In Italia c’è una scuola dove si insegna il fallimento
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Uno sbaglio sul lavoro. Un esame non superato. Un compito non portato a termine in azienda. Una frase detta male sui social o magari un pensiero non condiviso che scatena l’umiliazione pubblica. Quando si studia, si lavora o semplicemente si porta avanti la propria vita, la disfatta è dietro l’angolo. Solo che nessuno insegna solitamente come gestire un insuccesso e come trarne persino giovamento.
La Scuola di Fallimento, con sede a Modena, è la prima e unica realtà in Italia che si occupa di una delle esperienze più comuni e allo stesso tempo più temute: sbagliare. Ha i suoi alunni, lavora soprattutto con multinazionali e scuole, e possiede i suoi corsi e i suoi obiettivi: creare una “cultura dell’errore” che permetta a chi inciampa di non bloccarsi e di non colpevolizzarsi eccessivamente. A chi sta intorno, spetta invece il compito di creare una zona sicura, dove far fallire gli altri senza la paura del giudizio. Facile, no? Chi pensa che si tratti ‘solo’ di filosofia e di coaching non applicato è fuori strada. Perché imparare la sconfitta senza conseguenze drammatiche, significa dare alle aziende e alle persone la possibilità di innovare e sperimentare, quindi di crescere.
Chi sbaglia, cosa fa?
Intanto, il contesto. “Nella nostra società – racconta ad upday Francesca Corrado, fondatrice ed ex sportiva – c’è una profonda e radicata cultura della colpaedella critica. Osserviamo la difficoltà di chiedere scusa e di ammettere le proprie responsabilità per paura di essere giudicati o puniti. È una profonda paura di fallire che ostacola, per le aziende, la capacità di innovare e, per le persone, la capacità di innovarsi e reinventarsi. E poi percepiamo il bisogno latente di trovare uno spazio in cui condividere in modo non stigmatizzante i propri errori e di considerarsi di successo anche quando il successo non ha i connotati imposti dalla società dell’apparenza e dei social”. Perfezionismo da social che secondo un’indagine esporrebbe i millennial, i nati tra gli anni ‘80 e ‘90, a puntare al perfezionismo con conseguenze negative sulla salute mentale.
Perché se sbagliare è comunissimo, è tuttavia un fenomeno mal tollerato dalla nostra società. Sui social network l’errore altrui, e ci fermiamo ai casi in cui vengono contestate le parole o le dichiarazioni e non a quelli che riguardano strettamente offese e discriminazioni, scatena comportamenti come quelli della shitstorm, la tempesta di insulti di massa, o il boicottaggio e la vera e propria cancellazione di colui che sbaglia, senza seconda possibilità. Ma anche rimanendo in campo d’impresa, le aziende stesse fanno fatica a gestire il fallimento.
Imparare dalle sconfitte sportive
Francesca Corrado non la pensa proprio così rispetto alla possibilità di avere una seconda opportunità. Da ex pallavolista, rivela. “Lo sport mi ha aiutato moltissimo – dichiara- mi ha insegnato a ‘saper giocare’ in squadra; a sviluppare la persistenza: è finita solo quando è finita. Ma soprattutto ad accogliere la possibilità di perdere; ad accettare la sconfitta come uno degli ingredienti del gioco. Nel gioco come nello sport: a volte si vince, a volte s’impara”. A lei è capitato da vicino. “La Scuola è nata per l’appunto da una serie di fallimenti. Fino al 2014 avevo una start up innovativa, un contratto da docente universitaria, un fidanzato e una casa. Nei primi due mesi del 2015 ho perso tutto. A non rendere facile il periodo anche le condizioni di mio padre, malato di Alzheimer, che in quel periodo peggiorarono. Ed è stata proprio la malattia che mi ha permesso di guardare ai miei errori e fallimenti da una prospettiva diversa: non quella della colpa e della rabbia, ma quella dell’accettazione e della comprensione dei propri limiti e delle proprie fragilità”.
