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Un G20 sul machine learning. Ormai Facebook ha addestrato gli algoritmi con riconoscimento facciale

Un G20 sul machine learning. Ormai Facebook ha addestrato gli algoritmi con riconoscimento facciale

Dopo l’annuncio nei giorni scorsi da parte di Meta, il nuovo brand adottato da facebook, di rinunciare ad un uso intensivo del riconoscimento facciale, rimangono ancora sospesi interrogativi e dubbio su quanto sta elaborando il gruppo di Mark Zuckerberg.

Si capisce chiaramente che il social network più diffuso del pianeta stia ora innanzitutto divincolandosi nella presa che stanno esercitando le istituzioni e l’opinione pubblica al di qua e al di là dell’Atlantico.

Dopo il maquillage sul nuovo brand Meta, che arriva nel pieno della campagna scatenata sui giornali dalle dichiarazioni dell’ex dirigente del settore “Integrità” del gruppo Francis Haugen, e dopo l’evocazione di nuovi mondi immersivi come Metaverso, in cui dovrebbe evolversi il social network, l’annuncio della rinuncia ad usare i dati facciali di circa un miliardo di utenti, accumulati, non si capisce come, nei mesi scorsi, segna una nuova frenata.

riconoscimento facciale

Ma come sempre l’esperienza insegna che il gruppo di Menlo Park non rinuncia mai completamente alla sua gallina dalle uova d’oro. Infatti ancora ieri il vice presidente per l’intelligenza artificiale di Meta Jerome Pesenti spiegava che “riteniamo quindi appropriato limitare l’uso di questa tecnologia ad una gamma molto contenuta di casi “. Quali casi e in che modalità e soprattutto per fare che cosa?

Le domande rimangono sospese. E non si riesce mai a concludere una vera istruttoria su uno specifico tema che riguarda la poliedrica attività di Facebook. Su un punto in effetto lo stesso Mark Zuckerberg coglie il vero, quando, non senza un tono provocatorio, denuncia le lacune del sistema normativo su temi sensibili quali appunto anche il riconoscimento facciale. Un alibi per giustificare le incursioni del suo gruppo certo, ma una constatazione che non può rimanere senza risposta.

Nel caso specifico si capisce che da almeno due anni Facebook ha avviato in grade stile una massiccia strategia per accumulare tecnicalità nel campo del riconoscimento facciale. Il metodo è sempre lo stesso, come per Cambridge Analytica: si usa la sterminata platea di utenti come laboratorio e si comincia a sparare nel mucchio usando pretesti apparentemente frivoli, come quei giochini sull’invecchiamento virtuale che forse qualcuno ricorderà: sulla bacheca di ognuno di noi apparivano annunci e sfide per vedere se avevamo il coraggio di comparare le nostre fotografie da giovani con quelle attuali, oppure se volevamo vedere come saremmo diventati fra qualche decennio. 

In questo modo i sistemi algoritmici di facebook hanno accumulato almeno un miliardo di sequenze fotografiche su cui hanno esercitato i propri modelli matematici per decifrare e analizzare non solo le immagini ma le evoluzioni che sono comprese fra due fotografie di uno stesso soggetto.

A questo punto il vero elemento che emerge non è tanto l’accumulo di questi data base che Zuckerberg annuncia di voler distruggere ma è l’addestramento che l’algoritmo di facebook ha ricevuto , impareggiabile con qualsiasi altro concorrente  Solo il governo cinese può ambire ad avere la capacità di esercitare i propri sistemi di  riconoscimento facciale su campioni cosi ampi e dinamici. La Cina e facebook oggi sono i due bastioni di un totalitarismo digitale che sta superando le soglie della nostra struttura biologica.

Il nodo di questa perversione scientifica è proprio il machine learning, ossia la capacità di autoapprendimento degli algoritmi che su larga scala, procedendo in maniera geometrica porta rapidamente ad un’escalation del sistema che cambia natura nella sua vorticosa crescita.

E’ questo il vero punto di frequenza del sistema che deve essere regolamentato a controllato. 

