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Rai pubblica il bilancio sociale, ma solo per pochi

Rai pubblica il bilancio sociale, ma solo per pochi

Non avviene sicuramente in nessun Paese del mondo, ma in Italia invece sì: il “public service broadcaster” approva il proprio “Bilancio Sociale” – relativo all’esercizio 2019 – ma non gli assegna alcuna pubblicità, se non la pubblicazione, alla chetichella, in una specifica sezione del proprio sito web (www.rai.it/trasparenza).

Non un comunicato stampa, non una promozione comunicazionale seppur minima.

Formalmente, il “Bilancio Sociale” è stato approvato dal Consiglio di Amministrazione di Viale Mazzini il 28 maggio 2020, ed ha ricevuto l’imprimatur della società di revisione Kpmg spa (a firma del socio Marco Maffei) l’8 giugno, ma è rimasto documento ad esclusiva circolazione interna per oltre un mese: il file, in formato .pdf, risulta creato il 2 luglio, e risulta pubblicato su web il 7 luglio 2020.

Non è la prima volta che si registra questo fenomeno incomprensibile, e lo abbiamo già segnalato – anzi (ci si consenta) – denunciato su queste colonne, nel silenzio dei più: come se si trattasse di un documento minore, di un report tecnico… Come se non fosse questo lo strumento cognitivo attraverso il quale gli “stakeholder” della tv pubblica dovrebbero verificare se la Rai svolge effettivamente “servizio pubblico”, o più simpaticamente dichiara di svolgerlo.

Il silenzio, totale, da parte della comunità professionale, ma anche delle istituzioni e della politica è veramente impressionante.

Eppure, il documento è ricco di dati, di analisi, di stimoli, che potrebbero (dovrebbero) provocare una discussione pubblica sulla materia “servizio pubblico”…

Eppure la Commissione bicamerale di Vigilanza della Rai dovrebbe leggere, anzi studiare, discutere questo “bilancio”, pagina per pagina, e farne oggetto di sana analisi critica.

Silenzio totale anche da parte della commissione presieduta dal senatore Alberto Barachini (esponente di Forza Italia).

Una qualche ragione di questa inerzia assoluta (tacita connivenza?!) deve pur esserci.

Permangono domande senza risposta: perché la Rai assegna a questo “bilancio sociale” una circolazione semi-clandestina?

Perché la Rai non promuove una pubblica discussione con la società civile, con la cittadinanza tutta che pure è costretta a pagare il canone attraverso l’automatismo della quota sulla bolletta delle utenze elettriche?!

Sono in fondo i cittadini tutti gli effettivi “stakeholder”, e non soltanto gli azionisti (Ministero dell’Economia e delle Finanze per il 99,5583 % e la Società Italiana Autori Editori – Siae per lo 0,4417 %), i dipendenti ed i collaboratori, ed anche, in qualche modo, le istituzioni legislative ed esecutive, i sindacati, le autorità di controllo… E finanche gli investitori pubblicitari, ed anche  i fornitori…

Forse la risposta è tra le righe dell’incipit della “Lettera agli Stakeholder”, che apre il bilancio: “Il Gruppo Rai attribuisce valore al Bilancio Sociale/Dnf 2019, non solo come risposta alle previsioni della normativa, ma con l’obiettivo di fornire a tutti una articolata raccolta di informazioni e relative chiavi di lettura, sull’attività svolta dal Gruppo, per contribuire allo sviluppo sostenibile dell’intero sistema Paese”, firmano l’Amministratore Delegato Fabrizio Salini ed il Presidente Marcello Foa. Forse si tratta di simpatica… ipocrisia istituzionale: Salini e Foa “si vivono” questo documento come un mero atto dovuto, un report formale. Scrivono “alfa”, ma in cuor loro pensano “il contrario di alfa”?!

Le origini storiche del “Bilancio Sociale” della Rai

Procediamo con ordine, precisando che chi redige queste noterelle conosce assai bene la materia, perché ebbe il piacere (l’onore) di segnalare ad Anna Maria Tarantola, Presidente della Rai (in carica dal giugno 2012 all’agosto 2015), l’opportunità di dotare il Gruppo Rai di un “bilancio sociale”.

Pochi mesi prima della scadenza del suo mandato, nella nostra veste di consulenti Rai, suggerimmo infatti alla allora Presidente di promuovere una prima edizione del fino ad allora mai realizzato “Bilancio Sociale” Rai: sapevamo di toccare corde sensibili, anche perché Tarantola si era interessata della questione quando era stata alla guida della Banca d’Italia (di cui è stata Vice Direttrice Generale fino al 2012), e basti ricordare che nel 2014 Banca d’Italia ha pubblicato la prima edizione del suo “Rapporto ambientale”.

Fu quindi realizzato il cosiddetto “numero zero” del “Bilancio Sociale” Rai, e fu presentato in pompa magna, di fatto a mo’ di ultimo atto pubblico del duo Anna Maria Tarantola – Luigi Gubitosi (Dg): eravamo nell’estate del 2015, il Bilancio Sociale presentato era riferito ovviamente all’esercizio 2014, e ne scrivemmo con dovizia di particolari anche su queste colonne (vedi “Key4biz” del 29 luglio 2015, “Il numero zero del ‘Bilancio Sociale’ Rai: più ombre che luci).

Crepi la modestia: possiamo farci vanto di essere stati tra i primi in Italia ad aver posto la questione dell’esigenza di un “Bilancio Sociale” per la Rai (clicca qui, per leggere la nostra “Lettera aperta al nuovo Cda della Rai”, sul mensile “Millecanali” di dieci anni fa): scrivevamo nel marzo del 2009, “deve essere comunque redatto un Bilancio Sociale (da inviare per via postale a tutti gli abbonati), con documentazione accurata che evidenzi in modo chiaro e netto “cosa” è finanziato dal canone, in quale proporzione e soprattutto per quale ragione”…

Correva l’anno 2015: può peraltro sembrare incredibile, ma incredibile non è, a distanza di 3 anni tre, Viale Mazzini ha “pubblicato”, soltanto nel luglio del 2018, la prima inedita edizione del “Bilancio Sociale” (quello presentato nel luglio 2015 era giustappunto una sorta di “numero zero”), ma assegnandogli – anche allora – zero attenzione, e zero visibilità: non fu diramato nemmeno un comunicato stampa, e la notizia non è stata degnata di alcuna attenzione mediatica, anche perché Rai si è limitata a “inserirlo” nell’elenco dei documenti della già citata sezione “Trasparenza” (che certo non gode di audience… di massa).

