rispettosi della figura femminile. Il libro racconta dell’aggressività via social, dell’offesa fisica, della difficoltà di conciliare vita lavorativa e famiglia in assenza di un sistema di welfare pubblico o di condizioni economiche non adeguate. Secondo una recente indagine di Ministero del Lavoro e Banca d’Italia, a fine febbraio le posizioni lavorative occupate da donne erano 76 mila in meno rispetto al precedente anno e tra le ragioni si cita proprio la difficoltà di conciliare l’attività lavorativa con i carichi familiari durante l’emergenza sanitaria. L’Italia appare in ritardo sul fronte della digitalizzazione e sull’uso del digitale. E in questo ritardo sono compresi anche pezzi importanti della comunicazione. Crede che l’esperienza che stiamo vivendo con il Covid-19 potrà dare una spinta decisiva per recuperare il terreno perduto? Spero proprio di si. E spero soprattutto che il processo di digitalizzazione sia inclusivo. La pandemia ha dato un’accelerazione alla domanda di connessione per poter rispondere a bisogni essenziali come lavorare, studiare, acquistare beni primari, comunicare. Ma il digital divide esiste e su questo bisogna intervenire. Per chi comunica, la sfida principale è sfruttare il digitale in modo ottimale. Questo non significa semplicemente conoscere le diverse piattaforme ma soprattutto acquisirne confidenza e capirne le implicazioni, decidere la strategia di comunicazione web, scegliere dove stare e con quali contenuti. Perché sul web non bisogna solo esserci ma starci. Oggi la comunicazione è sempre più un racconto sul digitale.
Per le esperienze professionali di alto livello che ha avuto e che ha, si trova in una posizione privilegiata nel cogliere l’humus di fondo del Paese. Dietro le ansie e le preoccupazioni antiche e recenti, dietro lo stordimento di questo periodo scorge un Paese rassegnato o ancora vitale? In altre parole, come vede l’Italia e come la comunicherebbe nei suoi tratti fondamentali guardando al futuro? L’estate scorsa ci eravamo illusi di aver superato l’emergenza sanitaria ma la recrudescenza dei contagi in autunno ci ha ricordato che nulla è ancora passato. Dolore, angoscia, ansia sicuramente rendono bene l’idea di quello che stiamo vivendo da oltre un anno. Oggi le speranze e le attese sono riposte sui progressi e sul buon esito della campagna di vaccinazione. Non percepisco rassegnazione, anzi il contrario. La prospettiva è il ritorno alla normalità, che magari sarà diversa da quella finora vissuta, ma sarà pur sempre una normalità. Credo che comunicherei il Paese partendo dallo spirito di adattamento finora dimostrato e puntando sulla capacità di reagire e di adattarsi al cosiddetto “new normal”.
L’economia, rifacendosi alla definizione coniata dallo storico del XIX secolo Thomas Carlyle, viene talvolta chiamata la “Scienza triste”. Lei, che l’economia la comunica, la trova così triste? Non trovo l’economia una scienza triste, semmai rigorosa. Dietro ogni numero c’è un’analisi che ne spiega il perché. E poiché sono una razionale, mi piace ripercorrere i processi logici. Comunicare l’economia è molto interessante.
COME SI COMPORTANO GLI ANIMALI SOCIALI NEL LORO HABITAT
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Premessa: l’uomo come animale sociale
L’uomo è per natura un animale sociale, e – come diceva Aristotele – vive con il costante bisogno di confronto e di rapporto. La condivisione di esperienze, eventi sociali, rivoluzioni culturali e avvenimenti storici influiscono sulla formazione della personalità, delle attitudini e dei valori degli individui, e determinano i tratti fondamentali di una generazione. Con questo articolo andiamo brevemente a indagare le motivazioni secondo cui lo stesso bisogno avvertito da persone di età diverse venga colmato dai social network. Partiamo da un assunto: nel mondo odierno convivono sulle piattaforme sociali 3 diverse generazioni, ovvero i Baby Boomer, i Millennials e la Generazione Z: sono spesso presenti su tutte le piattaforme di tendenza (Facebook, Instagram e TikTok), ma allo stesso tempo preferiscono esprimersi intensivamente su quella che più li rappresenta.
Facebook
Il mondo dei Baby Boomer e del “Buongiornissimo caffè”. Originaariamente locazione ideale per testi lunghi e petulanti che creavano apparente socialità, ma non evasione da un mondo già pesante di per sé. Attualmente, “sfogatoio” digitale, social inutilizzabile e poco utilizzato dai giovani, poiché privo di contenuti interessanti tali da valer la pena frequentarlo. Il nonnismo soffoca la libertà d’espressione e pesa sulle nuove correnti di pensiero che preferiscono un ambiente più liberale. Nota positiva? Ricorda i compleanni.
Instagram
È la terra di mezzo. Tutte le generazioni confluiscono lì, ma è per definizione lo spazio dei Millennials. È il social in cui prevale la comunicazione fotografica d’impatto ed è sede di ostentazione della perfezione. Si apre l’App e si viene travolti da un’ondata di tossica finzione, nella quale l’immagine che si mostra di sé conta più di ciò che si è realmente.
TikTok
È la piattaforma di chi è nato con lo smartphone in tasca, con la rivoluzione in testa e con la voce più forte degli altri: i nativi digitali comunemente chiamati Gen Z. È il rifugio sicuro dove ogni ragazzo può esprimere sé stesso e i propri talenti senza paura del giudizio. Su TikTok si condividono valori in cui credere, sperare e sognare. Un social di mentalità aperta, dove si premia l’imperfezione e per certi versi si esaltano i difetti.
Social: opportunità e problemi
Abbiamo sottolineato i tratti distintivi di queste piattaforme, ora indaghiamone le criticità. Viviamo in una società molto competitiva, dove esisti solo se gli altri si accorgono di te: per questo ognuno urla più forte che può, per autodeterminarsi anche a costo di danneggiare il prossimo. La pressione sociale è molto sentita, tanto che si viene a creare un collasso epistemico, urlando per noi e contro gli altri, schiacciando i più deboli: opprimere un utente online non limita i danni su di esso offline, ma anzi può generare disturbi alimentari, ansia, depressione, rifiuto di esprimersi.
Più è ampia la libertà di espressione, più abbiamo la sensazione di poterci esprimere anche attaccando aggressivamente, e così facendo limitiamo il diritto alla altrui diversità e – implicitamente – promuoviamo l’omologazione. I social, mezzo di espressione potentissimo, costituiscono anche un’arma letale in mano a chi è in disaccordo con un’idea, il quale non si limita a esprimere il proprio pensiero, ma scredita quello altrui denigrando pubblicamente anche la persona che l’ha espresso.
Conclusioni
Dal punto di vista dei Millennials e della Gen Z, Facebook è inutilizzabile, Instagram nonostante i difetti e l’ostentazione della perfezione rimane il social più gettonato, e TikTok il più liberale e in ascesa. Siamo animali sociali che hanno bisogno di credere in qualcosa per vivere: i giovani credono nei Social come strumento per avvicinarsi in qualche modo a ciò che non hanno. Ammettiamolo: tutti gli stereotipi irraggiungibili creano disagi e insicurezze, ma vedere vite perfette – anche se è chiaro che non rispecchiano la realtà – ti fanno fluttuare in quella bolla di irrealismo sottilmente piacevole, che rappresenta l’evasione da una giornata No, e ti fa sognare di poter vivere, prima o poi, una vita alla Chiara Ferragni.
L’Oms pubblica il primo rapporto globale sull’intelligenza artificiale per la salute
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L’intelligenza artificiale (AI) è molto promettente per migliorare l’assistenza sanitaria e la medicina in tutto il mondo, ma solo se l’etica e i diritti umani vengono messi al centro della sua progettazione, implementazione e utilizzo. Questo il principio cardine delle nuove linee guida dell’OMS pubblicate recentemente.
