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Progettare l’ufficio ibrido

Progettare l’ufficio ibrido

Nel giugno 2019, il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) ha inaugurato Olympic House, il suo nuovo quartier generale di Losanna, in Svizzera. Dopo appena nove mesi, il nuovo edificio, costruito in sei anni e costato 150 milioni di dollari, era già vuoto: i dipendenti del CIO, come i knowledge worker di tutto il mondo, lavoravano da casa.

L’esperimento naturale imposto al mondo dal coronavirus dimostra che gli studiosi e i tecnologi visionari che parlavano sin dagli anni Ottanta della possibilità di lavorare in remoto non esageravano affatto. Ricerche antecedenti alla pandemia hanno rivelato che nei Paesi altamente industrializzati alcune fasce di dipendenti possono lavorare efficacemente da casa, e che l’80% di loro lo farebbe volentieri, almeno in certi periodi dell’anno. Dopo mesi di lavoro a distanza, anche i datori di lavoro hanno scoperto che la maggior parte dei compiti viene svolta altrettanto bene e che le riunioni producono gli stessi risultati, senza bisogno dell’ufficio.

Naturalmente, le aziende non abbandoneranno da un giorno all’altro i loro uffici, perché andare al lavoro non ha mai voluto dire solo e soltanto lavorare. E nel futuro prevedibile, la tecnologia non renderà la socializzazione meno legata al contatto interpersonale diretto. Ma dobbiamo ripensare seriamente il modello dei box individuali o di gruppo esemplificato ancora da troppi uffici.

Prima della pandemia, quasi tutte le imprese consideravano l’ufficio un luogo deputato unicamente allo svolgimento del lavoro individuale. Dopo la pandemia, l’ufficio sarà solo in via secondaria un luogo di lavoro e di riunione, specie per i knowledge worker, che potranno fare quasi tutto da casa grazie alle sempre maggiori funzionalità offerte dalle tecnologie di informazione e di comunicazione. Di conseguenza, i dipendenti si ritroveranno sempre più a operare in quello che definiamo ufficio ibrido – pendolando per così dire tra un ambiente lavorativo domestico e un palazzo uffici tradizionale. Quest’ultimo diverrà prevalentemente uno spazio culturale, che metterà a disposizione dei lavoratori un’àncora sociale, faciliterà le connessioni, promuoverà l’apprendimento e stimolerà un’innovazione destrutturata e innovativa.

Nelle pagine successive passiamo in rassegna le funzioni sociali dell’ufficio e vediamo come una serie di aziende particolarmente avanzate dal punto di vista organizzativo stiano mettendo a punto un nuovo modello – usando una progettazione intelligente supportata dalla tecnologia per trasformare ambienti lavorativi ergonomici in spazi culturali socialmente coinvolgenti.

L’ufficio come àncora sociale

Nel corso delle nostre ricerche sull’impatto del lavoro a distanza, un alto dirigente del marketing con base a Parigi ci ha detto che prima del lockdown di marzo 2020 aveva un’agenda flessibile e riusciva a lavorare da casa due o tre giorni alla settimana. Perciò non si è preoccupato più di tanto quando l’azienda ha annunciato che l’ufficio sarebbe rimasto chiuso almeno fino alla fine di dicembre. Ma a luglio, pur essendo impegnato quotidianamente in riunioni virtuali per quasi tutta la giornata, si sentiva solo e sognava di incontrare i colleghi. L’abbiamo sentito ripetere in continuazione: all’inizio, quando si lavora in remoto, le relazioni in essere sembrano prosperare. Ma con il tempo emergono dei problemi. Anche introversi dichiarati che prima non vedevano l’ora di lavorare da casa scoprono che non è una soluzione così ideale.

Vari studi effettuati nei campi della psicologia cognitiva e delle neuroscienze dimostrano che la cognizione umana dipende non solo dal modo in cui il cervello processa i segnali, ma anche dall’ambiente in cui si ricevono quei segnali. Ecco perché il linguaggio non verbale limitato a disposizione nelle videoconferenze può causare malintesi e rendere complicato lo sviluppo di legami interpersonali. La co-localizzazione fisica aiuta le persone a interpretare umori e personalità degli altri, facilitando la costruzione e il consolidamento di rapporti umani.

Una breve riunione intorno alla scrivania di un collega può dare luogo a quello che lo psichiatra Edward Hallowell chiama un momento umano: un incontro faccia a faccia, che permette a manifestazioni di empatia e di comprensione, e a segnali non verbali, di integrare ciò che viene detto espressamente. Quando la comunicazione avviene a distanza, la connessione viene pesantemente indebolita e i segnali non verbali sono più difficili da cogliere, anche quando le persone possono vedersi tra di loro su uno schermo. Nei “momenti umani” le persone sono spesso più cariche e più inclini a fraternizzare, il che rafforza la cultura organizzativa e la collaborazione. La ricerca neuroscientifica indica che nei momenti umani la chimica cerebrale delle persone è diversa da quella che si rileva negli incontri puramente transazionali.

Molti incontri che avvengono in remoto si focalizzano unicamente sul compito da svolgere e sono sostanzialmente privi di connessioni emotive. Microsoft ha condotto recentemente un sondaggio tra i suoi dipendenti per capire come si trovavano nell’ambiente di lavoro virtuale imposto dal Covid. Uno degli effetti citati più spesso era l’incremento intervenuto nel numero di riunioni (più brevi) necessarie per risolvere un problema, perché, come ha osservato uno dei rispondenti, le persone non potevano «fare un salto nell’ufficio di qualcun altro per porgli una domanda». Un altro ha detto: «Non posso sedermi di fronte alla scrivania di un collega né fare due chiacchiere davanti a un caffè nella cucinetta. Perciò mi sembra di passare molto più tempo in riunione».