Prendiamo Zucherberg in parola che colmiamo la lacuna che lui denuncia. L’Unione Europa deve elaborare sistemi tecnologici e piattaforme di monitoraggio in grado di registrare e documentare la progressione dei sistemi di calcolo. Come giustamente prevede il nuovo regolamento sull’intelligenza artificiale europea , il DMS, proprio la capacità di imparare dei modelli matematici deve essere trasparentemente condivisa. Io devo sapere come sta evolvendo il sistema che mi sta contendendo la mia discrezionalità, e come comunità devo anche avere la piena informazione su quale sia l’obbiettivo e l’approdo di un sistema di learning machina applicato ai comportamenti sociali o alle strutture biometriche.

Su questo punto bisogna produrre esattamente la stessa mobilitazione che si sta realizzando sul clima. In campo bisogna mettere non solo capacità legislative ma anche esperienze negoziali e conflittuali di gruppi sociali e soprattutto comunità, quali città e università, in grado di contestare ai proprietari dei grandi gruppi l’assoluta ed esclusiva potestà di disporre della potenza di singolarità tecnologica che si sta intravvedendo all’orizzonte. Un G20 della trasparenza del calcolo sarebbe un segnale forte ed adeguato.




Bilancio di sostenibilità, solo l’1,76% delle aziende italiane lo presenta

Bilancio di sostenibilità, solo l’1,76% delle aziende italiane lo presenta

AGlasgow la Cop26 discute di come limitare a 1,5 gradi l’innalzamento della temperatura del globo, in Italia – però – la sostenibilità «è ancora un miraggio», e le imprese sono lontane dall’adottare «politiche realmente sostenibili e in grado di influire sull’ambiente e sul benessere della collettività».

Lo rivela la ricerca “Sostenibilità alla sbarra”, report realizzato da ConsumerLab – centro studi specializzato in sostenibilità – e dedicato ad analizzare lo stato di avanzamento della trasformazione sostenibile delle imprese e le influenze che orientano i consumi.

Dallo studio emerge come in Italia solo l’1,76% delle piccole imprese con più di 20 addetti pubblichi un Bilancio di Sostenibilità, percentuale che crolla allo 0,63% per le aziende con meno di 10 dipendenti. Analizzando le grandi realtà, si scopre che solo il 28,2% delle 1.915 principali imprese italiane presenta un bilancio: di queste le prime 345 banche operanti in Italia si fermano al 18,2%; delle 76 Società di Assicurazione il 27,6% lo presenta. Tutto ciò nonostante quasi una pubblicità su cinque diffusa nel nostro paese (il 19% del totale) inserisca la parola sostenibilità nei messaggi diretti al pubblico: di queste quasi la metà (il 46%) fa riferimento al tema della sostenibilità ambientale.

«La parola Sostenibilità è sulla bocca di tutti ma pochi sanno veramente in cosa consista – afferma il presidente di ConsumerLab, Francesco Tamburella – Le imprese cercano di vestirsi in ogni modo di Sostenibilità come se fosse una nuova certificazione di qualità, ma dall’esame delle loro attività appare evidente che il vero senso di tale concetto è raramente centrato. La comunicazione resa ai cittadini/consumatori è così fuorviante e ingannevole, perché non ha riscontro in maniera concreta e dimostrata nella realtà».

Non meraviglia dunque che la maggioranza dei cittadini italiani sia scettica sul reale impegno delle imprese per la trasformazione sostenibile: circa due terzi del campione intervistato da Consumerlab non ritiene sincera e trasparente la comunicazione delle Imprese e la relazione che intrattengono con il servizio clienti, e vorrebbe un maggior impegno sul tema della sostenibilità da parte delle imprese.

«I cittadini consumatori sentono una crescente esigenza di avere informazioni trasparenti e puntuali, oltre la qualità e il prezzo, sulla capacità di ogni impresa di creare valore nel tempo, non solo per se stessa – analizza Tamburella – Tutte le imprese, dalle grandi alle piccole, devono uniformarsi in maniera corale all’esigenza di uno sviluppo sostenibile, organizzando il coinvolgimento degli stakeholders e dei Consumatori in testa, sfruttando l’opportunità offerta dal Pnrr che, con i 190 miliardi destinati alla trasformazione ecologica, alla lotta al cambiamento climatico e allo sviluppo della mobilità sostenibile, può rappresentare una scossa per la trasformazione sostenibile nel nostro paese». 




