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Ambiente, sostenibilità ed eco-mafie: il punto di vista dello Stato

AMBIENTE, SOSTENIBILITÀ ED ECO-MAFIE: IL PUNTO DI VISTA DELLO STATO, Massimiliano Corsano

Comandante Corsano, qual è il ruolo dei Nuclei che lei dirige e più estesamente dei Reparti dell’Arma impegnati a difesa dell’ambiente?

Il Comando Carabinieri per la Tutela Ambientale assolve principalmente funzioni di polizia giudiziaria con la finalità di vigilare, prevenire e reprimere i reati a danno del patrimonio ambientale, e pone in essere attività di rilevanza strategica nel settore del controllo della sicurezza ambientale. Per “criminalità ambientale” si intende un fenomeno di preoccupante estensione in quanto dotato di una intrinseca trasversalità che coinvolge ambiti di interesse sempre più variegati oltre che soggetti o consorterie sempre più evoluti e, pertanto, si fa riferimento all’insieme di condotte contrarie alla legge e direttamente lesive di un superiore diritto della persona che comprendono anche l’integrità fisica e psichica, oltre che la salvaguardia della qualità della vita.

A quali risultati ha portato questa vostra attività?

A confermare il coinvolgimento non solo della criminalità organizzata di tipo mafioso, quanto invece l’attivo operare di gruppi imprenditoriali di spessore (con interessi commerciali diversificati) che, per la materia specifica, si avvalgono della consulenza e delle prestazioni di figure di elevata professionalità, evitando spesso i contatti diretti con esponenti mafiosi. Tale ruolo appare vieppiù consolidarsi nel contesto della gestione illecita del ciclo dei rifiuti ove è frequente l’intervento diretto di “imprese criminali” le quali perseguono, attraverso l’esercizio di attività economiche, illeciti profitti, acquisendo ingenti quantitativi di rifiuti – ignorando scientemente quanto previsto dalle autorizzazioni – anche a prezzi fuori mercato, omettendo successivamente di sottoporli ai necessari trattamenti. L’esame delle attività investigative mostra come il traffico illecito dei rifiuti rientri tra le scelte d’impresa volte alla indebita riduzione dei costi e conseguente alterazione dei vprezzi di mercato, in spregio alle leggi che tutelano la libera concorrenza e loperato delle aziende oneste. È ormai noto il ruolo diretto delle grandi organizzazioni criminali nel “business ambiente” soprattutto a causa dei molteplici ambiti nei quali è possibile diversificare le infiltrazioni illegali, nonché per l’imponente quantità di denaro che gravita intorno al patrimonio ambientale del Paese. Il traffico e lo smaltimento illecito dei rifiuti, l’inquinamento dei corsi d’acqua e delle sorgenti, l’abusivismo edilizio ed il settore delle energie rinnovabili sono i principali settori nei quali le imprese criminali e la malavita organizzata hanno intravisto la possibilità di ingenti guadagni, anche per mezzo di connivenze eccellenti. Attratta dai grandi flussi di denaro e dai menzionati appoggi, la criminalità che opera anche nel settore ambientale ha avuto modo di diffondersi rapidamente su tutto il territorio nazionale e, sempre più frequentemente, di trovare validi riferimenti per proseguire oltre frontiera i propri traffici.

È cambiato qualcosa durante l’emergenza Covid?

Le attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti sono state negli anni agevolate da una serie di congiunture nazionali e sovranazionali come la cronica difficoltà di reperire siti di stoccaggio o l’inadeguatezza della legislazione di alcuni paesi esteri, che hanno determinato implicitamente “condizioni favorevoli” all’insorgere ed al consolidarsi di atteggiamenti criminali. Un esempio di queste congiunture è stata la chiusura del mercato cinese all’importazione di imballaggi e materiali riciclabili in genere – sono 24 le tipologie di materiale inizialmente bandite – che con il conseguente intasamento dei magazzini delle ditte operanti nel settore, private di sbocchi sul mercato, situazione che è stata ulteriormente aggravata dai cali dei livelli produttivi globali derivanti dalla pandemia da COVID-19. Senza entrare nel dettaglio di ciò che sta emergendo, si può certamente affermare che, come spesso avviene, in situazioni di crisi di carattere economico si creano degli spazi che vengono occupati dalla criminalità, ed è ciò che si sta verificando anche in materia ambientale.

Di quali strumenti disponete nel concreto per intercettare, sanzionare e bloccare attività criminose sul fronte ambientale?

L’apparato di norme utili per questo fine è imponente e articolato, tanto che alcune fattispecie di reato riguardanti la c.d. “ecomafia” sono state inserite tra le materie di competenza della Direzione Distrettuale Antimafia. Parliamo spesso in questi casi di veri e propri “delitti d’impresa”, dove l’ingiusto profitto ottenuto mediante la violazione delle normative ambientali rappresenta in un certo senso lo spread tra un’impresa produttiva in termini economici ma fondata sul malaffare e un’impresa non così concorrenziale, poiché onesta. Stante la rilevata poliedricità del fenomeno della criminalità ambientale, la expertise investigativa dei Carabinieri che si occupano di tutela dell’ambiente deve dunque necessariamente estendersi ad ulteriori settori quali la conoscenza delle dinamiche e della normativa di funzionamento della Pubblica Amministrazione, degli appalti, dell’esecuzione di Grandi Opere Pubbliche e delle fonti rinnovabili non fossili (eolico, fotovoltaico, geotermico, biomassa, biogas, etc.). Un’ulteriore sfida contemporanea è costituita dalla “misurazione” degli impatti ambientali, aspetto che tra l’altro ha un’influenza notevole anche sulle modalità gestionali in ambito aziendale.

Può illustrare brevemente, come esempio, una tipologia di inchiesta realmente seguita dai vostri uffici e che “faccia scuola” sul fronte del contrasto alla criminalità ambientale?

