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The sound of success

The sound of success

Questa disciplina ha l’incredibile capacità di connettere due campi che spesso consideriamo opposti: l’arte e la scienza. L’obiettivo? Progettare un suono in grado di influenzare il comportamento e plasmare le percezioni.

Per scoprire com’è possibile, ti consigliamo di leggere l’articolo: siamo certi rimarrai incantato!

Per introdurti all’argomento di oggi, ti propongo un indovinello:

“Che cosa hanno in comune Intel, 20th Century Fox, McDonald’s e BMW?”

A primo impatto non sembra esserci nessun collegamento razionale, queste quattro aziende operano in mercati totalmente differenti con un piazzamento eterogeneo e core business diversi.

Voglio allora darti un piccolo suggerimento: la soluzione si trova in una percezione specifica del branding e, se volessimo, potremmo aggiungere all’elenco altre innumerevoli aziende.

Infatti, mi riferisco al Sound Branding: la frontiera del branding che parla una lingua universale fatta di note, ritmo e suoni.

Ti sarà capitato infinite volte di sentire il suono associato a quei brand, a tal punto da riconoscerlo e ricordarlo meglio del logo stesso.

Facciamo un po’ di chiarezza: il branding comprende tutte quelle attività che collegano un marchio a determinati segni distintivi. Pertanto il logo, il nome e il payoff di un brand devono essere in grado di trasmettere i valori aziendali, la Mission e la Vision in modo da delineare un’identità chiara e distinta. Solo così il brand potrà essere riconoscibile e differenziarsi dai competitors.

Nella componente sonora del branding, i suoni vengono sfruttati per formare la percezione degli acquirenti e influenzarne i comportamenti. In questo modo si genera riconoscibilità e si trasmette l’unicità del marchio, evitando problematiche di naming e slogan dovute a differenze linguistiche e comunicando in maniera facile e veloce.

La percezione, sia essa visiva o uditiva, è scienza.

Gli “audio brand” sono progettati in modo da far identificare immediatamente il marchio a livello uditivo, svolgendo la stessa funzione che hanno i loghi a livello visivo.

Cosa accade invece a livello fisiologico? 

In linea generale, la risposta emotiva e fisiologica data da un suono tende ad essere più rapida ed efficace rispetto a quella generata dalla vista. A livello cerebrale, il “circuito uditivo” risulta essere meno denso del sistema visivo, ragione per cui il suono viene incanalato più velocemente verso l’area pre-corticale, ossia il luogo da cui vengono generate le nostre emozioni. Se gli input acquisiti attraverso i vari sensi si sfidassero in una corsa, quelli provenienti dall’udito probabilmente vincerebbero sempre. Per intenderci, puoi sentire dalle venti alle cento volte più velocemente di quanto tu non possa vedere.

Ma il grande potere dei suoni non finisce qui, infatti tra le loro innumerevoli abilità vi è anche quella di influenzare la percezione del nostro gusto. Chi l’avrebbe detto che una melodia potesse “rendere” le nostre pietanze più dolci o piccanti a seconda della composizione delle sue note?

Concentriamoci ora sull’utilizzo dei suoni nell’ottica del marketing.

In primis è necessario delineare una strategia precisa, ricercando l’essenza dell’identità aziendale per poi trasporla in un DNA sonoro composto da note, ritmo, melodia e armonia. A questo punto viene realizzata una campagna per creare una presenza costante e massiccia del suono. L’identità sonora può essere applicata anche come complemento per le strategie di marketing sui social, come accompagnamento nei negozi fisici e per il lancio di nuovi prodotti.

I suoni possono essere utilizzati come una risorsa di touchpoints infinita nel proprio funnel di vendita, a partire dall’awareness sino ad arrivare alla conversione.  In un mondo sempre più competitivo, in cui le strategie digital sono fondamentali è importante essere un passo avanti ai competitors, e di certo un modo per migliorare il proprio brand è quello di implementare una strategia “fonica”.

Se ancora non ti avessi convinto, ti propongo tre case studies presi dal discorso di Steve Keller nel TEDxNashville per farti cambiare idea!