Unica testata giornalistica ad aver reso nota l’avvenuta pubblicazione è stata giustappunto “Key4biz”, a metà novembre del 2018: vedi l’articolo “Bilancio Sociale Rai 2017, di male in peggio” (edizione del 16 novembre 2018)……

Il “Bilancio Sociale” Rai presentato nel 2018 e nel 2019: nessuna presentazione pubblica

Più esattamente, il primo (sedicente) “Bilancio Sociale” della Rai è stato formalmente approvato l’11 giugno 2018, e reca la firma della allora Presidente Monica Maggioni (in carica dall’agosto 2015 al luglio 2018) e dell’allora neo Direttore Generale Mario Orfeo: la decisione di mantenerlo come documento semi-clandestino potrebbe essere stata allora co-determinata dalla volontà del direttore entrante di non accendere i riflettori sul predecessore. Peraltro, il Dg Mario Orfeo era entrato formalmente in carica il 9 giugno 2018, mentre Antonio Campo Dall’Orto era cessato dall’incarico il 6 giugno… Rimandiamo al succitato nostro articolo di commento critico: come si evince dal titolo, l’evoluzione del “Bilancio Sociale” – dal “numero zero” del 2014 alla “prima edizione” del 2017 – poteva essere sintetizzata con un “di male in peggio”.

E veniamo al 2019, relativa all’esercizio 2018: basti citare il titolo dell’articolo di “Key4biz” del 5 luglio 2019: “La Rai pubblica il ‘Bilancio Sociale’ 2018 senza avvisare nessuno”. Il bilancio era stato pubblicato, ancora una volta in sordina, il 18 giugno sul sito “Trasparenza”. L’anno scorso, però, curiosamente, discreta attenzione (retorica) era stata dedicata all’iniziativa, con un comunicato stampa Rai del 9 maggio (approvazione sia del bilancio di esercizio sia del bilancio sociale da parte del Cda), nel quale ben 17 righe venivano dedicate al “bilancio sociale”, a fronte delle 37 del “bilancio di esercizio”. Il bilancio sociale, nella versione 9 maggio 2019, era stato approvato all’unanimità dal Cda, ma alcuni consiglieri avevano richiesto degli approfondimenti, a partire dal consigliere eletto dai dipendenti, Riccardo Laganà (come ha segnalato lui stesso sulla propria pagina Facebook). Approfondimenti non pervenuti nella versione finale “pubblicata” il 18 giugno 2019, a distanza di oltre un mese dall’approvazione da parte del Cda…

Anno 2020: silenzio totale…..

“Bilancio Sociale”: una patata bollente che passa di mano, da una direzione all’altra

Mutatis mutandis, la patologia (perché non può essere considerata altrimenti) si riproduce, e, quindi, si aggrava.

A questo punto, è evidente: a Rai, retorica a parte, del “bilancio sociale” importa nulla. È veramente un “atto dovuto”.

Questa sorta di “palla al piede” passa poi di… mano in mano, come palla da biliardo, da una direzione all’altra di Viale Mazzini:

  • 2015: per il Bilancio Sociale 2014, il progetto è stato curato dalla Struttura Sostenibilità e Segretariato Sociale, all’interno della Direzione Comunicazione e Relazioni Esterne; questa iniziativa – va rimarcato – era stata realizzata in anticipo rispetto alla normativa poi emanata;
  • 2018: dopo 2 anni di “non pervenuto”… esce dal cappello magico il Bilancio Sociale 2017, il cui progetto è stato curato dalla struttura Responsabilità Sociale della Direzione Rapporti Istituzionali, facente parte della Direzione Comunicazione, Relazioni Esterne, Istituzionali e Internazionali;
  • 2019: per il Bilancio Sociale 2018, il progetto è stato curato dalla struttura Bilancio Sociale della Direzione Finanza e Pianificazione, dal “Chief Financial Officer” (Cfo); Dirigente responsabile, Piero Gaffuri;
  • 2020: per il Bilancio Sociale 2019, il progetto è stato curato addirittura da una struttura dedicata: si tratta giustappunto della Struttura Bilancio Sociale Rai, affidata a Maurizio Rastrello dal luglio 2019 direttamente dall’Amministratore Delegato (Rastrello è stato da dicembre 2017 a marzo 2019 Direttore dello Staff Direttore Generale, Direzione che da agosto 2018 è stata denominata Staff Amministratore Delegato).

In sostanza, attualmente la Struttura Bilancio Sociale è “a diretto riporto” dell’Amministratore Delegato nella cosiddetta “Corporate” (al pari – per capirci – della Direzione Marketing o della Direzione Creativa o della Direzione Ufficio Studi): quindi, se il “Bilancio Sociale” è in… sordina, si deve al… pianista Fabrizio Salini.

Insomma, la “patata bollente” passa di mano in mano: purtroppo, tra un passaggio e l’altro, non si ha chance di osservare un percorso evolutivo granché significativo. Prevale, come spesso accade a Viale Mazzini, una deriva conservativo-inerziale.

“Bilancio Sociale” e “Dichiarazione Non Finanziaria”: una voluta confusione, un brutto ircocervo

Assolutamente necessaria una precisazione “metodologica”: questo “Bilancio Sociale” si pone come creatura ibrida, un brutto ircocervo.

In effetti, esso è “atto dovuto” sulla base di due disposizioni, una normativa ed un’altra regolamentativa (comunque rilevante in termini normativi).

È “Bilancio Sociale” ma anche “Dichiarazione Non Finanziaria” ovvero – dall’acronimo “Dnf”: l’obbligo di “Bilancio Sociale” è stato infatti introdotto nel 2017, mentre la “Dnf” nel 2016: la “Dnf” è antecedente, e si è deciso – a parer nostro errando – di considerare il “Bilancio Sociale” una sorta di integrazione, una specie di appendice del Dnf, snaturandone così la vera funzione. Si mischiano mele e pere, ovvero si cerca di salvare capre e cavoli.

Si ricordi che sono obbligate a produrre la “Dnf”, le grandi imprese considerate enti di interesse pubblico (banche, assicurazioni, società quotate…) con almeno 500 dipendenti e uno stato patrimoniale superiore a 20 milioni o ricavi di almeno 40 milioni di euro. È un documento altro – vogliamo rimarcare – rispetto al “Bilancio Sociale”.

Si legge nel “Bilancio Sociale” 2017, il primo imposto per legge, che è esso è “redatto anche recependo quanto, ad integrazione del citato Decreto (quello che impone la “Dnf”, appunto, nota nostra), indicato all’art. 12 della Convenzione tra Ministero dello Sviluppo Economico e la Rai del 2017” Da segnalare che nell’anno 2017 vigeva ancora – incredibilmente – il “contratto di servizio 2010-2012”! Il successivo “contratto di servizio”, per il triennio 2018-2020, ha visto la luce soltanto nel marzo del 2018…

Quindi, questo benedetto “Bilancio Sociale” è stato “imposto” dalla Convenzione del 2017, che ha durata decennale, e dal successivo Contratto di Servizio (quello 2018-2020), che ha durata triennale.