Il settore che ci ha maggiormente impegnati di recente, e non solo da un punto di vista investigativo ma anche e soprattutto da un punto di vista analitico, è certamente quello degli incendi, argomento particolarmente sensibile. In tutta Italia infatti, a partire dal 2016, ha assunto sempre maggiore rilevanza il fenomeno degli incendi di natura dolosa ai danni di impianti dediti – a vario titolo – alla gestione dei rifiuti, la cui incidenza è apparsa fin da subito come evidentemente sintomatica di una diffusa speculazione criminale inerente al business dei rifiuti. La diffusione del fenomeno ha infatti fatto sì che l’attenzione di tutti i soggetti attivi nella difesa della legalità ambientale sia passata dal tema “classico” della combustione illecita, oggetto di provvedimenti legislativi ad hoc, al tema dell’interdipendenza tra eventi incendiari e mancata corretta chiusura del ciclo dei rifiuti. Dal punto di vista operativo le attività condotte dai NOE del Comando Carabinieri per la Tutela Ambientale hanno dimostrato – in linea con quanto più volte sostenuto dalla Procura Nazionale Antimafia – come tali fenomeni possano essere inquadrati, più che nell’ambito di dinamiche riconducibili alla criminalità organizzata di stampo mafioso, come spia della sussistenza, a monte, di importanti traffici illeciti di rifiuti. Le (criminali) imprese di settore, infatti, per evidenti ragioni connesse con lo spregiudicato perseguimento dell’illecito profitto, acquisiscono ingenti quantitativi di rifiuti – ignorando scientemente quanto previsto dalle autorizzazioni – anche a prezzi fuori mercato, omettendo successivamente di sottoporli ai necessari trattamenti, avviando così a smaltimento e/o riciclo materiali “intonsi” ai quali, attraverso la nota tecnica del girobolla vengono assegnati codici EER (I codici dell’Elenco Europeo dei Rifiuti) del tutto fasulli. La illecita esasperazione di simili condotte comporta, al fine di tagliare a monte la filiera dei costi nonché di evitare i controlli delle autorità preposte ed il rischio di essere soggetti – oltre alle conseguenze penali – agli oneri di bonifica, l’eliminazione a mezzo fuoco dei materiali giacenti.

Strettamente connesse agli incendi (ma palese anticamera di possibili ulteriori episodi) sono anche le condotte delittuose di alcuni soggetti spregiudicati che – allo scopo di far perdere la tracciabilità dei rifiuti – sono alla spasmodica ricerca di capannoni industriali in disuso, al cui interno stipare migliaia di tonnellate di materiali di cui disfarsi ad ogni costo. Siti che diventano così delle vere e proprie bombe ecologiche, i cui futuri costi di smaltimento ricadono interamente sulla collettività. A questo proposito, la pressione investigativa – scaturita dal monitoraggio eseguito sul fenomeno degli incendi – esercitata nel settore da parte dei NOE del Comando Carabinieri per la Tutela Ambientale è stata davvero incessante, con esecuzione di un gran numero di ordinanze di custodia cautelare e sequestri di beni in tutta Italia, a carico di soggetti responsabili di “attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti”, nell’ambito di manovre investigative coordinate dalle DDA territorialmente competenti.

Qual è lo stato dell’arte in Italia su questi temi dal punto di vista della cultura, dei cittadini e delle imprese? C’è ancora strada da fare, e su quali aspetti in particolare?

L’esperienza maturata nel settore delle investigazioni in materia di criminalità ambientale ha consentito di effettuare un innovativo risk assesment del settore e di acquisire una approfondita visione delle dinamiche di mercato che ne regolano il funzionamento. E l’utilizzo del termine “mercato” va opportunamente sottolineato. La visione del reato ambientale come “reato mezzo”, utilizzato per il raggiungimento di un “fine” essenzialmente economico comporta di fatto un approccio alla materia che si focalizzi non tanto su aspetti di natura meramente ed esclusivamente ambientalista bensì su dinamiche di natura – appunto – economica, giacché le forme di inquinamento che derivano dalle attività illecite degli eco-criminali rappresentano sovente degli effetti indiretti, si potrebbe dire collaterali, di condotte mirate a tutt’altro. In senso metaforico, sono manifestazioni sintomatiche di una patologia, rappresentata dalla criminalità ambientale, al punto che la definizione inglese di Pollution Crime appare riduttiva e non adeguatamente significativa rispetto alla più consona ed esaustiva Environmental Crime.

Anche la – ormai annosa – questione della equiparazione tra la c.d. “ecomafia” e la criminalità organizzata di stampo mafioso nostrana, in tutte le sue varie sfaccettature geografiche, va chiarita; sostenere che l’ecomafia è una forma di criminalità imprenditoriale ancor più e ancor prima che mafiosa, non significa sminuirne la portata. Una simile affermazione, che deriva da decenni di investigazioni mirate nel mondo ecocriminale, semmai amplifica la portata del fenomeno, accende un ulteriore riflettore sulla sua pervicacia e pericolosità, poiché significa affermare che la controparte non ha una fisionomia ben definita (come è appunto quella di stampo mafioso, per quanto poi ben integrata nel tessuto sociale) ma appare quanto mai sfuggevole. Ciò che la Camorra forse per prima scoprì, ossia le potenzialità economiche del mondo dei rifiuti ben definite dalla sintomatica affermazione di Gaetano Vassallo, “Ministro dei Rifiuti” dei Casalesi e braccio destro del boss Bidognetti, secondo la quale “i rifiuti meno li tocchi e più valgono”, è ormai patrimonio comune anche di una miriade di pseudo-imprenditori del settore, che avvelenano i tessuti economici tanto quanto i territori nei quali imperversano. E siccome spesso la criminalità economica è ben più pericolosa di quella di stampo mafioso (ovviamente quando non sono la stessa cosa) si comprende facilmente come in realtà, non limitandosi a parlare solo di “mafia” in senso stretto, si stia cercando di non ridurre ad una semplicistica equiparazione una fenomenologia ben più caleidoscopica, e dunque pericolosa. Anzi, talvolta tanto più pericolosa quanto più elegante è l’abito indossato da chi si macchia di certi crimini.