Il rapporto, Etica e governance dell’intelligenza artificiale per la salute, è il risultato di 2 anni di consultazioni tenute da un panel di esperti internazionali nominati dall’OMS .
“Come tutte le nuove tecnologie, l’intelligenza artificiale ha un enorme potenziale per migliorare la salute di milioni di persone in tutto il mondo, ma come tutte le tecnologie può anche essere utilizzata in modo improprio e causare danni”, ha affermato Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’OMS. “Questo nuovo importante rapporto fornisce una guida preziosa per i paesi su come massimizzare i benefici dell’IA, riducendo al minimo i suoi rischi ed evitando le sue insidie”.
Sei principi per garantire che l’AI sia applicata nell’interesse pubblico in tutti i paesi
Per limitare i rischi e massimizzare le opportunità intrinseche all’uso dell’IA per la salute, l’OMS fornisce i seguenti principi come base per la regolamentazione e la governance dell’IA:
Proteggere l’autonomia dell’uomo: nel contesto dell’assistenza sanitaria, ciò significa che gli esseri umani dovrebbero mantenere il controllo dei sistemi sanitari e delle decisioni mediche; la privacy e la riservatezza dovrebbero essere protette e i pazienti devono fornire un valido consenso informato attraverso adeguati quadri legali per la protezione dei dati.
Promuovere il benessere e la sicurezza delle persone e l’interesse pubblico. I progettisti di tecnologie di intelligenza artificiale dovrebbero soddisfare i requisiti normativi di sicurezza, accuratezza ed efficacia per casi o indicazioni ben definiti. Devono essere disponibili misure di controllo della qualità e di miglioramento di quest’ultima in relazione all’impiego dell’AI.
Garantire trasparenza e intelligibilità. La trasparenza richiede che siano pubblicate o documentate informazioni sufficienti prima della progettazione o dell’implementazione di una tecnologia di intelligenza artificiale. Tali informazioni devono essere facilmente accessibili e facilitare una consultazione pubblica e un dibattito su come è stata progettata la tecnologia e su come dovrebbe o non dovrebbe essere utilizzata.
Promuovere responsabilità e appropriatezza. Sebbene le tecnologie di intelligenza artificiale svolgano compiti specifici, è responsabilità delle parti interessate garantire che vengano utilizzate in condizioni appropriate e da persone adeguatamente formate.
Garantire l’inclusione e l’equità. L’inclusività richiede che l’IA per la salute sia progettata per incoraggiare l’uso e l’accesso più equo possibile, indipendentemente da età, sesso, genere, reddito, razza, etnia, orientamento sessuale, abilità o altre caratteristiche protette dai codici dei diritti umani.
Promuovere un’IA reattiva e sostenibile. I progettisti, gli sviluppatori e gli utenti dovrebbero valutare in modo continuo e trasparente le applicazioni AI durante l’uso effettivo per determinare se l’AI risponde in modo adeguato e appropriato alle aspettative e ai requisiti. I sistemi di IA dovrebbero anche essere progettati per ridurre al minimo le loro conseguenze ambientali e aumentare l’efficienza energetica. I governi e le aziende dovrebbero essere in grado di affrontare eventuali interruzioni sul posto di lavoro, comprese quelle per la formazione degli operatori sanitari per adattarsi all’uso dei sistemi di intelligenza artificiale e le potenziali perdite di posti di lavoro dovute all’uso di sistemi automatizzati.
I rapporti di sostenibilità: uno strumento sopravvalutato
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Negli ultimi vent’anni, molti accademici, consulenti, manager e dirigenti di ONG lungimiranti hanno promosso un approccio teorico che delinea quello che può fare un’azienda per prosperare anche portando avanti una linea più verde e socialmente responsabile. Queste persone, che chiamerò collettivamente la “Sostenibilità SpA”, sono convinte che quando un’azienda si impegna seriamente a misurare la propria performance in materia di sostenibilità e a divulgare i risultati, succedono quattro cose:
1. migliora il suo bilancio ESG (cioè la sua performance in materia di ambiente, impegno sociale e governance), perché tutto quello che viene misurato può essere gestito;
2. emerge un legame tra le aziende che possono vantare risultati migliori in termini di sostenibilità e i rendimenti per gli azionisti;
3. investitori e consumatori ricompensano le aziende più sostenibili e mettono sotto pressione quelle meno sostenibili;
4. i metodi per misurare l’impatto sociale e ambientale diventano più rigorosi, accurati e largamente accettati.
Col tempo, questo circolo virtuoso dovrebbe portare a una forma di capitalismo più sostenibile.
Un osservatore distratto potrebbe pensare che questo approccio stia funzionando. Nel 2011 Yvon Chouinard, Jib Ellison e Rick Ridgeway, autori dell’articolo “L’economia sostenibile” (Harvard Business Review ottobre 2011), si dicevano sicuri che presto la sostenibilità sarebbe diventata «semplicemente il modo normale di fare affari». In una certa misura, i fatti hanno dato loro ragione: il numero di aziende che compilano rapporti di sostenibilità sociale usando i criteri della GRI, l’Iniziativa globale di reporting (i più accurati a disposizione) si è centuplicato negli ultimi vent’anni. Nello stesso periodo, secondo la Global Sustainable Investment Alliance, gli investimenti socialmente responsabili sono cresciuti arrivando a oltre 30.000 miliardi di dollari, un terzo di tutte le attività del settore della gestione patrimoniale.
Tuttavia, uno sguardo più attento ai dati sembra indicare che l’impatto del movimento di misurazione e divulgazione è stato sopravvalutato. In questi stessi vent’anni in cui si è assistito a un boom dei rapporti di sostenibilità e degli investimenti ESG, le emissioni di anidride carbonica hanno continuato ad aumentare e i danni ambientali si sono intensificati. (Si veda il box “Livelli di CO2 in crescita nonostante la maggiore attenzione al problema”.) Anche le disuguaglianze sociali sono in aumento: per esempio, negli Stati Uniti il divario fra la retribuzione dell’amministratore delegato mediano e il lavoratore mediano si è allargato, nonostante ora esista l’obbligo di comunicare questo rapporto, per le società quotate in borsa.
I rapporti di sostenibilità non sono un indicatore di progresso. La misurazione spesso è disomogenea, incompleta, imprecisa e fuorviante. E i titoloni che sbandierano nuovi e decisivi progressi sul fronte della trasparenza e degli investimenti socialmente responsabili spesso sono solo greenwishing, per usare l’espressione coniata da Duncan Austin, un ex gestore di investimenti ESG. Ma c’è di peggio: l’ossessione per questi rapporti di sostenibilità può finire per rappresentare addirittura un ostacolo al progresso, perché consuma banda larga, esagera i benefici e distrae dalla necessità molto concreta di introdurre cambiamenti della mentalità, della regolamentazione e del comportamento delle imprese.
NON MISURARE
Sono una delle persone che hanno contribuito a questo fallimento, un esponente entusiasta della Sostenibilità SpA. Dal 1992 al 2007 ho lavorato in Timberland, il produttore di scarpe e abbigliamento, determinato a coniugare business ed equità. Durante la mia permanenza in quell’azienda (che si concluse con un periodo di sette anni come direttore operativo), l’approccio di Timberland all’equità si fondava su tre pilasti: rispetto dei diritti umani, attenzione per l’ambiente e servizio alla comunità.