  • Immagina di trovarti in una sala giochi e di non poter sentire alcun suono. Cosa succederebbe? In assenza di suoni e rumori in una sala giochi gli incassi diminuirebbero del 24%. Un risultato niente male per della semplice “musica”.
  • Citiamo ora la quotidianità, se in un negozio di bevande alcoliche una melodia francese accompagnasse l’acquisto di vini, ben il 77% dei vini venduti sarebbe di provenienza francese. Allo stesso modo, se le note fossero tedesche, la percentuale di vini venduti originari della Germania ammonterebbe al 73%.
  • Infine, come utilizzare i suoni a nostro vantaggio e rendere il mondo un posto migliore? A Berlino sono state realizzate delle strutture che rispondono con suoni e melodie alla caduta delle castagne e sono state applicate sotto a un albero nel centro della città. Questo ha attratto un gran numero di persone, che leggendo la finalità di questa applicazione hanno donato fondi a scopo benefico.

Com’è regolato il Sound Branding?

I suoni non sono solo un vantaggio strategico in termini di marketing e vendite, o oggetto di studi psicologici e comportamentali, ma sono anche divenuti oggetto della giurisdizione. Infatti esiste una precisa giurisprudenza per depositare un suono come marchio, purché questo presenti un carattere distintivo e possa essere rappresentato in forma grafica.

Quali sono le nuove frontiere per i nostri tanto discussi suoni?

Innanzitutto, parimenti all’innovazione tecnologica e ai contenuti multimediali, sono l’input per la creazione di nuove opportunità lavorative, ne è la prova tangibile la sempre maggior diffusione di figure come quella dei “Sonic Brander“.

Recentemente MasterCard Visa “sono state investite” dall’onda del sonic branding e, secondo il Sole24Ore, a breve questa pratica si estenderà a banche, assicurazioni e FinTech.

Il motivo? Per ora te lo lascio immaginare…




Carrefour potenzia l’impegno nella moda sostenibile con Tex Responsabile

Carrefour potenzia l’impegno nella moda sostenibile con Tex Responsabile

Negli ultimi 12 mesi, la pandemia ha imposto un’accelerazione forzata a tutte quelle grammatiche che facevano della digitalizzazione la propria parola d’ordine, ridisegnando processi virtuosi che si sono dovuti affidare a nuovi stilemi per evolvere e rimanere rilevanti. Una condizione che ha toccato anche colossi aziendali illustri, come Carrefour, Zara e altre realtà che hanno colto le sfide trasformandole in opportunità.

In questo contesto di trasformazione rientra anche il settore della moda che ha potenziato trend che avevano già fatto capolino nel 2019. Uno su tutti: la sostenibilità. Una ricerca di Pwc Italia per MFF stima che nel 2023 il mercato della green fashion raggiungerà 6,8 miliardi di euro con un incremento del 6,8% dovuto alla crescente sensibilità nell’uso della moda etica per la sostenibilità.

Tex Responsabile, un impegno concreto

In questo contesto si incastra il progetto Tex Responsabile di Carrefour, che applica i concetti della moda sostenibile alla grande distribuzione. Del resto l’attenzione del consumatore per il tema della sostenibilità a 360 gradi, lungi dall’essere scemato, ha anzi assunto nuovo vigore. Sotto la lente d’ingrandimento di clienti sempre più attenti ricadono oggi tematiche quali l’impatto ambientale delle produzioni, l’origine dei prodotti e la tutela delle condizioni di lavoro.
Carrefour ha recepito la spinta del mercato e ha investito sulla moda sostenibile, che si concretizza in una linea tessile responsabile, con l’obiettivo di impiegare materie prime naturali sostenibili e assicurare la tracciabilità dei propri prodotti al 100% entro il 2030.

Un impegno che vede protagonisti l’abbigliamento per bambini e adulti, underwear e biancheria per la casa, nonché l’inaugurazione in Italia di un primo corner Carrefour dedicato al progetto Tex Responsabile presso l’Iper di Limbiate.

carrefour
Carrefour Italia Carrefour Italia, con una cifra d’affari pari a 4,66 Mld euro (2020), opera su tutto il territorio nazionale con oltre 1.450 punti vendita

Carrefour, Tex Responsabile: i dettagli

L’attenzione di Carrefour ai temi della sostenibilità nella moda si snoda trasversalmente su tutte le fasi di produzione dei propri prodotti tessili, ma anche a livello produttivo e umano. L’azienda agisce sia sull’uso di cotone biologico che sull’attuare politiche nel pieno rispetto di lavoratori e animali, ma anche sull’adozione di processi in grado di ridurre gli sprechi e favorire il riciclo. Impiega inoltre processi in grado di inquinare meno e ridurre il quantitativo di acqua necessario e metodi di produzione biologica per preservare la ricchezza dei terreni garantendo una remunerazione equa ai produttori.