La cultura è una bomba

La cultura è una bomba

Aun certo punto della Storia, tutti hanno cominciato a parlare di soft power, i poteri dolci come etichettato nei ’90 dal politologo statunitense Joseph Nye, ve lo ricordate? Armi pacifiche di persuasione di massa nella lotta a essere dominanti nello scacchiere globale. La cultura per esempio, anche pop (Madonna e il Moma, Obama e il rap, Hollywood e Harvard, Netflix e Google). Meno guerre tradizionali, meno sangue. Meglio così? Non più. Hanno di nuovo tolto l’acqua ai fiori nei cannoni.
«La cultura non è più soft, entertainment, leggerissima, è diventata hard e sharp, forte e tagliente (yoga compreso). È il cavallo di Troia dei regimi di questo millennio». E ci scappa pure il morto come nei migliori crime, ci dice Antoine Pecqueur, musicista passato al giornalismo d’inchiesta per ridisegnare la mappa dei nuovi poteri. E nel suo Atlante della cultura (add editore) dedica un capitoletto di consolazione all’America, rovesciando il luogo comune di chi conta con infografiche psichedeliche che sono abbastanza una rivelazione. Se fosse un programma tv, sarebbe una puntata di Report.
In sostanza, si parla di shopping di Stato: mettete il logo di un museo della catena Moma o Louvre in qualche deserto al posto dei borsoni Balenciaga e Dior in mano alle turiste velate, coi fuochi d’artificio per l’opening al posto dei bagliori verdi dei bombardamenti chirurgici. E il giorno dopo, leggete quanto sia un segnale importante per le magnifiche sorti di un Paese in via di sviluppo. «Come leggo e sento scioccato sui media. Coi giornalisti – gente che non vede l’ora di sedersi sull’aereo per un viaggio stampa tutto incluso a roteare le palle degli occhi davanti a un souvenir grandezza cattedrale, che dica: guardate quanto siamo illuminati pure noi Arabi, o altro. Nonostante siano petrolmonarchie e le loro opere non certo pensate per il popolo. Il fine è un altro. Distogliere l’avversario».

Foto Lea Crespi/courtesy  Flammarion 

Come funziona, che gioco è?
«I numeri parlano da soli: nell’arco di vent’anni le guerre in senso tradizionale si sono dimezzate. E i paesi del Golfo hanno puntato su un settore apparentemente innocuo e strettamente simbolico per riposizionarsi sulla scena mondiale. Così acquistando il marchio Louvre, Abu Dhabi si compra un seggio al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite accanto alla Francia che, come l’Italia, ha meno potere di acquisto perché le democrazie si basano perlopiù sui soldi pubblici. Queste battaglie causano meno morti? Direttamente sì, ma indirettamente sono terribilmente violente. Se il principe ereditario Bin Salman si scopre poi essere il mandante “discreto” dell’omicidio del giornalista oppositore al regime Jamal Kasshoggi».

Quando è cominciata?
«Diciamo che l’11 settembre del soft power è stato proprio il Louvre Abu Dhabi inaugurato 5 anni fa. Che ha poi innescato un’emulazione a catena, e infatti lo psicoprincipe di cui sopra (col suo faccione da joker all’entrata degli shopping mall), imbottito di Islam e manipolatore dello stock market, ha dato il via a Neom, città futura in mezzo al mar Rosso da 500 bilioni di budget. Bomba. Ma si arriva al museo di Doha by Jean Nouvel che è la risposta del ricco e minuscolo “brand” Qatar agli Emirati (il sovrano Bin Khalifa ha le mani ovunque, dagli albergoni in Costa Smeralda ai grattacieli di Milano Porta Nuova come a Londra alla AS Roma nel senso della squadra). Sarà interessante vedere la Tunisia con la Cité de la culture di Ben Ali. E l’Egitto, dove la cultura affronta una censura terrificante (guardate Patrick Zaki)».