Prendevamo sul serio quegli impegni. Nel 1995 Timberland cominciò a offrire ai dipendenti 40 ore di servizi socialmente utili retribuiti; fu una delle prime società quotate in borsa a usare le energie rinnovabili per alimentare le sue fabbriche; riportava sulle scatole di scarpe un punteggio “Green Index”, precorrendo il metodo delle etichette che informano i consumatori sull’impatto ambientale e sociale del prodotto. Inoltre, cominciò a pubblicare già nel 2001 un rapporto sulla responsabilità sociale aziendale e nel 2008 prese a pubblicarli ogni trimestre, insieme alle relazioni finanziarie. Eravamo convinti che la misurazione e la trasparenza avrebbero messo in moto una gara a trovare soluzioni sostenibili nel nostro settore, generando al tempo stesso pressioni salutari da parte di investitori e consumatori.
L’attenzione di Timberland agli affari e all’equità produsse risultati finanziari solidi e costruì una cultura forte. Ottenemmo perfino un riconoscimento presidenziale per il nostro civismo aziendale. Tuttavia, scoprimmo che è estremamente difficile cambiare le regole della concorrenza in un settore: per cambiare veramente, la semplice azione individuale non basta, ci vuole molto di più. Inoltre, stilare un rapporto non è di per sé garanzia di miglioramenti sul piano ambientale e sociale, anche se la gente spesso associa le due cose. E anche se è vero che alcuni ricercatori hanno scoperto che esiste un rapporto fra performance ESG e profitti finanziari, finora si tratta semplicemente di una correlazione. La realtà è che non sappiamo se una buona performance ESG sia la causa di un miglior rendimento finanziario o se dipendano entrambi dalla qualità della gestione.
Un decennio dopo aver pubblicato “L’economia sostenibile”, l’autore principale, Yvon Chouinard (fondatore di Patagonia e vero e proprio pioniere dell’ambiente), non è più così ottimista. Recentemente ha dichiarato: «Si parla solo di crescita, crescita, crescita, ed è questo che sta distruggendo il pianeta». Anche altri importanti esponenti del movimento per la sostenibilità non credono più nelle prospettive della misurazione e divulgazione. Secondo Auden Schendler, l’ex vicepresidente anziano responsabile della sostenibilità per la Aspen Skiing Company e autore del libro Getting Green Done, «la misurazione e la divulgazione delle politiche di sostenibilità di un’azienda sono diventati obiettivi in sé, invece di essere un mezzo per migliorare i risultati ambientali o sociali. È come se una persona decidesse di fare una dieta e cominciasse a contare in modo fanatico le calorie, ma continuasse a mangiare lo stesso numero di merendine e cheeseburger».
I limiti dei rapporti di sostenibilità divennero evidenti anche in Timberland. Nonostante le buone intenzioni del gruppo dirigente, la crescita dei ricavi, durante la mia permanenza in quell’azienda, portò con sé anche un aumento dell’impronta ecologica della società. E a un certo punto, dopo la mia partenza, e dopo che l’azienda era stata venduta alla VF nel 2011, Timberland smise di riportare sulle etichette delle scatole di scarpe il punteggio di Green Index, perché calcolarlo era molto complesso. La VF ha smesso di comunicare dati disaggregati sulle emissioni di anidride carbonica di Timberland, anche se continua a impegnarsi in modo credibile per rendere pubblica l’impronta ecologica complessiva del gruppo.
I PROBLEMI DEI RAPPORTI DI SOSTENIBILITÀ
È indubbio che una maggiore attenzione a questioni ambientali, sociali e di governance concrete possa produrre risultati sociali, ambientali e finanziari migliori per le singole aziende. Il ritorno più probabile è quello che assume la forma di una riduzione del costo del capitale (perché si riesce a gestire meglio i rischi) e il fatto di focalizzarsi sulla sostenibilità può aiutare a migliorare i margini di profitto e a rafforzare il valore del marchio. Detto questo, le iniziative di sostenibilità aziendale, prese complessivamente, non incidono granché sulla società o sul pianeta. A questo bisogna aggiungere che i metodi usati per stilare i rapporti di sostenibilità presentano alcuni limiti molto concreti.
Mancanza di obbligatorietà e di certificazione. La maggior parte delle aziende può scegliere con assoluta discrezionalità quali criteri applicare e quali informazioni includere nei suoi rapporti di sostenibilità. Inoltre, nonostante circa il 90% delle aziende più importanti ormai sforni rapporti di questo tipo, quelli sottoposti alla certificazione di un ente indipendente sono una minoranza. Il risultato è che molti dei dati inseriti sono fuorvianti e incompleti. Tutto il contrario delle relazioni finanziarie, che seguono criteri concordati e dove la conformità è assicurata da un organismo al di sopra delle parti (negli Stati Uniti, la Securities and Exchange Commission).
Obiettivi capziosi. Secondo uno studio del 2016, che ha preso in esame oltre 40.000 rapporti di sostenibilità, meno del 5% delle aziende menziona i limiti ecologici a cui dovrebbe essere vincolata la crescita economica. Ancora di meno (neanche l’1%) erano quelle che dichiaravano di tenere conto di obiettivi fondamentali in linea con le stime degli esperti sui limiti del pianeta, al momento di sviluppare i loro prodotti; la maggior parte delle aziende preferiva fissare gli obiettivi sulla base delle loro capacità o aspirazioni. Da quando è stato realizzato quello studio, è diventato più comune fissare traguardi basati su dati scientifici e stabilire le quote di emissioni per centrarli, ma al momento siamo ancora allo stadio delle aspirazioni.
Catene logistiche poco trasparenti. La corsa alla manodopera a basso costo ha portato a catene logistiche fortemente sparpagliate, dove i produttori delle merci spesso sono collocati in posti lontanissimi dagli utenti finali. Nel settore che conosco meglio, abbigliamento e calzature, le catene logistiche sono diventate invisibili. Quando cominciai a lavorare per Timberland, la stragrande maggioranza degli stivali e delle scarpe con il nostro marchio era prodotta in fabbriche di proprietà dell’azienda, situate quasi tutte negli Stati Uniti: gli operai che lavoravano per noi erano fra i nostri clienti, le decisioni sociali e ambientali che prendevamo avevano un impatto locale. Ora non è più così: almeno l’85% della produzione del marchio è all’estero, principalmente in Asia. Inoltre, in tutto il settore, le catene logistiche sono diventate “multistrato” e gli appaltatori sempre più spesso esternalizzano a subappaltatori, rendendo problematica la tracciabilità. E i controlli non riescono a impedire abusi ai danni dei diritti sociali e dell’ambiente.
La mancanza di trasparenza è un problema che affligge anche molti altri settori, come l’industria alimentare, le automobili e le costruzioni. Andy Ruben, che è stato il primo direttore della sostenibilità di Walmart, osserva che «anche aziende con l’influenza di Walmart fanno fatica a capire davvero quello che succede in una catena logistica sempre più globale e interconnessa».
Complessità. I progressi della tecnologia (intelligenza artificiale, satelliti, sensori, blockchain e così via) hanno offerto alle aziende nuovi strumenti per misurare e monitorare il loro impatto ambientale. Ma la reportistica su parametri di sostenibilità vitali presenta ancora grosse falle.
Prendiamo in considerazione il mondo, tanto impenetrabile quanto essenziale, della misurazione delle emissioni. Per avere un quadro completo della propria impronta ecologica, un’azienda deve misurare tre tipi di emissioni: quelle prodotte dalle sue strutture e dai suoi veicoli, che quindi sono sotto il suo controllo diretto (classificate come sfera 1), quelle associate all’energia elettrica che acquista (sfera 2) e tutte le altre emissioni a monte e a valle del suo processo produttivo, incluse quelle generate da fornitori e distributori, dai viaggi d’affari dei dipendenti e dall’uso che viene fatto dei prodotti forniti dall’azienda (sfera 3). Secondo il CDP, il maggiore aggregatore mondiale di dati sulle emissioni delle aziende, meno della metà delle aziende che pubblicano dati di questo tipo, monitora e riporta le emissioni della sfera 3.