Le parole degli ex alunni
“Sono sempre stata una ragazza molto severa con me stessa – racconta ad upday Anna Romanini, studentessa di Scienze filosofiche e dell’educazione a Ferrara – ho sempre preteso molto e difficilmente perdonavo i miei errori. Ho imparato a vederli sotto una prospettiva diversa solo da poco. Con la scuola, ho imparato a capire cosa significa la frase “sbagliando si impara” e questo mi ha aiutata a essere meno severa con me stessa e a permettermi di fare i miei errori per imparare cose nuove e uscire dai momenti di crisi come una persona effettivamente diversa”.
Dagli studenti, ai professionisti, tutti tornano sui banchi. “In azienda – spiegano Daniele Righele e Manuela Beltrami, ex corsisti di Banca Credem – abbiamo vissuto l’esperienza di fallimento come uno stato di difficoltà, un ostacolo mentalmente difficile da superare, temendo il rischio di compromettere le relazioni altrui e la nostra autostima. Eravamo i primi a non tollerare i nostri errori, i nostri fallimenti e si faceva fatica anche solo a parlare di errori. Abbiamo avviato un percorso di cambiamento negli ultimi anni per una migliore sicurezza e cultura interna che possa permettere alle persone di esprimersi, provare, osare e sbagliare per il miglioramento e la crescita professionale e personale”. Anche se il successo è una parola da maneggiare con cura: “Insegniamo che il successo – conclude Corrado – è la capacità di far accadere le cose che si reputano di valore, di raggiungere gli obiettivi che sono coerenti con la propria visione e missione e i nostri migliori successi sono quindi le persone e le loro storia”. Guardandosi indietro c’è anche spazio per l’orgoglio. “Aver trasformato una paralizzante paura di fallire nella capacità di rimettersi in gioco con successo di un piccolo imprenditore, aver aiutato una studentessa a superare il blocco degli esami e trasformato la sua fragilità in un punto di forza sono senza dubbio i nostri migliori successi. Sapere di essere stati di supporto a qualcuno in un momento critico della propria vita è il primo indicatore che abbiamo fatto bene”.
Il social media cinese WeChat ha cancellato molti account lgbtq+
Pur non esistendo leggi che vietino l’omosessualità o la transessualità, la comunità Lgbtq+ cinese è ancora fortemente stigmatizzata e costretta a vivere quasi nell’anonimato. L’unico Pride organizzato in Cina è stato sospeso a tempo indeterminato, dopo che gli organizzatori hanno ricevuto minacce e si sono dichiarati preoccupati per la propria incolumità fisica. Inoltre, le autorità hanno più volte agito per impedire la diffusione di informazioni riguardanti l’identità di genere e la Cyberspace administration of China ha annunciato un giro di vite sui contenuti di questo tipo, ritenuti di “cattiva influenza” per i minori. Il social media Weibo ha già rimosso numerosi contenuti relativi alla comunità lesbica, mentre la community online Zhihu ha censurato tutti gli argomenti relativi alle tematiche di genere.
Nella giornata di ieri, 6 luglio, diversi membri di gruppi Lgbtq+ hanno contattato Reuters sostenendo che l’accesso ai loro account WeChat fosse stato bloccato, per poi scoprire anche che tutti i contenuti condivisi in precedenza erano stati cancellati. “Ci hanno censurato senza alcun preavviso, siamo stati spazzati via tutti”, hanno dichiarato alcuni attivisti rimasti anonimi. Reuters riporta di aver provato ad accedere ad alcuni account, ma che ogni tentativo è stato fermato da un messaggio di WeChat secondo cui le pagine “hanno violato le norme sugli account che offrono un servizio di informazione sulla rete internet cinese”. Altri account non sono nemmeno apparsi nei risultati di ricerca. La piattaforma social non ha rilasciato ancora alcuna dichiarazione a riguardo.
“Quando decidiamo. Siamo attori consapevoli o macchine biologiche?” di Mauro Maldonato
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Prof. Mauro Maldonato, Lei è autore del libro Quando decidiamo. Siamo attori consapevoli o macchine biologiche?, edito da Giunti: la nostra razionalità è un illusione?