L’articolo 12 della Convenzione tra Mise e Rai, perfezionata il 27 luglio 2017, recita, al comma 2: “La società concessionaria redige annualmente, entro quattro mesi dalla conclusione dell’esercizio precedente, un bilancio sociale, che dia anche conto delle attività svolte in ambito  socio-culturale, con particolare riguardo al rispetto del pluralismo informativo e politico, alla tutela dei minori e dei diritti delle minoranze, alla rappresentazione dell’immagine femminile e alla promozione della cultura nazionale. Il bilancio sociale dà altresì conto dei risultati di indagini demoscopiche sulla qualità dell’offerta proposta così come percepita dall’utenza e della corporate reputation della società concessionaria”.

Il Bilancio Sociale è previsto dal vigente Contratto di Servizio tra Stato e Rai per il triennio 2018-2020 (si ricordi che questo evanescente contratto ha avuto complessa gestazione ed è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale soltanto nel marzo 2018), mentre la “Dichiarazione consolidata di carattere non finanziario” è obbligatoria ai sensi del Decreto Legislativo 254 del 30 dicembre 2016, di attuazione della Direttiva 2014/95/Ue, e descrive le iniziative e i principali risultati in ambito di “sostenibilità” raggiunti.

Si legge a pagina 215 del documento Rai: “In considerazione del fatto che il documento ha l’obiettivo di rispondere anche a quanto indicato dall’art. 25 del Contratto di Servizio 2018-2022 tra il Ministero dello Sviluppo Economico e Rai, esso costituisce anche il Bilancio Sociale del Gruppo” (la sottolineatura è a nostra cura). Quell’“anche” – ripetuto – è semanticamente e politicamente fondamentale, per comprendere la funzione di questo report per Rai: accessorio, in sostanza, e subordinato alla “Dnf”. Così – riteniamo – non dovrebbe essere.

Una evoluzione grafica discretamente costosa

Rispetto all’edizione precedente, il “Bilancio Sociale” registra una evoluzione grafico-estetica gradevole, sebbene ci siano errori intollerabili: per esempio viene proposto un sommario, ma il documento che consta di 234 pagine, non ha un indice, e non è c’è nemmeno una datazione né una nota sugli autori e nemmeno sulla struttura aziendale che l’ha prodotto!

È comunque sicuramente più piacevole da sfogliare, e d’altronde Viale Mazzini assegna risorse non indifferenti a questo aspetto del documento, se è vero che nel novembre del 2019 attivava una procedura, a firma della Direttrice della Direzione Acquisti Rai, l’avvocata Monica Caccavelli, per assegnare ben 164mila euro (per la precisione 134.160.160 euro più iva) per il “progetto grafico unitario” e per l’impostazione grafica del bilancio annuale, della dichiarazione non finanziaria alias bilancio sociale, e per il bilancio semestrale, per un periodo triennale. Una somma senza dubbio appetibile per qualsivoglia consulente grafico, trattandosi di ben 56mila euro l’anno. Alla procedura sono stati invitati: LeftloftJekyll & HydeThe Visual AgencyErgoncomZero3Zero9. Ha vinto la Zero3Zero9, che ha offerto 111.352,80 euro, ovvero, al lordo iva, fanno 136mila euro, cioè 45.283 euro l’anno. Non poco, si converrà, dato che qui trattasi di mera consulenza grafica e non di contenuti.

Da segnalare che questa procedura non prevedeva la realizzazione di una sezione di sito web dedicata, ma soltanto il layout grafico, ed infatti il bilancio 2019 è disponibile esclusivamente in forma statica, su un file in formato pdf (sul sito Rai soltanto il primo bilancio sociale – il succitato “numero zero” del 2015 – ha un sito web dedicato).

E non vogliamo qui approfondire i costi per contributi di ricerca e consulenza e studio che sono alla base del “bilancio sociale” e del “bilancio di esercizio”, senza dimenticare gli apporti delle società di revisione…

Qui ci limitiamo a ricordare che nel 2019 Rai ha impegnato risorse per 1.500.000 (un milione e mezzo di euro) per “Servizi di consulenza strategica nello sviluppo di progetti industriali del Gruppo Rai” ed altrettanti 1.500.000 (un milione e mezzo di euro) per “Servizi di consulenza per l’esecuzione operativa di progetti strategici del Gruppo Rai”… Senza dimenticare che ci si domanda se è proprio necessario affidare attività così delicate per la strategia Rai alle solite multinazionali della revisione e della consulenza, da Arthur D. Little a Mc Kinsey a The Boston Consulting Group. L’ultimo piano industriale Rai, presentato al Cda nel marzo 2019, è stato affidato Boston Consulting Group alias Bcg.

Notoriamente il percorso del “piano industriale” Rai è andato a finire su un binario morto, e non soltanto a causa degli effetti del Covid-19…

Il “Bilancio Sociale” Rai, novella edizione, si caratterizza per una impostazione formale per alcuni aspetti ineccepibile, ma quel che riteniamo sfugga è la… vera sostanza.

Il concetto teorico di “sostenibilità materiali”

Ci sono certamente le categorie canoniche, tra tematiche di sostenibilità materiali, e vengono rispettati gli standard internazionali. Il “concetto di materialità secondo i Gri Standards va così interpretato: “Nella rendicontazione finanziaria la “materialità” è solitamente intesa come una soglia per influenzare le decisioni economiche di chi utilizza il bilancio di un’organizzazione, in particolare gli investitori. Un concetto analogo è, altresì, importante nel reporting di sostenibilità, dove però è correlato a due dimensioni, ossia, ad una più vasta gamma di impatti e agli Stakeholder. Nel reporting di sostenibilità la “materialità” è il principio che determina quali temi rilevanti sono sufficientemente importanti da renderne essenziale la rendicontazione. Non tutti i temi materiali hanno pari importanza e l’enfasi posta all’interno di un report dovrà rifletterne la relativa priorità”.

Le tematiche “materiali” identificate sono:

  • “Tematiche sociali”:

Sicurezza dei dati e cybersecurity; Brand reputation; Interazione con gli utenti; Copertura territoriale; Accessibilità, distribuzione dei contenuti e digitalizzazione; Arricchimento storico-culturale e funzione sociale; Impatto economico indiretto

  • “Tematiche attinenti al personale”:

Salute e sicurezza dei lavoratori; Sviluppo, valorizzazione e tutela del capitale umano

  • “Tematiche ambientali”:

Consumo responsabile, emissioni ed elettromagnetismo

  • “Anticorruzione”:

Compliance normativa di settore; Lotta alla corruzione

  • “Diritti umani”:

Diritti umani e diritti dei lavoratori.