I meeting sono importanti, naturalmente, ma non più dei momenti umani, perché sono le relazioni, e non dei meri atti di collaborazione, che creano un clima di fiducia tra i lavoratori. Vari studi hanno dimostrato da tempo che interazioni frequenti in presenza promuovono impegno, supporto e cooperazione tra i membri dei team. Ecco perché molte aziende dell’alta tecnologia che si vantano di operare al 100% online hanno ancora un ufficio. Anche quelle che non hanno ambienti di lavoro fisici continuano a sostenere che i team dovrebbero riunirsi regolarmente in presenza: “Riuniamo l’intera azienda una volta l’anno per sette giorni, affinché i nostri dipendenti possano creare legami in grado di influenzarli tutto l’anno”, recita il sito di Automattic, l’azienda proprietaria di WordPress e Tumblr.

Ricerche effettuate nelle comunità di sviluppo di software open source rivelano che i loro membri considerano i meeting periodici non virtuali utili per lo sviluppo di relazioni. WELL (Whole Earth ‘Lectric Link), nata nel 1985, è una delle più vecchie comunità virtuali ancora in esistenza. Attribuisce la sua sopravvivenza alla promozione di solide relazioni tramite i contatti personali: i suoi membri sono praticamente cresciuti assieme – partecipavano gli uni ai matrimoni e ai funerali degli altri e si aiutavano a vicenda nella cura dei figli e nei periodi di malattia.

L’ufficio come edificio scolastico

Quando passano al lavoro in remoto, le organizzazioni devono tener conto dell’impatto di questo cambiamento sulle modalità di condivisione delle conoscenze – che si possono codificare, estendere efficientemente e distribuire tramite sistemi di knowledge-management a tutti i dipendenti, sia che lavorino in presenza sia che lavorino in remoto. Ma in quasi tutte le organizzazioni, le conoscenze realmente critiche non si possono rendere esplicite. Chiedetelo ai nuovi assunti di qualunque azienda e vi diranno che hanno imparato più dall’osservazione di capi e colleghi e dall’interazione con vari stakeholder che dai corsi di orientamento e di formazione specialistica. Questo apprendimento on-the-job avviene tipicamente attraverso l’apprendistato. I neoassunti imparano il modo corretto e appropriato di comportarsi – “il nostro modo di lavorare” – dall’osservazione diretta di coloro che li circondano, e in particolare dai loro mentori.

La tecnologia si può usare certamente per facilitare questo tipo di apprendimento, ma è fuori dubbio che un ufficio renda molto più agevole il processo. Nel settembre 2020 Jamie Dimon, il CEO di JP Morgan Chase, ha detto in un incontro con gli analisti che dopo sei mesi di lavoro da casa, i dipendenti junior stavano perdendo i benefici informali e intangibili che derivano dalla compresenza in ufficio, e non potevano giovarsi dell’apprendimento spontaneo e della creatività che nascono dal contatto interpersonale diretto. Anche se JP Morgan Chase, come altre banche e grandi studi legali, usa la formazione virtuale per insegnare competenze di base, quei corsi non forniscono indicazioni pratiche tratte dall’esperienza operativa, su come, mettiamo, un portfolio manager potrebbe scegliere tra due azioni tecnicamente simili.

L’esigenza di andare almeno saltuariamente in ufficio è stata ribadita energicamente da un giovane ingegnere informatico che abbiamo incontrato a Londra nel corso delle nostre ricerche. Ha definito “surreale” l’esperienza di inserimento virtuale in un’azienda globale di servizi finanziari che ha vissuto a metà 2020: poiché gli uffici erano chiusi, non aveva potuto visitarli e non era riuscito a incontrare di persona neanche un membro del suo nuovo team. L’inserimento è avvenuto su Zoom, dove si incontravano regolarmente i componenti della squadra.

Apprezzava sinceramente gli sforzi messi in atto dal suo nuovo datore di lavoro per creare la miglior esperienza possibile, ma ci ha detto: «La verità è che non conosco ancora né il sistema né l’ambiente, e l’azienda e non ci può fare nulla. Per fare cose che avrei potuto fare in dieci secondi girando la mia poltroncina e chiedendo indicazioni al collega della scrivania accanto, adesso devo inviare, ricevere e decifrare una serie di e-mail». E le domande inviate con la posta elettronica “pesano” più delle domande rivolte oralmente a qualcuno, perciò esitava a inviare messaggi a colleghi che non aveva mai incontrato. «Mi chiedo sempre se fare o non fare quella domanda “stupida”», ha aggiunto. Temeva di metterci più tempo a imparare i segreti del mestiere che gli avrebbero consentito di svolgere efficientemente il suo lavoro nel lungo termine. Si chiedeva anche quali fossero le norme per le interazioni personali e lavorative. Ha tentato di mettersi al passo con e-mail, telefonate e riunioni virtuali su Zoom, ma ha fatto più fatica a capire la cultura aziendale di quanto non gli fosse accaduto nella posizione che occupava prima.

L’ufficio come hub per una collaborazione destrutturata

Quando collaborano, persone di funzioni e reparti diversi possono risolvere problemi complessi e generare nuove idee innovative. Questa collaborazione viene innescata di solito da incontri casuali – conversazioni che si tengono intorno alla macchinetta del caffè o alla fotocopiatrice – in cui i dipendenti identificano altri colleghi ai quali possono chiedere aiuto o con i quali potrebbero lavorare. (“Hai già parlato con Sofia? L’anno scorso ha dovuto gestire un cliente analogo. Forse potrebbe dirti com’è andata o indirizzarti a qualcun altro”). Le ricerche lo confermano: il team Human Dynamics del MIT Media Lab ha raccolto dati dai badge elettronici del personale e ha scoperto che frequenti interazioni dirette al di fuori dei meeting formali erano il fattore predittivo più attendibile per la produttività.

Anche se non potete programmare conversazioni estemporanee, potete renderle più probabili. Una manager che abbiamo intervistato ci ha detto di aver appeso al muro un grosso tabellone su cui affiggere tutte le idee raccolte dal suo team ai fini di un progetto. L’ha posizionato in un punto di passaggio e di riunione; a volte, “passanti” di altri reparti ascoltavano e si univano alla discussione. La sua scrivania era lì vicino, perciò quando le persone si fermavano di fronte al tabellone, lei si metteva a chiacchierare con loro dell’iniziativa, illustrando il progetto e ricevendone il feedback. Le indicazioni che traeva da quegli incontri casuali venivano poi aggiunte alle idee affisse in precedenza.