La strategia dell’art attack ha radici profonde, dice lei, ma quanto?
«Il re Sole Luigi XIV, non è stato il primo a usare le arti come armi? E non era propaganda lo slogan “viva Verdi, inno che nascondeva l’acronimo “Vittorio Emanuele Re d’Italia”, monarchia, altro che opera. Semmai la differenza adesso in questo tipo di battaglie è tra chi usa i fondi pubblici e chi ha aperto ai privati, vedi in Francia il gruppo del lusso Lvhm di Arnault o il rivale Pinault a Punta della Dogana e nella ex Bourse rifatta da Tadao Ando, mecenatismo deducibile. La “Mécénat” ha alzato il tetto al 60%, per 518 milioni di euro. Anche se restano briciole rispetto alla detrazione monster degli USA, praticamente al 100% con Trump. Meno male che è arrivato Biden ad aiutare gli intellettuali sotto pandemia con ricetta keynesiana pur se moderata (non le tasse che voleva Bernie Sanders). E sarebbe utile che si riavvicinasse all’Eurogruppo per aiutarlo a contrastare gli Orbán e gli Erdogan che hanno imbracciato le guerre culturali per propaganda ipernazionalista, contestati solo da pochi antiregime come l’OHA (rete di accademici) nelle piazze di Budapest. L’illiberalismo in franchising è poi circolato in Serbia, Macedonia, Slovenia (l’Ungheria investe più in cultura di tutta l’UE, ma è come ai tempi del fascismo con l’architettura)».

Ognuno fa il suo shopping, dice lei.
«Dei Paesi del Golfo abbiamo visto come si migliorino l’immagine a colpi di museo, restando dittature, strategia 1. Strategia 2, Paesi asiatici: cultura come arma economica, tipo il K-pop per la Corea. 3, catalizzatore delle politiche identitarie, modello Europa che però ha pochi incentivi e invece Bruxelles è un mediatore essenziale. La sua entrata in campo per la direttiva sul diritto d’autore ci ha dato un buon esempio, mostrandola finalmente unita contro lo strapotere GAFAM (Google Apple Facebook Amazon Microsoft). Perché non continua su questa linea?».

E “l’Ammerica”, ex mainstream?
«In effetti Hollywood arriva dopo la Nigeria e soprattutto l’India, per numero di film prodotti. Dobbiamo riposizionare: anche se questi due-quasi anni di tutti-a-casa sono stati, cinicamente, la fortuna per riacciuffarsi il potere di Netflix e social. Ma ci sono diverse realtà della cultura,  il teatro, la danza, la musica extra-Spotify che dipendono dai fondi pubblici, insufficienti. E le aziende che mirano al profitto. Buoni e no».

Però il cinema di Nolly e Bollywood non è esattamente d’autore.
«No, ma diamogli tempo, guardate in architettura David Adjaye, che si è fatto star in Inghilterra e ultimamente è tornato al Paese di origine con i suoi progetti stramoderni e sostenibili. L’Africa ha riposizionato la cultura al centro, le potenze ex colonialiste si trovano ad affrontare il problema della restituzione delle opere e la “Cinafrica” approfitta della tensione per intromettersi. Pechino in cambio dell’accesso alle materie prime sta costruendo strutture culturali, nella RDC (Kinshasa) o in Algeria. Speriamo che si autonomizzino, il Ghana ha iniziato. E infatti Adjaye è ritornato lì».

E da loro, in Cina, che fanno?
«Multisale come missili! Perfino per distrarre dalla repressione acerrima delle minoranze Uiguri. Ma in gran parte è l’economia con realtà spaventose come il Polygroup, leader in armi e arte. E l’Occidente continua a stringere partenariati, vedi gli Istituti Confucio, perché? Interessi? Ingenuità? L’avviso: fate corsi di geopolitica accelerati a tappeto».

