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Controlli su misura

Controlli su misura

Quando nel 2001 Kishore Sharfudeen, un uomo cordiale con due figli originario del Tamil Nadu, nel sud dell’India, fu assunto come capo del personale dal calzificio Snqs International Socks, davanti a lui si spalancarono nuovi mondi. Otto anni come avvocato gli avevano fatto perdere ogni illusione, e il suo nuovo datore di lavoro, nella città di Coimbatore, sembrava offrirgli una vita più facile in un’azienda che forniva calze a marchi europei come Primark e H&M.

Il suo compito principale era occuparsi dei circa trecento dipendenti della fabbrica – quasi tutte giovani donne dei villaggi del Tamil Nadu – accertandosi che il luogo di lavoro e i loro alloggi rispettassero le norme sanitarie e di sicurezza in vigore nel paese. “Ho imparato tanto facendo quel lavoro”, mi dice Kishore a proposito dei suoi cinque anni e mezzo in fabbrica quando ci incontriamo nella hall del mio hotel a Coimbatore, in una tarda mattinata di settembre. È difficile sentire elogi su un settore che da tempo è sinonimo di sfruttamento feroce e condizioni di lavoro infernali, ma la Snqs era un’eccezione.

Anche se i dipendenti ricevevano solo il salario minimo, circa quaranta dollari al mese, Kishore era orgoglioso di garantire che la fabbrica e l’ostello fossero in buone condizioni e che i lavoratori seguissero una dieta sana e avessero abbastanza tempo libero per riposare tra un turno e l’altro.

Vantaggio certificato

Kishore era entrato nell’industria della fast-fashion (moda veloce, la produzione in tempi brevissimi di capi d’abbigliamento che seguono le mode emergenti) in un periodo di grandi cambiamenti. Il nuovo millennio aveva portato con sé un’era di “responsabilità aziendale”, e i marchi occidentali, da Gap a Benetton, s’impegnavano a fare pressioni sui loro fornitori per promuovere standard di lavoro internazionali, scongiurare gli incidenti, rispettare la dignità dei lavoratori e non ricorrere al lavoro minorile. Tra queste promesse c’era anche la responsabilità sociale, ovvero la certificazione etica.

Ispirata all’auditing finanziario – una valutazione indipendente che vincola i registri contabili ai principali criteri di contabilità generale – la certificazione etica dovrebbe essere uno strumento per individuare gli abusi ai danni dei lavoratori nelle catene di forniture globali e porvi rimedio.

Sviluppato da ong e associazioni industriali come l’American apparel manufacturers e la European foreign trade association, e promossa da grandi marchi e rivenditori internazionali, la certificazione etica è comunque diversa da quella finanziaria di oggi per due aspetti cruciali: è volontaria e orientata al mercato. Questo significa che offre ai dirigenti di fabbrica l’opportunità di far ispezionare e certificare come “etici” i propri stabilimenti, ottenendo così un vantaggio competitivo sulla concorrenza. Ma i certificatori sono assunti da società ispettive scarsamente regolamentate e a scopo di lucro che si fanno concorrenza per ottenere contratti di revisione, un elemento che secondo Carolijn Terwindt, avvocata indipendente esperta di responsabilità aziendale, rischia di compromettere il fondamento stesso delle certificazioni. “Gli audit finanziari sono meglio regolamentati di quelli sociali”, spiega, “anche se i primi analizzano solo i rischi monetari, mentre i secondi si preoccupano della vita delle persone”.

Tra i pochi protocolli adottati nel settore dell’abbigliamento, lo standard SA8000 è considerato il più severo. Creato nel 1997 dalla Social accountability international (Sai), una ong con sede a New York che promuove i diritti dei lavoratori, ha fama di essere particolarmente rigido. Oltre al rispetto delle norme in materia di sicurezza, salario, salute
e altri standard, il SA8000 prevede che un’impresa corrisponda ai lavoratori uno stipendio sufficiente per vivere – non il semplice salario minimo – entro due anni dalla prima certificazione. Kishore dice che per un dirigente d’azienda riuscire a ottenere un SA8000 “era come una piuma sul cappello”, e quasi una garanzia di ordini futuri. Una delle società di certificazione con la storia più lunga è il Registro italiano navale (Rina), che nacque come istituto per la classificazione di navi mercantili, ma che oggi sostiene di essere “il terzo attore internazionale” nel campo della responsabilità sociale delle aziende.

Partecipare a programmi come il SA8000 è diventato un elemento essenziale per fare affari nell’industria globale dell’abbigliamento. Ma una serie d’interviste che ho condotto nella seconda metà del 2019 con decine di revisori, consulenti, direttori di fabbrica e lavoratori del settore dell’abbigliamento in India dimostra che l’industria dell’auditing sociale non è altro che questo: un’industria. Ho incentrato la mia inchiesta in particolare sul Rina, e il quadro che ne è uscito è deprimente.

Per le società di auditing i profitti vengono prima dei lavoratori. Non sono tenute a rispondere alle ong che hanno il compito di monitorare il loro lavoro. Le ispezioni compiute da queste società non hanno segnalato violazioni delle norme di sicurezza e del lavoro, perciò nelle fabbriche continuano a verificarsi incendi e altri incidenti drammatici. Questo perché il modello delle certificazioni sociali ha dei difetti strutturali. Dato che le ispezioni sono pagate dalle stesse aziende che le subiscono, le società di revisione non hanno particolare interesse a tutelare i diritti dei lavoratori. Stando alle mie interviste, i loro rapporti sono sistematicamente ingannevoli. E sono inaccessibili alle persone che sostengono di voler difendere: i lavoratori non hanno il diritto di essere informati sulle violazioni che i revisori dovessero riscontrare nella loro fabbrica.

Eppure rivenditori e marchi di abbigliamento come Gucci, Amazon, Walt Disney e Walmart sbandierano la loro collaborazione con l’industria degli audit come indice del loro impegno etico. Le ong e i gruppi industriali che dirigono e sovrintendono a programmi come l’SA8000 premono perché questi siano adottati nelle più diverse catene di fornitura, dagli alimentari all’elettronica. Questo significa che i fornitori non possono
più fare affari con i grandi marchi senza le certificazioni.

L’audit sociale è nato più di vent’anni fa e si è trasformato in un’industria globale dominata da una decina di multinazionali che competono per i contratti di certificazione.
Ogni anno gli ispettori di giganti come il francese Bureau Veritas, la britannica Intertek, e la tedesca TÜV Rheinland certificano migliaia di aziende in tutta l’Asia e il subcontinente indiano. Per farlo, però, devono prima ricevere l’accreditamento dall’ideatore della certificazione: se scelgono il SA8000 devono chiedere una licenza al Sai e, dopo averla ottenuta, versare all’organizzazione una commissione annuale. Il Sai, che è l’ideatore e il proprietario dello standard SA8000 e vigila sul suo mercato, dovrebbe intervenire se il Rina (o qualunque altra società di certificazione) si dimostra negligente o comunque inadatto al lavoro.