Ciò detto, non si vuole né si deve in alcun modo colpevolizzare l’intera classe imprenditoriale: si vuole semmai, enfatizzando la portata e la natura economica di tali reati, sottolineare le difficoltà di chi opera nel settore in maniera assolutamente lecita, trovandosi a dover fronteggiare la concorrenza spietata di chi agisce sul medesimo mercato a prezzi palesemente irragionevoli. E proprio i prezzi rappresentano un indicatore fondamentale nella valutazione del settore ambientale, che non a caso è stato definito più volte con il termine “mercato”. Molto spesso, infatti, ci si limita a valutare al massimo le dinamiche dei prezzi che regolano la tariffazione sui rifiuti – la nota TARI – tralasciando quasi completamente l’aspetto fondamentale in ogni settore economico: la profittabilità.

Comportamenti scorretti oltre che danneggiare l’ambiente possono anche danneggiare la reputazione delle imprese: le aziende, dal suo punto di vista, hanno questa sensibilità?

In un momento storico nel quale parole come circular economy, sostenibilità, green new deal sono di moda – e talvolta ahimè rappresentano esclusivamente un vezzo per aumentare la c.d. brand reputation in assenza di provvedimenti ed iniziative concrete ed effettive – è necessario affrontare il tema in maniera concreta, giacché – piaccia o meno – trattandosi di un mercato, non si può realisticamente credere che gli imprenditori della galassia ambiente e rifiuti possano rinunciare al profitto. Infatti dietro una miriade di annunci sulla sostenibilità e sulle scelte “green” c’è il concreto rischio che si celino in realtà attività meramente propagandistiche volte ad attirare investimenti e risorse attraverso una visibilità derivante da forme di pubblicità e di utilità sociale ingannevoli, e questa sarà una delle nostre prossime frontiere operative a tutela delle aziende sane.

A titolo esemplificativo, uno studio effettuato attraverso uno screening del web e pubblicato il 28 gennaio 2021 dall’UE ha acceso un importante riflettore sul tema del c.d. greenwashing arrivando a dimostrare come circa il 42% degli spot in materia di sostenibilità siano esagerati, falsi o ingannevoli. Le aziende al giorno d’oggi non possono più permettersi di nascondersi dietro al falso mito della scarsa conoscenza, in quanto la matrice ambientale è divenuta ormai un tema – fortunatamente – imprescindibile in primis in un’ottica di sostenibilità economica. Sono quanto mai centrati i criteri utilizzati dalla Suprema Corte nel declinare la c.d. “epistemologia dell’incertezza” in contesti di rischio incerto (es. utilizzo di sostanze chimiche “emergenti” come i PFAS o PFOA, oggi tristemente agli onori delle cronache per le attività investigative svolte dai NOE Carabinieri di Treviso ed Alessandria) secondo le seguenti tre categorie: orbita della prevedibilità; la figura dell’imprenditore-modello; l’evitabilità dell’evento. Inoltre, il “dovere di sapere” e quindi di acquisire informazione sui rischi è di pertinenza delle imprese ed è un dovere che va costantemente implementato nel contesto del più generale dovere degli Enti di auto-organizzarsi efficacemente sul terreno della prevenzione del rischio-reato. La diligenza esigibile dipende inevitabilmente dalla conoscenza del rischio, secondo il modello normativo consolidatosi nella materia della sicurezza sul lavoro. Si rende quindi necessaria – in fase di risk assessment – una “analisi endoscopica” della realtà e del contesto d’impresa, considerando in via prioritaria che il principio dell’azione ambientale, costituendo un obbligo gravante sulle organizzazioni complesse, impone la più ampia tutela ambientale, degli ecosistemi e del patrimonio culturale, secondo i principi “chi inquina paga”, di precauzione, di azione preventiva e di correzione prioritaria alla fonte dei danni ambientali.

Siete impegnati anche nella formazione delle nuove generazioni su temi ambientali?

L’Arma dei Carabinieri è da sempre particolarmente attenta al tema del contatto con le nuove generazioni, basti pensare alle iniziative che annualmente si tengono presso gli Istituti scolastici di ogni livello in materia di cultura della legalità e che vedono coinvolte tutte le componenti dell’Istituzione, a iniziare dalla fondamentale figura dei Comandanti di Stazione. In tale ottica, i temi ambientali stanno assumendo sempre maggiore rilievo e il confronto con le nuove generazioni, particolarmente attente all’argomento, rappresenta spesso anche un momento di arricchimento per chi opera in questo settore e lo vive in veste investigativa. Da diversi anni ormai prendiamo quindi parte a numerosi eventi anche al di fuori degli ambiti scolastici e accademici, per condividere il nostro patrimonio conoscitivo con i nostri stakeholders e allo stesso tempo per ascoltare le esigenze dei cittadini, verso i quali sentiamo la forte responsabilità di dover fornire le migliori risposte possibili in materia di tutela dell’ambiente e quindi della salute.

Analogamente, da tempo, il Comando Carabinieri per la Tutela Ambientale è impegnato ad esercitare la propria leadership in numerosi consessi internazionali e progetti multilaterali (INTERPOL, EUROPOL, ENVICRIMENET, EMPACT, OPFA Waste), anche allo scopo di condividere su larga scala la propria expertise e consentire di fronteggiare adeguatamente la minaccia della criminalità ambientale oltre frontiera, sia direttamente che attraverso collaborazioni e progetti operativi con gli Stati aderenti. Sono sfide ambiziose, ma siamo fortemente ingaggiati in questi scenari, e ottimisti sui risultati, sia per quanto fin qui ottenuto, che per quello che riusciremo a fare in futuro, anche grazie alla dedizione ed alla straordinaria professionalità delle donne e degli uomini in divisa quotidianamente impegnati nella lotta contro le varie forme di criminalità.