Una collaborazione destrutturata di questo tipo richiede uno stretto contatto interpersonale diretto, che non è possibile quando tutti lavorano da casa. Può essere difficile da ottenere anche se le persone lavorano nello stesso edificio, perché tutte le comunicazioni vengono penalizzate se i colleghi sono lontani uno dall’altro. Tom Allen, uno psicologo organizzativo del MIT, dimostrò negli anni Settanta che bastano 50 metri di distanza per far diminuire una comunicazione regolare (diretta o mediata da qualunque tecnologia).

Le organizzazioni che hanno ridotto la densità “abitativa” degli ambienti di lavoro per rispettare le norme sul distanziamento sociale l’hanno imparato a proprie spese. Un’azienda europea che produce elettrodomestici ha diviso i dipendenti che lavorano presso il quartier generale in due gruppi: uno andava in ufficio lunedì e martedì, e l’altro giovedì e venerdì, senza rotazione. Dopo quattro mesi, diversi progetti erano indietro sulla tabella di marcia perché molti di coloro che collaboravano su di essi erano presenti in giorni diversi e non si incontravano mai di persona.

Proprio perché riconoscevano l’importanza della messa a disposizione di punti di contatto regolari, alcuni pionieri del lavoro a distanza, come IBM e Yahoo, hanno deciso alcuni anni fa di invertire le loro politiche, alquanto liberali, di telecommuting. E nel 2020, quando ha modificato la sua politica per consentire a un maggior numero di dipendenti di lavorare da casa, Microsoft ha predisposto per loro anche degli spazi interni – una pratica che va sotto il nome di hoteling.

Creare l’ufficio di domani

Oltre a facilitare il lavoro a distanza, la tecnologia universalmente disponibile sta automatizzando progressivamente gran parte delle routine operative che definivano tradizionalmente l’attività delle persone. Nel loro insieme, questi due sviluppi stanno ridefinendo ex novo il significato del lavoro e il ruolo del dipendente all’interno dell’organizzazione. Ciò che chiedono sempre più le aziende ai collaboratori è la creatività – e come abbiamo visto, le persone sono più creative quando stanno assieme e possono condividere momenti umani. Ecco perché abbiamo ancora bisogno dell’ufficio. Ma gli uffici di domani dovranno essere molto diversi da quelli a cui siamo abituati, e saranno tre caratteristiche a definirli. Saranno:

Progettati per momenti umani

Gli open space sovraffollati a basso a costo – che i ricercatori hanno sempre trovato negativi per il morale, per la collaborazione e per la produttività – sono onnipresenti, ma alcune aziende sono già andate al di là di questo modello. Il loro nuovo approccio mette in equilibrio trasparenza e privacy, incorporando elementi di progettazione che facilitano interazioni sociali di molti tipi – da una breve conversazione sui gradini delle scale al gossip sottovoce che si fa al bancone della cucinetta o davanti alla macchinetta del caffè. Tra questi elementi potrebbe esserci una nicchia per chi deve mettere a punto una presentazione, o un tavolo rialzato dove si possono accomodare due persone per un meeting improvvisato, a cui potrebbe unirsi un collega junior che passa di lì, le sente parlare e si ferma a fare una domanda.

L’Olympic House del CIO, costruita con l’obiettivo di umanizzare il lavoro, presenta molte di queste caratteristiche. Nel secolo successivo alla sua fondazione, il CIO è cresciuto fino a occupare quattro sedi in diverse parti di Losanna. Per il 2012, i suoi leader si erano resi conto che quella frammentazione stava danneggiando i rapporti tra i suoi oltre 400 dipendenti. Anche se la natura del lavoro obbligava le persone a viaggiare in continuazione e a lavorare spesso in remoto, il gruppo dirigente del CIO era convinto che un quartier generale unitario fosse essenziale per creare un senso di comunità in grado di promuovere il benessere di dipendenti e stakeholder, e soprattutto di favorire momenti umani utili alla costruzione di un clima fiduciario e alla stimolazione della creatività.

Nel giro di pochi mesi l’Olympic House è diventata, come ha detto un manager del CIO, «l’ambiente ideale per il lavoro quotidiano, dove ci nutriamo l’uno dell’energia dell’altro». Il suo layout promuove incontri formali e informali, cambiando profondamente le modalità d’interazione tra i team. Per esempio, la sua enorme scalinata centrale – che richiama nella forma i cinque cerchi del simbolo olimpionico – mette persone di reparti diversi in condizione di incontrarsi quando vanno e vengono dalle loro scrivanie e le incoraggia a fermarsi a fare due chiacchiere. «Quegli spazi intorno alla scalinata», ha spiegato un manager del CIO, «sono pieni di divani e angoli caffetteria dove passi volentieri cinque o dieci minuti a parlare con i tuoi colleghi di questioni in sospeso che devi affrontare, anziché mandare in giro un gran numero di e-mail. E questo elemento umano è al centro di quello che facciamo».

I progettisti hanno dedicato una particolare attenzione anche all’acustica. Nelle zone in cui sono posizionate le scrivanie – collocate in una logica di hoteling – i suoni vengono attenuati da tappeti e materiali fonoassorbenti che rivestono il soffitto e i mobili. Presso la scalinata centrale e in altre aree adibite alla socializzazione, gli architetti hanno usato deliberatamente materiali meno fonoassorbenti per creare “un rumore di fondo da bar” e favorire le conversazioni informali e la socializzazione.