Noi temiamo i Gafams, e al di là?
«Hanno i Batx (Badoo, Alibaba, Tencent, Xiaomi), il loro “arsenale competitivo” che va dall’e-commerce ai social, e il loro governo sta procedendo a una regolamentazione, in questo caso per una crescita di regime e non liberal».

E il dibattito che ha impazzato se la cultura sia di sinistra o destra (cantava Gaber) è ridicolo?
«Un po’ ci credo anch’io. Gli artisti Usa hanno supportato Biden più di Trump. Ma anche qui dipende dai settori, il mercato dell’arte è uno dei più deregolamentati, implicato in ogni scandalo di evasione fiscale, specie fuori UE».

E Macron, la usa o ne abusa?
«Aveva una bomba elettorale: il Culture Pass. Ma i giovani hanno poco da spendere, comprano quello che conoscono e il dispositivo non va verso la diversificazione. Va detto che il governo francese li ha aiutati nella crisi mostrando come i fondi pubblici valgano semplicemente perché non finiscono in gusti e consumi delle élite».

Lo vede Ministro della Cultura eh?
«Sarebbe fantastico, specie dopo che ha pubblicato Capitale e Ideologia (La Nave di Teseo), che affronta la questione diseguaglianze anche in campo culturale, qui da noi ci sono insegnanti al conservatorio che prendono 1500 euro al mese e direttori d’orchestra che viaggiano dai 15 ai 20mila a concerto, esibendosi in sale sovvenzionate al 90% da fondi pubblici. Piketty denuncia “l’illusion philanthropique” dei soldi privati, che se possono essere utili rischiano pure di finire al servizio di ideologie pericolose, mentre le classi medie continuano a pagare le tasse contribuendo alla sacralizzazione dei miliardari».

E la bomba, o la bolla, Unesco?
«Attualmente è in pessime condizioni economiche, peggiorate dal ritiro degli Stati Uniti. La Cina ne ha preso il controllo. Chiarisco, le missioni Unesco restano pregevoli su questioni come il patrimonio armeno nel Nagorno-Karabakh o in Afghanistan. Ma è finito a sostenere regimi, la moglie del dittatore dell’Azerbaigian è loro ambasciatrice di buona volontà! (di qui i meeting a Baku)».
Idem le Capitali della cultura

«La guerra quasi mafiosa a farsi nominare per vedersi ridotti a città gentrificata è assurda. Matera che bisogno aveva di quel kitsch». Qual è il malinteso?
«Guardate il suo trattamento dei giornali. Nelle pagine di cultura si leggono recensioni, interviste ma più raramente inchieste su questioni politiche economiche. Che tu sia un turista, o un giornalista, non si può più essere naïf».




Khaby Lame in uno spot ufficiale con Mark Zuckerberg per il lancio di Meta

Khaby Lame in uno spot ufficiale con Mark Zuckerberg per il lancio di Meta

Di Meta, il nuovo nome della società una volta chiamata Facebook (il social continuerà a chiamarsi Facebook), si è fatto un gran parlare in questi giorni considerando anche quanto il suo ecosistema sia diffuso. Che sia una mossa per “pulirsi l’immagine” e guardare a un futuro diverso (positivo o meno, si vedrà) sicuramente l’impatto sarà grande. Per questo serviva un testimonial d’eccezione, che andasse oltre Mark Zuckerberg. Una persona come Khaby Lame.

https://www.facebook.com/watch/?v=472676484007709&t=8

Se il metaverso è stato lanciato con la frase “siamo all’inizio del prossimo capitolo di internet e del prossimo capitolo della nostra società” scegliere personaggi del Web già noti e con un volto non solo popolare ma anche simpatico e giocoso aiuta a togliersi l’aria da corporation cattiva dei fumetti (o almeno ci si prova).