Intervista a cura di Luca Poma, Professore in Reputation Management all’Università LUMSA di Roma, per il Blog www.creatoridifuturo.it




Post-Pandemic Leadership: come cambia la gestione d’impresa al tempo del Covid-19?

La maggior parte delle aziende tradizionali sono overmanaged e underled. Questa tesi parte dal presupposto che il management abbia a che fare con “la riduzione del rischio e della complessità”, contrastabili con il rigore nella gestione operativa e con la definizione di processi. I quali processi per loro stessa natura tendono a ridurre il margine di arbitrarietà e a generare economie di scala, di scopo e di apprendimento. Seguendo questa posizione, la leadership avrebbe invece a che fare con il cambiamento, con la trasformazione, e sarebbe cruciale nelle fasi in cui le evoluzioni dello scenario di riferimento rendono necessario esprimere una nuova visione. 

Negli ultimi anni abbiamo vissuto un importante cambio di paradigma, spesso definito semplicemente “trasformazione digitale”, che ha indotto tutte le aziende nate in epoca industriale a un darwiniano processo di adattamento. Il che non è stato affatto indolore. È chiaro che al crescere delle cosiddette legacy – quel groviglio di risorse tangibili e intangibili, processi, valori, consuetudini, tipico delle aziende consolidate – cresce la difficoltà di effettuare una virata quando si scorge una tempesta all’orizzonte.  

Ebbene, nonostante il mare fosse già molto mosso e il vento piuttosto teso per effetto della summenzionata trasformazione digitale, è arrivata una tempesta di ancora maggiore intensità: la tempesta perfetta, come molti non hanno esitato a definirla. Negli scorsi decenni avevamo già vissuto delicati periodi di recessione dovuti a crisi della domanda (ad esempio la contrazione dei consumi che si è verificata post 11 settembre), crisi dell’offerta (si pensi alle fasi in cui il prezzo dei servizi schizza periodicamente alle stelle per via di un balzo nel costo del petrolio) o a crisi finanziarie (ad esempio la crisi scaturita nel 2008 dal default di Lehman Brothers). Ciò che però nessuno di noi aveva mai vissuto è uno shock simultaneo di tutti e tre questi ambiti, per di più sommato a tutte quelle criticità operative che moltissime aziende stavano affrontando per adeguarsi al nuovo paradigma digitale. La tempesta perfetta appunto.

La sensazione è che l’entità dell’evento che abbiamo vissuto negli ultimi 5 mesi sia stata tale da aver causato un cambiamento climatico permanente; perlomeno in alcuni ambiti. Abbiamo dunque voluto approfondire il tema con coloro che per ruolo e responsabilità sono stati chiamati a governare le rispettive navi in questa delicata transizione. Dagli interessantissimi confronti con gli oltre 50 top manager con cui abbiamo avuto il privilegio di discutere questo tema, emerge con una certa chiarezza che il periodo richieda una fortissima dose di “leadership” piuttosto che di “management”. Ovvero che questo sia il tempo in cui far emergere la capacità di esprimere una visione nuova del proprio business e del proprio modello operativo, per almeno alcuni versi diversa dalla precedente, che consenta alle aziende di tornare a mettere radici nel cosiddetto new normal, qualunque esso sia. 

Nello specifico sono emersi almeno 5 temi ricorrenti, che abbiamo voluto sintetizzare in altrettanti princìpi. Ve li proponiamo in un’accezione che vuole essere al contempo un auspicio, un’esortazione e un’indicazione della rotta da seguire. Vogliate dunque leggere i nostri BE come l’equivalente italiano di “siate”. 

BE PHYGITAL

In Italia, in tempi “normali”, acquistano on line per la prima volta tra le 800 e le 900 mila persone all’anno. Nei 100 giorni del lockdown oltre 2,1 milioni di persone hanno optato per soluzioni di commercio digitale. Questo significa aver superato una serie di barriere psicologiche che inevitabilmente genereranno cambiamenti in altri settori. Questi novelli consumatori phygital, che hanno sperimentato per la prima volta la convenienza (nell’accezione più ampia del termine) delle soluzioni offerte dal digitale, impareranno rapidamente a utilizzare la funzione di digital wallet nativa del proprio smartphone e a scannerizzare codici per pagamenti smart, opteranno con maggiore regolarità per le casse automatiche laddove disponibili, apprezzeranno opzioni on-demand nei diversi servizi di cui fruiscono, etc.

Già da tempo, per descrivere l’ibridazione tra digitale e fisico, molti studiosi e analisti hanno fatto ricorso alla metafora della mangrovia, capace di prosperare nelle acque salmastre, al crocevia di mari e fiumi. Ebbene, la sensazione è che questo processo di contaminazione e ibridazione abbia vissuto una piena tale da aver cancellato del tutto, per molti di noi, la percezione dicotomica dell’acqua dolce e dell’acqua salata. Un gran numero di immigranti dell’era digitale, facendo di necessità virtù, ha imparato a mettere radici nelle acque salmastre. E questo è un processo irreversibile, come ha sostenuto con forza l’amministratore delegato di uno dei principali attori della GDO nazionale.