Una volta che il prodotto è realizzato, l’attenzione si sposta poi sul packaging, altro tema caldo in ambito sostenibilità. Carrefour riduce il numero e le dimensioni delle etichette e ha rimosso gli imballaggi in plastica da diversi tipi di prodotto per arrivare, entro il 2025, a utilizzare solo plastiche riciclabili o riciclate.




Gli Nft sono una grande bolla?

Gli Nft sono una grande bolla?

Ci ha scherzato sopra persino Beeple, l’artista digitale che a metà marzo ha visto una sua opera digitale (in realtà un pacchetto di opere) venduta all’asta da Christie’s per 69 milioni di dollari“Potrei essere quello che ha guadagnato più di tutti da una cosa che poi si rivela una grande bolla, ha detto intervistato dalla Cnn. La “cosa” a cui fa riferimento Beeple sono ovviamente gli Nft (non-fungible token): la certificazione basata su blockchain che sottrae le opere d’arte digitali – e tutti gli oggetti collezionabili che vivono su internet – alla caratteristica di essere infinitamente replicabili in copie identiche all’originale. Possedere l’Nft di un oggetto digitale è come avere una figurina autografata dal campione lì ritratto, una qualità che la distingue dalla massa delle altre figurine “fungibili” (ovvero tra loro scambiabili come equivalenti) e le conferisce un valore immensamente superiore

La moda degli Nft sta imperversando da mesi nel mondo “crypto”, dando vita a fenomeni che hanno fatto alzare più di un sopracciglio: la clip di una schiacciata di LeBron James venduta a 250mila dollari? Il primo tweet di Jack Dorsey venduto al 2,9 milioni? E che dire dello stesso Beeple, che è diventato l’artista vivente più quotato al mondo dietro ai soli Jeff Koons e David Hockney? Come sempre avviene in questi casi, la frenesia per una nuova tecnologia si è trasformata in esaltazione e quindi in bolla speculativa; che inevitabilmente è scoppiata lasciando chissà quante persone col cerino in mano e il portafoglio vuoto.

Il crollo del prezzo

“Il prezzo medio per un Nft ad aprile era di 1.256 dollari, in caduta dagli oltre 4mila di fine febbraio”scrive per esempio la Cnn. Dati confermati dai vari siti che tengono traccia del valore di questa nuova forma di collezionismo digitale. La bolla, insomma, è scoppiata: questo però non significa che la tecnologia non sia valida o piena di potenziale (come già avvenuto con le dot-com e i bitcoin, che oggi valgono il triplo di quanto valessero all’apice della bolla del 2017), ma semplicemente che al momento l’isteria ha prevalso sulla razionalità.

Gli Nft puntano a risolvere un problema concreto e sentito da tutti gli artisti che lavorano in campo digitale, quello relativo a “provenienza, possesso, distribuzione e controllo delle opere d’arte digitali”, come ha scritto sull’Atlantic il programmatore Anil Dash, uno dei due creatori dell’applicazione per blockchain oggi nota come nft ma che loro all’epoca chiamarono “monetized graphics”

Come racconta lo stesso Dash, la creazione avviene nel maggio 2014 nel corso di un hackaton a cui partecipò assieme all’artista Kevin McCoy“Eravamo all’apice della cultura di Tumblr, un periodo in cui una comunità di milioni di artisti e fan stava condividendo le proprie immagini e video senza alcuna attribuzione o compensazione […]. Kevin pensava da tempo al potenziale dell’allora neonata blockchain – essenzialmente un registro indelebile delle transazioni digitali – per offrire agli artisti supporto e protezione per le loro creazioni”, scrive Anil Dash.

Per qualche anno, l’idea alla base degli Nft – che non venne brevettata – non fece presa nemmeno nei circoli legati all’arte digitale e al mondo della blockchain. Fatta eccezione per il breve boom dei CryptoKitties nel 2017, questa tecnologia non ebbe nessuna applicazione di successo fino all’improvvisa esplosione degli ultimissimi mesi, quando all’improvviso l’intero mondo dell’arte e non solo ha iniziato a occuparsene freneticamente.

Beeple: The First Emoji (beeple-crap.com)

I limiti degli Nft

E forse è anche per questo che alcuni dei limiti causati dalla fretta con cui gli Nft erano stati creati in una notte di hackaton sono ancora oggi presenti. “Se ti piacesse un’opera d’arte, pagheresti di più soltanto perché qualcuno ha incluso il suo nome in un foglio Excel?”, scrive provocatoriamente Dash. Eppure è proprio quello che avviene con gli Nft, che non contengono la vera e propria opera d’arte, ma soltanto un link certificato che rimanda a essa. Un limite causato dal fatto che i “blocchi” che contengono i dati nel registro digitale della blockchain hanno un limite di capienza che è quasi sempre superato dalle opere digitali. La scorciatoia individuata è stata di inserire all’interno del blocco certificato soltanto il link all’immagine e magari una forma compressa della stessa.