Non è una questione di poco conto. Per molte aziende, le emissioni della sfera 3 rappresentano il grosso del loro impatto in termini di gas serra. Timberland, per esempio, nel 2009 calcolava che più del 95% delle sue emissioni ricadeva all’interno della sfera 3 e non c’era modo di tracciarle. La complessità, l’assenza di strumenti e la mancanza di misurazioni da parte dei fornitori a monte e degli utenti a valle rendono pressoché impossibile accedere ai dati necessari per compilare un profilo accurato delle emissioni (Si veda il box “La sfida di tracciare le emissioni della sfera 3”).
Informazioni contraddittorie. Anche i consumatori che hanno a cuore i problemi legati alla sostenibilità e cercano con ostinazione informazioni al riguardo, spesso fanno fatica a interpretare i rapporti di sostenibilità. Per esempio, cosa deve fare un consumatore quando legge che Patagonia per fabbricare una delle sue giacche di pile genera 9 chili di CO2, o quando sente dire dalla Levi’s che la produzione e la successiva manutenzione (lavaggio) di un paio di jeans 501 aggiungerà 48,9 grammi di fosforo agli ambienti marini o di acqua dolce? A differenza delle temperature o delle calorie, i consumatori non hanno nessun punto di riferimento intuitivo che possa aiutarli a comprendere molti dei parametri di impatto ambientale. Perfino quei parametri che sembrano facili da capire possono generare confusione. Prendiamo il caso della quantità di acqua necessaria per produrre una bottiglia di Coca-Cola da un litro: le stime della Coca-Cola Company variano da meno di 2 litri d’acqua a 70 litri a seconda della metodologia usata.
Scarsa attenzione ai Paesi in via di sviluppo. Nei suoi sforzi per promuovere l’adozione ad ampio raggio dei rapporti di sostenibilità, la Sostenibilità SpA si è concentrata prevalentemente sulle società quotate in borsa americane ed europee. Però sarà in Cina, in India e in Africa che si avrà l’incremento più importante dei consumi, delle emissioni e degli impatti sociali nei prossimi decenni. Già adesso i produttori dei Paesi in via di sviluppo stanno puntando maggiormente sul loro mercato interno per crescere. Se vogliamo avere una speranza di preservare le risorse mondiali fondamentali, le aziende di quei mercati dovranno imparare a gestire le risorse in modo molto più efficiente, con strutture di governance più solide.
I PROBLEMI DEGLI INVESTIMENTI SOSTENIBILI
Anche se i rapporti di sostenibilità presentano gravi limiti, la domanda di investimenti sostenibili è in rapida crescita e sta avendo un impatto positivo per la società e l’ambiente. Giusto?
Sì, se fosse vero.
Quando ero direttore operativo di Timberland, dal 2000 al 2007, partecipai 28 volte, insieme all’amministratore delegato e al direttore finanziario, alla presentazione dei nostri risultati trimestrali a Wall Street. Ogni volta, l’amministratore delegato dedicava un terzo del testo della presentazione al programma di “equità” della Timberland, ossia la sua performance ESG. Neanche una volta ci fu qualcuno che gli fece domande di qualsiasi genere su quella parte della presentazione. Una recente conversazione con il direttore finanziario di una società quotata in Borsa con una capitalizzazione di mercato superiore ai 30 miliardi di dollari mi induce a credere che non sia cambiato molto da quel punto di vista: a quanto mi diceva, nelle numerosissime presentazioni per gli investitori che aveva fatto, aveva ricevuto tre domande in tutto su questioni legate alla performance ESG. Anche se ipotizziamo che la maggior parte degli investitori abbia a cuore queste problematiche, non è evidente in che modo la loro pressione possa produrre progressi reali sul piano sociale e ambientale. Ecco una lista parziale dei motivi:
Definizioni poco utili di “sostenibilità”. Secondo la Global Sustainable Investment Alliance, quasi i due terzi dei dollari classificati come investimenti socialmente responsabili sono in fondi a “schermo invertito”. Si tratta di fondi che possono definirsi sostenibili perché escludono una o più categorie di investimenti (per esempio il tabacco o le armi da fuoco). Un metodo di investimento che può piacere ai singoli investitori, ma che non fa nulla per individuare, promuovere o ricompensare l’impatto su ambiente, società e governance. Ancora più preoccupante è il fatto che i fondi che vengono esplicitamente pubblicizzati come sostenibili non sempre tengono fede a quanto affermano. Uno studio di Barclay del 2020 ha analizzato vent’anni di investimenti ESG senza trovare nessuna differenza fra i titoli che avevano in pancia i fondi sostenibili e quelli tradizionali, e un’inchiesta del Wall Street Journal ha rivelato che otto dei dieci fondi ESG più importanti nel 2019 investivano in compagnie petrolifere e del gas.
Valutazioni inaffidabili. John Elkington, uno dei padri fondatori del movimento per la sostenibilità, propose lo schema del “triplo bilancio” per i rapporti di sostenibilità nel 1994. Fu l’inizio di un diluvio: da allora sono state proposte decine di altri schemi di valutazione e si è avuta una proliferazione di organismi di normazione e società di valutazione. Ma la crescita del numero di società di valutazione della performance ESG delle aziende non ha migliorato l’affidabilità. Come già osservato, ci sono problemi strutturali legati alla misurazione e alla divulgazione della performance ESG, perché i dati sono comunicati su base volontaria, normalmente non sono sottoposti a certificazione da parte di un ente indipendente e sono incompleti. I ricercatori della Sloan School of Management del MIT hanno recentemente condotto uno studio su sei delle maggiori società di valutazione della performance ESG e hanno concluso che «le valutazioni di società differenti discordano notevolmente […]. Le correlazioni fra le valutazioni sono in media di 0,54 e variano da 0,38 a 0,71. Questo significa che le informazioni che i decisori ricevono dalle agenzie di valutazione ESG sono relativamente caotiche». A ciò bisogna aggiungere che i valutatori di solito non sembrano avere idea di quello che succede realmente all’interno delle aziende. Per esempio, sia Volkswagen che boohoo (il rivenditore di fast fashion inglese) ricevevano punteggi alti dalle società di valutazione prima che venissero fuori i rispettivi scandali (la manipolazione dei dati sulle emissioni delle sue macchine diesel nel caso Volkswagen e lo sfruttamento degli operai in boohoo).
La profusione di organismi di normazione, agenzie di valutazione e dati ha avuto l’effetto opposto a quello voluto. PwC nel 2016 riportava che il 100% delle aziende prese in esame si fidava delle informazioni che stava fornendo, ma meno di un terzo degli investitori condivideva questa fiducia. La filosofa Onora O’Neill ha condotto delle ricerche che spiegano la ragione. Sottolinea che «incrementare la trasparenza può produrre un’inondazione di informazioni disordinate e fuorvianti, che servono quasi solamente a creare confusione se non si riesce a classificarle e valutarle. Può finire per far crescere l’incertezza, invece della fiducia».
Mancanza di confrontabilità. È quasi impossibile confrontare le imprese sulla base della performance ESG. Nel settore del petrolio e del gas, per esempio, le varie aziende compilano con metodologie differenti i loro rapporti sulla sostenibilità: su 51 indicatori rilevanti della GRI, solo 4 sono presenti in oltre tre quarti dei rapporti presentati dalle aziende, secondo i ricercatori dell’Università di Perugia. A volte è difficile anche confrontare la performance di una singola azienda da un anno all’altro, a causa dei cambiamenti di metodologia o delle decisioni di usare parametri o criteri differenti per misurare la stessa cosa.