Dettagli come questi contano. Un’azienda tecnologica globale che conosciamo ha deciso di ridurre i costi eliminando il distributore automatico di bevande calde in uno dei suoi centri di R&S. All’inizio, la produttività è aumentata: i manager hanno registrato un incremento nelle linee di codifica prodotte e un calo nel numero dei bug. I dipendenti trascorrevano meno tempo chiacchierando davanti alla macchinetta e dedicavano più tempo alla programmazione. Ma con il tempo, il numero totale dei release è diminuito, per il corrispondente aumento dei difetti dovuti alla mancata integrazione. Le chiacchiere apparentemente improduttive davanti alla macchinetta producevano in realtà una collaborazione efficace.

Customizzati in base alla tecnologia

La tecnologia ci ha aiutato a portare a casa il lavoro che possiamo svolgere più efficientemente da soli. Può aiutarci anche a capire meglio come operiamo sul piano sociale, e quella comprensione può favorire una progettazione più efficace, e quindi un uso più produttivo degli spazi sociali.

Silverstein Properties, una società immobiliare di New York, offre un esempio rappresentativo. Ha creato una piattaforma che si basa sull’IA denominata Dojo, che rileva gli spostamenti dei dipendenti per creare un sistema di punteggio alimentato dai dati che genera layout virtuali nei quali il posizionamento delle scrivanie e delle poltroncine massimizza la probabilità di interazioni informali fortuite.

Dojo consente agli utilizzatori di creare profili di collaborazione per individui, per team e per l’organizzazione nel suo complesso. (Alcuni settori e alcune funzioni richiedono una quota più elevata di lavoro indipendente rispetto ad altri). Ciò permette alle aziende di aggregare i dipendenti per stile di lavoro, usando indicatori come la percentuale di tempo trascorsa in meeting, la quantità media di tempo libero tra le riunioni e la distribuzione dei meeting nel corso della giornata. Il risultato è una sorta di organigramma non gerarchico che può aiutare i manager a trovare la maniera di usare gli spazi fisici e la tecnologia dell’azienda per creare maggiori opportunità di connessione tra i dipendenti.

Uno degli inquilini di Silverstein, un’azienda tecnologica con oltre 400 dipendenti, ha usato le indicazioni di Dojo per riprogettare il suo ufficio. La piattaforma dimostrava che se avesse ridistribuito il personale in “quartieri” inter-funzionali, quella soluzione avrebbe potuto accrescere la collaborazione e ridurre gli spazi complessivi occupati. L’azienda ha scoperto inoltre che nessuno usava le salette, intese a tutelare la privacy, che erano lontane dai reparti a più alta densità di impiegati. I dipendenti, invece, facevano le loro telefonate personali presso lo sbarco ascensori. Perciò ha eliminato le salette e ha installato cabine insonorizzate nell’atrio. Dopo l’introduzione di questi cambiamenti, si è trovata ad avere il 25% di spazio in più del necessario, che ha potuto subaffittare.

La tecnologia può supportare anche i contatti tra chi lavora in remoto e chi lavora in ufficio. A metà degli anni Ottanta, i ricercatori di Xerox-PARC hanno creato uno spazio-media che combinava tecnologie video, audio e IT per favorire interazioni sociali tra i suoi laboratori sociali di Palo Alto e Portland, Oregon. Ciò consentiva ai dipendenti che si trovavano nelle sale ricreative dei laboratori e in alcuni uffici individuali di connettersi virtualmente. Esperimenti analoghi messi in atto all’EuroPARC europeo di Xerox di Bellcore, UK, e alla University of Toronto, dimostrano che una consapevolezza reciproca anche solo periferica può aiutare le persone che lavorano in remoto a sentirsi più vicini ai collegi che continuano a operare in ufficio, e viceversa.

Naturalmente, la tecnologia dovrebbe arrivare solo fino a un certo punto. Finché possono vedere chi è presente fisicamente e chi è disponibile virtualmente – una possibilità offerta da piattaforme tecnologiche come Dojo – i dipendenti dovrebbero essere liberi di creare direttamente incontri e momenti di pensiero collaborativo.

Gestiti in modo da incoraggiare le connessioni

Da parte loro, i manager devono fare in modo che quando vengono in ufficio, le persone sappiano di poter socializzare e interagire con i colleghi. Oltre a dichiararlo esplicitamente, dovrebbero rinforzare il concetto trascorrendo anche loro del tempo nelle aree comuni e prendendo parte a eventi sociali.

La società globale di progettazione Frog esemplifica bene il significato concreto di questa affermazione. Frog ha in tutto il mondo uffici, o “studi”, che usa per cementare i vincoli sociali e abituare i neoassunti al suo modello culturale. I rituali che promuovono l’apprendimento informale abbondano: si va dai Monday Morning Meetings (dove si discutono temi ricorrenti di progetti e settori o si mettono in comune nuovi contenuti in una presentazione) ai Wellness Wednesdays (durante i quali, per esempio, si può tenere un corso di yoga), ai coffee break pomeridiani e agli happy hour riservati ai dipendenti e aperti occasionalmente anche ai clienti.

Tutti questi rituali consentono a dipendenti junior e più senior di mescolarsi, di raccontarsi storie di progetti e di vita, e di chiedere informalmente consigli. Il lavoro si svolge in sala da pranzo e in cucina come nelle aule in cui i team di progetto fanno brainstorming con lavagne a fogli mobili e Post-It. Vedere o ascoltare per caso queste sessioni lavorative, formali e informali, è importante per apprendere le sfumature della progettazione efficace e gestire adeguatamente le relazioni con i clienti.

Quando il mondo è andato in lockdown, Frog ha scoperto alcuni aspetti positivi del lavoro da casa. La collaborazione interna al network globale di studi di progettazione è migliorata, per esempio. Senza i vincoli del lavoro face-to-face, Frog ha potuto aumentare la fertilizzazione incrociata tra i suoi team internazionali e utilizzare meglio i talenti delle persone. È riuscita anche a tenere in vita alcuni dei rituali, con qualche aggiustamento. Durante un coffee-break virtuale, per esempio, qualcuno potrebbe porre una domanda come “Qual è il modo più assurdo in cui vi siete fatti male?”, per fare uscire i colleghi dalla modalità lavoro. Di fronte a questi benefici, e ai risparmi che avrebbero potuto ottenere chiudendo uno studio sulla costosissima piazza di New York, i leader di Frog si sono chiesti se i dipendenti non potevano continuare a lavorare da casa, perché la transizione era stata senza intoppi. Ma si rendevano conto che lo studio ha ancora un ruolo centrale nella cultura aziendale per l’apprendimento informale e la socializzazione – e benché gli affitti di New York siano astronomici, il canone di locazione ha un peso relativamente limitato sulle spese complessive di Frog. Anche se va reinventato, il lavoro di progettazione che si porta avanti nello studio rimarrà essenziale per l’attività e la crescita professionale dei dipendenti.