Questo non è soltanto un evidente limite di per sé (comprare l’opera o un link all’opera non è proprio la stessa cosa, anche se la certificazione è valida in entrambi i casi), ma soprattutto per la domanda che inevitabilmente si pone: e se un domani quel link non fosse più disponibile? E come potremo assicurarci che l’opera sopravviva al passare del tempo?

A dire il vero, questo è un problema che ci si sta già adoperando per risolvere, sfruttando il protocollo decentralizzato Ipfs (Interplanetary file system), basato su blockchain e gestito quindi da una rete di computer, che evita che sia sufficiente dimenticarsi di rinnovare il dominio per vedere il proprio sito e tutti i contenuti scomparire. Anche l’Ipfs richiede però che ci sia sempre almeno un computer acceso a far parte della catena: ci affideremmo a un sistema del genere per assicurarci che l’opera in questione sia ancora qui tra migliaia di anni? L’Ipfs è inoltre uno strumento usato ancora oggi da una minoranza, mentre la maggior parte degli oggetti digitali acquistati tramite nft vive nelle normali url. Come si legge su The Verge“si rischia di andare incontro a un ‘errore 404’ estremamente costoso”

Un “difetto” della blockchain

C’è un altro problema tipicamente legato alla blockchain: una tecnologia che garantisce che i dati immessi non possano essere contraffatti e che tutte le transazioni siano immutabilmente registrate, ma che non dà alcuna garanzia sulla genuinità dei dati inseriti in primo luogo. E infatti non solo si sono verificati parecchi casi di artisti che hanno visto i loro lavori tramutati in Nft senza nemmeno saperlo (tra cui le opere retrofuturistiche di Simon Stålenhag), ma anche di persone che hanno approfittato del lasco processo di verifica di alcune piattaforme dedicate agli Nft per fingere di essere un determinato artista e guadagnare così dai “gettoni” di opere non loro.

E infine, ovviamente, c’è il problema più immediato e sentito. Quello ambientale. Il processo per creare un singolo nft consuma l’energia necessaria ad alimentare un’abitazione europea per un mese e mezzo. Considerando che già oggi l’impatto ambientale del mondo legato alla blockchain – e in particolare ai bitcoin – è deleterio, diventa fondamentale evitare che la situazione peggiori drasticamente nel caso in cui gli Nft diventassero una normale forma di produzione di arte digitale. Anche in questo caso, però, la soluzione potrebbe essere vicina.

Ethereum, che è la blockchain su cui vive la maggior parte degli Nft, sta infatti lavorando per abbandonare il sistema energivoro della proof-of-work (attraverso il quale i blocchi della blockchain vengono validati dal primo computer che, in competizione con migliaia di altri, risolve un complicatissimo puzzle algoritmico per il quale sono necessarie macchine incredibilmente potenti) e passare alla proof-of-stake

In questo sistema, i nodi sono rimpiazzati dai “validatori”, che per partecipare non devono risolvere puzzle matematici ma semplicemente depositare una somma di denaro come cauzione (al momento pari a un minimo di 32 ether, 55mila dollari). Più soldi si depositano, maggiori sono le possibilità di essere selezionati tra i validatori, che devono confermare la validità della transazione che sta avvenendo sulla blockchain e ottengono come ricompensa altri ether. La transazione è valida se approvata da due terzi dei validatori selezionati, mentre chi viene scoperto a truffare il sistema perde una parte o tutti i soldi depositati. 

Secondo alcuni calcoli, questo sistema permette di risparmiare il 99% dell’energia attualmente consumata, oltre a rendere la blockchain molto più rapida ed efficiente. A questo punto, almeno il problema energetico sarebbe risolto. E tutti gli altri? C’è ancora parecchio lavoro da fare. Finché non sarà impossibile – o almeno molto più difficile – spacciarsi per l’artista che non si è, appropriarsi di opere altrui e smarrire quelle appena acquistate, gli Nft continueranno a venir accusati di non rappresentare altro che un castello di carte.