BE AGILE

Lo smart working è possibile e ha indubbi benefici, ma bisogna costruire “use case” che bilancino la presenza in ufficio e il lavoro da remoto, in modo da mitigare gli inevitabili effetti collaterali connessi con l’impossibilità di confrontarsi di persona con i colleghi. La maggior parte dei top manager ha sottolineato come l’assenza di un manuale delle istruzioni e l’impossibilità di replicare soluzioni altrui o schemi pregressi, debba indurre i leader d’azienda ad abbracciare una pianificazione agile e flessibile. L’approccio, ci ha detto l’amministratore delegato di una multinazionale nell’ambito dei servizi, deve essere quello tipico delle startup che, con umiltà, determinazione e perseveranza perseguono il giusto modello organizzativo e scolpiscono la propria value proposition giorno dopo giorno, mettendola costantemente in discussione. Chiaramente la criticità principale è rappresentata dal dover incedere tenendo conto delle radici che hanno consentito all’azienda una crescita rigogliosa nel precedente contesto. Il direttore generale di una multinazionale del Food&Beverage ha sottolineato come i processi di apprendimento delle mansioni, le dinamiche relazionali e i rapporti gerarchici cui siamo abituati sul posto di lavoro dovranno essere ripensati.

BE ANTIFRAGILE

Coerentemente con quanto sostenuto da Nassim Nicholas Taleb, ci sono congiunture in cui la resilienza (capacità di mantenere l’operatività del sistema a fronte di uno shock) non è sufficiente, occorre puntare all’antifragilità (la capacità di prosperare nel caos, arrivando a creare un vantaggio competitivo). Caos, ricordiamolo, è una parola greca che esprime la risultante di velocità e incertezza. Il CEO di una multinazionale del largo consumo, il Presidente di un colosso dell’automotive e il CEO di una utility company ci hanno raccontato di aver costituito, nel pieno della crisi legata al Covid-19, task force dedicate alla definizione di diversi scenari per il post lock-down. L’ambizione di queste aziende è stata appunto di ricercare una sorta di inerzia dinamica, in grado di accelerare la ripartenza non appena le condizioni lo avessero consentito.

BE EXPONENTIAL

La velocità del cambiamento, reso vorticoso da questa ennesima accelerazione, è tale che le aziende non possono contare solo sulle proprie forze per innovare. L’amministratore delegato di un’azienda di servizi alla mobilità ci ha ricordato quanto sia cruciale in questa fase costruire eco-sistemi, rifuggendo la tentazione tipicamente italiana di ridurli a ego-sistemi. Dobbiamo collaborare con terze parti – siano esse università, centri di ricerca, Startup, altre aziende – alla costruzione di sistemi in cui le singole parti si consorziano più o meno stabilmente per erogare servizi ad alto valore aggiunto per il cliente finale. Due leader del segmento automotive ci hanno ricordato che in alcuni casi questo può voler dire ricorrere alla cosiddetta co-optation ovvero alla cooperazione temporanea con uno o più concorrenti, unendo le forze per il bene comune. Crediamo che questo debba essere un momento di costruzione e solo in parte di ricostruzione. Un momento in cui c’è poco spazio e poco apprezzamento per l’individualismo. Le aziende e le istituzioni devono concepirsi come piattaforme fluide, in grado di esprimere una value proposition esponenzialmente più grande di quella che potremmo proporre singolarmente. 

BE CURIOUS

Secondo la totalità dei professionisti intervistati, la capacità di abbracciare il cambiamento, l’attitudine a vivere l’incertezza in modo costruttivo anziché ansioso e la passione per il proprio lavoro sono elementi chiave, in questo frangente più che mai. In particolare, due amministratori delegati del mondo FMCG hanno sottolineato come anche in questo caso l’ibridazione sarà cruciale. Una miscela di soft e hard skills. La fusione di intuito, passione, imprenditorialità, creatività, dati e tecnologia. Una parola su tutte è emersa con straordinaria costanza in tutti i confronti: curiosità. 

Questi cambiamenti epocali ci spingono a riscrivere completamente la grammatica dei modelli di leadership. I nuovi leader dovranno agire perseguendo un modello che definiremo 5C: CARE (attenzione alle persone); CAUSE (un purpose che vada al di là dei risultati finanziari di breve periodo); COLLABORATION (all’interno e all’esterno dell’azienda, includendo le parti sociali, le Istituzioni, i concorrenti); CREATIVITÀ (il periodo richiede una certa dose di ‘improvvisazione’, l’applicazione della creatività nell’accezione più ampia possibile); CORAGGIO (agire, mettendo in discussione le proprie certezze, anche senza avere la possibilità di calcolare tutti i rischi e senza poter disporre di tutte le variabili).

Il grand reset, la grande ripartenza, sarà possibile solo se affronteremo la sfida che ci troviamo di fronte pensando a un futuro in cui le aziende e le istituzioni coniugheranno il perseguimento dei propri fini con la generazione di valore condiviso. I leader di oggi devono agire con l’ambizione di offrire a chi verrà dopo di noi una prospettiva di prosperità che al momento è purtroppo un privilegio per pochi. Abbiamo vissuto per oltre cento giorni un presente sospeso, in cui il nostro pianeta di ha ricordato quanto la globalizzazione debba essere vissuta in modo olistico, esaltandone i benefici ma senza dimenticarsi delle responsabilità che siamo chiamati ad assumerci. Pablo Neruda ha scritto: “Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati”. Ora tocca a noi. Non abbiamo scuse.

NB
Le riflessioni contenute in questo articolo sono il frutto di una serie di conversazioni con oltre 50 amministratori delegati e direttori generali internazionali che operano in diversi settori. 

Paolo Gallo è autore, Executive Coach & Keynote Speaker.
Giuseppe Stigliano è CEO di Wunderman Thompson Italy (WPP Group).




L’ex-silenzio di Mario Draghi

Non mi è passata nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di influenzare con un articoletto il presidente del Consiglio dei Ministri (che non mi è venuta nemmeno ai tempi in cui prendevo uno stipendio dallo Stato per farlo).