Quando torneremo tutti in ufficio, si dovrà evitare a ogni costo di confondere il tempo trascorso fisicamente assieme nell’ambiente di lavoro e l’output effettivo nella valutazione della performance – in modo che le persone non abbiano l’impressione di dover fare atto di presenza solo per convincere il capo che lavorano sodo. E quando sono in ufficio, non dovrebbero sentirsi obbligate a stare tutto il tempo in riunione o incollate al computer. Se ritorno in ufficio vuol dire solo lavoro individuale e meeting focalizzati su compiti specifici, le lezioni positive che abbiamo appreso dalla pandemia andranno perdute, e la performance e la cultura dell’azienda potrebbero risentirne.

Per prevenire questo rischio, Adam D’Angelo, il CEO del sito di domande e risposte Quora, ha annunciato che l’azienda non avrebbe adottato un approccio selettivo sul lavoro a distanza, in base al quale i leader o certi gruppi sarebbero andati in ufficio mentre gli altri dipendenti avrebbero lavorato in remoto. Invece tutti – dal CEO in giù – avrebbero lavorato da casa, ma avrebbero dovuto trascorrere anche un po’ di tempo in ufficio. Il suo obiettivo, come ha spiegato sul blog aziendale, era “impedire che l’ufficio diventasse il ‘vero’ quartier generale”. Diceva chiaramente ai dipendenti di Quora che andare in ufficio non era un modo per fare bella figura con il capo; agli occhi del management, lavorare da casa era, e avrebbe continuato a essere, altrettanto legittimo.

Quando sono in ufficio, i leader devono esemplificare i comportamenti sociali attesi da parte dei collaboratori. Non dovrebbero passare tutto il tempo in riunione; dovrebbero imitare piuttosto Paul Bennett, chief creative officer di IDEO, che dice di stare «in permanenza con il nostro team IT al suo help desk, il punto più visibile e centrale del nostro ufficio di San Francisco». E aggiunge: «Vedo l’help desk come un incrocio tra un caffè e una postazione di sicurezza tecnologica costruita smanettando assieme. Le persone che ci lavorano sono cariche di energia e piene di allegria. Il fatto di vedermi seduto su uno sgabello accanto a loro incoraggia gli altri dipendenti a rivolgersi spontaneamente a me. Di conseguenza, conversazioni e interazioni si susseguono naturalmente nel corso della giornata lavorativa».

Anche le opportunità di rituali extralavorativi (come la meditazione, lo yoga e la gara di plank) aiutano a coltivare le relazioni e sottolineano il ruolo dell’ufficio come luogo di aggregazione sociale. Naturalmente, i meeting “in presenza” non si dovrebbero mettere al bando, ma andrebbero limitati, in modo che una giornata trascorsa in ufficio non diventi una giornata trascorsa in riunione – e dovrebbero coinvolgere attività che sarebbero difficili da svolgere in remoto (come fare brainstorming stando in piedi o spostandosi intorno a un tavolo).

Analogamente, le aziende devono assicurarsi che i loro dipendenti siano “sempre accesi” per promuovere il coinvolgimento e la creatività. Prendersi delle pause non è sempre facile, specie se i dipendenti sono monitorati da un software di sorveglianza o gestiti da capi che si concentrano sul tempo trascorso davanti allo schermo del PC anziché sull’output produttivo. Dite chiaramente che va benissimo fare un intervallo per il pranzo e riprogrammare un meeting fissato per le otto del mattino in modo consentire la corsetta, la nuotata o lo yoga pre-ufficio. Anche da questo punto di vista, l’esemplificazione dei modelli di ruolo conta. Può essere semplice come mettere su Slack o su un’altra piattaforma la frase “Sono fuori a pranzo”, o “Sono online tutta la settimana tranne il giovedì”. Rendetevi conto che a volte le persone hanno veramente bisogno di un weekend lungo o di una settimana. Il fornitore di servizi software Basecamp concede ai dipendenti un mese sabbatico ogni tre anni.

Poiché molte organizzazioni consentono al personale di lavorare in remoto almeno una parte del tempo, vale la pena di ricordare che la collaborazione distribuita ha una lunga storia. La storia e la nostra esperienza contemporanea dimostrano che infrastrutture di supporto, tecnologie e processi organizzativi sono necessari ma non sufficienti per una collaborazione produttiva. Le persone hanno ancora bisogno di punti di contatto non virtuali che permettano di chiarire e allineare le aspettative, di rivedere regole e pratiche operative, e di costruire o ricostruire un clima di fiducia. In un mondo che consente e sfrutta il lavoro da casa pressoché generalizzato, è fondamentale riportare le persone negli uffici per rispondere a questi bisogni umani.


Anne-Laure Fayard è professore associato alla New York University. John Weeks insegna all’IMD di Losanna, in Svizzera. Mawkesh Khan, ex Corporate Governance Officer della International Finance Corporation, è ricercatore associato presso l’IMD.