Cronistoria di un video che vuole infangare il ricercatore italiano

Cronistoria di un video che vuole infangare il ricercatore italiano

Pochi giorni prima del 29 aprile, quando era attesa l’udienza preliminare (poi rimandata al 25 maggio) per i quattro agenti dei servizi egiziani imputati nella tortura e omicidio di Giulio Regeni, un misterioso video è iniziato a circolare su YouTube. Privo inizialmente di una firma, una casa di produzione, una identità chiara, il video si presentava come un documentario giornalistico, una sorta di “inchiesta” sul ricercatore italiano brutalmente ucciso in Egitto. Il video, intitolato “The story of Regeni”, malgrado l’aspetto che denotava una discreta capacità di produzione (segue il classico format documentaristico che alterna interviste a ricostruzioni sul campo) e malgrado la presenza di intervistati italiani piuttosto altisonanti (in particolare, l’ex consigliere militare del governo D’Alema, il generale Dino Tricarico, più due ex ministri, Maurizio Gasparri ed Elisabetta Trenta, oltre al giornalista Fulvio Grimaldi) si rivela quasi subito per quello che è: un’operazione di propaganda e depistaggio con l’obiettivo di screditare la figura di Regeni, e mandare un messaggio intimidatorio all’Italia. 

Come scrive Giuliano Foschini su Repubblica, questo filmato racconta “una storia falsa, smentita dagli atti di cinque anni di indagini della magistratura italiana: allontana ogni responsabilità sui militari egiziani e lancia ombre sull’attività del ricercatore italiano al Cairo, ombre ampiamente già categoricamente smentite dall’inchiesta italiana, con Regeni che viene raccontato come sostanzialmente un fiancheggiatore dei Fratelli Musulmani; accusa la procura di Roma; lancia un messaggio chiaro a tutto il Paese: il processo a carico dei cinque agenti della National security, che sta per cominciare in queste ora a Roma, potrebbe compromettere definitivamente i rapporti commerciali tra i due Paesi. In sostanza, il documentario è  uno spot al governo di Al Sisi. Uno strumento, l’ennesimo, di depistaggio e di contronarrazione per cercare di depistare e alterare il flusso delle indagini”.

Ma prima di procedere ricordiamo a che punto siamo con l’indagine italiana. Il 29 aprile ci sarebbe dovuta essere l’udienza preliminare a carico del generale Sabir Tariq, dei colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim e di Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. “I quattro, appartenenti ai servizi segreti egiziani, sono accusati del sequestro, delle sevizie e dell’omicidio del ricercatore italiano, il cui corpo è stato ritrovato il 3 febbraio del 2016 ai bordi della Alexandria Desert Road, al Cairo”, scrive Andrea Ossino su Repubblica. Ma a causa di un legittimo impedimento di un avvocato, che sarebbe entrato in contatto con una persona positiva al Covid, l’udienza è stata rinviata.

Tutta la storia sulla produzione e diffusione del video apre molti interrogativi

Il video è stato messo online su YouTube il 26 aprile, su un canale aperto il 22, senza attribuzioni di sorta. E poi su una pagina Facebook, The Story of Regeni, da cui sono partite varie inserzioni rivolte a un pubblico italiano (e qui c’è un utente italiano che segnala di averne ricevuta una). Una delle inserzioni iniziava così: “Il primo documentario che ricostruisce i movimenti strani di Giulio Regeni al Cairo”. Il canale e la pagina in questione oggi non esistono più, sono state cancellate. Nel mentre su Twitter, tra il 27 e 30 aprile, vari account egiziani promuovevano il “documentario” come una interessante e rivelatrice inchiesta sulla vicenda.

Per quanto misteriosa la mano dietro al documentario, restava il fatto che qualcuno era tranquillamente riuscito a intervistare i suddetti politici. Wired Italia si è messa in contatto telefonico con la persona che ha realizzato le interviste agli italiani coinvolti, che ha chiesto di mantenere l’anonimato dicendo: “Mi hanno mandato le domande e io le ho fatte. Ho fatto il lavoro e rimandato il materiale”. 
“Non è stato però lui a prendere contatto con gli intervistati italiani – scrive Davide Ludovisi su Wired –  bensì un certo Mahmoud Abd Amid, che si è presentato come “rappresentante di Al-Arabiya in Italia”. Eppure non c’è alcun riscontro di una sua collaborazione con l’emittente saudita. Abd Amid ha contattato l’ex ministra Elisabetta Trenta, per esempio – anch’ella comparsa nel video – usando un indirizzo Gmail ora non più attivo”. 