Ma il processo di certificazione ha un ulteriore livello. I produttori come il calzificio di Kishore raramente si rivolgono direttamente agli auditor per una revisione, ma assumono un “consulente esterno per le certificazioni”, in sostanza un coach, che li prepari per la revisione, li metta in contatto con le società d’ispezione approvate e faciliti il processo. Kishore faceva eccezione: per ottenere una certificazione per il calzificio nel 2006 decise di rivolgersi direttamente al Rina, che aveva un ufficio vicino alla fabbrica. Gli auditor che si presentarono da Kishore la mattina dell’ispezione “furono molto colpiti” dalle strutture, ricorda l’uomo, “e dissero che tutto sembrava perfetto”. Rimasero così colpiti che qualche settimana dopo il direttore generale del Rina per l’India, il Pakistan e il Bangladesh, K.T. Ramakrishnan, chiamò Kishore per congratularsi con lui. E poi gli offrì un lavoro come certificatore del Rina.

A Ramakrishnan, ingegnere meccanico di formazione, piaceva descrivere il suo lavoro come volto a “favorire la giustizia e l’uguaglianza sociale, l’attenzione per il genere umano e uno sforzo motivato per garantire la crescita”. Kishore accettò l’offerta, ma non per uno “scopo sociale”, precisa. “Il lavoro mi serve per avere uno stipendio”, dice, “per la mia famiglia”. Il mensile iniziale, 746 dollari, era circa un terzo di più di quanto prendeva al calzificio, perciò la decisione fu facile.

Una grande farsa

Nel primo mese di lavoro, Kishore dovette seguire i colleghi e imparare da loro. Il suo entusiasmo iniziale svanì rapidamente quando si rese conto che le aziende clienti del Rina somigliavano ben poco all’amichevole fabbrica di calze in cui aveva lavorato. Dalle uscite d’emergenza sbarrate ai sistemi antincendio fuori uso, dalla polvere di cotone ai dispositivi di sicurezza mancanti, ovunque intorno a sé vedeva “incidenti in attesa di succedere”. E il suo ruolo non era quello che aveva immaginato. Secondo il protocollo SA8000, i revisori dovrebbero essere quasi degli investigatori che, guidati da una lista di controllo lunga e dettagliata, seguono una routine standardizzata per accertare fatti e raccogliere prove: giro della fabbrica al mattino, controllo dei libri sociali dopo pranzo e colloqui con i lavoratori nel pomeriggio. Ma osservando i colleghi che interagivano con i direttori, presto si rese conto che più che investigatori erano venditori. Quella che vendevano, capì, era un’“esperienza” di certificazione positiva, relativamente indolore e che, soprat- tutto, avrebbe convinto i clienti a preferire il Rina a un concorrente per le revisioni successive.

Nuovo del settore, il Rina all’epoca stava aggressivamente cercando clienti nell’India meridionale, con notevole successo. Sotto la guida del capo di Kishore, Subburaja Ayyasamy – un abile venditore che all’epoca dirigeva l’ufficio di Tirupur e aveva guidato l’espansione del Rina nel sud del paese – l’ufficio di Tirupur è passato da una decina di clienti SA8000 nel 2006 a più di un centinaio nel 2010.

“Ramakrishnan lodava il nostro ufficio perché era fortissimo nel marketing”, ricorda Kishore, “mai noi ci procuravamo i clienti scendendo a compromessi su tutte le norme”. Solo una minima parte dei rischi per la sicurezza e la salute che notava durante le ispezioni nelle strutture dei clienti finiva nei rapporti inviati al Sai, dice. Il controllo dei documenti spesso era inquietante quanto il giro della fabbrica al mattino: scorrendoli, Kishore capiva rapidamente che erano in larga misura falsificati. A volte, dice, i registri delle prove antincendio indicavano nomi di lavoratori che quel giorno, stando ai fogli delle presenze appena esaminati, non erano neppure sul luogo di lavoro. Altre volte, i documenti mostravano giornate lavorative di otto ore dove turni di dodici ore erano la norma. Dai verbali delle riunioni ai cedolini degli stipendi, dalle lettere di nomina ai dati sugli straordinari, “la maggior parte delle volte era tutto inventato di sana pianta”, conclude. Per di più, Kishore si era aspettato di dover trattare con i capi del personale. Invece continuava a incontrare un consulente dopo l’altro, tutti ingaggiati dalle fabbriche per ottenere la certificazione. E sembrava che non facessero mai rispettare gli standard come dichiaravano. Piuttosto, secondo Kishore, il loro lavoro consisteva nel “simularlo”.

I colloqui con i lavoratori erano la parte più imbarazzante. Lo scopo era verificare i dettagli sui salari e gli orari di lavoro, e fare domande sulle molestie sessuali, i comportamenti antisindacali e altre forme di discriminazione o di abuso. Ma i certificatori che vide all’opera in quel primo mese “facevano solo domande generiche e banali”, ricorda, “tipo ‘Come sta la sua famiglia?’ e ‘Tutto bene qui al lavoro?’”. I dipendenti erano stati “tutti chiaramente imbeccati dai superiori a ripetere che tutto andava bene”. L’intero rituale dell’auditing sembrava una grande farsa, e quando cominciò a condurre ispezioni da solo Kishore non era disposto a stare al gioco. Il suo compito principale erano le revisioni di sorveglianza, a cui secondo lo standard SA8000 di quel periodo i direttori di fabbrica dovevano sottoporsi ogni sei mesi dopo la loro prima certificazione.

Ufficialmente le ispezioni arrivavano senza preavviso, ma in realtà i consulenti ingaggiati dalle fabbriche spesso fissavano le date insieme ai certificatori, come conferma Nikhil Shah, un ex collega al Rina. Con grande irritazione di Kishore, i consulenti spesso cambiavano le date dell’ispezione all’ultimo minuto quando avevano bisogno di più tempo per preparare i clienti, “il che mi faceva saltare tutto il calendario di lavoro”, racconta. A marzo del 2009 si lamentò di questo problema in un’email ad Ayyasami.

Kishore capiva che per molti fornitori certe violazioni, come il ricorso eccessivo agli straordinari, erano difficili da evitare, perché spesso il volume degli ordini e i termini di consegna imposti dai marchi occidentali erano imprevedibili. Negare la certificazione a quelle aziende per questi motivi gli avrebbe solo impedito di crescere e di rendere stabile il giro di affari. Perciò, come compromesso, Kishore decise di adottare un metodo più pragmatico: per esempio, accettare senza troppe storie libri falsificati “purché almeno sembrassero perfetti”, spiega. “Se si chiedesse la documentazione reale, nessuna fabbrica passerebbe l’esame”, aggiunge. Non si preoccupava neppure di chiudere un occhio davanti a violazioni di scarso rilievo – un armadietto di pronto soccorso incompleto o delle mascherine antipolvere mancanti – purché la direzione s’impegnasse a correre ai ripari.