Il riconoscimento vocale arriva ovunque, e per la privacy è anche peggio di quello facciale

Il riconoscimento vocale arriva ovunque, e per la privacy è anche peggio di quello facciale

Quando, nel corso di una chiamata a un servizio clienti, per un acquisto, un reclamo o una prenotazione, ascoltiamo il messaggio preimpostato “Questa telefonata potrebbe essere registrata per il controllo qualità” dovremmo farci qualche domanda in più. Perché non saranno solo gli operatori a essere monitorati nel loro lavoro – il che già apre da tempo fronti piuttosto problematici – ma anche i clienti. Le attività di marketing guidato in tempo reale da profilazioni della voce di milioni di clienti e di tutte le loro sfumature sono e saranno sempre di più una realtà, spiega su The Conversation Joseph Turow, docente di sistemi dei media all’università della Pennsylvania che sul tema ha condotto un’approfondita ricerca per il suo libro in uscita battezzato The Voice Catchers: How Marketers Listen In to Exploit Your Feelings, Your Privacy, and Your Wallet.

In base a tutte le interviste, le analisi e le letture che ha svolto, Turow spiega che “appare chiaro come siamo ai primi passi di una rivoluzione basata sulla profilazione della voce che le società vedono come parte integrante del futuro del marketing”. Ed è piuttosto curioso che questo accada, aggiungiamo noi, proprio in concomitanza con l’esplosione dei social network basati sulla voce, da Clubhouse alle novità di Facebook passando per Twitter Spaces. Non solo, ovviamente: “Grazie alla larga diffusione degli smart speaker, dei display intelligenti delle automobili e degli smartphone da gestire sempre con la voce, insieme alle capacità di analisi dei call center, i responsabili di questi settori si dicono in grado di poter sfruttare tecnologie di analisi vocale per ottenere dati e informazioni senza precedenti sulle identità e le inclinazioni dei clienti” spiega l’autore. Verso una pubblicità sempre più personalizzata, ben più che nel recente passato che pure su questo punto ha visto scontrarsi senza sosta regolamentazioni continentali, specie europee, e interessi di ogni genere da parte di piattaforme, colossi della tecnologia e cosiddetti “over the top”.

voce

Il risultato? Le persone potrebbero essere profilate non solo in base agli “speech pattern”, cioè ai loro schemi di conversazione e dialogo, ma anche valutate e categorizzate in virtù del timbro della voce. Un elemento per molti esperti unico e in grado di svelare, insieme a una serie di altri aspetti, sensazioni, sentimenti, tratti della personalità e perfino alcune peculiarità fisiche. Secondo i responsabili del marketing intervistati, questo tassello della profilazione sarà di fatto uno standard nel giro di una decina di anni. La ragione è paradossalmente la poca fiducia verso il sistema attuale: fra i blocchi delle inserzioni sui dispositivi e del tracciamento pubblicitario (come accade sui prodotti Apple con la soluzione App Tracking Transparency lanciata da poco tempo) , la confusione nella raccolta dei dati, l’uso di più profili e utenti su diversi dispositivi e molti altri fattori, quella profilazione – contrariamente a quanto pensano gli utenti – è tutt’altro che precisa. Fare leva su un dato biometrico come la voce cambierebbe ovviamente ogni cosa.

voce

Ovviamente Amazon e Google, i principali fornitori di smart speaker fuori dalla Cina e dei relativi sistemi di assistenza, insieme a Siri che equipaggia i dispositivi di Apple (che però sulla privacy ha una policy praticamente blindata e su cui fa leva un bel pezzo della propria credibilità), garantiscono di non utilizzare alcuna registrazione delle conversazioni e delle richieste degli utenti sui loro miliardi di device. Per ora, spiega Turow, convinto che il futuro porterà necessariamente con sé nuovi strumenti e soluzioni. Alcuni brevetti registrati negli scorsi anni svelano in effetti qualcosa delle prospettive. Un progetto di Amazon, per esempio, illustra un dispositivo con integrato l’assistente virtuale Alexa in grado di individuare le irregolarità nelle frasi di una donna in modo da valutare se abbia un raffreddore “utilizzando un’analisi del tono, del ritmo, della voce, del tremolio e/o dell’armonia della voce, come determinato dall’elaborazione dei dati vocali”. A cosa serve? Facile: Alexa potrebbe domandare all’utente se voglia ascoltare una ricetta per una tisana, una zuppa o ordinare un certo farmaco in farmacia.

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Un altro brevetto racconta invece di un’applicazione in grado di aiutare un commesso a decifrare la voce di un cliente per ricavare reazioni inconsce di quest’ultimo rispetto a un certo prodotto. E dunque variare di conseguenza la propria strategia di vendita. Uno di Google, invece, prevede di tracciare i membri di una famiglia in tempo reale sfruttando una serie di microfoni sparsi per casa: in base agli aspetti univoci delle diverse voci, Big G si dice in grado di ricavarne età e genere e categorizzarli in modo distinto così da registrare e comparare nel tempo le abitudini in casa (a che ora si mangia, quando si sta di fronte alla tv, quando si gioca ai videogame, quando si lavora e così via) e offrire agli utenti i suggerimenti più giusti per una corretta routine familiare. Inquietante, vero?

Per Turow ci si arriverà quando la frittata sarà già fatta, con buona pace delle sempre più esigenti legislazioni sulla riservatezza. Nel senso che, un po’ come è accaduto con Google e Facebook e l’incredibile mole di utenti e informazioni raccolte nel tempo, quel genere di marketing diventerà un pezzo fondamentale delle strategie di promozione e vendita proprio quando non potremo più fare a meno degli assistenti vocali. Quando, cioè, ancora più di oggi saranno dappertutto, integrati in ogni genere di dispositivo e in numeri che supereranno i miliardi di unità.

voce

Archiviando per un momento l’aspetto più importante, quello appunto alla riservatezza, il punto più assurdo è che in realtà anche questa strada è ricca di imprecisioni. Quando si parla di emozioni e propensioni non è mica chiaro quanto la voce sia in effetti affidabile. Se è vero, secondo Rita Singh, esperta del settore della Carnegie Mellon, che l’attività dei nervi vocali è collegata allo stato emotivo, “con l’ampia disponibilità di pacchetti di apprendimento automatico personale con competenze limitate sarà tentato di eseguire analisi delle voci di livello scadente, conducendo a conclusioni dubbie tanto quanto i metodi”. Senza contare una serie di altri fattori pregiudizievoli, di tipo culturale o fisiologico, che possono inficiare l’analisi.

voce

“Sebbene alcuni di questi progressi promettano di rendere la vita più facile – conclude l’autore – non è difficile vedere come la tecnologia vocale possa essere abusata e sfruttata. E se la profilazione vocale indicasse a un potenziale datore di lavoro che sei un grave rischio per un impiego di cui hai disperatamente bisogno? E se comunicasse a una banca che sei un pessimo pagatore quando stai chiedendo un prestito? E se un ristorante decidesse che non accetterà la tua prenotazione perché sembri di bassa classe o troppo esigente?”.