Versione confermata anche a Repubblica, cui la Trenta dichiara: “Sono stata vittima di un raggiro, mi ha contattato un giornalista che si è presentato come di Al Arabiya in Italia ed è venuto, con due operatori, in un’università. Si sono presentati con una mail”. “Egregia professoressa – si legge – la nostra troupe è a Roma per svolgere un film documentario sui rapporti diplomatici ed economici fra Italia ed Egitto. Dopo aver effettuato molte interviste a riguardo credo che la Sua sarebbe fondamentale nella finalizzazione del progetto”. “Chiesi espressamente – dice la Trenta oggi a Repubblica –   che non si parlasse di Regeni. Me lo assicurarono. Ed effettivamente nulla mi fu chiesto. Poi ieri mi hanno mandato questo documentario… Questa schifezza vergognosa”.

All’ex generale Tricarico invece gli operatori si sarebbero presentati come un giornalista egiziano di Al Jazeera, riferiva Wired. Che già il 30 aprile indirizzava invece i sospetti verso una meno nota, ma ben connotata tv egiziana: “Prima di diventare telefonicamente irraggiungibile, il giovane intervistatore ci ha detto di collaborare come freelance con Al Jazeera, Al Arabiya e Ten. Non ci ha voluto dire chi gli ha commissionato la produzione, ma è stato molto fermo su un punto: Al Jazeera e Al Arabiya non c’entrano nulla. Su Ten invece ha glissato”. 

Sospetti che sono stati confermati intorno al 30 aprile quando, mentre venivano chiusi i primi canali e pagine aperti per diffondere il video, la tv egiziana TeN TV iniziava a pubblicizzarlo, questa volta con tanto di logo, su tutti i suoi canali social, postando anche decine di spezzoni e commenti sulla sua pagina Facebook. (Mentre la messa in onda sul canale era prevista per la sera del 30 – TPI).

TeN TV, scriveva tempo fa il manifesto, è un canale privato vicino ai servizi di intelligence del regime, già protagonista di plateali offensive mediatiche contro difensori dei diritti umani. Un canale pro-militari e pro-governo, secondo il saggio Media, Revolution and Politics in Egypt. Controllata dai servizi segreti, secondo l’analista politico Maged Mandour su Open Democracy.

Ora, alcune note e domande.

Il video è apparso non solo in concomitanza con l’udienza in Italia ma anche con l’uscita, qualche giorno prima, di un altro documentario sull’uccisione di Regeni, di tutt’altro tenore (dove compaiono testimoni che accusano i militari egiziani), fatto da ArabyTv (Fadaat media), trasmesso il 22 aprile, e intitolato “Giulio Regeni, The buried facts’. Tanto che su Twitter sembra esserci traccia di questa contrapposizione.

Chiarita l’attribuzione a TeN TV (ma non le modalità della sua prima diffusione in sordina), resta da capire come abbiano fatto gli organizzatori a farsi passare per altro, raggiungendo persone di così alto profilo che, stando alle loro stesse dichiarazioni, almeno in alcuni casi, ritenevano di parlare con interlocutori del tutto diversi da quelli effettivi e per un documentario di altra natura.




Perchè a Piazza Affari solo meno della metà delle quotate supera l’esame sostenibilità

Perchè a Piazza Affari solo meno della metà delle quotate supera l’esame sostenibilità

La trasparenza sulla sostenibilità non è più un’opzione per le società quotate: l’interesse degli investitori passa sempre più da qui. Secondo Morningstar in Europa i comparti Esg nel 2020 erano 3.196 (+52% vs 2019) e hanno raccolto 233 miliardi di flussi netti. Eppure solo il 49% delle quotate a Piazza Affari rendiconta la sostenibilità e tra le Pmi solo il 13% elabora un bilancio di sostenibilità. E’ quanto emerge dal primo Esg report sulla compliance della Materiality Map di Sasb (Sustainability Accounting Standards Board) del mercato azionario italiano realizzato da V-Finance (Gruppo IR Top Consulting) Sustainable Finance Partner di Borsa Italiana.

I temi materiali e la mappa Sasb

criteri Sasb identificano le tematiche rilevanti (temi materiali) ai fini della sostenibilità che hanno una ragionevole probabilità di avere un impatto sulle performance operative e finanziarie di una società e sul suo profilo di rischio. Questi ultimi talvolta decisi per un investitore. Un approccio se vogliamo più pratico rispetto allo standard GRI, metodologia di riferimento in Europa, che si concentra sull’impatto economico, ambientale e sociale di un’impresa, e quindi sui suoi contributi (positivi o negativi) allo sviluppo sostenibile. «L‘approccio Sasb identifica cinque dimensioni (ambiente, capitale sociale, capitale umano, business model &innovation, leadership & governance) e le declina per rilevanza in 77 sottosettori in base a 26 variabili – spiega Anna Lambiase, Ceo di V- Finance – Quindi, ad integrazione dei criteri GRI, la Sasb materiality map aiuta ad entrare nei tanti microsettori di attività presenti a Piazza Affari. Ogni tematica tende ad avere un impatto più o meno forte a seconda del contesto in cui si presenta e così ogni settore ha un profilo di sostenibilità unico».