Ma anche così “aveva una mentalità troppo aderente alla legge per il Rina”, spiega il suo ex collega Shah in una telefonata. “Continuava a scontrarsi con i capi, i clienti e i consulenti su quali questioni da risolvere doveva inserire nei rapporti e quali tralasciare”. Per i consulenti, dice Shah, “gli affari dipendevano dalla loro capacità di far certificare le aziende con il minimo sforzo”. Kishore invece pretendeva dai suoi clienti migliorie superiori alla media, e questo minava il loro successo. “Volevano che pensasse di più agli affari”. Ma i risultati del Rina erano strettamente legati alla buona volontà dei consulenti, perché gli intermediari sceglievano personalmente gli auditor per i loro clienti e negoziavano le condizioni a loro nome.

Il Rina sapeva come usare queste dinamiche a proprio vantaggio. Per procurarsi nuovi clienti, raccontano tre persone che hanno lavorato nell’industria, la società si ingraziava i consulenti pagando “commissioni di marketing” che potevano raggiungere il 10 per cento dei ricavi per ogni cliente procurato. La conseguenza, spiega Shah, è che la grande maggioranza dei clienti indiani del Rina per le certificazioni sociali arrivava attraverso una manciata di consulenti: un sistema che faceva dipendere il Rina proprio dalle persone (e dalle aziende) di cui avrebbe dovuto giudicare l’attività con il massimo rigore.

Il lato oscuro

Kishore si trovò a fare i conti con il lato oscuro di questo sistema: se il consulente riteneva che l’audit del Rina fosse troppo severo, poteva semplicemente portare tutti i suoi clienti da un rivale più accondiscendente. Questa dinamica di potere, dice Kishore, rendeva alcuni consulenti così certi della collaborazione del Rina che quasi non si sforzavano di far sembrare i loro clienti rispettosi delle normative.

E così il 23 marzo 2009, quando Kishore mandò un’email ad Ayyasamy per lamentarsi dei consulenti sostenendo che alcuni lo mandavano in fabbriche “dove non riesco a trovare neppure una traccia di SA8000”, la risposta sostanzialmente fu di continuare a fare il suo lavoro. Le fortissime pressioni perché non andasse per il sottile cominciarono a logorare Kishore. “Non riuscivo a zittire la mia coscienza”, dice. Shah, che nell’ufficio del Rina a Mumbai aveva il compito di rivedere i rapporti di tutto il paese, si accorse che “i resoconti di Kishore erano palesemente più sostanziosi e dettagliati” di quelli dei suoi colleghi e “di solito segnalavano un maggior numero di problemi”.

Shah condivideva molte delle preoccupazioni di Kishore per lo stile disinvolto di auditing del Rina. Un problema che aveva osservato era la prassi di mandare nelle fabbriche meno ispettori di quelli necessari, per ridurre le spese. Stando a Shah e a Kishore, un’altra tattica usata dal Rina per risparmiare era sottostimare il numero dei dipendenti di una fabbrica, il che in base alle normative SA8000 consentiva agli auditor di accorciare i tempi dell’ispezione. Shah all’epoca si preoccupava per questa prassi “perché senza un numero sufficiente di persone sul posto gli auditor rischiano di lasciarsi sfuggire violazioni importanti o rischi per la sicurezza”. Anche il “copia e incolla” da un rapporto all’altro era un sistema per risparmiare sui costi, dicono ancora Kishore e Shah. Perfino lo staff del Rina in Italia se ne accorse.

“Tutte le aziende certificate dall’ufficio di Tiripur [sic] hanno la stessa documentazione e usano gli stessi moduli”, scriveva nel gennaio 2011 Achille Tonani, un collega della sede centrale del Rina a Genova, in un’email a Ramakrishnan. “Due aziende hanno un piano di controllo dei fornitori identico alle ultime venti revisionate dal sottoscritto nell’ultimo mese. È possibile?”. L’ansia di Kishore salì alle stelle il 18 gennaio 2010, quando, dopo quasi due anni e mezzo di lavoro, ebbe lo scontro più duro mai avuto con un cliente. Quel giorno doveva ispezionare una fabbrica di maglieria di Tirupur che aveva ottenuto la certificazione dal suo capo sei mesi prima. I locali erano nel caos: estintori mancanti, uscite ostruite e operai chiaramente esposti a fumi tossici. Fu allarmato dal giovanissimo aspetto di alcuni lavoratori e scoprì che l’azienda non pagava gli straordinari. Ma la direzione invece di fornirgli i dati relativi all’età dei lavoratori e i cedolini degli stipendi per dimostrargli che si sbagliava – come richiesto dal protocollo SA8000 – “minacciò di denunciarmi ad Ayyasami”, racconta Kishore. “Io li invitai a farlo e li bocciai”.

Alla disperata ricerca di appoggi, tre giorni dopo Kishore contattò il suo capo a Mumbai, inoltrando a Ramakrishnan un infuocato scambio di email con Ayyasami, in cui deplorava “la qualità degli audit e lo scarso rispetto delle prescrizioni da parte di molti nostri clienti”. Ma gli audit erano l’ultima delle preoccupazioni per Ramakrishnan. Per i profitti del Rina era più importante il rapporto con i consulenti per le certificazioni, un rapporto che lo stile di lavoro di Kishore stava gravemente minando. Tra i consulenti che Kishore aveva fatto infuriare, un certo A. Faizall era il più minaccioso.

Residente a Tirupur, laureato in economia e con una lunga barba rossa, Faizall godeva di particolare prestigio al Rina per la sua ampia rete di clienti e gli affari che procurava alla società, raccontano Kishore e Shah. Kishore pensava di essere in rapporti cordiali con Faizall. Di certo non si aspettava che il 19 gennaio 2010 avrebbe scritto una lettera a Ramakrishnan, all’epoca ancora direttore del Rina India, accusandolo di “pretendere favori” dai produttori e minacciando implicitamente di portare i suoi clienti alla concorrenza se Kishore non rendeva più facile superare gli audit. Il tono delle email di Ramakrishnan diventò sempre più aspro, accusò Kishore di non avere “spirito di squadra” nel lavoro e lo sollecitò a pensare di più agli interessi del Rina. Kishore replicò ammonendo il suo capo che il Rina rischiava di perdere la sua credibilità se rifiutava di cambiare linea.

Qualche mese dopo, quando Kishore ricevette un’email di Rochelle Zaid, direttrice senior del Sai a New York, per un breve periodo pensò di aver visto giusto. Qualcuno aveva scritto un reclamo al Sai denunciando la negligenza delle attività di auditing del Rina a Tirupur, scriveva Zaid, e raccomandava Kishore come “una risorsa che può fornire alcune informazioni su queste accuse”. Era disposto a parlare? Kishore era combattuto. Voleva che il Sai intervenisse, però raccontando tutto all’organizzazione sarebbe venuto meno al suo accordo di riservatezza con il Rina e avrebbe dato alla società un’ottima scusa per licenziarlo. Ma alla fine non dovette prendere nessuna decisione. Il 30 agosto, appena tornato a casa dal lavoro, la moglie gli consegnò una lettera di risoluzione del contratto. Il Rina lo licenziava per non aver rispettato gli obiettivi di produzione.