Le difficoltà per valutare il successo degli investimenti socialmente responsabili. Se misurare i rendimenti azionari è relativamente facile (anche se attribuire i rendimenti a fattori specifici è complicato), misurare l’impatto di un’azienda in termini di ambiente, società e governance è una faccenda parecchio più complessa. A oggi, quasi tutta la ricerca accademica si è focalizzata sulla questione dell’effetto delle iniziative ESG sulla performance finanziaria, trascurando quasi completamente gli effetti sui lavoratori o le risorse naturali. Per dirla in altri termini, se uno degli obiettivi degli investimenti socialmente responsabili è di produrre risultati positivi per la società e per l’ambiente, come facciamo a sapere se quegli investimenti stanno funzionando? Uno studio recente ha trovato poche prove in tal senso. Secondo gli autori, la stragrande maggioranza degli investimenti ESG si indirizza verso fondi comuni che si tengono alla larga da settori specifici (principalmente tabacco e armi) oppure tengono conto dei dati ESG per decidere quali azioni comprare (soprattutto per ottimizzare i risultati finanziari). Tuttavia, nessuna di queste due strategie di investimento ha prodotto risultati sociali o ambientali significativi, secondo i dati.
Le difficoltà di espandere su scala più ampia gli investimenti realmente efficaci. Un sottoinsieme, piccolo ma in rapida crescita, di investimenti socialmente responsabili – l’impact investing – è focalizzato specificamente sulle problematiche sociali. Alcuni impact investor dichiarano esplicitamente di essere disposti ad accettare compromessi in termini di redditività finanziaria; altri promettono di affrontare le problematiche sociali e ambientali senza influire negativamente sui rendimenti. Anche sotto questo aspetto esistono dei problemi. Pure se si accetta la premessa che alcuni di questi investimenti produrranno progressi sul piano sociale o ambientale, la quantità di capitali destinata alla categoria dell’impact investing non è neanche lontanamente sufficiente ad affrontare le sfide enormi che abbiamo di fronte. E questa situazione probabilmente perdurerà fintanto che sarà consentito alle grandi aziende di ignorare le esternalità, cioè le ripercussioni della loro attività per la società.
DOVE FOCALIZZARSI?
Gli sforzi per la sostenibilità in Timberland erano rivolti soprattutto a misurare e migliorare quelle aree dove l’azienda poteva esercitare un certo controllo, per esempio installando pannelli solari su alcuni dei suoi edifici, mettendo lampadine led negli uffici e nei suoi punti vendita e limitando l’orario di lavoro nelle fabbriche delle società appaltanti. Altre aziende che hanno fatto tentativi sinceri di migliorare la loro performance sociale e ambientale generalmente si sono comportate in modo simile, concentrandosi su quelli che i teorici dei sistemi chiamano parametri, segnali da attivare e disattivare per cambiare la performance senza alterare la struttura del sistema in generale.
I ricercatori, tuttavia, hanno scoperto che quei parametri raramente producono un impatto reale. La compianta Donella Meadows, autrice principale de I limiti dello sviluppo e professoressa emerita di dinamica dei sistemi presso il Dartmouth College, ha analizzato 12 tipi di intervento che influenzano la performance dei sistemi ed è giunta alla conclusione che i parametri sono i meno efficaci. A occhio, il 99% degli sforzi è indirizzato ai parametri, ha scritto, «ma la loro capacità di influenza è limitata».
Gli interventi in grado di spostare realmente l’ago sono in gran parte al di fuori del controllo delle singole aziende. Sono interventi poco popolari nel mondo delle imprese, perché richiedono cambiamenti nelle regole che governano il comportamento delle aziende, la fissazione di nuovi prezzi delle risorse per affrontare il problema fallimenti del mercato e un riorientamento del modo in cui sono distribuiti i beni pubblici e il potere.
Sfortunatamente, l’ossessione della Sostenibilità SpA per la misurazione e la divulgazione, e la premessa di fondo che un cambiamento basato sul mercato sia sufficiente, probabilmente ha contribuito a ritardare queste trasformazioni strutturali indispensabili. E lo stesso si può dire per la fiducia malriposta in approcci eccessivamente enfatizzati come la “creazione di valore condiviso” e “l’economia circolare”: queste soluzioni vengono sbandierate come rimedi indolori e dove tutti ci guadagnano, ma chi le promuove cita a supporto casi di studio, non ricerche empiriche. Nel suo discorso alla Cop25, la Conferenza per il clima, nel 2019, l’attivista climatica Greta Thunberg aveva sottolineato acutamente: «Il pericolo più grande non è l’inazione. Il pericolo vero è quando politici e amministratori delegati danno a credere che stiano facendo qualcosa di concreto quando in realtà non stanno facendo quasi niente, a parte artifici contabili e propaganda creativa».
Ciò non significa che investitori e aziende non siano in grado di incidere in qualche modo. Il fatto che un’azienda decida di perseguire obiettivi fondati sulla scienza è una via promettente per il miglioramento. È una buona notizia che aziende come Apple e Microsoft si stiano impegnando per arrivare a zero emissioni (lavorando anche sulle emissioni di sfera 3) entro un arco temporale coerente con l’approccio generale basato sui limiti del pianeta. Proprio recentemente, BMW ha annunciato che l’impronta ecologica dei fornitori d’ora in avanti sarà un fattore chiave per decidere a chi assegnare gli appalti di fornitura e Climate TRACE, una coalizione finanziata, fra gli altri, da Google, sta sviluppando uno strumento satellitare per misurare in tempo reale tutte le emissioni, incluse quelle della sfera 3. Sono passi avanti benvenuti.
Ma se vogliamo piegare verso il basso la crescita delle emissioni globali e affrontare efficacemente le sfide ambientali e sociali, serve un approccio più aggressivo. I suggerimenti che seguono sono un buon punto di partenza.
Misurare meno, ma meglio. L’attuale pletora di autorità e quadri di riferimento per la misurazione della performance ESG è scomoda, confusa e onerosa per le aziende. È incoraggiante il fatto che cinque dei maggiori organismi di normazione e misurazione (fra cui la GRI e il Sustainability Accounting Standards Board) stiano collaborando per snellire e armonizzare i criteri per la stesura dei rapporti. La Commissione europea e la International Financial Reporting Standards Foundation stanno portando avanti ulteriori iniziative per migliorare i metodi di reportistica. La mia speranza è che emerga, fra le altre cose, un impegno a un’applicazione trasparente di obiettivi rigorosi fondati sulle conoscenze scientifiche e in linea con i limiti della natura. A prescindere dai criteri che finiranno per prevalere, i rapporti di sostenibilità devono essere imposti e verificati da un ente neutrale provvisto dei poteri necessari.
Mobilitare. Gli interessi costituiti e l’inerzia dei sistemi rappresentano ostacoli enormi per il progresso. I tentativi di autoregolamentarsi hanno prodotto progressi marginali, che sono stati assorbiti dall’attività corrente e dall’incessante pressione per la crescita. Tuttavia, di fronte all’evidenza crescente della dannosità e dell’accelerazione dei cambiamenti climatici, movimenti mondiali spontanei di sensibilizzazione come il Sunrise Movement e 350.org stanno creando quelli che l’eroe del movimento per i diritti civili John Lewis chiamava «problemi buoni».
Spendere i fondi pubblici sulle cose giuste. Secondo il FMI, i sussidi per i combustibili fossili a livello mondiale hanno superato i 5.000 miliardi di dollari nel 2017. Negli Stati Uniti, si spendono decine di miliardi di dollari in sussidi per i biocombustibili, come l’etanolo. È una cosa che non ha senso: stiamo usando denaro dei contribuenti per sovvenzionare fonti energetiche che accelerano i danni futuri per l’ambiente. Immaginate se i Governi investissero quelle risorse in progetti di ricerca e sviluppo per la cattura delle emissioni, in incentivi per la riqualificazione energetica degli edifici o infrastrutture per stimolare una più rapida crescita delle energie rinnovabili.