Questo set di indicatori è stato sottoposto a giudizio, con tecniche varie, per la valutazione delle tematiche rilevanti dal punto di vista del Gruppo Rai, integrando quanto scaturito nel 2018 dal Top Management, con il risultato dalla rilevazione online che ha coinvolto i Consiglieri di Amministrazione (ad ognuno dei Consiglieri è stato richiesto di esprimere il proprio giudizio circa l’importanza delle 13 tematiche materiali). Su un totale di 12.850 dipendenti, 9.231 hanno aderito al corso di formazione sulla sostenibilità e risposto al questionario. Per quanto riguarda gli utenti, è stata realizzata una indagine conoscitiva Gfk su 1.214 individui di età dai 14 anni in su, con specifico focus sulle nuove generazioni; è stato somministrato un questionario a 92 utenti pubblicitari…

Rilevazioni che oscillano sempre intorno al 6, ovvero alla “sufficienza”

Tutto questo lavorio di rilevazione ha prodotto una serie di tabelle, rispetto alle quali sia consentito manifestare un ironico giudizio: esattamente come avviene per altri strumenti di rilevazione adottati da Rai, si registra, su scala da 0 a 10, un giudizio medio che oscilla intorno al 6, con un campo di oscillazione di poca (o nessuna) significatività ovvero tra 5,9 e 6,6, per quanto riguarda “il giudizio sulle attività svolte da Rai”. Per quanto riguarda “il livello di importanza percepita per le attività svolte da Rai”, l’oscillazione va da un minimo di 6,0 ad un massimo di 6,4. Per quanto riguarda il cosiddetto “indice di sostenibilità”, oscilla tra 5,9 e 6,6…

Non si deve avere un master in statistica, per evidenziare che questi risultati servono a poco, anzi forse a nulla, se non a riempire decine di pagine di tabelle e inutili commenti.

Si tratta delle stesse obiezioni metodologiche che riguardano le critiche che, da anni, vengono sollevate, da più osservatori (esterni ma anche interni all’Azienda), sul mitico quanto inutile Qualitel, strumento di analisi quantitativa (che vorrebbe essere alternativo ovvero integrativo rispetto al controverso Auditel) che dovrebbe consentire a Rai di monitorare il gradimento e la qualità percepita dell’offerta sulle diverse piattaforme distributive, utilizzando, anche in questo caso, dei punteggi su scala da 1 a 10. In questo caso, il campo di oscillazione oscilla tra il 7 e l’8, con scostamenti la cui analisi sconfina nel filosofico, piuttosto che nel mediologico. Questa strumentazione di misuramento del “gradimento” e della “qualità percepita” si conferma sostanzialmente inutile.

E non andiamo oltre, rispetto ad altri fantasiosi indicatori: “indice di corporate reputation” all’ “indice di relazione”, dall’ “indice di esperienza” al fondamentale “indice di servizio pubblico”. Ad essere molto severi, anzi molto cattivi, si potrebbe bollare il tutto come “fuffologia” allo stadio spinto, anzi allo stato puro.

Parte significativa del “bilancio sociale” è poi dedicata ad una analisi impostata secondo la logica della cosiddetta “Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”, approvata nel 2015 dall’Assemblea Generale dell’Onu, che fornisce a tutti i Paesi un modello condiviso che mira a porre fine alla povertà, a lottare contro l’ineguaglianza, ad affrontare i cambiamenti climatici e a costruire società pacifiche nel rispetto dei diritti umani. L’Agenda 2030 fissa 17 “Obiettivi di sviluppo sostenibile” (“Sustainable Development Goals”, ovvero “Sdgs” nell’acronimo inglese), da conseguire entro il 2030. Ben 40 pagine del “bilancio sociale” sono dedicate ad una mera elencazione di programmi (da pag. 71 a 113) che vengono classificati secondo questo schema, peraltro con una soluzione grafica assai povera (non viene nemmeno riprodotta una immagine, un frame dei programmi citati, anche soltanto in miniatura).

La domanda è: ma una attività così peculiare, qual è quella di “radiotelevisione pubblica” può essere classificata ed analizzata attraverso parametri così standardizzati?! Riteniamo di no, anche se questo è un sistema per mostrare una qual certa “rispondenza” ad alcuni parametri, assai generali (generalisti).

La parte più interessante del bilancio sociale Rai è quella che riguarda tematiche come il “Contributo alla creazione di un equilibrio sociale e di genere” (cui sono dedicate una ventina di pagine), le “Iniziative per il Sociale” (2 pagine due!), la “Programmazione per i diversi abili” (2 pagine), la “Programmazione per le Minoranze Linguistiche” (1 pagina), la “Inclusione Digitale” (3 pagine), e l’“Analisi dell’impatto socio-economico di Rai sul sistema Paese” (3 pagine).

Ci limitiamo a segnalare che non viene nemmeno proposto l’elenco delle “campagne sociali” messe in onda da Rai (e sarebbe anche interessante misurare la loro audience totale): e ciò basti, per comprendere l’approccio formal-burocratico del documento.

La mitica “coesione sociale”, mal valutata e mal misurata

Una questione essenziale, qual è la “coesione sociale”, viene così definita e risolta (…): “La ricerca si basa su una definizione di coesione sociale, elaborata con il supporto dei più importanti istituti di ricerca operanti in Italia (non viene specificato quali, nota nostra), avendo come riferimento il possibile contributo di una media company di Servizio Pubblico. La definizione individuata è: ‘la condizione che contraddistingue le collettività nazionali caratterizzate dal riconoscimento di una comune identità storica e culturale, da comuni valori e interessi, dal senso di appartenenza a una stessa comunità, dalla presenza di una rete attiva di relazioni sociali e di mezzi di comunicazione che facilitino la partecipazione di tutti alla vita civile, sociale, politica e culturale’”.

Su questa base Rai ha quindi attivato una molteplicità di indagini, i cui risultati vengono riportati in modo molto (eccessivamente) sintetico, allorquando si tratta forse della parte più interessante del “Bilancio Sociale” e ben altra attenzione meritava. L’analisi dei contenuti della programmazione è stata affidata a Cares – Osservatorio di Pavia, che ha effettuato, come l’anno scorso, una rilevazione basata su un campione di 1.100 trasmissioni della programmazione delle tre reti tv generaliste. Sempre Cares ha realizzato la rilevazione sulla “rappresentazione della figura femminile”, così come ha misurato “il rispetto del pluralismo” (basata su un campione di 518 programmi)…

Un florilegio dei risultati?

Pluralismo di genere: “Nel complesso, l’analisi ha fatto emergere diversi elementi positivi…”.

Pluralismo generazionale: “L’analisi ha evidenziato alcuni elementi positivi…”.

Pluralismo socio-economico? “Il dato che emerge in maniera più evidente dall’analisi è come la rappresentazione della struttura socio-economica della realtà risulti alterata dalla “tipica” distorsione mediatica…”. Oh, perbacco!, si intravvede qui un (lieve) rilievo critico…

Un po’ più serio il giudizio sul “pluralismo etnico”: “In questo caso l’analisi ha evidenziato luci e ombre comporsi in un mosaico non sempre nitido, la cui messa a fuoco richiederebbe, forse, un allargamento del campo d’indagine dalla rappresentazione della realtà proposta dal mezzo televisivo, alla realtà rappresentata”. Udite udite…

Una rilevazione quali-quantitativa, realizzata in collaborazione con Bva-Doxa, ha cercato di rilevare il vissuto e le attese della popolazione, ma, anche in questo caso, ben poco di realmente significativo, in termini sociologici e mediologici, emerge.