Ormai disoccupato e senza niente da perdere, Kishore decise di inviare a sua volta un reclamo al Sai. Nei mesi seguenti inviò decine di rapporti di auditing e comunicazioni interne che provavano come il Rina falsificasse regolarmente le informazioni sulle aziende, inviasse pochi ispettori ai suoi clienti, copiasse i contenuti da un rapporto all’altro e consentisse sistematicamente ai consulenti di ispezionare il loro stesso lavoro come membri delle squadre di auditing del Rina. Passò un anno: il Sai indagò, scagionò il Rina da ogni accusa e chiuse il caso con un’email a Kishore del 6 ottobre 2011 in cui giustificava la sua decisione sostenendo che il copia e incolla dei contenuti degli audit non si ripercuote necessariamente sulla qualità dei rapporti. Inoltre dichiarava di aver trovato un solo caso in cui un auditor era stato erroneamente indicato come presente in due luoghi diversi e aggiungeva che il Rina aveva aggiornato le sue politiche in materia di conflitto d’interessi e risolto il problema dei consulenti che facevano anche da auditor.

Quello che la lettera trascurava di riferire era che il problema giudicato più allarmante da Kishore – e cioè che per velocizzare le ispezioni gli auditor sottostimavano il numero di lavoratori nelle fabbriche dei loro clienti – aveva preoccupato anche il Sai. Di fatto, quando il Sai aveva affrontato la questione alcuni mesi prima, Ramakrishnan aveva ordinato alla sua squadra di correggere i dati “con particolare riferimento all’effettiva forza lavoro e alle giornate di lavoro impiegate”. L’organizzazione preposta alla responsabilità sociale, quindi, sapeva di avere un problema, ma invece di penalizzare il Rina tenne per sé queste informazioni, consentendo alla società di continuare ad agire indisturbata.

Il disastro

L’11 settembre 2012 scoppiò un grosso incendio al piano terra della Ali Enterprises, una fabbrica di abbigliamento a Karachi, in Pakistan. Poche settimane prima gli ispettori del Rina avevano dichiarato l’azienda sicura e sufficientemente rispettosa dello standard SA8000. Più di 250 operai si accorsero troppo tardi delle fiamme e del fumo. Intrappolati al piano superiore dietro finestre con le sbarre e uscite d’emergenza chiuse a chiave e senza estintori funzionanti, non ebbero via di scampo. In una ricostruzione dell’incendio, i ricercatori di Forensic architecture, un istituto con sede all’Università Goldsmiths di Londra, hanno dimostrato che sarebbe stato sufficiente un sistema di allarme antincendio funzionante per ridurre sensibilmente il numero dei morti.

Il sistema di allarme antincendio guasto era uno dei tanti, vergognosi rischi per la sicurezza che gli auditor avrebbero dovuto imporre ai loro clienti di eliminare. Altre violazioni erano la mancanza di uscite di sicurezza al piano superiore e i registri sulle prove di evacuazione, palesemente falsificati. Quando sulla scia della tragedia i gruppi per la difesa dei diritti umani chiesero di vedere il rapporto dell’audit, Sai e Rina si opposero appellandosi alla riservatezza. Il Rina sostenne che il giorno dell’audit la Ali Enterprises aveva dimostrato di rispettare lo standard SA8000.

Lo European center for constitutional and human rights, una ong con base a Berlino, è riuscito a ottenerne una copia e l’ha mostrata ai superstiti e agli ex operai della Ali Enterprises, che l’hanno trovato pieno di imprecisioni. Nelle deposizioni giurate presentate nel 2015 a un tribunale tedesco in una causa contro il rivenditore tedesco KiK, i lavoratori che chiedevano un risarcimento all’acquirente della Ali Enterprises segnalavano che le foto allegate all’audit del Rina – tutte teoricamente esaminate dagli auditor il giorno dell’ispezione – erano vecchie di almeno sei anni e hanno detto che “l’edificio, con le pareti crepate,

i soffitti rotti e le finestre con le sbarre, sembrava una galera”. Nel 2019 il tribunale ha archiviato la causa per scadenza dei termini di prescrizione. Nel 2012 il Sai avviò una propria indagine sull’incendio, i cui risultati rispecchiavano molte testimonianze dei lavoratori. Rilevò che gli auditor non avevano visto o avevano ignorato molte violazioni delle norme di sicurezza e avevano accettato registri delle prove antincendio chiaramente falsi. Accertò anche che la Ali Enterprises aveva centinaia di operai in più rispetto a quanto dichiarato dal Rina. Kishore aveva informato il Sai delle pericolose pratiche di auditing del Rina più di un anno prima. Aveva detto al Sai che a suo giudizio il Rina sottostimava il numero di lavoratori dei suoi clienti non per errore ma per strategia. Eppure il Sai non ha troncato i rapporti con il Rina e ha sospeso solo la sua abilitazione a svolgere audit in Pakistan. In tutti gli altri paesi, i lavoratori dipendono ancora da questi audit per la loro sicurezza.

Gli incentivi finanziari sono una grossa parte del problema delle certificazioni della responsabilità sociale. Ma anche la cultura dell’ambiente di lavoro – compreso il ricorso diffuso agli accordi di riservatezza – ha un ruolo significativo. Come Kishore ha imparato a sue spese, i revisori rischiano di perdere il posto se decidono di informare i lavoratori delle violazioni delle norme di sicurezza nella loro fabbrica. “La piena trasparenza e il coinvolgimento dei lavoratori sono una necessità assoluta per qualunque iniziativa di controllo”, dice Mark Anner, professore associato di relazioni industriali e del lavoro alla Pennsylvania state university. “Fino a quando non saranno i lavoratori a promuovere le iniziative di monitoraggio e fino a quando non potranno neppure esaminare i rapporti, queste società di auditing continueranno a presentare un’immagine di progresso molto distorta che mette a rischio i lavoratori e ostacola la creazione di meccanismi più sostenibili ed efficaci per un lavoro dignitoso”.

A peggiorare le cose, consulenti ben introdotti come Faizall si comportano da padroni dell’universo delle certificazioni, un atteggiamento in larga misura alimentato dalla loro posizione di intermediari tra le società di auditing e i clienti. Dei 13 auditor che ho intervistato, 11 hanno espresso frustrazione per il potere dei consulenti sulle società di auditing e per i loro frequenti tentativi di imporre quello che i certificatori possono segnalare nei loro rapporti. Questo genere di pressioni spinge molti ispettori a comportarsi come aveva fatto Kishore: assumere un approccio “pragmatico”, valutare “le intenzioni” dei loro clienti invece che le effettive violazioni riscontrate, negoziare con i superiori i compromessi da accettare. In definitiva, sono i dirigenti dell’ufficio a decidere cosa includere nel rapporto di audit. E tra doppi libri e doppi registri, colloqui con un copione già scritto e ambigui accordi con i consulenti, le fabbriche pericolose appaiono in regola sulla carta, addirittura etiche. Alcuni auditor hanno perfino coniato un’espressione per definire questa prassi: “lavaggio degli occhi”.