Cambiare il sistema. Manager e investitori agiscono coerentemente con le regole e gli incentivi del sistema. Se si vuole che i loro comportamenti cambino, devono cambiare anche le regole che il Governo stabilisce e applica. Più nello specifico, per limitarci ad alcune indicazioni, bisognerebbe: impedire alle grandi aziende di cooptare i regolatori; fissare un tetto alle emissioni o tassarle in base al loro impatto per la società: incentivare il settore agricolo a passare dall’emettere anidride carbonica nell’atmosfera a catturarla; vietare la costruzione di nuove centrali termiche a carbone come fonte di energia primaria.
Inoltre, come ha sottolineato Meadows a proposito delle leve da usare per intervenire sui sistemi, il nostro modo di pensare e le nostre ipotesi precostituite su come funziona il mondo possono avere un impatto profondo. Per arrivare a un sistema sostenibile, in definitiva, c’è bisogno di un cambio di paradigma, dalla creazione di ricchezza come obiettivo prevalente al benessere, e c’è bisogno di spostare l’attenzione dal PIL a qualcosa di simile all’Indice di miglioramento della vita dell’OCSE. Cose come l’agricoltura rigenerativa, il riuso e il valore collettivo rappresentano dei primi passi nella direzione giusta.
Dopo vent’anni di tentativi, dovrebbe ormai essere evidente che il mercato da solo non è in grado di affrontare le sfide sociali e ambientali, che diventano sempre più gravi. L’economista britannico Sir Paul Collier ha riassunto efficacemente la situazione quando ha detto che il capitalismo «non funziona con il pilota automatico. Periodicamente, nei suoi due secoli e mezzo di storia, deraglia. E quando questo succede, spetta allo Stato rimetterlo sui binari: allo Stato e agli sforzi dei privati cittadini, delle imprese e delle famiglie».
In fin dei conti, le grandi aziende esistono all’interno di un sistema più ampio. L’ossessione per l’azionista ha portato benefici a manager e investitori, ma ha lasciato le generazioni più giovani con un conto sconvolgente da pagare, una fattura scaduta che include degrado ambientale, perdita di biodiversità, disuguaglianze di reddito e cambiamenti climatici. In prospettiva futura, se vogliamo stabilità e prosperità è necessario che manager e imprenditori perseguano cambiamenti strutturali che consentano loro di guardare oltre i risultati del prossimo trimestre. D’altronde, come tutti i membri della Sostenibilità SpA, anche loro desiderano trasmettere alla prossima generazione un mondo migliore di quello che hanno ricevuto in eredità.
Kenneth P. Pucker è senior lecturer presso la Fletcher School dell’Università Tufts e lecturer presso la Questrom School of Business dell’Università di Boston. È consigliere emerito della Berkshire Partners e in passato è stato direttore operativo di Timberland.
SOSTENIBILITÀ
Ora gli azionisti premono per la divulgazione dei rischi climatici
di Caroline Flammer, Michael W. Toffel e Kala Viswanathan
Gli azionisti stanno sempre più richiedendo alle aziende di rivelare i rischi connessi al cambiamento climatico. Nel maggio 2019, gli azionisti della BP hanno votato in modo schiacciante a favore di tale divulgazione e proposte simili sono state accettate dagli azionisti di Exxon Mobil, Occidental Petroleum e PPL Corporation. Quest’anno, la società di consulenza ISS (Institutional Shareholder Services) si aspetta un numero record di queste proposte. Nonostante la loro crescente frequenza, peraltro, la maggior parte delle proposte degli azionisti riceve ancora poco sostegno alle assemblee annuali.
A parte le notizie occasionali sulle singole aziende, si sa poco sul fatto che questo tipo di pressione degli azionisti inneschi effettivamente una maggiore divulgazione dell’esposizione di un’azienda ai rischi del cambiamento climatico. Funziona? E c’è un impatto sui mercati?
Per scoprirlo, abbiamo studiato gli effetti di tale attivismo sulle aziende dello S&P 500 tra il 2010 e il 2016. Abbiamo analizzato un set di dati proprietario di CDP (Carbon Disclosure Project), che chiede alle grandi aziende pubbliche di divulgare informazioni sui rischi e le opportunità posti dal cambiamento climatico, le loro strategie per affrontarli e altre informazioni relative all’ambiente. Abbiamo anche analizzato un database dell’ISS che compila le informazioni sulle proposte degli azionisti che sono state presentate alle aziende dell’S&P 1500. (Il nostro studio è di prossima pubblicazione nello Strategic Management Journal).
La nostra analisi mostra che l’attivismo degli azionisti – misurato dal numero di proposte degli azionisti relative all’ambiente presentate a una società – induce le aziende a rivelare volontariamente i rischi relativi al cambiamento climatico. In media, il grado di divulgazione dei rischi climatici aumenta di circa il 4,6% per ogni proposta ambientale presentata. Abbiamo anche scoperto che l’attivismo ambientale degli azionisti è più efficace quando è avviato da azionisti istituzionali con un orizzonte di partecipazione a lungo termine: l’effetto sale dal 4,6% al 6,8%.
Abbiamo anche documentato che il mercato azionario risponde favorevolmente a tali divulgazioni. Nei giorni che seguono una divulgazione dei rischi del cambiamento climatico da parte degli azionisti, il prezzo delle azioni dell’azienda aumenta in media dell’1,21% (su una base corretta per il mercato). Questo suggerisce che gli investitori apprezzano una maggiore trasparenza rispetto ai rischi del cambiamento climatico e che la divulgazione tende a beneficiare le aziende che li divulgano. Detto in modo diverso: gli investitori non amano l’incertezza e sono disposti a pagare un premio per aziende meno opache.
Questi risultati hanno importanti implicazioni. Capire il rischio è della massima importanza per le aziende e gli azionisti. Eppure, in molti Paesi, compresi gli Stati Uniti, la legge non obbliga le aziende a rivelare la loro esposizione ai rischi del cambiamento climatico. Per esempio, la U.S. Securities and Exchange Commission (SEC) si limita a raccomandare che le aziende divulghino le informazioni e non offre alcuna guida su quali dovrebbero essere fornite. Di conseguenza, gli azionisti sono spesso all’oscuro – sanno poco dell’esposizione ai rischi del cambiamento climatico delle società che hanno in portafoglio o di come questi rischi vengano gestiti. I nostri risultati suggeriscono che gli azionisti possono ottenere una maggiore trasparenza dell’azienda rispetto ai rischi del cambiamento climatico.
Una maggiore trasparenza potrebbe essere in arrivo. Le richieste di divulgazione relative al clima stanno diventando sempre più sofisticate. La Task Force on Climate-related Financial Disclosures (TCFD) ha sviluppato delle raccomandazioni (intorno a quattro aree: governance, strategia, gestione del rischio e metriche e obiettivi) per aiutare le aziende a rivelare informazioni finanziarie relative al clima. E la SEC ha recentemente lanciato una revisione per valutare se potrebbero essere necessari dei regolamenti per fornire agli investitori “informazioni più coerenti, comparabili e affidabili” sui rischi del cambiamento climatico. Tale divulgazione obbligatoria aiuterebbe probabilmente a migliorare la quantità e la qualità della divulgazione, a standardizzarla e a permettere un maggiore progresso nella lotta contro il cambiamento climatico.
Per sostenere tali sforzi normativi, gli azionisti che cercano informazioni sull’esposizione al rischio climatico delle loro società in portafoglio possono impegnarsi con i legislatori per incoraggiare una divulgazione obbligatoria e allo stesso tempo impegnarsi attivamente con le società nel loro portafoglio, presentare risoluzioni che richiedono una maggiore trasparenza e votare a favore di tali proposte.
Caroline Flammer è professore associato di Strategia e innovazione e Dean’s Research Scholar alla Questrom School of Business della Boston University.