Un’occasione sprecata: un documento debole, fragile, inutile

Tralasciamo le pagine dedicate al “pluralismo politico”, perché meriteranno un approfondimento ad hoc, tra le rilevazioni della Rai (nel “Bilancio Sociale”, si legge anche di un “indice di imparzialità”) e le rilevazioni dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni – Agcom. Una questione delicatissima che riguarda alla fin fine l’assetto democratico del Paese, ovvero i suoi equilibri politici (elettorali e parlamentari).

Segue poi un capitolo dedicato a “Le nostre persone”, che propone un set di dati in buona parte acquisibile anche dal “Bilancio di esercizio”, un capitolo dedicato all’“impegno verso l’ambiente”, uno dedicato ai “fornitori” ed infine al “sistema di controllo interno e gestione dei rischi”.

In appendice, decine di tabelle che francamente non si comprende proprio a cosa servano, se non a mostrare il rispetto formale (formalistico) per metodologie tassonomiche internazionali (la cui utilità, per lo “stakeholder”, è zero assoluto).

Il tutto viene chiuso con la benedizione della società di revisione di turno, nel caso in ispecie Kpmg, il cui costo – soltanto di questa specifica attività di “giudizio di conformità” rispetto agli standard di legge e internazionali – è anch’esso nell’ordine di alcune decine di migliaia di euro. Stendiamo, anche su questo budget, un velo di pietoso silenzio.

In sintesi, un documento debole fragile inutile, per così come è impostato.

Un documento formalistico e rituale, privo di qualsiasi spirito critico e di approccio dialettico.

Una operazione autoreferenziale e narcististica.

Sarà che per queste ragioni, la Rai ha deciso di pubblicarlo, ma paradossalmente nascondendolo?! Se ne vergogna forse?! Già questa sarebbe comunque una apprezzabile autocoscienza.

Auguriamo che l’edizione 2021 si caratterizzi per un salto di qualità significativo.

Documenti come questo ricordano veramente il tante volte evocato motivetto: la casa potrebbe andare a fuoco, ma si canticchia allegramente “out va très bien, Madame la Marquise”…

Clicca qui, per leggere il “Bilancio Sociale Rai 2019”.




From now on: come far ripartire l’Italia?

La CMO Survey di Deloitte spiega l’evoluzione della Brand Experience dopo il Coronavirus

Com’è cambiata la brand experience per consumatori e aziende?
Quali sono le nuove regole del marketing dopo l’irruzione del Coronavirus nel mondo?
Lo abbiamo chiesto ad oltre 250 CMO – Chief Marketing Officer – del mercato italiano dopo la fine del lockdown: tra incertezze e trasformazioni ancora in corso, la priorità che emerge è la digitalizzazione come chiave di successo per il futuro. Ma non solo, i consumatori saranno sempre più esigenti con i brand e per stare al passo con questo trend, sia i canali di comunicazione che i touchpoint dovranno essere sempre più personalizzati.

C’è una grande attenzione anche alla riorganizzazione interna del lavoro, che dopo il grande esperimento di massa del lavoro agile imposto dal lockdown non sarà più come prima.

Infine, tra le evidenze della survey, emerge l’importanza del brand Made in Italy come via d’uscita dalla crisi che il Covid-19 ha innescato. Un’evoluzione che abbiamo analizzato dal punto di vista dei consumatori, del lavoro e del mercato, ma che è sempre focalizzata su una nuova Brand Experience.

A questo link puoi scaricare la survey completa




Gli effetti della pandemia sulla moda e la ripartenza per il settore retail

Gli effetti della pandemia sulla moda e la ripartenza per il settore retail

Uno dei settori più colpiti dalla crisi economica causata dal Covid-19 è quello della moda. Il lockdown, non ha provocato solo la cancellazione di eventi e sfilate, ma anche l’arresto della filiera produttiva in ogni suo aspetto, dal recupero di materie prime fino alla distribuzione, decretando un calo nei guadagni del -14,1% (report Area Studi Mediobanca). The State of Fashion 2020, il recente report di The Business of Fashion e McKinsey prevede che l’industria della moda globale quest’anno subirà una contrazione del 27-30%.

Ed ora che siamo nella fase della ripartenza? Sono due le domande che agitano il settore, secondo Fashion United: da un lato, come disinfettare i capi dopo ogni prova, dall’altra, come comportarsi con le grandi quantità di merci accumulate nei magazzini. Inoltre ci si chiede: “Con questa crisi che vige nel paese, quanta voglia c’è di fare shopping?” Secondo ricerca dell’Assirm, i consumatori italiani stanno acquistando abbigliamento, accessori e scarpe prevalentemente per necessità (45%), più che per sfizio personale (17%). Sì, perché nessuno in questo momento ama “provare vestiti che possono essere stati indossati poco prima da altre persone”. Inoltre si preferisce acquistare capi comodi, funzionali, rispettosi dell’ambiente e duraturi nel tempo.

Le prossime indagini sulla moda riveleranno sicuramente un quadro più chiaro dell’impatto del COVID-19 nel settore dell’abbigliamento. Per adesso, le uniche certezze degli studiosi dicono che:

  • nonostante il lockdown è rimasta invariata la fedeltà ai brand
  • le ricerche si sono orientate principalmente verso capi di athleisure
  • solo chi si ingegna ha possibilità di migliorare la propria rendita

Fedeltà ai brand: il risultato del report di Lyst Index

Secondo Lyst Index, durante il primo trimestre del 2020 i top 3 brand più desiderati su scala mondiale sono stati Off-white, Balenciaga e Nike. 

Off-White si è confermato come il brand più desiderato in assoluto, per il 3° trimestre consecutivo, grazie ad un’idea di lusso sovversiva e anti-sistema. L’approccio digitale adottato nelle prime settimane di emergenza sanitaria, sia dal brand che dal suo fondatore Virgil Abloh, hanno fatto registrare un esponenziale aumento di engagement sui social media: la quarantena è stata trasformata in una nuova occasione per creare fidelizzazione tra brand e clienti, rafforzando ulteriormente la brand identity del marchio.

Balenciaga è salito di una posizione, raggiungendo il 2° posto della classifica (l’ultima volta era successo nel 3° trimestre 2019). Con il passare delle stagioni, il brand ha proposto collezioni sempre più avvincenti, capaci di mescolare lo stile Haute Couture con la semplicità dello street style ed un’atmosfera apocalittica.

Nike è uno dei marchi che ha scalato più velocemente la classifica: è schizzato al 3° posto, salendo di ben nove posizioni e scalzando Gucci (ora 4°). Il colosso dello sportswear è stato spinto in alto da una serie di importanti iniziative globali del brand e da un aumento delle richieste dei consumatori di prodotti come felpe, pantaloni della tuta e calzoncini. 

In generale, la classifica dei brand più desiderati del primo trimestre del 2020 vede una stabilità di numero dei marchi italiani più ricercati, segno che, nonostante il COVID-19, sembra rimasta invariata la brand loyalty, ovvero la percezione che i consumatori hanno della marca.