L’obiettivo di Calzedonia e Wwf: liberare le spiagge italiane dalla plastica

L’obiettivo di Calzedonia e Wwf: liberare le spiagge italiane dalla plastica

A pochi giorni dalla Giornata mondiale degli oceani (8 giugno) e negli stessi giorni in cui Tom Ford, forse il più influente stilista americano, lancia un premio da 1,2 milioni di dollari per chi trova soluzioni alternative alle microplastiche, Calzedonia presenta, in collaborazione con il Wwf, un’importante iniziativa per la pulizia delle spiagge italiane da ogni tipo di rifiuto. «Ci è sembrato naturale creare questo progetto, che abbiamo chiamato #missionespiaggepulite, con Calzedonia, brand del nostro portafoglio più focalizzato, in estate, sui costumi da bagno», spiega Marcello Veronesi (nella foto qui sotto), 34 anni, membro del cda di Calzedonia Holding, fondata dal padre Sandro. La collaborazione con il Wwf durerà per tutto il 2021 e permetterà di ripulire almeno 1,5 milioni di metri quadri di spiagge italiane dalla plastica e dai rifiuti abbandonati e dispersi. L’iniziativa accompagnerà per tutta l’estate la campagna GenerAzioneMare Wwf, nata per difendere quello che viene chiamato oro o capitale blu, l’acqua, che verrà lanciata proprio l’8 giugno.

Cambiamento culturale

«Per la mia generazione l’attenzione all’ambiente è legata a ogni comportamento, nella vita privata, in quella lavorativa e nelle abitudini di consumo – sottolinea Marcello Veronesi –. Ancora di più lo è per i miei fratelli, molto più giovani di me. La corporate social responsibility del gruppo Calzedonia però ha radici lontane e non si limita alla sostenibilità ambientale, ma comprende molti aspetti di attenzione al sociale, al territorio, alle condizioni di lavoro. Possiamo controllare e certificare praticamente ogni parte della filiera che c’è dietro ai brand del gruppo». Il primo appuntamento di #missionispiaggepulite è stato giovedì 27 maggio presso l’Oasi Wwf Trieste Miramare: oltre all’attività di pulizia (nella foto in alto), è stato organizzato un incontro con esperti che hanno guidato all’analisi dei rifiuti raccolti e una visito al museo dell’Oasi, specializzato nella biodiversità marina. Per aumentare l’impatto dell’iniziativa, che prevede un centinaio di tappe in tutta Italia, il brand Calzedonia, per ogni bikini venduto, si è impegnato a supportare Wwf per la pulizia di un metro quadrato di spiaggia.

I progetti per il futuro

«Contiamo di poter organizzare iniziative simili in altri Paesi – conclude Marcello Veronesi –. In parallelo, lavoriamo sulla sostenibilità dei nostri prodotti, investendo moltissimo in ricerca e sviluppo, perché la qualità deve essere la stessa dei prodotti “tradizionali”. Per minimizzare davvero l’impatto sull’ambiente, devono essere sostenibili tutti i materiali impiegati e occorre un impegno di filiera». Un esempio dei risultati della ricerca del gruppo e del brand Calzedonia in particolare sono alcuni costumi della linea Indonesia, bikini e interi in un tessuto soft e confortevole (nella foto qui sopra), che asciuga velocemente e soprattutto è ecologico. Il peso del filato riciclato nel tessuto necessario per un bikini, ad esempio, è equivalente al peso di cinque bottigliette di plastica da mezzo litro, per gli interi di sette.




Kering pubblica il primo report sull’economia circolare

Kering pubblica il primo report sull’economia circolare

Kering accelera sulla sostenibilità e pubblica Coming full circle, il report che presenta le ambizioni del gruppo luxury su economia circolare e sostenibilità. All’interno, le azioni concrete che i marchi del colosso come GucciYves Saint Laurent e Alexander McQueen, hanno intrapreso coerentemente agli obiettivi green prefissati. Tra questi, in prima linea l’allungamento della vita dei prodotti, grazie a materiali più durevoli e servizi di riparazione. In previsione anche lo shift verso modelli di produzione che limitano gli sprechi di risorse, come acqua ed energia elettrica, e al contempo eliminino la dispersione di microplastiche nell’ambiente e la plastica ad utilizzo singolo. In numeri, gli obiettivi principali sono l’utilizzo al 100% di energia rinnovabile entro il 2022, il totale abbandono di plastica ad utilizzo singolo entro il 2025, e la completa eliminazione di dispersione di microplastiche entro il 2030.

«In Kering poniamo molta attenzione al nostro approccio alla circolarità, insieme alla nostra responsabilità di accelerare il cambiamento. Siamo consapevoli che c’è ancora molto lavoro da fare», ha dichiarato Marie-Claire Daveu, responsabile per la sostenibilità e gli affari istituzionali del gruppo. «Questo è il momento di consolidare la nostra missione di circolarità tra tutti i nostri marchi e condividere i loro progressi, oltre a collaborare su temi che interessano l’intero settore, dall’inquinamento da microfibre all’aumento dell’efficienza, fino alla riduzione degli scarti tessili e presso i fornitori in generale». 