Michael W. Toffel è professore di Gestione ambientale alla Harvard Business School. È presidente di facoltà della Business and Environment Initiative della scuola.
Kala Viswanathan è studente di dottorato in Tecnologia e gestione delle operazioni alla Harvard Business School.
Indici ESG: etica o greenwashing?
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Con A. Scarano, L. Poma, F. Quarta, 22/06/2021
Grazie Alfonso per l’instancabile lavoro di divulgazione che svolgi fin dall’inizio della pandemia, è di grandissimo valore, e un saluto a tutti gli intervenuti a questo evento.
Nel tentativo di riflettere sull’ambiguo mondo degli ESG, prenderò dichiaratamente le mosse dallo straordinario lavoro di Porter, Serafeim e Kramer dal titolo “Where ESG fails”, pubblicato sulla rivista Institutional Investor un paio d’anni fa, che ebbi modo di ripubblicare in lingua italiana, grazie alla traduzione della ricercatrice Dott. Giorgia Grandoni, arricchito da una serie di mie considerazioni sui punti di debolezza, sempre più evidenti, del modello ESG.
Le opportunità di una maggiore crescita in termini di redditività e vantaggio competitivo derivanti dall’inserimento dei problemi sociali e ambientali come parte integrante dei piani strategici di una società, è confermato da una crescente mole di evidenze scientifiche, incluso il celebre lavoro di Robert G. Eccles, Ioannis Ioannou, e George Serafeim, del quale avevo parlato in un mio precedente articolo.
Questo è fuori discussione. Il tema, piuttosto, è: in quale framework inserire quest’evidenza, al fine di permettere alle singole aziende di rendicontare con efficacia le loro attività, in quanto parti consapevoli di una rete sociale complessa.
Opinione attualmente diffusa vuole che le società che hanno posizioni migliori in classifica sulla base di metriche ESG, otterranno – già solo per questo – migliori rendimenti per gli azionisti: questa convinzione è semplicemente errata, è basata su un castello di carte, è – metaforicamente – un gigante dai piedi d’argilla.
Il teorema di Eccles – ampiamente validato da evidenze scientifiche inconfutabili – è infatti basato sul fare, non sul classificare: le azioni possono certamente fare la differenza, non altrettanto, di per sé, le classifiche. Aziende in alta posizione in quelle classifiche, non necessariamente garantiscono over-performance agli investimenti, né un profilo di sostenibilità più elevato.
Il problema però è che molti analisti finanziari considerano il posizionamento rispetto agli indici ESG come un modo per attirare investitori socialmente responsabili, nonché come uno strumento per ridurre i rischi di reputazione di una società.
Porter, Serafeim e Kramer ribadiscono invece nel loro lavoro come il concetto di investimento a valore condiviso tra tutti gli stakeholder, sia piuttosto una soluzione totalmente diversa rispetto alle sole graduatorie ESG o gli screening tipici della Social Responsibility Investment, in quanto collega direttamente l’impatto sociale al vantaggio competitivo delle aziende. Ma questo approccio rimane una rarità: oggi vanno di moda gli ESG, ed è più semplice credere fideisticamente ad essi.
Facciamo un piccolo passo indietro: c’era un tempo in cui esistevano preoccupazioni riguardo al fatto che i manager potessero essere accusati di violare i propri obblighi fiduciari, se solo avessero lasciato che i propri valori personali (riguardanti il possibile impatto negativo del business sugli altri stakeholder) avessero influenzato le loro decisioni operative.
Non solo: una ricerca svolta a firma di George Serafeim e Ioannis Ioannou della London Business School, mostrò che gli analisti erano storicamente meno propensi a emettere raccomandazioni di acquisto per quelle società che investivano molto nella sostenibilità, o peggio, ritenevano che queste società avessero potenzialmente minor valore rispetto ai concorrenti.
Questi pregiudizi sono stati rivisti solo recentemente, e ben venga. Ma da li alla compulsione (moda?) degli ESG è stato un attimo.
Senza timore di smentita, mi sento di affermare – come già sostenuto dai colleghi – che i modelli basati sugli indici ESG sono centrati su uno sguardo del tutto generale, avulso dal particolare, che può generare effetti imprevisti e preoccupanti: si tratta in poche parole di una vera e propria mania classificatoria, l’ennesima, tipica del mondo anglosassone e degli USA in particolare. Ah, quale straordinario effetto rassicurante garantiscono le griglie classificatorie! Ne abbiamo parimenti un esempio assai calzante nel DSM, il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali, elaborato da una certa psichiatria organicista americana, che classifica minuziosamente – quanto superficialmente – una miriade di disturbi mentali, perché tutto per i nostri amici oltreoceano deve avere una sua propria casella ben precisa. Ne consegue la catalogazione come disturbo mentale per ogni variazione di temperamento e comportamento; esattamente come per gli ESG: semplici, binario-sequenziali e molto rassicuranti, specie per i bulimici fondi di investimento.
Facciamo alcuni esempi pratici. L’impatto ambientale di una banca, per esempio, non è rilevante per la performance economica della stessa: una corretta politica di contenimento delle emissioni in atmosfera, otterrebbe un alto punteggio sugli indici ESG, ma non influenzerebbe significativamente le emissioni di carbonio globali. Al contrario, l’emissione, da parte della banca, di prestiti subprime che i clienti non saranno in grado di ripagare, potrebbe avere devastanti conseguenze sociali e finanziarie, come le cronache di pochi anni fa hanno dimostrato; nonostante ciò, il reporting ESG ha dato credito alle banche per la prima questione, e allo stesso tempo ha tralasciato la seconda.
Un secondo esempio. Walmart e Amazon dipendono entrambi da sistemi di distribuzione a uso intensivo di carbonio, ma Amazon ha esternalizzato i costi della distribuzione, della consegna e degli imballaggi, quindi, il suo impatto ambientale risulta essere molto minore di Walmart, nonostante l’impatto in termini di emissioni di carbonio dovute lalla spedizione di singoli articoli a singole abitazioni sia enorme. Al contrario, Walmart ha deciso di ridurre fortemente l’impatto ambientale del proprio sistema di distribuzione, integrando nei negozi le spedizioni di grandi volumi, con imballaggi riprogettati, un fleet management innovativo, e investendo miliardi di dollari nella riduzione dei costi. In realtà, il modello esternalizzato di Amazon è molto più vulnerabile alle normative sul carbonio e ai costi del carburante, nonostante l’impatto ambientale della società risulti essere – apparentemente – minore. Come per i corrieri espresso, che per gli indici ESG presentano un elevato impatto ambientale a causa delle immissioni di Co2 in atmosfera (ma no? Con migliaia di automezzi in viaggio ogni giorno…), suggerendo così l’opportunità – laddove possibile – di esternalizzare l’impatto appaltando le consegne a padronicini esterni, e sfuggendo così all’analisi ESG (ovvero alterandone gli indici).
Un altro esempio è quello di Nestle, che fin dall’inizio del 2010 ha promosso ricerche e applicazioni pratiche per arrivare a una riduzione significativa nelle quantità di zucchero, sale e grassi presenti nella propria gamma di prodotti, ma solo nel 2018, per la prima volta, ha ammesso pubblicamente che questi prodotti più sani hanno avuto un tasso di crescita più veloce e margini di profitto più alti rispetto all’offerta tradizionale.