Molti auditor e consulenti con cui ho parlato attribuiscono ai marchi, piuttosto che ai direttori di fabbrica, la colpa di questa situazione. Sottolineano che i prezzi ridotti all’osso, i termini di consegna troppo ravvicinati e la mancanza di garanzia sugli ordini hanno un impatto profondamente negativo su salari, orari di lavoro e pressione produttiva. “I proprietari delle fabbriche si lamentano sempre perché ogni anno i marchi vogliono ridurre i prezzi”, mi ha detto un consulente di Bangalore. “Volete gli stessi ordini? Allora la prossima volta dovete prendere di meno, dicono le aziende acquirenti”.

Mark Anner non è sorpreso. Negli ultimi due anni ha condotto un’indagine approfondita sui marchi occidentali in Vietnam, Bangladesh e India. Dopo aver intervistato centinaia di lavoratori e dirigenti d’azienda di questi paesi e dopo aver studiato i dati sul commercio internazionale degli ultimi vent’anni, ha concluso che i prezzi “predatori” peggiorano le condizioni di lavoro. Nei mesi scorsi la sua ricerca ha dimostrato che la richiesta di abbassare i prezzi si è ulteriormente aggravata durante la pandemia. Anner ha osservato che i lavoratori hanno bisogno non di audit ma di accordi di monitoraggio trasparenti e vincolanti tra marchi e sindacati. In base a questi accordi “se i marchi non rispettano i loro obblighi dovrebbero attivarsi dei meccanismi per consentire ai lavoratori di chiamarli a rispondere”. Attualmente esistono solo strumenti non vincolanti per spingere i marchi globali e le società di auditing a rispondere delle violazioni dei diritti umani, ma proprio perché non sono vincolanti i lavoratori sono troppo deboli per ottenere giustizia.

L’istanza

Lo dimostrano i tentativi delle vittime della Ali Enterprises e delle loro famiglie di chiamare in causa il Rina accusandolo di aver ignorato i rischi per la sicurezza nella fabbrica pachistana. A settembre del 2018 una coalizione di otto gruppi per la difesa dei diritti umani di Pakistan, Germania, Italia e Paesi Bassi ha presentato un’istanza contro il Rina al Punto di contatto (Pcn) italiano dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) presso il ministero per lo sviluppo economico di Roma. Chiedevano, tra l’altro, al Rina di pubblicare il suo rapporto sull’audit della Ali Enterprises e d’impegnarsi a rivelare tutti i futuri rapporti di audit, garantire la partecipazione attiva e sicura dei lavoratori alle ispezioni, rafforzare la qualità delle sue revisioni interne e, soprattutto, fornire sostegno finanziario e presentare le sue scuse ai superstiti e alle famiglie in lutto.

Il Rina ha respinto tutte le accuse: ha dichiarato di non poter risolvere da solo i problemi dell’industria degli auditing e ha affermato che il processo del Pcn non era la strada giusta per fornire un risarcimento alle famiglie colpite. Ma il Pcn italiano dell’Ocse, incaricato di valutare l’istanza, l’ha accettata e alla fine di giugno del 2019 ha avviato un processo di mediazione. Nei sei mesi seguenti sia il Rina sia le vittime hanno fornito prove al conciliatore del Pcn, che a marzo del 2020 ha avanzato una proposta per risolvere la controversia. Ha raccomandato che il Rina versi 400mila dollari a chi è stato danneggiato dall’incendio; che un rappresentante della società incontri le famiglie per esprimere solidarietà; che il Rina si sforzi di migliorare il sistema di certificazione globale e che s’impegni a migliorare le proprie pratiche di due diligence, inclusa la trasparenza sulle sue politiche in merito alla gestione del rischio, alla corruzione e ai conflitti d’interesse.

Pur giudicando insoddisfacente la proposta, l’associazione delle vittime ha firmato l’accordo all’inizio di marzo del 2020. Il Rina, invece, l’ha respinto spiegando che l’ostacolo maggiore erano gli indennizzi alle famiglie. Alla richiesta di un commento, il Rina ci ha rimandato al suo sito web, dove dichiara che “la società al momento del fatto risultava in possesso di certificazione SA 8000 rilasciata da Rina Services” e che il Rina non aveva quindi alcuna responsabilità nell’incendio.

“Ancora una volta il Rina si sta sottraendo alla sua responsabilità e si rifiuta perfino di concedere alle famiglie della Ali Enterprises i gesti simbolici che chiedono”, dice Deborah Lucchetti di Abiti Puliti, una delle associazioni che hanno presentato l’istanza. “Uno dei motivi per cui il Rina e altre società di auditing continuano a farla franca con questo comportamento è che il loro nome non è noto a cittadini e consumatori potenzialmente indignati, consapevoli del loro potere di consumatori”. Nel frattempo, le imprese che “ingaggiano società come il Rina alzano le spalle perché quello di cui hanno più bisogno è di certificare le fabbriche e non di una società che controlli davvero se le fabbriche sono sicure”.

Una questione d’affari

Nell’India del sud, Kishore è arrivato a una conclusione altrettanto pessimistica. Dopo la fine del suo rapporto di lavoro con il Rina nel 2010, ha aperto uno studio di consulenza legale. Fornisce consulenze sulla gestione del personale a imprese di tutta l’India del sud, e firma ogni email con il suo motto: “Meglio prepararsi e prevenire che riparare e pentirsi!”. Il Sai non ha voluto commentare le accuse di Kishore, ma ha insistito che la sua certificazione è la più idonea a minimizzare “la pressione dei marchi, le frodi e la corruzione che si riscontrano nell’attuale industria degli auditing”. Molti ex superiori di Kishore lavorano ancora nel settore: Kamakrishnan e Ayyasami, per esempio, sono passati al Wrap, un concorrente del Sai creato da un gruppo commerciale statunitense e popolare tra i marchi americani. Il Rina continua a condurre audit per certificazioni SA8000, Wrap e altri protocolli.

Faizall, che aiuta ancora i suoi clienti a ottenere certificati etici, non crede che i marchi pagheranno mai a sufficienza i fornitori per rispettare i presunti requisiti etici di questi standard. Quando gli ho chiesto come valuta il ruolo delle società di auditing, delle ong e dei consulenti che gestiscono il sistema, considerando questi limiti strutturali, la sua risposta è stata secca: “È solo una questione d’affari. Nessuno è qui per fare del bene.”




Lvmh, Prada e Cartier fondano la prima blockchain globale del lusso

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Lvmh, Prada e Cartier (gruppo Richemont) hanno annunciato nel primo pomeriggio di oggi, 20 aprile, la fondazione di Aura Blockchain Consortium, un consorzio a sostegno della prima blockchain globale dedicata all’industria del lusso. Un progetto che non sarà limitato ai tre gruppi fondatori, ma al contrario aperto a tutte le società del lusso che lo vorranno, indipendentemente dal settore o dal Paese in cui operano. Aura Blockchain Consortium è un’organizzazione senza scopo di lucro e i profitti saranno reinvestiti per garantire lo sviluppo tecnologico della piattaforma.