Mi riferisco all’1 marzo con un titolo su queste colonne (Comunicazione istituzionale. Il presidente Draghi non ha più parlato agli italiani dal 17 febbraio. Sia permesso un colpo di tosse) che, pur se per primo, si incrociava con un pensiero altrettanto prudente di altri e, nel mio caso, con la riflessione che la “domanda di istituzione e di spiegazione” che il Paese esprime dall’inizio della pandemia non poteva attendere il “fare tutte le cose” attorno a cui il premier aveva dichiarato di considerare legittima la comunicazione.

Evidentemente il premier aveva valutato che una certa discontinuità era necessaria per inquadrare anche il “relazionale pubblico” con le varianti imposte dalla crisi di governo. Due varianti mi sembrano ora ancora più chiare. Una: non contro la politica, ma senza i riti dell’annuncismo e della rissosità. Due: non per eterne rassicurazioni, ma anche per responsabilizzare nei rischi collettivi.

E così il 18 e il 19 marzo un “uno-due” in grande stile.

A Bergamo il 18 marzo in quelle difficilissime circostanze che sono le liturgie civili.

A Roma il 19 marzo per rompere il ghiaccio con chi avanzava il sospetto del suo sfuggire alle domande dei giornalisti.

Passando in rassegna le opinioni anche di chi non si è limitato al nostro cauto “colpo di tosse”, politici, giornalisti, operatori socio-sanitari hanno in larghissima maggioranza derubricato l’idea che Draghi non voglia o non sappia parlare.

Persino Marco Travaglio che mantiene il suo posizionamento di vedova insofferente (del governo Conte), fino a sostenere che Conte e Draghi dicono le stesse cose e fanno le stesse cose (mah…), almeno sulla capacità retorica non mantiene ombre. “L’ho sempre detto che Draghi parla e parla anche molto bene”.

La leader dell’unica opposizione, Giorgia Meloni, ha l’intelligenza di togliere l’argomento dalla lista dei dissensi, per avere mano libera su ciò che realmente costituisce dissenso.

Insomma, incassiamo una soddisfazione morale ma solo per lo scopo di poter riprendere l’argomento generale della linea sostanziale della comunicazione istituzionale del governo Draghi in rapporto ai predecessori.

A Bergamo Draghi ha fatto qualcosa in più che segnalare una discontinuità formale. Ha detto: “Siamo qui per promettere ai nostri anziani che non accadrà più che le persone fragili non vengano adeguatamente assistite e protette. Solo così rispetteremo la dignità di coloro che ci hanno lasciato”.

In conferenza stampa a Roma – chiamando con il suo nome il “condono” ma contenendolo all’interno di un basso tetto di reddito – ha aperto un fronte di discontinuità anche nei confronti di componenti non efficaci della amministrazione: “Questo azzeramento delle cartelle da un lato permette di perseguire la lotta all’evasione con più efficienza. Ma è ovvio che in questo caso lo stato non ha funzionato, accumulando milioni e milioni di cartelle. Per questo ci vuole una riforma delle modalità di riscossione delle cartelle. Il vero sollievo è una riforma del meccanismo”.

Ancora due annotazioni.

Pochissime parole per togliere la questione del Mes da un dibattito formale di schieramenti: “Con gli attuali tassi di interesse non è una priorità“.

Altrettanto chiara e secca la rivendicazione di autonomia pur correlata al suo noto europeismo: “Siamo un paese fondato su europeismo e atlantismo, i nostri rapporti internazionali non sono in discussione. Se ordineremo vaccini per conto proprio? Vediamo. Se il coordinamento europeo non funziona dobbiamo essere pronti. È quello che ha detto la Merkel ed è quello che dico anch’io“.

Poi ci sono le annotazioni di stile, l’impeccabile assenza di accenti, la misura dell’andare a braccio ma su piste meditate, la leggera ironia, le piccole sdrammatizzazioni che risvegliano (questioni generazionali) i tocchi di classe dell’Avvocato. Ma questa è un’altra storia.

Per la sostanza politica del difficile momento che attraversiamo siamo lieti del titolo di oggi: l’ex-silenzio di Mario Draghi. Non ci frena il meraviglioso articolo di Giuliano Ferrara Il silenzio di Draghi inizia ora (Il Foglio 20-21 marzo) che ragiona di filosofia dell’agire e quindi di filosofia del potere sulla trama del “dire e non dire” in cui ipotizza il futuro comunicativo prossimo del premier da intendersi come una “dissimulazione onesta”.

E’ un bel terreno, quello dell’editoriale di Ferrara. Ma è anche un’altra partita. Ora il tratto pericolosamente elitario, rispetto a un quadro di solitudini che la non rammendata politica italiana non riesce nemmeno a intercettare, il punto di “accompagnamento” è un punto fermo. Sul sottile terreno di analisi a cui Ferrara invita, ci sta Draghi come qualunque leader contemporaneo di livello. Figuriamoci un banchiere formato dai gesuiti.




Il Mise ha nascosto un furto di dati dai suoi sistemi per mesi

Che succede al ministero dello Sviluppo economico, che un mese fa ha resettato le password dei dipendenti, in seguito a una “possibile violazione di sicurezza”, finora mai divulgata, che “potrebbe aver portato l’accesso non autorizzato a dati personali di dipendenti, quali nomi utente e password di dominio, indirizzi email, codici fiscali, numeri di telefono”, rivela un’email ottenuta da Wired. Una debacle informatica, di cui Wired apprende da fonti qualificate e in seguito alla quale gli uffici tecnici di via Molise hanno dovuto accertare l’identità di alcuni utenti “tramite video”, nel caso in cui non fossero già stati “precedentemente certificati”. Misure di estrema cautela dunque, in conseguenza di un data breach probabilmente scoperto alla fine del 2020 – le informazioni più aggiornate tra quelle sottratte risalgono proprio a novembre – nel quale sono state compromesse le credenziali d’accesso dei dipendenti e che fa alzare l’allerta in uno dei palazzi più importanti della Repubblica italiana.