E infine un esempio virtuoso: Discovery, una compagnia assicurativa sudafricana il cui scopo dichiarato è quello di rendere le persone più sane. Nonostante questo possa apparire come una banalità, la società riconosce l’impatto fondamentale della salute del cliente sul proprio business. Discovery ha tradotto il proprio scopo in strategia operativa attraverso un’integrazione nella propria assicurazione sanitaria, ovvero offrendo una serie di incentivi economici per far assumere ai clienti dei comportamenti più sani. I clienti sono ricompensati per il raggiungimento settimanale di obiettivi di esercizio fisico e ricevono degli sconti sull’acquisto di cibi sani attraverso una sofisticata serie di incentivi sviluppata da economisti comportamentali, e vengono monitorati attraverso App e dispositivi fitness indossabili. Gli studi dell’Università Johns Hopkins e la RAND Corporation hanno confermato che gli incentivi di Discovery influenzano il comportamento in modo tale da ridurre i costi sanitari nazionali e aumentare l’aspettativa di vita. Di conseguenza, Discovery è in grado di offrire i suoi prodotti assicurativi a premi più bassi, pur mantenendo un’ottima redditività. L’impatto sociale creato da Discovery (il miglioramento della salute) è centrale rispetto al proprio posizionamento strategico e crea valore condiviso sia per la società sia per i suoi azionisti. Ebbene, questi straordinari risultati vengono forse evidenziati dagli indici ESG con il giusto peso? Assolutamente no.
Morale: l’adozione diffusa del reporting ESG ha, come effetto indiretto, l’aver “tranquillizzato” gli investitori e i consumatori, ma, al contempo, ha distratto le aziende dall’attrezzarsi per causare un impatto sociale rilevante riguardo alle questioni centrali per i propri business.
Affrontiamo ora un altro aspetto, non meno rilevante, sollevato anch’esso nell’analisi dei tre colleghi citati in apertura: cosa succede nei fondi di investimento? Il procedimento è il seguente: molti investitori selezionano potenziali investimenti attraverso delle analisi puramente finanziarie, che ignorano le questioni sociali, e quindi usano in conclusione la performance ESG generale della società come screening finale per la riduzione del rischio: una specie di foglia di fico.
La verità è che un approccio così poco personalizzato e così tanto centrato su un – a tratti fuorviante – concetto di materialità è nel migliore dei casi un’indicazione utile per prendere le misure a un intero settore, raramente a una specifica azienda.
Si tratta di un approccio burocratico ad un tema importante e complesso, che – tra l’altro, mi pare ricordarlo – spesso viola i fondamentali stessi del Reputation management, uno dei quali com’è noto è quello dell’autenticità, ovvero della correlazione tra identità e immagine. Con il modello basato sugli ESG, ci si concentra – appunto – solo sull’immagine. Questo è, a miei occhi, uno dei limiti di questo genere di strumenti: contraddicono l’approccio “tailor-made” che dovrebbe sempre contraddistinguere il lavoro del reputation manager.
Ultimo tema – non certo in ordine di importanza – sollevato dai colleghi, che condivido appieno: la timidezza nel dichiarare i benefici economici derivanti dall’inserimento di preoccupazioni etiche e sociali nella vita d’impresa, che ancora una volta – aggiungo io – viola clamorosamente i principi fondamentali del reputation management.
Persino quando le società compiono realmente passi avanti nelle questioni sociali materiali, raramente riflettono – e rendicontano – sui benefici economici che ne derivano.
L’idea che le società dovrebbero incentrare l’impatto sociale sul miglioramento della propria reputazione, fa sì che esse siano impazienti di essere viste come società che stanno “facendo la cosa giusta”, ma paradossalmente – e del tutto incomprensibilmente – esse sono riluttanti di ammettere che ne traggono anche dei benefici finanziari: addirittura, in uno sforzo che non fa che evidenziare scarsa autenticità, violando così uno dei pilastri del reputation management, le aziende nascondono effettivamente agli investitori quelli che sono i benefici economici conseguiti. Il che non fa che aumentare l’ignoranza degli investitori riguardo l’importanza assunta dall’innovazione sociale come fonte di potenziale maggiore valore economico.
Il valore economico dell’impatto sociale non viene neanche trattato nelle conferenze degli analisti: persino l’Integrated Reporting Movement, che ha incoraggiato le aziende a consolidare la performance sociale e finanziaria in un singolo report annuale, raramente si è concentrato su quei fattori sociali che apportano reali vantaggi competitivi e finanziari.
Invece, secondo la ricerca svolta da Claudine Gartenberg dell’Università della Pennsylvania e da Andrea Prat della Columbia, le società i cui dipendenti riconoscono tale chiarezza di obiettivi hanno dimostrato di ottenere anche maggiori rendimenti per gli azionisti, mentre le semplici dichiarazioni di intenti hanno, in tal senso, un impatto ben minore.
Insomma, ci vuole davvero così tanto ad essere autentici? Più autenticità e meno bulimia classificatoria, verrebbe da dire.
Come convincere allora gli investitori a uscire dalla zona di confort di un sistema di classificazione standard?
La domanda che si pongono Porter, Serafeim e Kramer è davvero molto ambiziosa, ed è appena possibile indicare delle risposte, tanto che siamo agli albori di questo appassionante dibattito: una strategia realmente innovativa e in linea con la dottrina del reputation management richiederebbe che le aziende comunichino e misurino rigorosamente le metriche quantitative concrete che collegano direttamente i fattori sociali con la performance economica, abbandonando un approccio meramente schematico quale quello tipico degli ESG.
Ad esempio, una società d’investimento non può delegare la considerazione delle questioni sociali e ambientali ad un singolo analista ESG, ex post: l’intero team d’investimento deve combinare la comprensione dei fattori e dell’impatto sociale con la competenza finanziaria e industriale, ad esempio inserendo esperti in questioni ambientali e sociali all’interno dei team che valutano gli investimenti.
Gli investitori dovranno iniziare, piuttosto che terminare, le proprie analisi con il passare in rassegna tutte le questioni sociali salienti che influenzano le aziende, come i cambiamenti climatici, il crescente interesse per la nutrizione, l’emergente classe media globale, la diffusione di malattie non trasmissibili, la bassa produttività dei piccoli agricoltori, il cambiamento dei dati demografici di dipendenti e clienti e gli effetti della carenza idrica. Comprendere queste dinamiche sociali e ambientali aiuterà gli investitori ad anticipare i cambiamenti nel proprio settore industriale e a identificare le opportunità per la creazione di valore condiviso nel futuro.
Summa Equity, un fondo d’investimento azionario scandinavo, ad esempio ha deciso di muoversi proprio in questa direzione. Sarebbe interessante analizzare con attenzione le procedure seguite dai più importanti fondi di investimento green per verificarne l’aderenza alle buone prassi seguite da Summa e da pochi altri.
Richiamo quindi le conclusioni dei tre colleghi facendole mie: senza l’investimento di capitale nell’economia reale, la società nel suo complesso non può prosperare; ma in realtà viviamo in un mondo in cui gli investitori ricavano profitti, mentre la società soffre. Questa disconnessione è una minaccia non solo alla legittimità dei mercati di capitali, ma anche al futuro del capitalismo stesso.
Gli investitori possono scegliere di fare soldi in modo da contribuire a una comunità più sana, prospera e sostenibile, o possono decidere di ricavare rendimenti in modi distruttivi per la società stessa.
È ora di scegliere: è tempo di fare qualcosa di concreto, non solo di compilare checklist. Mi piace ricordare che Volkswagen prima dello scandalo del Dieselgate era prima in molte classifiche di RSI, e che Jeff Bezos, con il suo Bezos Earth Fund, ha deciso si di destinare 10 miliardi di dollari a borse di studio e finanziamento di idee sulla sostenibilità (senza peraltro curarsi di verificare poi il buon fine dei progetti finanziati), ma ben si guarda dallo spendere un dollaro per migliorare realmente i processi di sostenibilità all’interno del proprio colosso.
Il capitalismo, quando introduce preoccupazioni di carattere etico nel business, può rappresentare una leva potentissima di sviluppo: ma i cittadini chiedono concretezza e autenticità, non promesse e greenwashing. Non è più complicato di così. Grazie.
Bibliografia:
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