La ricerca V-Finance e le 184 società di Borsa Italiana

La ricerca analizza i Bilanci di sostenibilità e le Dichiarazioni Non Finanziarie individuando i temi di materialità e considerando la loro compliance rispetto agli standard settoriali della Materiality Map di Sasb. Delle 184 società il 71% appartiene al mercato Mta (131 società, pari al 66% del totale Mta, di cui 57 del Segmento Star), il 58% delle quali redigono la DNF e il restante 9% un report di sostenibilità; il 22% appartiene al mercato Ftse Mib (40 società, pari al 100% del totale Mib, di cui 2 del Segmento Star), l’88% delle quali redigono la Dnf e il restante 12% un report di sostenibilità; il 7% appartiene al mercato Aim (13 società, pari al 9% del totale Aim), che realizzano report di sostenibilità (tranne una che, appartenendo ad un gruppo sottoposto ad obbligo di rendicontare la DNF, diffonde il documento della controllante). Per ognuna sono stati definiti i ranking di compliance Sasb in base alle 26 variabili Esg di Sasb raggruppate per Ambiente, Capitale Sociale, Capitale Umano, Innovazione e Business Model, Leadership e Governance, per l’analisi oggettiva della sostenibilità dell’azienda. Il macrosettore merceologico che risulta essere più “Sasb compliant” è l’estrazione e la lavorazione di minerali (53,31%) seguito dal settore trasformazione delle risorse (52,58%) e beni di consumo (48,81%). Il capital umano è il tema materiale più rendicontato e più in compliance rispetto alla Materiality Map di Sasb mentre la tematica Leadership&Governance è la meno performante soprattutto a causa di un esiguo numero di aziende che rendicontano la componente gestione rischi.

77 microsettori sotto la lente

La materiality Map di Sasb è costituita da principi specifici per ogni settore, volti a identificare gli elementi materiali in ambito sostenibile e ad applicare ad essi le metriche adeguate al settore di riferimento. Sono analizzate 11 macrocategorie di mercato che rappresentano l’industry di riferimento dell’impresa: beni di consumo, lavorazione di minerali, finanza, alimentare, sanitario, infrastrutture, energie rinnovabili, trasformazione delle risorse, servizi, tecnologia e comunicazioni, trasporto. Ciascuno di questi macrosettori è diviso a sua volta nelle specifiche attività che possono essere svolte. Ad esempio il macrosettore dei trasporti è suddiviso in 9 settori (tra cui aereo, navale, automobilistico, ferroviario,…), il macrosettore tecnologia e comunicazioni in 6 settori, per un totale di 77 micro settori merceologici analizzati.

Un’analisi oggettiva e indipendente

«Il risultato è un’analisi oggettiva e indipendente, inclusiva per ogni quotata, a prescindere dal mercato e dalla dimensione – aggiunge Lambiase – e grazie alla «Sasb Compliance» sono confrontabili le performance di sostenibilità di ogni azienda; infine indica linee guida utili a chi deve iniziare il suo cammino verso la sostenibilità». Per le cinque dimensioni della sostenibilità sono stati individuati tre best in class, azienda benchmark settoriale di riferimento.

Sasb o GRI?

Se guardiamo alla composizione dell’indice Dow Jones Sustainability World, delle 11 italiane incluse (Generali, Hera, Intesa, Leonardo, Moncler,Pirelli, Poste, Telecom, Prysmian, Saipen e Terna) ben 7, a vari livelli, accanto al GRI usano la mappa di materialità Sasb, in particolare Prysmian nel 2020 ha elaborato il suo Sasb Report. «Questo accade perché in Usa – conclude Lambiase – sono molti investitori ad averlo come principale standard di riferimento». In realtà, anche in Europa ha i suoi seguaci ma sopratutto da mesi Sabs e GRI hanno annunciato una partership per rendere compatibili i loro standard. «Questa convergenza – sottolinea Isabelle Reuss, Head of Sustainability Research di Allianz G.I.– è la cosa più importante, segno dell’impegno a promuovere una maggiore divulgazione Esg finanziaria; un monito per le imprese ad impegnarsi nel rendere disponibili i propri dati a seconda dello standard usato. In questo senso la strada che devono fare le piccole di Piazza Affari è ancora molta».