Nonostante la portata dell’incidente informatico, per il quale sono stati avvisati “tutti i dipendenti”, confermano da via Molise, la notizia non era mai emersa prima. Ma a rivelarlo è proprio quella mail, inviata nella terza settimana di febbraio e di cui Wired ha ottenuto una copia, con la quale si chiede al personale di modificare la password di accesso ai sistemi informatici del ministero e, qualora in uso anche su altri servizi online, di liberarsene definitivamente. 

Per le vie ufficiali il ministero gioca al ribasso, senza confermare né smentire l’attacco informatico e spiegando che la comunicazione era “preventiva” e unicamente volta a informare i dipendenti su quali siano le cautele da adottare per evitare di cadere vittima di un tentativo di phishing (così, debbotto). Quasi contemporaneamente però, sull’altra linea, è stata la stessa responsabile della Protezione dei dati (Rpd) del dicastero, Paola Picone, a confermare l’evento in una telefonata con Wired“Sì, c’è stato un data breach e sono attualmente in corso le indagini delle autorità”, ha detto inequivocabimente Picone. 

“Il ministero dello Sviluppo economico è venuto a conoscenza di una possibile violazione”, esordisce a scanso di equivoci la comunicazione via email che abbiamo ottenuto: “Tale evento può comportare l’utilizzo degli stessi (dati, ndr) da parte di terzi per fini non autorizzati o illeciti ad esempio furto di identità e/o phishing”. Come confermato anche da Picone, non risulta che le informazioni sottratte siano state utilizzate per accedere illecitamente alle postazioni dei dipendenti, ma anche questo scenario è al vaglio delle autorità. Tuttavia, urge cautela: se tutte le informazioni del personale Mise sono finite in mani sbagliate, questo può comportare una grave vulnerabilità al sistema paese, che proprio in via Molise esercita alcune funzioni centrali in materia di lavoro e di sicurezza informatica. 

Guidato dal neo ministro della Lega Giancarlo Giorgetti, il dicastero conta oltre tremila impiegati e un bilancio che si aggira intorno ai 6 miliardi e mezzo di euro nel triennio 2020-2022. Una struttura cruciale, autorità competente sulla direttiva Nis (Network and Information Security, la direttiva del 2016 che fa da framework europeo per un ambiente digitale sicuro) per il settore dell’energia e delle infrastrutture digitali, e presso la quale è istituito il Centro di valutazione e certificazione nazionale (Cvcn) che, una volta attivo, dovrà accertare le condizioni di sicurezza e l’assenza di vulnerabilità di prodotti, apparati, e sistemi destinati a essere utilizzati per il funzionamento delle infrastrutture strategiche del paese. In parole povere, quelle dalle quali passano le informazioni più importanti d’Italia, spesso realizzate con hardware e software importati da altri stati e che, per la loro natura, devono godere del più ampio grado di protezione.  

A presidio delle operazioni di notifica nei riguardi delle vittime del furto di dati sembra sia intervenuta anche l’Autorità garante per la protezione dei dati personali, guidata da Pasquale Stanzione, con la quale si è “concordato il contenuto e le modalità di invio della comunicazione”, ci ha assicurato Picone. Si suppone quindi che gli uffici di piazza Venezia stiano lavorando sull’incidente informatico, del quale dovranno valutare eventuali responsabilità. 

Ma l’episodio potrebbe trasformarsi nell’ennesima tegola per il Mise, che pochi giorni fa, a marzo, è stato multato proprio dal Garante privacy per non aver nominato un Rpd nel 2018, con l’entrata in forze del Regolamento europeo per la protezione dei dati personali. Un assegno da 75 mila euro, con il quale il dicastero ora guidato da Giorgetti paga anche l’illecita esposizione online delle informazioni personali di 5mila manager, tra le quali i nominativi, le email e, in alcuni casi, i documenti d’identità.

Rimossi quei dati, come in un gioco di vasi comunicanti, emergono oggi quelli dei dipendenti: non erroneamente esposti ma proprio trafugati, in seguito all’operazione di qualche criminale informatico. Tra questi anche le password, che sembra non fossero cifrate e che quindi sarebbero definitivamente compromesse. Anche se nel Gdpr non compare un obbligo specifico in tal senso, la direttiva precisa che “Per mantenere la sicurezza e prevenire trattamenti in violazione al presente regolamento, il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento dovrebbe valutare i rischi inerenti al trattamento e attuare misure per limitare tali rischi, quali la cifratura”: un metodo matematico per conservare delle informazioni rendendole accessibili solo ed esclusivamente a chi ne ha titolo. Sai mai che poi le rubano.

Interrogata sulla questione, Picone ha fatto spallucce, non conoscendo nel dettaglio il modo in cui le informazioni trafugate erano state protette. Se fossero state cifrate, il criminale informatico si troverebbe in mano dei dati pressoché inutilizzabili. Ma non sembra questo il caso: mettendo insieme la risposta dell’Rpd e il contenuto dell’informativa inviata ai dipendenti, dove non si fa alcun accenno a circostanze che possano rassicurare sullo stato delle informazioni rubate, sembra che anche le password fossero in chiaro, leggerezza che rende pressoché obbligatorio resettare le chiavi d’accesso nel minor tempo possibile, informando di conseguenza le vittime.    