Tecnologia

Sono cambiate le ricerche in termini di abbigliamento?

La pandemia non ha solo cambiato solo le nostre abitudini, ma anche le nostre ricerche e gli acquisti online. In una recente intervista a WWD, Net-à-Porter ha dichiarato di aver registrato un incremento del 40% nelle vendite online, con un particolare interesse per i pantaloni della tuta. Anche una ricerca di XChannel ha rivelato un cambiamento nelle ricerche, che va verso una tendenza alla comodità (56%), all’informalità (21%) e alla sportività (17%).

Ma, quali sono stati i prodotti più ricercati al mondo? Secondo Lyst, il prodotto da uomo più ricercato a livello globale è la mascherina nera con frecce bianche di Off-White. Nel corso del trimestre questo prodotto ha registrato il sold out presso tutti i rivenditori fisici (al prezzo di 95 dollari) perciò attualmente è venduta solo sulle piattaforme online, a tre volte in più rispetto al suo prezzo originale (secondo Madame Figaro queste mascherine avrebbero raggiunto il prezzo record di mille dollari sul sito Farfetch, ma sarebbero poi state ritirate, a causa delle polemiche scatenate sui social).

Certamente, la pandemia di COVID-19 ha spinto molti brand a buttarsi su questo mercato e ha scatenato un’impennata del 496% delle ricerche, ma non si tratta di un nuovo trend: Off-White è stato il primo a lanciare mascherine fashion sul mercato e in passato sono state indossate da rapper del calibro di Travis Scott, Future e Young Thug. La maglia in pile con mezza zip di Loewe, ispirata alla natura, è stata il secondo prodotto da uomo più desiderato del trimestre: dopo essere stata indossata dagli attori Timothée Chalamet e Josh O’Connor e dal cantante Justin Bieber, ha registrato una flessione del +88%. In terza posizione, invece, troviamo la felpa con cappuccio di Gucci x Disney, mentre le sneakers Kobe 4 Protro Carpe Diem di Nike, che rendono omaggio alla stella dell’NBA Kobe Bryant, si sono posizionate al quarto posto.

La top 3 della classifica femminile di Lyst è stata dominata dalla borsa matelassé Cassette di Bottega Veneta, dal body morbido in pizzo di Off-White e dalla borsa shopper di Telfar (una borsa tote con logo goffrato, spesso in sold out presso i suoi rivenditori). Visto il periodo di incertezza, molte consumatrici di abbigliamento e accessori di lusso sono andate alla ricerca di pezzi vintage di seconda mano, decretando la decima posizione della famosissima borsa Classic Double Flap di Chanel (+75% delle ricerche). 

The Lyst Idex 2020

Quali sono state le principali iniziative della moda durante il lockdown?

Molti brand come Armani, Prada, Gucci, Trussardi, Versace, Bulgari e fashion icon come Chiara Ferragni, Kylie Jenner e Mariano di Vaio si sono schierati in prima linea nella lotta contro il Coronavirus, attraverso generose donazioni. Le case di moda hanno riconvertito i propri stabilimenti per la produzione di mascherine o altri dispositivi di protezione.

Armani ha invitato le altre maison a fermarsi a riflettere: è il momento ideale per combattere la “fast fashion, ovvero il concetto di “moda istantanea” che rende i prodotti obsoleti dopo poco tempo dal lancio, sostituiti da merce nuova che non è mai poi troppo diversa. Tra i brand che ha accettato con buoni propositi questo invito è stato Gucci, che ha deciso di rallentare i ritmi di produzione per tornare a dar valore alla creatività. Anche la direttrice di Vogue e Condé Nast, Anna Wintour, in una recente intervista rilasciata a Naomi Campbell, ha dichiarato di essere d’accordo con questo diktat, affermando: “Siamo tutti d’accordo che bisogna mostrare di meno, che bisogna puntare di più sulla sostenibilità e sulla creatività, e meno sul lusso. Questo terribile evento ci ha fatto capire che dobbiamo cambiare e che saremo in gradi di farlo”. 

Ma non solo, il lockdown è diventato anche un’occasione per lanciare “servizi fotografici fai da te. La campagna di Zara per la primavera-estate 2020, ad esempio, è stata ripresa in autonomia dalle modelle che hanno ricevuto a casa i prodotti e dopo aver scelto un angolo instagrammabile della propria casa, hanno realizzato un autoscatto. Il risultato ottenuto è quello di fotografie in veste “casalinga, caratterizzate da pose semplici e naturali, senza trucco e senza acconciature. Altra campagna scattata direttamente dai modelli, senza l’aiuto di truccatori, hair stylist e fotografi, è quella di Gucci per l’autunno-inverno 2020-2021. 

Ma soprattutto, non sono mancate le social challenge, per continuare a coinvolgere e intrattenere la propria community, anche durante il lockdown. Versace, ad esempio, con la campagna #VeryVersace, ha invitato la propria fanbase a fotografare oggetti, paesaggi, spazi e scene che ricordavano l’iconica V del brand. Alexander McQueen ha lanciato il progetto #McQueenCreativeCommunity, che consisteva nel pubblicare immagini inspirational, allo scopo di invitare gli utenti a replicare con sketch e disegni da ri-pubblicare sui propri canali social. Per non parlare di Louis Vuitton, che tramite il progetto #FLWfromhome intratteneva i propri utenti con concerti, tour virtuali, masterclass online. E Nike, che con l’iniziativa #PlayInsidePlayForTheWorld, ha animato il proprio canale IG di sorprese ed eventi sportivi.

 
 
 
 
 
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Il modo in cui le persone interagiscono con i brand e fanno acquisti sta cambiando velocemente e il digitale assume un’importanza fondamentale per le case di moda. Secondo Chris Morton, Co-fondatore e CEO di Lyst, “Coloro che si adatteranno più rapidamente ai nuovi scenari, prendendo decisioni basate su dati e faranno affidamento sulle loro stesse forze, avranno maggiori probabilità di crescita”.

sfilata di moda con le mascherine

Fashion renting e personal shopper digitale: nuove idee per la ripresa

Dopo oltre due mesi di lockdown, scatta una nuova sfida per il retail moda, costretto a reinventarsi per offrire un’esperienza d’acquisto in totale sicurezza.

Secondo alcuni esperti, il fashion renting potrebbe essere la soluzione per il post COVID-19. Il noleggio degli abiti, infatti, permetterebbe di soddisfare il bisogno di indossare vestiti nuovi, senza muoversi da casa e con la garanzia che siano stati sottoposti a lavaggi specializzati. Ogni capo, infatti, prima di ogni spedizione verrebbe inviato a tintorie specializzate. I vantaggi? Prezzi alla portata di tutti, rispetto per l’ambiente e sicurezza. 