Sì, se si identifica la razionalità con la logica. Sebbene sia stata a lungo considerata fondamento della razionalità, la logica non è una facoltà superiore della mente. Per molti secoli, il termine ratio ha designato la capacità di scegliere i mezzi più adatti a perseguire uno scopo. In realtà, i nostri ragionamenti si basano in gran parte su inferenze inconsapevoli, non deduttive. In questo senso, l’orizzonte della logica è ben più ampio di quello della logica formale tradizionalmente intesa; anche se tra la logica e la ricerca delle condotte e dei mezzi più idonei per la sopravvivenza vi è una stretta relazione. Intento del libro è provare a far chiarezza su questa zona di confine. Credo sia necessaria una nuova discussione. Soprattutto in un’epoca in cui la nozione di decisione sembra oggetto di un vero e proprio complotto intellettuale, come evidenzia la generale tendenza alla mediazione e al compromesso. Per tornare alla sua domanda, a me pare largamente fallace l’idea secondo cui la nostra mente è attrezzata per trarre conclusioni valide a prescindere dalle premesse. Nella prima metà del Novecento intere generazioni di economisti hanno sostenuto che le condotte individuali sono dettate da norme inflessibili e che eventuali deviazioni dipendevano da variabili psicologiche risolte dalle dinamiche macroeconomiche. Gli sviluppi recenti della scienza della decisione hanno revocato in dubbio questa idea di razionalità, restituendo centralità a fattori decisivi come imprevedibilità e incertezza. Nel mondo reale, decidiamo quasi sempre secondo schemi semplificati, spesso condizionati da rappresentazioni e percezioni distorte del rischio: variabili, queste, che rendono altamente improbabili risposte ottimali. Al di là delle informazioni disponibili su avversità, concorrenti e così via, nelle nostre decisioni intervengono fattori extracognitivi come la valutazione emotiva del rischio, la perseveranza, il timore per le conseguenze di un’azione, la tolleranza alle frustrazioni, il coraggio, l’autostima. Per non dire poi delle situazioni di rischio, in cui ci si affida sovente a informazioni parziali o insufficienti
Quali processi mentali si attivano nel processo decisionale? Al netto dei strutture e delle funzioni neurofisiologiche sottostanti (troppo complesse anche per farvi solo cenno qui), trasformerei così la domanda: come decidiamo nel mondo reale, in tutte quelle situazioni caratterizzate da pressioni temporali, conoscenza incompleta delle alternative, tensione emotiva, incertezza, obiettivi mal definiti, posta in gioco alta e diversi gradi di esperienza del decisore? Lo facciamo a partire da una valutazione globale delle azioni possibili in base alle opzioni disponibili e non al confronto tra le loro caratteristiche specifiche. Inoltre, più che cercare e valutare dettagliatamente le alternative, confrontiamo le possibilità e le azioni potenziali in base alla loro accettabilità. Infine, più che soluzioni ottimali, cerchiamo ciò che è soddisfacente. In situazioni di emergenza, medici, comandanti militari, vigili del fuoco, piloti e altre categorie non seguono modelli teorici astratti. Ad esempio, se il comandante di una pattuglia di vigili del fuoco non decidesse efficacemente e in pochi secondi sul da farsi, rischierebbe di mettere a repentaglio la vita di molte persone. Ma come fa a decidere quando gli obiettivi non sono chiari (mettere al sicuro le persone o estinguere rapidamente l’incendio?), le informazioni incerte (quale è la planimetria dell’edificio in fiamme, che materiale è contenuto?) e le procedure di intervento non sempre codificate (come liberare un ferito da un’automobile dopo un incidente?)? Ecco, gli esperti decidono rifacendosi rapidamente a situazioni ed esperienze note. Individuano gli indizi più importanti da considerare, gli obiettivi da perseguire, i piani d’azione da seguire, la possibile evoluzione della situazione. Non hanno generalmente il tempo per confrontare la propria con altre decisioni: cercano soluzioni plausibili. Sono i principianti ad analizzare e comparare pro e contro di ogni opzione. Gli esperti decidono senza valutare. In situazioni critiche procedono sulla base di pochi indizi o di elementi depositati in memoria. Quando un esperto prende una decisione, ‘fotografa’ la situazione presente e agisce in base all’intuito. L’associazione tra indizi rilevati ed esperienza definisce rapidamente il corso d’azione possibile. Di solito sceglie un’opzione ragionevolmente accettabile. Non si perde in analisi dettagliate: sprecherebbe, infatti, troppo tempo, troppe energie e valuterebbe in modo distorto vantaggi e svantaggi delle opzioni a disposizione.