Tracciare i beni di lusso e garantire l’autenticità

Si tratta di una notizia di rilievo non solo perché apre la strada a una tracciabilità verificabile (e immutabile), ma anche peri nomi in campo, perché segna un ulteriore passo avanti in un dialogo a livello globale dei grandi gruppi della moda e del lusso in un momento di ricostruzione post-pandemia e dove il tema della sostenibilità è tra quelli trainanti. La nota diffusa spiega che il progetto promuove l’utilizzo di un’unica soluzione blockchain globale «per garantire ai consumatori maggiore trasparenza e tracciabilità». I tre gruppi «hanno sviluppato insieme un’esclusiva piattaforma comune per affrontare sfide condivise in materia di comunicazione dell’autenticità, approvvigionamento responsabile e sostenibilità attraverso un formato digitale sicuro. I marchi del lusso — prosegue lil comunicato — hanno una storia unica da raccontare per la qualità dei materiali, l’artigianalità e la creatività. La tecnologia offerta da Aura Blockchain Consortium permette al consumatore di avere accesso diretto alla storia dei prodotti e alla loro garanzia di autenticità».

La qualità dei prodotti

I clienti possono, infatti, seguire facilmente e in modo trasparente il ciclo di vita di un prodotto, «dalla sua creazione alla distribuzione attraverso dati affidabili lungo tutto il processo, rafforzando così la relazione con i loro marchi di riferimento». Nella nota si parla di una «collaborazione senza precedenti» e si sottolinea come con lo sviluppo di questa tecnologia Lvmh, Prada e Cartier «continuano ad elevare gli standard del settore per guidare il cambiamento e accrescere la fiducia dei propri clienti nelle pratiche sostenibili e nell’approvvigionamento responsabile condotto dai singoli marchi».

Il certificato di garanzia grazie alla Blockchain

Nel concreto, il sistema tecnologico è costituito da una blockchain privata multi-nodale ed è protetto dalla tecnologia ConsenSys e da Microsoft. Registrerà le informazioni in modo sicuro e non riproducibile e genererà un certificato unico per ogni proprietario, aumentando la desiderabilità di oggetti di valore, frutto di un saper fare unico e realizzati con materiali sostenibili di alta qualità. Toni Belloni, direttore generale gelegato di Lvmh, ha spiegato che «Aura Blockchain Consortium è una grande opportunità per il nostro settore, per rafforzare il rapporto con i clienti offrendo loro soluzioni semplici per conoscere meglio i nostri prodotti. Unendo le forze con altri marchi del lusso in questo progetto, stiamo aprendo la strada alla trasparenza e alla tracciabilità. Spero che altri prestigiosi marchi abbraccino questa soluzione».

Lorenzo Bertelli, Head of Marketing & Head of Csr del gruppo Prada, ha aggiunto che «insieme ai nostri partner abbiamo intrapreso un percorso di collaborazione e fiducia senza precedenti nel nostro settore; abbiamo dato vita a un progetto unico e innovativo con l’obiettivo di mettere al centro i nostri clienti, creando valore grazie a un sistema di autenticazione sostenibile che genererà infinite possibilità». «Aura Blockchain Consortium rappresenta un esempio di cooperazione senza precedenti nel settore del lusso — ha aggiunto Cyrille Vigneron, presidente e Ceo di Cartier International e membro del consiglio di amministrazione e del senior executive commitee di Richemont —. La Blockchain è una tecnologia chiave per migliorare il servizio ai clienti, il rapporto con i partner e la tracciabilità dei prodotti. L’industria del lusso realizza oggetti senza tempo e deve garantire che standard rigorosi perdurino e rimangano in mani fidate. Invitiamo quindi l’intero settore a unirsi a questo consorzio per progettare una nuova era del lusso rafforzata dalla tecnologia blockchain».

Come funziona la piattaforma: informazioni e responsabilità

Sulla piattaforma sono intanto già attivi Bulgari, Cartier, Hublot, Louis Vuitton e Prada e sono in corso «diverse discussioni a uno stadio avanzato», sia all’interno dei gruppi fondatori sia con brand indipendenti, per entrare a far parte del consorzio. I fondatori precisano che «ogni marchio ha aderito in base alle proprie specificità e alle aspettative dei propri clienti e continuerà a essere pienamente proprietario e responsabile dei propri dati, senza che si verifichi alcuno scambio di informazioni sensibili sotto il profilo della concorrenza». Le informazioni saranno memorizzate in modo da non essere modificate, manomesse o violate.




Bye bye, Emotet

Bye bye, Emotet

A gennaio scorso avevo segnalato che un intervento coordinato di varie forze dell’ordine in numerosi paesi aveva messo fuori uso Emotet, uno dei malware più diffusi, che da solo era responsabile di circa il 30% di tutti gli attacchi informatici.

La tecnica era classica: un documento Word, che molti utenti ritengono innocuo, conteneva il malware, che veniva lanciato se la vittima apriva il documento e attivava le macro in Microsoft Word.

Ora è arrivata la conclusione dell’intervento di polizia: il 25 aprile scorso i computer che erano stati infettati da Emotet hanno cancellato il malware. Questo è stato possibile perché le forze di polizia avevano preso il controllo degli aggiornamenti di Emotet e ne avevano diffuso uno autodistruttivo.

Alla scadenza impostata, appunto il 25 aprile, è scattata l’autodistruzione. Il portale dedicato ad Emotet presso Abuse.ch indica ora zero computer infetti, che è un risultato notevolissimo, considerato che Emotet aveva preso il controllo di oltre un milione di computer in tutto il mondo, generando incassi illegali per oltre 2 miliardi di dollari.

Va notato che in un intervento come questo le forze di polizia in sostanza aggiornano forzatamente i computer infettati, senza chiedere il consenso dei rispettivi proprietari, ponendo interrogativi sulla legalità di questa tecnica, indubbiamente efficace ma potenzialmente pericolosa. Ovviamente in questo caso nessun protesta, però è formalmente un’intrusione.

Anche l’FBI di recente ha usato lo stesso approccio per ripulire a forza i server Microsoft Exchange infettati da una serie di attacchi denominati Hafnium, visto che i legittimi proprietari di questi server si ostinavano a non aggiornarli.




Dalla CSR al CSV per perseguire un “successo sostenibile” e mitigare l’eco-ansia del consumatore

Dalla CSR al CSV per perseguire un “successo sostenibile” e mitigare l’eco-ansia del consumatore

Sostenibilità, dopo resilienza, è forse la parola più abusata di questi tempi, specialmente dopo lo scossone dato dalla pandemia ancora in atto. È interessante, però, ricordare che questa parola non è così “moderna” come si potrebbe pensare. Di fatti, la parola sostenibilità viene coniata nel 1713 per mano del tedesco Hans Carl von Carlowitz (1645-1714), responsabile dell’estrazione mineraria d’argento per conto della corte sassone a Freiberg. Von Carlowitz propose nel suo testo “Sylvicultura Oeconomica oder Anweisung zur Wilden Baum-Zucht” (“Sylvicultura Oeconomica o avvertenze sulla coltivazione di alberi selvatici”) un uso delle foreste che abbattesse tanti alberi quanti ne sarebbero successivamente ricresciuti in un’ottica di “Nachhaltigkeit”, sostenibilità appunto.