Un’altra idea per la ripresa può essere quella di introdurre un personal shopper digitale che offra consigli in streaming, mostrando al cliente i look indossati e i relativi prezzi. Alcuni brand che hanno già abbracciato questa idea sono stati OVS e Pinko. Ma non solo. C’è anche chi ha provato a sostituire il personal shopper con un’APP fondata sull’AIThe Yes. D’altro canto, la moda dovrà inevitabilmente affidarsi alla tecnologia: capi progettati e presentati in 3D, sfilate online, virtual fitting room e prototipazione 3D, molto presto, diverranno la normalità.

Infine, c’è chi ha deciso di lanciare una piattaforma on demand con delivery express: si tratta di P448, un negozio di sneakers a Milano che offre un’esperienza d’acquisto veloce e sostenibile, in tutta sicurezza. Per tutti coloro che non vogliono recarsi in negozio esiste, infatti, la possibilità di acquistare online il proprio modello di scarpa preferita e di riceverlo attraverso un servizio gratuito di delivery in bici, entro 90 minuti dall’ordine. 

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Qualcosa unisce le pubblicità post Covid dei brand (e le rende tutte un po’ simili)

Qualcosa unisce le pubblicità post Covid dei brand (e le rende tutte un po’ simili)

Avete notato come è cambiato il tono delle pubblicità nelle ultime settimane? I brand stanno comunicando in modo diverso, come è diverso il momento che stiamo vivendo a causa del Covid-19. Dopo il picco di emergenza sanitaria, il lockdown e i divieti imposti per oltre due mesi, entriamo nella Fase 2, una fase di progressiva riapertura in cui ci ritroviamo a fare i conti con una triste realtà emotiva ed economica.

L’Italia sente l’esigenza di una spinta verso la ripresa. Ci siamo fatti forza con la solidarietà, il “sentirci vicini rimanendo lontani”, le connessioni del quotidiano. Ma ora più che mai abbiamo bisogno di identificarci con valori essenziali e con messaggi positivi ed incoraggianti per affrontare questa nuova fase. Così anche la pubblicità segue una sorta di trend del post-Covid (e non solo in Italia).

pubblicità-post-covid-ikea-ninja marketing

I brand che ci accompagnano ogni giorno si connettono con il momento particolare e fanno sentire la loro vicinanza – o meglio – la loro responsabilità nei nostri confronti. Le pubblicità post Covid raccontano le nostre giornate passate in casa alla riscoperta di tante emozioni che avevamo forse messo da parte. I brand riconoscono nella tecnologia il ruolo fondamentale di connessione tra affetti e condivisione alternata tra momenti di svago e attività lavorative.

In questo momento ritroviamo infatti uno scenario “universale” il cui target è ampio, al limite del generico.

Momenti e spazi condivisi

Lo spot Chiquita celebra l’originalità tutta italiana dimostrata durante il lockdown. Una serie di foto e video che dietro un momento storico difficile mostra un vissuto simpatico, espresso da ognuno attraverso i propri spazi e impegnando la propria creatività. Un ringraziamento agli italiani, che non si sono arresi e che con la stessa forza e originalità sono pronti a ripartire. (Agency: Bitmama)

Sulle note della canzone My Favourite ThingsMulino Bianco ci ricorda che la felicità è fatta di piccole cose, dai gesti quotidiani ai piccoli vizi golosi. Le immagini raccontano questi ultimi mesi, ripercorrendo quegli attimi che ci hanno reso protagonisti nelle nostre case, allo stesso modo. Sono proprio questi momenti di positività su cui il brand si fa forza per restituircela, per accompagnarci al ritorno della normalità senza dimenticare di fare tesoro delle belle emozioni riscoperte. (Agency: Publicis)

Così anche Carrefour ci fa compagnia in casa dove, per noi amanti del buon cibo, gli ingredienti non sono un semplice elenco di prodotti ma un insieme di occasioni per tenerci uniti(Agency: Publicis)

Vicinanza ed empatia anche per Jeep che attraverso i volti dei lavoratori, l’inventiva e lo spirito combattivo degli italiani incita ad un nuovo inizio. L’augurio del brand è quello di una nuova ripartenza, la nostra e quella dell’economia italiana. (Agency: Leo Burnett)

I brand dunque ci spronano, assicurano la loro vicinanza, promettono di tenerci la mano in questa risalita. Forse per questo, per l’uso di parole rassicuranti, toni e musiche pacate, scene di convivialità, riconosciamo una certa somiglianza tra le pubblicità post Covid.

Del resto in questo particolare momento, l’insight che ritroviamo è lo stesso per tutti, per i diversi brand e anche per noi.

Alcuni spot però, almeno nella narrazione sono riusciti a distinguersi dagli altri, distaccandosi da una esagerata ricerca dell’effetto empatico e da una rincorsa ai buoni sentimenti. 

Pibblicità post-covid: ripartire consapevoli di emozioni riscoperte

Milano è una delle città sfortunatamente protagoniste di questa pandemia. Ma Milano non si ferma: come un leone colpito si rialza fiera, un passo alla volta, con la voglia di rialzarsi ancora più forte.

Il rapper Ghali, tra i diversi quartieri, ci racconta una città ferita, ferma ma impaziente di ricominciare, che si adatta, aspetta, si reinventa. L’alba è quella tanto attesa da una metropoli che si sveglia ancora assonnata ma con la determinazione di ripartire con le sue mille attività. Perché dopo il buio arriva sempre l’alba che si apre in “quel cielo di Lombardia, così bello quando è bello” (cit. Manzoni, Promessi Sposi). (Agency: TBWA)

Mentre il mondo è andato in pausa, le emozioni e le esperienze hanno continuato ad esistere in casa con ognuno di noi. Uno specchio di vita, di preoccupazioni, di cambiamento, di amore, di riscoperte raccontate proprio dai nostri spazi più familiari.

Ed è da lì che Ikea ci sprona a ripartire e continuare, anche se in modo diverso, quella vita che almeno dentro casa non si è mai fermata(Agency: DDB)

Lavazza inneggia al sentimento di un’umanità ritrovata, alla sensibilità individuale che fa eco nella comunità. Il rispetto e la responsabilità verso ciò che è diverso, verso il nuovo e quello che già esiste grazie anche al ruolo della tecnologia e della scienza: queste sono le parole tratte dal discorso finale di Charlie Chaplin nel suo film “Il Grande Dittatore”.

La ricerca di ciò che è giusto per tutti attraverso un consapevole annullamento degli stereotipi e delle prevaricazioni. Sembra strano realizzare che queste parole, attuali più che mai, siano state pronunciate nel 1940. (Agency: Armando Testa)

https://youtu.be/P9cxIxMatnE

C’è chi dice basta alla pubblicità post-Covid

Eppure, c’è sempre un rovescio della medaglia. Dopo esser stati bombardati da messaggi rassicuranti, ringraziamenti e celebrazioni di una nuova fase c’è qualcuno che mal sopporta queste pubblicità.