“L’algoritmo deve essere trasparente”, la Cassazione rilancia il GDPR

“L’algoritmo deve essere trasparente”, la Cassazione rilancia il GDPR

Èstata depositata proprio nel giorno del terzo compleanno del GDPR, la sentenza con la quale la Corte di Cassazione – per la verità applicando la disciplina previgente all’entrata in vigore del GDPR – ha messo nero su bianco un principio centrale nell’economia delle nuove regole europee in materia di protezione dei dati personali e, soprattutto, del governo dell’intelligenza artificiale.

Non c’è consenso senza trasparenza dell’algoritmo

Il principio in questione dice che quando si chiede a una persona il consenso a trattare i propri dati personali perché siano dati in pasto a un algoritmo al fine di pervenire a una decisione automatizzata capace di incidere sui propri diritti, il consenso non è valido se la persona non è adeguatamente informata delle logiche alla base dell’algoritmo.

In altre parole, meno tecniche ma più accessibili anche ai non addetti ai lavori: il consenso non vale se l’algoritmo non è trasparente semplicemente perché non può essere consapevole per davvero un consenso a un trattamento di dati personali senza conoscere esattamente come verranno utilizzati per giungere a una determinata decisione.

La sentenza della Cassazione

I giudici della Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso del Garante avverso una Sentenza del Tribunale di Roma che aveva, a sua volta, parzialmente accolto il ricorso proposto da una società che si era vista vietare dal Garante la possibilità di implementare un complesso sistema di rating reputazionale hanno interpretato le disposizioni all’epoca (2016) dettate dal Codice Privacy in materia di caratteristiche dell’interessato.

Nella sostanza, infatti, la società in questione si proponeva di elaborare dei profili reputazionali degli associati a un’associazione al fine di consentire a questi ultimi di presentare delle proprie “credenziali” a clienti e potenziali clienti o, comunque, nelle dinamiche commerciali e professionali e si proponeva di porre in essere i trattamenti di dati personali strumentali all’elaborazione di tali profili sulla base del consenso degli interessati, un consenso, tuttavia, prestato senza che agli interessati fosse illustrato preventivamente il funzionamento dell’algoritmo utilizzato per l’elaborazione del profilo.

Il Tribunale nell’accogliere – almeno parzialmente – il ricorso della società in questione aveva ritenuto che la conoscenza della logica alla base del funzionamento dell’algoritmo non fosse presupposto di validità del consenso ma attenesse piuttosto a una valutazione successiva e eventuale del mercato nel cui ambito l’algoritmo in questione avrebbe potuto essere giudicato inadeguato, imperfetto o mal funzionante.

Non così secondo i Giudici della Cassazione che nel bocciare la decisione dei Giudici di primo grado scrivono: “La scarsa trasparenza dell’algoritmo impiegato allo specifico fine non è stata ben vero disconosciuta dall’impugnata sentenza la quale ha semplicemente ritenuto non decisivi i dubbi relativi al sistema automatizzato di calcolo per la definizione del rating reputazionale, sul rilievo che la validità della formula riguarderebbe ‘il momento valutativo del procedimento’, a fronte del quale spetterebbe invece al mercato ‘stabilire l’efficacia e la bontà del risultato ovvero del servizio prestato dalla piattaforma’. Questa motivazione non può essere condivisa giuridicamente, in quanto il problema non era (e non è) confinabile nel perimetro della risposta del mercato – sintesi metaforica per indicare il luogo e il momento in cui vengono svolti gli scambi commerciali ai più vari livelli – rispetto alla predisposizione dei rating attribuiti ai diversi operatori. Il problema, per la liceità del trattamento, era invece (ed è) costituito dalla validità – per l’appunto – del consenso che si assume prestato al momento dell’adesione. E non può logicamente affermarsi che l’adesione a una piattaforma da parte dei consociati comprenda anche l’accettazione di un sistema automatizzato, che si avvale di un algoritmo, per la valutazione oggettiva di dati personali, laddove non siano resi riconoscibili lo schema esecutivo in cui l’algoritmo si esprime e gli elementi all’uopo considerati”.

Non si può dire di si, insomma, al trattamento dei nostri dati personali attraverso un algoritmo del quale il titolare del trattamento non ci ha preventivamente raccontato logiche e dinamiche di funzionamento.

Un principio importante

Difficile non condividere il ragionamento degli ermellini che, d’altra parte, oggi è cristallizzato in quanto previsto dal GDPR che espressamente riconosce agli interessati, laddove i loro dati personali siano destinati a essere utilizzati per l’assunzione di una decisione automatizzata, il diritto, tra l’altro, di ricevere, evidentemente preventivamente rispetto all’eventuale prestazione del consenso al trattamento, “informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché l’importanza e le conseguenze previste di tale trattamento”.

Tanto, peraltro, a prescindere dalla circostanza che il GDPR, almeno in principio, stabilisce che “L’interessato ha il diritto di non essere sottoposto a una decisione basata unicamente sul trattamento automatizzato, compresa la profilazione, che produca effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona.” (art. 22.1, GDPR).

E questa regola soffre poche eccezioni, ovvero che la decisione:

  • a) sia necessaria per la conclusione o l’esecuzione di un contratto tra l’interessato e un titolare del trattamento;
  • b) sia autorizzata dal diritto dell’Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento, che precisa altresì misure adeguate a tutela dei diritti, delle libertà e dei legittimi interessi dell’interessato;
  • c) si basi sul consenso esplicito dell’interessato.”.

La disciplina sulla protezione dei dati personali, dunque, come la Sentenza di ieri della Suprema Corte di Cassazione suggerisce, sembra davvero rappresentare un volano irrinunciabile e, and oggi, il presidio più prezioso nel governo dell’intelligenza artificiale come, d’altra parte, sembra confermare la proposta di Regolamento dell’Unione europea proprio in materia di intelligenza artificiale che, sotto molteplici profili – incluso quello oggetto della Sentenza – di fatto applica il metodo GDPR proprio dell’intelligenza artificiale.

I Giudici della Cassazione, insomma, hanno fatto un bel regalo di compleanno al GDPR sottolineandone implicitamente la modernità e la centralità nel governo del futuro prossimo venturo, società degli algoritmi inclusa.