“Generalmente quando un ladro ruba dei dati poi procura un danno, ma noi non abbiamo evidenza che sia successo”, rassicura Picone, precisando di aver agito “conformemente alle indicazioni del Garante”. Non è dato sapere però quando il Garante sia stato effettivamente chiamato in causa né quanto tempo sia passato tra la scoperta dell’accesso abusivo, il reset delle password e l’informativa inviata ai dipendenti. Ma quanto ha atteso il ministero prima di dire ai suoi che le loro credenziali erano state compromesse? A domanda diretta, Picone abbozza: “Dal momento che ci sono delle indagini in corso, abbiamo chiesto un parere preventivo al Garante sull’opportunità di diramare l’informativa agli interessati”

Allo stato dell’arte, nel momento in cui si verifica un data breach, il titolare del trattamento deve adottare tutte le cautele per “porre rimedio alla violazione dei dati personali e anche, se del caso, attenuarne gli effetti negativi”, secondo quanto disposto dal Gdpr. Ma esistono particolari circostanze per le quali, per ragioni investigative, potrebbe essere necessario agire diversamente: “In questi casi i tempi e le misure adottate per attenuare gli effetti del data breach potrebbero essere influenzati, almeno in parte, sia dai provvedimenti dell’autorità giudiziaria sia da quelli del Garante”, spiega Francesco Paolo Micozzi, avvocato e professore di informatica giuridica all’Università di Perugia: “Al riguardo, sia codice privacy che recenti protocolli di intesa disciplinano il necessario coordinamento tra autorità giudiziaria e Garante. Vi sono, infatti, da contemperare diversi interessi: da un lato l’esigenza di tutelare i diritti degli interessati e, dall’altro, la necessità di agevolare e non ostacolare le indagini dell’autorità giudiziaria”. Contattato da Wired, il Garante non ha commentato la notizia.

Cosa è stato fatto per correre ai ripari, da quel che sappiamo

Individuata la falla, il dipartimento informatico del Mise annuncia di aver adottato alcune misure di protezione per evitare che qualche criminale informatico potesse approfittare delle informazioni trafugate, per esempio impersonando un impiegato e ottenendo così l’accesso a ulteriori informazioni sensibili. 

È questo uno dei metodi più utilizzati per avere la meglio su un’infrastruttura informatica, guadagnando la possibilità di esplorarla per trafugare documenti o ottenere vantaggi economici. Il tutto inizia generalmente con una password e un nome utente, grazie ai quali il criminale informatico può prendere possesso dell’identità di un dipendente e, magari della sua casella di posta. Spesso utilizzata anche contro le aziende, in numerose occasioni questa metodologia ha dato prova della sua efficacia, con abili truffatori che si fingono dirigenti – via mail ma talvolta rinforzando con una telefonata nella quale imitano la voce del dirigente impersonato – per accedere a documenti preziosi o per disporre dei bonifici. Naturalmente a favore di conti schermati all’estero.

Oltre al reset delle password, si apprende dall’informativa, sono state introdotte l’autenticazione a due fattori e l’identificazione tramite video degli utenti non precedentemente verificati. Ulteriori azioni riguardano l’installazione di “agenti di monitoraggio attività”, il “confinamento delle risorse di rete” e la “migrazione o dismissione di server obsoleti”. Un riferimento, quest’ultimo, dal quale si trae conferma che il Mise aveva tra le sue dotazioni dei server orfani, i quali talvolta contengono informazioni preziose e che raramente rientrano nei radar degli uffici tecnici. Non avendo neppure riconosciuto che un data breach c’è stato, il ministero non ha risposto a una richiesta ufficiale di commento da parte di Wired, la quale, tuttavia non ha potuto accertare la reale identità dei suoi interlocutori.




L’allarme da Toyota sulle auto elettriche: “Inquinano di più e rimarremo senza elettricità”

Il CEO di Toyota Akio Toyoda ha lanciato un attacco a tutto tondo contro le auto elettriche in una riunione annuale delle case automobilistiche. Il numero uno della casa giapponese ha infatti criticato l’eccessiva spinta verso i veicoli elettrici, affermando che chi sostiene l’elettrificazione di massa del traffico stradale non ha considerato il carbonio emesso dalla generazione di elettricità oltre ai costi di una transizione totale ai mezzi cosiddetti “green”.

“Una rivoluzione da centinaia di miliardi di euro che lascerebbe il Giappone senza elettricità”

Il boss Toyota, facendo l’esempio del Giappone, ha evidenziato come il Paese del Sol Levante rimarrebbe senza elettricità in estate se tutte le auto funzionassero con energia elettrica. E che l’infrastruttura necessaria per supportare una mobilità composta solo da veicoli elettrici costerebbe al Giappone tra i 14 e i 37 trilioni di Yen, vale a dire tra i 110 miliardi e i 290 miliardi di euro.

“I veicoli elettrici aumentano le emissioni di anidride carbonica”

A ciò si andrebbe ad aggiungere anche il fatto che, a suo dire, i veicoli elettrici a batteria sono più inquinanti dei veicoli a benzina a causa della produzione di elettricità, ancora fortemente legata ai combustibili fossili, che produce emissioni nocive, sfatando dunque il mito delle auto elettriche come veicoli ‘carbon neutral’. “Più veicoli elettrici produciamo, più salgono le emissioni di anidride carbonica” ha detto infatti Toyoda spiegando che considerando la produzione delle batterie le emissioni totali di CO2 di un’auto elettrica sono quasi il doppio rispetto a quelle generate per la fabbricazione di un’auto termica o ibrida.

“Il passaggio all’elettrico farebbe crollare l’industria automobilistica”

Il messaggio del Ceo Toyota è stato ancora più chiaro nel momento in cui si è rivolto direttamente al Governo nipponico (che a breve dovrebbe vietare la vendita di auto a benzina e diesel dal 2035): “Quando i politici sono là fuori a dire: ‘Liberiamoci di tutte le auto che usano benzina’, capiscono tutto ciò?” ha proseguito infatti nella conferenza stampa di fine anno nella sua qualità di presidente della Japan Automobile Manufacturers Association. Toyoda ha poi messo in guardia l’attuale Governo anche sul fatto che se il Giappone sarà troppo frettoloso nel vietare le auto a benzina, “l’attuale modello di business dell’industria automobilistica crollerà”, causando inoltre la perdita di milioni di posti di lavoro.