Nel processo mentale della decisione, quali sono i meccanismi che ci inducono in errore? Negli anni ’70 del secolo scorso, due formidabili ricercatori, Daniel Kahneman e Amos Tversky, misero a punto un programma di ricerca per verificare se individui alle prese con problemi decisionali, opportunamente congegnati, ragionassero e decidessero secondo criteri razionali. Tale programma ha permesso di venire a capo dei limiti di elaborazione dell’informazione che spingono un individuo ad adottare soluzioni ai problemi, per così dire, a forte indice adattativo. I due studiosi riconobbero nelle cosiddette “euristiche” alcuni tra gli strumenti più efficaci per ridurre il carico cognitivo e consentire risposte rapide e generalmente efficaci ai problemi decisionali. Ma cos’è, precisamente, un’euristica? È un dispositivo (un mix di ragionamento, intuito ed emozioni) che ci consente di scegliere rapidamente (compatibilmente con la complessità della situazione e i limiti della memoria) aggirando le procedure logiche, deduttive o probabilistiche. In situazioni incerte e rischiose, è spesso l’unico strumento a nostra disposizione. Oggi sappiamo con certezza che anche i nostri brillanti ragionamenti sono condizionati da emozioni e misteriosi congegni che ci fanno saltare subito alle conclusioni. Per queste ragioni l’uomo non può essere una macchina pensante, ma una macchina emozionale che pensa. In realtà, lo abbiamo sempre saputo. Non abbiamo, forse, sempre saputo che quando guardiamo un paesaggio non vediamo un paesaggio neutro, ma un paesaggio splendido, un paesaggio deprimente, un paesaggio rilassante e così via? Quasi sempre scegliamo quel che ci attrae istintivamente. Solo dopo avanziamo giustificazioni più o meno plausibili. Immaginazione, emozione e decisione, sono fortemente legate. Inoltre, le nostre preferenze dipendono anche da come ci rappresentiamo il compito decisionale. Capita spesso che, di fronte a uno stesso problema, prendiamo decisioni addirittura opposte, a seconda di come ce le rappresentiamo o come ci vengono presentate (magari strumentalmente). Questo chiarisce come le nostre decisioni siano influenzate da fattori esterni a esse: tendiamo, cioè, a “incorniciare” le opzioni disponibili e le rispettive probabilità di successo oppure cerchiamo elementi di coerenza e di razionalità. Il rischio è che potremmo essere influenzati da informazioni esplicite o implicite; essere spinti a considerare solo alcuni aspetti delle alternative; essere indotti a valutare erroneamente le conseguenze di una scelta; essere sollecitati a esaminare solo parte delle informazioni a nostra disposizione; o, infine, essere persuasi a giudicare il valore di un’alternativa non per quel che è, ma in relazione al contesto. Ad esempio, perdite o guadagni hanno un impatto cognitivo differente perché alterano la rilevanza delle informazioni a disposizione e influenzano la propensione al rischio. Ancora una volta, la nostra mente segue percorsi differenti da quelli postulati dalla teoria della scelta razionale. Decidiamo di fronte a situazioni altamente contingenti e utilizziamo strategie adattative per rimediare ai limiti imposti dalla complessità dei compiti e dei contesti. È così che rimediamo a uno stato di ignoranza iniziale per giungere a un soddisfacente stato di conoscenza finale. Insomma, non adottiamo quasi mai modelli stereotipati, ma strategie flessibili. Inoltre, l’accuratezza e lo sforzo cognitivo non sono variabili indipendenti individuali, ma variabili dipendenti dal contesto decisionale. Questo ci spinge a selezionare strategie per buone decisioni col minor sforzo e in una continua negoziazione con l’ambiente. L’obiettivo è minimizzare il peso emotivo dovuto alla presenza contemporanea di valori in conflitto tra le diverse opzioni e raggiungere decisioni socialmente accettabili e giustificabili. Naturalmente, più accurate sono le scelte più sforzo comportano. A dimostrazione del fatto che ogni decisione è sempre il risultato di un compromesso tra aspirazioni, desideri, vincoli e possibilità.