La scelta di Nordea Asset Management

NAM è un membro fondatore e attuale presidente del SASB Investor Advisory Group (IAG), che comprende asset manager e asset owner impegnati a migliorare la qualità e la comparabilità delle informazioni relative alla sostenibilità. «Il nostro team di Investimento Responsabile (RI) ha incorporato il framework settoriale di Sasb come parte della propria analisi sulle aziende – sottolinea Fabio Caiani, head of South East Europe di ‎Nordea A.M. – Il team RI guida l’attività di engagement con molte delle società in cui investiamo, dimostrando come gli standard SASB vengono utilizzati per identificare e analizzare le principali questioni in materia di sostenibilità». In primo luogo, è valutato l’allineamento (o il disallineamento) dei modelli di business in relazione agli obiettivi di sostenibilità globale come la stabilità climatica, la gestione sostenibile delle risorse, gli ecosistemi sani, i bisogni fondamentali, il benessere o le condizioni di lavoro. In secondo luogo, si valuta la capacità di un’azienda di gestire concretamente le questioni Esg in relazione agli stakeholder, come dipendenti, fornitori, clienti, comunità, regolatori o ambiente. «L’incorporazione degli standard Sasb nella nostra analisi Esg ha permesso non solo di valutare e identificare meglio la rilevanza finanziaria delle questioni Esg – aggiunge Caiani – ma anche di identificare gli indicatori rilevanti o i dati che potrebbero riflettere il posizionamento di un’azienda su tali questioni.L’utilizzo degli standard settoriali Sasb, assieme agli indicatori di rischio Esg nazionali, ci fornisce ulteriori dettagli sui rischi materiali». Nordea ha allineato i report pubblici e le politiche alle metriche applicate negli standard di settore del Sasb per: asset manager e attività di custodia, banche commerciali, credito al consumo, investment banking & brokerage e finanziamenti ipotecari. Report predisposti in conformità con gli standard GRI: opzione Core e parti inerenti al G4 Financial Services Sector Disclosures.

La lotta per gli standard Esg tra Europa e States

Nella lettera di Larry Fink, il numero uno di BlackRock, che scrive ogni inizio anno ai manager delle aziende che il gruppo di asset management Usa ha in portafoglio, per il secondo anno di seguito, Fink fa sapere che lo standard da lui preferito è il californiano Sasb (Sustainability Accounting Standards Board) . Perché Fink ha tenuto a ribadire ancora una volta la sua predilezione per il Sasb? Non entriamo nel dettaglio delle differenze tra questo tipo di rendicontazione e le altre. C’è però da ribadire, come fa il fondatore di BlackRock, che i tempi sono maturi per uno standard unico sulla sostenibilità che consenta di mettere a confronto le aziende quotate senza perdersi nei meandri dei dati e del greenwashing. Che sia poi il Sasb il metodo da applicare in tutto il mondo è un legittimo desiderio di Fink ma non sembra la strada più realistica. Gli standard sponsorizzati da BlackRock al momento non sono quelli più usati fra le grandi società quotate: a ricordarlo è stata una delle quattro Big Four della rendicontazione, Kpmg, nel corso del recente convegno dell’Organismo Italiano di Business Reporting (Oibr). In quell’occasione, è stato ricordato che il 73% delle 250 maggiori società al mondo utilizza il Global Reporting Initiative (Gri), ente senza scopo di lucro fondato a Boston nel 1997 ma oggi con sede ad Amsterdam. In Italia, poi, il Gri è utilizzato dalla quasi totalità delle 204 aziende quotate.

Si può dire che la finanza sostenibile è diventata terreno di confronto fra Usa ed Europa? Alcuni osservatori ritengono di sì benché fra i vertici degli enti di Sasb e Gri sia stata siglata una partnership. Vedremo i risultati. Oggi però è da registrare il braccio di ferro fra l’European Financial Reporting Advisory Group (Efrag) e l’Ifrs Foundation, organismo che redige i principi contabili internazionali. Sul tavolo ci sono appunto gli standard non finanziari. Non è ancora chiaro chi riuscirà a imporsi. È un dato di fatto però che Bruxelles è più avanti di Washington nella classificazione delle attività economiche sostenibili nota come tassonomia, che entrerà a regime a inizio 2022. I gruppi di asset management dovranno giocoforza utilizzare quella classificazione per valutare se un’azienda è green, almeno quelli che intendono distribuire prodotti finanziari in Europa.