Khaby Lame nello spot ufficiale per Meta di Zuckerberg

Nel breve filmato di circa 20″ vediamo così apparire Khaby Lame a fianco proprio di Mark Zuckerberg. Ovviamente non potevano mancare i noti sketch comici del ragazzo italiano, unendo però l’elemento Meta nel mezzo. Non si tratta di un video realizzato come goliardia. Questo è un vero e proprio elemento pubblicitario considerando che si trova sulla pagina ufficiale della nuova società su Facebook.

khaby lame meta zuckerberg

E così si salta da un universo all’altro per mostrare le potenzialità della nuova realtà che punterà sull’interazione virtuale ancora più spinta. Non a caso la realtà virtuale/realtà aumentata vengono mostrate come modalità di interazione e immersive (legate a doppio filo ai visori Oculus).

E se inizialmente viene mostrato uno Zuckerberg serio intento a spiegare, verso metà filmato lo si vede sorridente e vestito da schermitore (passione che pratica anche con la figlia). Il video si conclude con il classico gesto che ha reso famoso Khaby Lame mostrando la “semplicità” del concetto di Meta e del metaverso. Basterà a convincere gli utenti che utilizzano i servizi della società? Del resto stiamo parlando di Facebook, WhatsApp, Instagram, Oculus che raccolgono un fetta importante della popolazione mondiale.




Banche irlandesi, tedesche, italiane e cinesi in ritardo sui rischi climatici

Banche irlandesi, tedesche, italiane e cinesi in ritardo sui rischi climatici

Una folta schiera di banche centrali teme che il cambiamento climatico possa scatenare la prossima crisi finanziaria. Per questo motivo, le autorità di vigilanza in Europa e nel Regno Unito stanno già iniziando a esaminare la resilienza delle banche al cambiamento climatico, valutando sia le probabili tensioni derivanti dalla transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio nei prossimi decenni, sia l’impatto di condizioni meteorologiche estreme.

“Per il momento, tuttavia, l’ansia delle autorità monetarie non si riflette nei mercati azionari o obbligazionari, che sembrano relativamente poco influenzati dal rischio climatico. Eppure nei prossimi anni il cambiamento climatico potrebbe diventare un motore chiave della performance finanziaria e un fattore importante per gli investitori che valutano le banche”, hanno sottolineato Paul Smillie, analista del credito senior, Rosalie Pinkney, analista del credito senior e Natalia Luna, analista senior investimenti tematici di Columbia Threadneedle Investments, secondo cui sussiste già un’ampia dispersione tra i leader e i ritardatari del settore.

“I rischi per gli utili non mancano neppure nel breve termine, mentre nel medio periodo è probabile che gli istituti con maggiori esposizioni legate al clima dovranno far fronte a requisiti patrimoniali più elevati, per non parlare dei rischi reputazionali. Ma non è solo una questione di rischio. Guardando avanti di qualche anno, potrebbero anche esserci opportunità per le banche che guidano il finanziamento della transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio. In effetti, si stima che gli investimenti e i finanziamenti verdi potrebbero raccogliere fino a 50 miliardi di dollari di ricavi nei prossimi 5-10 anni”, hanno valutato.

Gli esperti credono che presto non sarà più sufficiente per le banche assumere impegni di carattere generale sul clima. Sottoposti a un crescente scrutinio, gli istituti bancari dovranno migliorare le informative sul rischio climatico, dimostrare che le considerazioni sul clima si inseriscono negli standard di sottoscrizione e ridurre le loro impronte di carbonio.

Sebbene l’esposizione delle banche ai combustibili fossili sia relativamente modesta, i settori ad alta intensità di carbonio rappresentano a oggi meno del 10% dell’esposizione creditizia degli istituti europei, secondo i calcoli della Banca centrale europea una crisi climatica potrebbe incrementare le perdite del sistema bancario fino al 60%, con ricadute significative sugli utili, dato che i combustibili fossili rappresentano il 10%-15% dei ricavi generati a livello globale dall’attività bancaria all’ingrosso.

Il rischio reputazionale è già in aumento. Basta pensare alle le critiche rivolte a JP Morgan Chase nel 2020 per i suoi prestiti al settore energetico. In un rapporto compilato da una collaborazione di organizzazioni non governative (ONG), tra cui Rainforest Action Network e BankTrack, si è scoperto che la banca statunitense è il maggior finanziatore di combustibili fossili a livello globale. Vista la crescente sensibilità del pubblico al problema del cambiamento climatico, il possibile danno alla reputazione non dovrebbe essere ignorato.