Tuttavia, nonostante l’intuizione precoce, la sostenibilità è stata soggetta, di fatto, ad un abbandono culturale e operativo. La fame della crescita ha fatto passare sotto silenzio la maggior parte delle attenzioni per l’ecosistema ambientale ed anche sociale, con la vita di molte persone non calcolata a fronte della prosperità di pochi.

Com’è noto, è in tempi recenti, dal Rapporto Brundtland del 1987 in poi, che la sostenibilità, partendo dal concetto di sviluppo sostenibile, è diventata qualcosa di sempre più presente nel dibattito pubblico, tanto da diventare così impattante da plasmare le coscienze dei consumatori e il modus operandi del business.

La letteratura scientifica in materia fa datare al 1979, e al contributo dell’economista A.B. Carroll, una prima visione moderna di Corporate Social Responsibility (CSR – Responsabilità Sociale d’Impresa), intesa come un soddisfacimento simultaneo di una più ampia gamma di responsabilità da parte delle imprese, per cui spettavano non soltanto obblighi economici e legali, ma anche responsabilità etiche e discrezionali (filantropiche).

Oggi, la Csr è un concetto noto in termini teorici alla stra grande maggioranza degli operatori economici e probabilmente anche – per alcune realtà – l’aspetto più ipocrita che funge da facciata per comportamenti dei più deplorevoli, dal Greenwashing alle più articolate frodi ambientali.

Quali azioni concrete per gli obiettivi di sostenibilità

È pur vero che, lato business, delle volte, delle azioni concrete a sostegno della sostenibilità sono ancora difficili da avviare. Ciò è anche in linea con quello che emerge da una nuova ricerca realizzata a livello globale e promossa da Sap. Di fatti, lo studio “Improving the Environment at Planetary Scale: A Survey of Business Drivers and Actions” (Migliorare l’ambiente su scala planetaria: un’indagine sui fattori e le iniziative business) esplora le azioni che le imprese stanno compiendo per migliorare l’ambiente e le sfide che devono affrontare, mettendo in evidenza come i cambiamenti climatici, lo sfruttamento delle risorse, l’inquinamento atmosferico, i rifiuti solidi e la disponibilità di materie prime, siano state le principali priorità di investimento per affrontare problemi in ambito ambientale, secondo i responsabili aziendali intervistati per lo studio.

Sulla base delle risposte di oltre 7.400 responsabili aziendali di 19 paesi (tra cui l’Italia) e 16 settori, pesa molto l’incertezza sull’attuazione dei piani d’azione di sostenibilità e una concretizzazione del Roi, che non sembra apparentemente evidente e immediato per le aziende. Questa ed altre motivazioni sono condensate negli ulteriori punti che l’analisi  ha anche rilevato:

  • La ragione di fondo che spinge un’azienda a investire in progetti per la tutela dell’ambiente per il 29% degli intervistati risiede nelle normative che regolano il proprio settore, per il 27% nella crescente approvazione del mercato verso il proprio brand e infine per il 26% del campione nei rischi sulla reputazione aziendale (in caso di immobilismo).
  • Alla domanda “quali forze motivano la tua azienda ad agire per migliorare l’ambiente” la prima risposta è stata l’impegno dei Ceo e dei consigli di amministrazione, la seconda i regolamenti governativi. E la terza, subito a ridosso, i ricavi e la crescita dei profitti, a dimostrazione che le azioni ambientali sono influenzate da pressioni sia interne che esterne.
  • L’incertezza su come integrare la sostenibilità nei processi aziendali e nei sistemi IT è vista come il più grande ostacolo all’implementazione dei piani d’azione per il 35% del campione. L’allineamento delle attività proposte con la strategia di business è al secondo posto (34%), seguito dalla difficoltà di dimostrare il ritorno sugli investimenti (33%).
  • Solo il 21% dei rispondenti ha dichiarato di essere completamente soddisfatto della qualità dei dati a sua disposizione per valutare i problemi ambientali. La ragione principale di insoddisfazione è dovuta alla mancanza di fiducia nei dati, che possono essere incompleti e non coprire l’ambito richiesto.

Questo particolare momento storico, quindi, sta mettendo a dura prova il rapporto tra business e sostenibilità. “I risultati dello studio mostrano che l’83% delle aziende non crede che in questo momento gli impatti ambientali siano rilevanti per il loro business”, ha affermato Daniel Schmid, chief sustainability officer di Sap. “Le imprese devono capire che le questioni ambientali sono importanti proprio ora. Con una percentuale crescente di consumatori sempre più sensibili ai valori e ai comportamenti etici delle aziende da cui acquistano, abbiamo quindi l’importante responsabilità di aiutare le organizzazioni a comprendere meglio gli impatti della crisi climatica sul loro business, a superare le barriere messe in evidenza dalla nostra ricerca ed infine ad accelerare il passo per avviare azioni a difesa del clima”.

Approccio customer centric per superare l’eco-ansia

Infatti, questa fatica delle aziende a perseguire, in maniera trasparente, delle concrete azioni di sostenibilità si pone come miope rispetto al fenomeno dell’eco-ansia, che affligge sempre più consumatori. Questa espressione si è diffusa sempre più, dopo che nel 2017 l’American Psychological Association ha pubblicato uno studio che correlava fenomeni ansiosi al cambiamento climatico. Di fatto, si tratta di forme di preoccupazione più o meno accentuata per l’ambiente, la distruzione degli habitat naturali, il cambiamento climatico, l’inquinamento e in generale tutti i problemi ecologici e le catastrofi causate o rafforzate dall’azione dell’uomo e dalla sua attività produttiva sul pianeta. Che le conseguenze del cambiamento climatico influenzino anche attività economiche e sociali, può apparire razionalmente comprensibile nel caso di conseguenze dirette, ma che questo – a priori – solo livello di pensiero, possa causare una gamma di sensazioni, come rabbia, shock o terrore, in maniera più o meno intensa, portando in alcuni casi a soffrire di disturbi post-traumatici da stress, è qualcosa che l’approccio customer centric del business non può permettersi di ignorare.

È anche nel rispondere ad un’esigenza come quella generata da fenomeni di eco-ansia, che si può beneficiare del cosiddetto Successo sostenibile“, che il Codice di Corporate Governance 2020 definisce come “Obiettivo che guida l’azione dell’organo di amministrazione e che si sostanzia nella creazione di valore nel lungo termine a beneficio degli azionisti, tenendo conto degli interessi degli altri stakeholder rilevanti per la società”.

Da queste evidenze, si riscontra la necessità, lato business, di un nuovo approccio, che le permetta anzitutto di trovare le modalità per superare le difficoltà di implementazione della sostenibilità. Può essere forse d’aiuto superare il più tradizionale approccio CSR, andando verso quello che, ormai già 10 anni fa, gli economisti M. Porter e M. Kramer (Creating shared value, 2011) in un articolo sull’Harvard Business Review definirono Corporate Shared Value (Csv). Alla base dello stesso concetto, vi è la consapevolezza dell’interdipendenza tra il successo aziendale e il contributo sociale dell’impresa . Il concetto di Crs viene superato in quanto il Csv si delinea come la capacità di creare valore economico con modalità che consentano di ottenere benefici, contemporaneamente, sia per l’azienda sia per la società, in maniera tale da riconciliare il successo economico-finanziario con lo sviluppo sociale.