Sui social, da qualche settimana è diventata sempre più forte l’insofferenza verso questa retorica nella comunicazione. C’è infatti tutto un altro pubblico che non si riconosce in queste esagerate coccole dei brand. Un pubblico che prende voce e si rivolge ai brand, sgridandoli.

La campagna si riferisce all’esasperazione spettacolare di molte pubblicità ideate già prima del Covid ma che per alcuni, calza perfettamente con questo momento. (Agency: 5hort)




Antonio Cerasa (Cnr): «Le riunioni del futuro? Le faranno i nostri ologrammi»

Antonio Cerasa (Cnr): «Le riunioni del futuro? Le faranno i nostri ologrammi»

«Ci saranno ologrammi ovunque: in ogni videochiamata, in ogni webinar, in ogni lezione a distanza». Secondo Antonio Cerasa, neuroscienziato dell’Istituto per la Ricerca e l’innovazione Biomedica del CNR, «in un futuro non molto lontano saranno le nostre immagini tridimensionali a partecipare alle conversazioni e riunioni virtuali».

«Questo avrà dei vantaggi enormi», spiega lo scienziato. «L’olografia, infatti, non solo ci regalerà l’illusione della presenza nonostante i km di distanza – cosa che in parte già a riescono fare piattaforme come Zoom, Google Hangouts, Skype, FaceTime – ma ci consentirà di rappresentare la nostra figura fisica, attraverso le sue tre dimensioni, e di avere un’interazione più umana, più rilassante, più emozionante, e quindi più efficace, con il nostro pubblico».

In pratica, chiarisce Cerasa, «attraverso gli ologrammi mimeremo le nostre relazioni sociali, renderemo le conversazioni simili a quelle reali, arricchiremo il significato delle nostre parole, affiancheremo alla nostra voce anche la mimica facciale, la gestualità, l’espressività». Tutti questi elementi «che saranno finti ma non falsi», e che «lavoreranno sul coinvolgimento emozionale e sensoriale», aggiunge lo scienziato, «saranno importanti non solo perché renderanno (più) affascinante la nostra esperienza, ma anche perché attraverso questa fascinazione saranno in grado di catturare le nostra attenzione e ridurranno il rischio di annoiare e annoiarci».

La «Zoom fatigue» ci attanaglia

Oggi, sottolinea lo scienziato, è molto difficile rimanere concentrati guardando e ascoltando esclusivamente le immagini piatte che sembrano appese ai nostri schermi a due dimensioni. «Osservare e ascoltare delle talking heads – delle teste parlanti – non ci emoziona. Per questo con il trascorrere delle ore, aumenta la tentazione di cedere alle distrazioni», spiega Cerasa. «Se invece dobbiamo resistere a tutti i costi, il nostro cervello si impegna in una dura lotta, e alla fine ne usciamo stravolti».
E infatti, sono molte le persone che raccontano di arrivare a fine giornata completamente stremate e spossate dalla nuova routine imposta da webinar e videochiamate. Così tante che vari scienziati e studiosi hanno dovuto coniare un nuovo termine per descrivere questa sensazione: «Zoom fatigue», l’hanno chiamata. Letteralmente significa «affaticamento da Zoom», ma si applica anche alle videochiamate fatte con qualsiasi interfaccia.

Più distratti di un pesce rosso

La difficoltà a rimanere concentrati, però, non è (solo) un effetto collaterale della pandemia Covid-19. Uno studio del 2015 di Microsoft ha calcolato che la nostra soglia di attenzione è passata da dodici secondi (nel 2000) a otto secondi: in pratica, siamo più distratti di un pesce rosso, che è capace di concentrarsi per nove secondi.
«Solo che oggi», spiega Cerasa, «la nostra già precaria capacità di rimanere concentrati è aggravata dal continuo bombardamento di notifiche che arrivano da tutti i dispositivi elettronici. Queste interferenze rendono ancora più difficile l’esecuzione di alcuni lavori che richiedono lunghi periodi di attenzione sostenuta».

Inutile lavorare 4 ore di fila

Per questo motivo, chiarisce lo scienziato «dal punto di vista neurofisiologico è del tutto inutile, se non addirittura controproducente, cercare di rimanere concentrati per troppe ore consecutivamente: non solo perché il nostro cervello non ce la fa, ma anche perché quando la capacità di attenzione diminuisce per la stanchezza siamo più propensi a commettere errori».
Che senso ha, domanda Cerasa, restare fermi a fissare uno schermo (o un foglio o una macchina) se non riusciamo a rimanere concentrati e attenti? «Forse sarebbe meglio se imparassimo a parcellizzare il lavoro, così come le riunioni e le conversazioni online: funzioniamo meglio, cioè siamo più produttivi, più efficaci, più brillanti, se ci impegniamo per piccoli intervalli su alcuni “tasks” specifici». Cerasa lo spiega bene nel suo libro Expert Brain (FrancoAngeli), dedicato a quegli individui che hanno sviluppato una particolare abilità ed eccellono in essa, al punto che il loro cervello si è modellato di conseguenza (tra cui giocolieri, musicisti, scacchisti e chef).

Se siamo concentrati lo dicono le nostre ciglia

Tutto bello. Ma, specie in Italia, ci sono ancora parecchi datori di lavoro che avvertono un forte bisogno di controllare i propri dipendenti e collaboratori. Come fare allora? «Se un datore volesse misurare il grado di attenzione di un suo dipendente potrebbe installare telecamere che misurano i movimenti degli occhi (le saccadi)», dice Cerasa. «Quando siamo concentrati, o stiamo compiendo uno sforzo cognitivo, i nostri occhi si muovono in un modo completamente differente rispetto a quando siamo distratti o assonati. Non mi stupirebbe se qualcuno lo stesse già facendo». Certo, aggiunge, «può apparire inquietante, ma questo dato potrebbe essere utile per capire qual è la durata ottimale delle videochiamate, delle riunioni e potrebbe essere utile anche per rendere più efficaci le lezioni erogate tramite di didattica a distanza». Lo sanno bene all’Università degli studi di Milano Bicocca, dove una equipe di ricercatori dei Dipartimenti di Psicologia, Informatica e Scienze della Formazione, coordinati da Roberta Daini, sta studiando il rapporto tra la capacità di mantenere l’attenzione nel tempo e le caratteristiche delle lezioni a distanza e una parte del progetto riguarderà proprio la registrazione dei movimenti oculari.

La strada però è ancora lunga

Comunque, prima di vedere ologrammi ovunque, bisognerà attendere ancora un po’. C’è un elemento che ne frena la diffusione massiccia: al momento i costi sono ancora piuttosto alti. «Ma l’evoluzione della tecnologia (soprattutto della velocità di trasmissione dei dati ) e dei contenuti digitali potrebbero favorirne la diffusione, a casa e sul lavoro». La strada è avviata: oggi sono già moltissimi i progetti che hanno richiesto l’impiego di ologrammi: dagli eventi aziendali alle convention di politica, dalle presentazioni di libri e film, alle lezioni alle università, fino alle sfilate di haute couture.