Le autorità di vigilanza bancaria stanno cominciando a imporre una serie di cambiamenti, specialmente nell’Ue e nel Regno Unito. Le banche centrali francese e olandese hanno eseguito stress test climatici nel 2020, la Bank of England l’ha fatto nel 2021 e la Bce prevede di farlo nel 2022. Guardando al 2025, l’Autorità bancaria europea (ABE) intende introdurre una revisione dei requisiti patrimoniali ESG, che differenzierà il trattamento patrimoniale degli attivi in base ai fattori ambientali e sociali.

Nel Regno Unito, le banche dovranno rispettare gli standard della Task-Force for Climate-Related Financial Disclosures entro il 2025, fornendo informazioni standardizzate sui loro rischi climatici. Anche negli Stati Uniti, chiaramente, un inasprimento della regolamentazione è dietro l’angolo. Nel novembre 2020 la Federal Reserve ha identificato per la prima volta nel cambiamento climatico un rischio per la stabilità finanziaria. Inoltre, il presidente Biden ha dichiarato di considerare il cambiamento climatico una priorità e prevede di richiedere alle società quotate di divulgare informazioni sui rischi finanziari legati al clima.

Tuttavia finora vi sono poche indicazioni che le banche stiano riducendo i prestiti legati ai combustibili fossili, con l’importante eccezione del carbone. “Gli investitori potrebbero, però, iniziare presto a distinguere tra leader e ritardatari, grazie ai migliori dati estratti dalle informative obbligatorie. Inoltre, l’engagement degli azionisti e l’attivismo delle ONG potrebbero ripercuotersi in tempi brevi sulle valutazioni delle azioni bancarie. Abbiamo condotto un esercizio di engagement con più di 50 banche a livello globale, ponendo domande sulla strategia climatica e sulla gestione del rischio climatico e facendo seguito con una serie di incontri”, affermano gli analisti di Columbia Threadneedle Investments che hanno riscontrato così l’emergere di alcune chiare tendenze.

In particolare, secondo gli analisti di Columbia Threadneedle Investments, alcune banche britanniche, olandesi e svizzere si distinguono in positivo. Le banche nordiche, francesi, spagnole e giapponesi sono leggermente indietro, mentre quelle irlandesi, tedesche, italiane e cinesi sono in ritardo. Anche per Citi il deterioramento delle condizioni climatiche può rappresentare un rischio per la qualità degli asset delle banche e per il capitale, “ma vorremmo anche evidenziare le potenziali opportunità derivanti dalla consulenza ai clienti e dall’emissione di finanziamenti verdi/sostenibili. Crediamo che le banche più orientate alle imprese potrebbero generare ricavi legati all’ESG, quindi quelle francesi e svizzere, con Deutsche Bank e Skandinaviska Enskilda Banken che hanno già indicato opportunità in questa direzione, il che può mitigare l’impatto del riequilibrio dei prestiti”.

Columbia Threadneedle Investments ha iniziato a tenere conto dell’esposizione delle banche ai rischi climatici nella nostra ricerca. Il cambiamento climatico non incide ancora sugli utili o sui requisiti patrimoniali delle banche, ma potrebbe farlo già tra due o cinque anni. Dato che nella nostra valutazione delle aziende adottiamo un orizzonte prospettico di due anni, incorporiamo questa dimensione nella nostra ricerca obbligazionaria e assegniamo i relativi rating alle banche. Queste valutazioni cominciano a influenzare la costruzione del portafoglio”, avvertono a Columbia Threadneedle Investments. “A nostro avviso, non passerà molto tempo prima che gli investitori inizino a operare una distinzione tra leader e ritardatari. Ciò creerà un’opportunità per gli investitori attivi, premiando al contempo le banche che hanno agito tempestivamente per affrontare il cambiamento climatico con un costo competitivo del capitale”.