I passi per creare Corporate Shared Value (Csv)

Le strade perseguibili per la creazione del Csv sono tre, che il Corporate Reporting Forum, in un suo documento dell’ottobre 2020, riassume come tali:

  • “Riconcepire e innovare i prodotti e i servizi valutando i rischi e le opportunità legate alla produzione o all’erogazione di quanto già offerto, per meglio servire i mercati di riferimento o entrare in nuovi mercati non ancora esplorati;
  • Ridefinire e innovare la produttività della catena del valore incrementando la qualità dei prodotti e/o l’efficienza dei processi produttivi, riducendo i costi di produzione e le risorse impiegate e/o migliorando i processi di distribuzione, per generare un vantaggio economico e sociale;
  • Sostenere lo sviluppo dei cluster locali con cui l’impresa entra in contatto tramite l’ammodernamento delle infrastrutture, il supporto ai fornitori locali e il sostegno alle comunità di riferimento, per ottenere un vantaggio competitivo di lungo periodo e promuovere al contempo lo sviluppo sociale”.

In definitiva, vi è un’esigenza di concretezza e pragmaticità che permetta di avvalorare e dimostrare in maniera misurabile e rendicontabile i benefici , che pur vi sono, della sostenibilità. Misurazione e rendicontazione volti a delineare la strategia aziendale e guidare i diversi processi aziendali, facendone emergere i vantaggi economici, sono ora le priorità su cui lavorare, per dimostrare come la sostenibilità conviene.




“Le invio il mio avatar per le misure, va bene?” Dati e privacy in atelier

“Le invio il mio avatar per le misure, va bene?” Dati e privacy in atelier

“Ci vediamo domani alle 10 per l’ultima prova allora?”

Non posso proprio domani, ma le invio il mio avatar per le misure, va bene?”

“Ancora meglio, abbiamo ormai il software per trasferire tutti i dati al nostro sistema di cucitura”.

Il dialogo potrebbe essere fra qualche tempo pratica corrente in un qualsiasi negozio di abbigliamento.

Cominciano infatti a moltiplicarsi gli atelier degli avatar personali. L’ultimo lo ha aperto a Milano Billy Berlusconi, nipote del più noto, al momento, Silvio.

Si tratta di un centro per la realizzazione di avatar che riproducono, in tutto e per tutto, le fattezze e le misure del titolare. Un altro centro simile è già in attività a Torino, e se ne annunciano anche a Roma.

La promozione del prodotto, che il nuovo Berlusconi che scende in campo annuncia, e al quale, se buon sangue non mente, non mancheranno certo le risorse pubblicitarie, oltre che finanziarie, parla di un vero gemello che ci sostituisce in incombenze fastidiose, come appunto misurarsi un abito, oppure andare dal personal trainer per farsi prescrivere esercizi. Sembrerebbe, a prima vista il solito giochetto per ricchi annoiati. Definizione che qualche decennio fa veniva usata in generale per Internet, e successivamente, per i social. Poi abbiamo visto dove siamo arrivati.

Ora siamo dinanzi ad un fenomeno che già fu annunciato circa 10 anni fa, con quella moda, allora passeggera, di SecondLife. Qualcuno ricorderà: la piattaforma dove si ricreavano condizioni di vita comunitaria reale per mezzo di pupazzetti che impersonavano i singoli utenti. Si cominciava a parlare di duplicazione di se stessi, di dare forma ai sogni o alle ambizioni, ricreando personalità e attività. Qualcuno riuscì anche a guadagnarci qualcosa speculando sulla frenesia di rendere il proprio avatar attraente e brillante, dotandolo di un personal designer, di un arredatore della propria casa e di accompagnatori o accompagnatrici suggestive, per non dire direttamente eccitanti.

Quella forma di fuga da se stessi durò un paio d’anni e si spense naturalmente, sostituita da una più ampia, inclusiva e omologante corsa ai social. 

Ma, come sempre, ogni tendenza ormai nel sistema virtuale si modifica, anzi, si ri-media, come direbbero Grusin e Bolter, i due teorici della combinazione continua di linguaggi e valori nella società dell’informazione. I processi non si esauriscono, ma si innestano in tendenze più complesse. La sensoristica, intrecciata a una potenza di calcolo che sta riproducendo funzioni umane, come voce, memorie e correlazioni, ad alta fedeltà, ci ripropone l’obbiettivo di una nostra riproduzione.

Infatti, anche sulla scorta della società distanziata, che la pandemia ci sta imponendo, con le pratiche di massa di smart working e di e Learning, la disponibilità di veri avatar che, in sicurezza per noi, rendono più dirette e fluide le relazioni sociali che non possiamo gestire in presenza, sta ormai imponendosi come necessità diffusa. In questo contesto si pone il tema di una modularità dell’avatar, che per rispondere fedelmente alle nostre perfette dimensioni e misure, dove evolversi con noi, rimanendo in contatto con gli indicatori della nostra personalità, sia fisica che psicologica. In sostanza, se vogliamo usufruire di un servizio efficiente e duraturo, dovremmo trasferire all’avatar i nostri dati socio biologici. In modo da poterlo usare in permanenza, adattandolo a varie evenienze. A questo punto diventano due i temi che ci interrogano: da una parte quale fenomeno potranno attivare gli avatar di noi tutti interagendo fra di loro? Che società si potrebbe creare accanto alla nostra, con questi gemelli che ci rappresentano? Si arriverebbe ad una sorta di Blade Runner in scala minore, dove avatar e originali si mischiano in diverse forme di relazione, come appunto attività subalterne o ancora integrative o, di nuovi svaghi, o, infine di svaghi di sempre, come l’industria del sesso non maccherebbe di proporre, e in questo forse già lo zio qualche suggerimento potrebbe darlo all’intraprendente nipotino. Ma l’altro tema che inevitabilmente incontreremo su questa pista riguarda, come è ormai prassi consueta, la questione dei dati. Se noi avremo modo di trasferire al sistema di calcolo che guida l’avatar, sia nelle prime versioni puramente virtuali, che in quelle tridimensionali e materiali che Billy Berlusconi ci annuncia, i nostri dati psico-biologici, per rendere appunto il gemello in tutto corrispondente a noi via via che invecchiamo, a sua volta l’avatar a chi invierà questi dati preziosissimi per profilare intimamente l’umanità?

Siamo ad un giro di boa che ci fa intendere come forse, dietro l’apparente frivolo business della vanità dei ricchi milanesi, la famiglia Berlusconi si sia trovata ancora una volta , dopo la sbornia della TV commerciale negli anni 80, ad essere veicolo di un processo di modernizzazione passiva della nostra società che mira a sostituire i social come strumento di raccolta e trasferimento dati con un nuovo medium, basato sulla relazione diretta fra consimili di ognuno di noi, in cui la nostra anima diventa un file da appaltare.