Lei definisce il nostro cervello un “sistema aperto”: cosa significa? A differenza di qualche decennio fa, il cervello umano appare oggi come un sistema aperto che fluttua entro dinamiche costantemente distanti dall’equilibrio: un sistema continuamente esposto a vincoli interni e dinamiche esterne che generano livelli crescenti di instabilità e creano nuove strutture d’ordine. La struttura e le funzioni del cervello sono continuamente influenzate da fattori diversi e imprevedibili (povertà e ricchezza sensoriali, qualità e intensità percettiva) che ne condizionano lo sviluppo e le connessioni. Si tratta di un processo antichissimo, iniziato già nelle prime fasi dell’ominazione, quando le cure materne e l’interazione culturale sollecitarono fortemente la crescita delle connessioni neuronali del cervello. Su tutto questo abbiamo fatto progressi formidabili, ma abbiamo domande vertiginose aperte davanti a noi. Ad esempio, da cosa hanno origine le innumerevoli interazioni tra le singole aree cerebrali; lo scambio di tracce e dati sensoriali tra intricatissime reti neuronali; la costante rielaborazione delle informazioni preesistenti; la collaborazione e la competizione tra le strutture corticali e sottocorticali? Quale meraviglioso algoritmo biologico governa gli effetti della contingenza e dell’irreversibilità storica, l’azione di processi non lineari, la creazione artistica, i sistemi etici, la visione scientifica del mondo? Ecco, credo il vero miracolo dell’universo sia proprio l’esistenza della natura: la stessa natura governata dalle implacabili leggi della fisica e della chimica. Fin dall’origine, la materia si è costituita in forme di crescente complessità. Nei suoi formidabili mutamenti ha imparato ad assimilare e a trasmettere l’informazione, a diventare un eccezionale veicolo di immaterialità. Non ha molta importanza che si tratti di stelle, di galassie o di esseri umani. La materia decade e si trasforma, si rinnova e si separa. L’informazione, invece, si espande costantemente, lasciando traccia di sé in nudi aggregati molecolari, ma soprattutto generando un impensabile aumento di senso nella storia dell’universo. Se non riconosceremo tutto questo resteremo inesorabilmente prigionieri dell’antica dicotomia tra materia e spirito.
È possibile ottimizzare il processo decisionale rendendolo il più possibile razionale ed esente da condizionamenti? Temo sia una sfida perduta in partenza. È una pia (e drammatica illusione) concepire comportamenti umani oscillanti entro schemi predefiniti che riassorbono tensioni interne ed esterne per ripristinare un equilibrio ottimale. I comportamenti reali e gli stati psicologici sostenuti da fini e progetti tendono motu proprio ad alterare gli stati di equilibrio preesistenti, a creare dinamiche sempre nuove. Anche per questo, una decisione non corrisponde mai, in nessun caso, a un “primato dell’astratto”, ma è una permanente oscillazione tra un’intenzione efficace e veloce e la forma che la realtà assume in seguito alla soluzione di un problema. È poi argomento vacuo considerare irrazionale il carattere non ottimale del ragionamento. Non ottimizzante non significa irrazionale. Semmai è la razionalità astratta a non riconoscere i vincoli della realtà esterna e i limiti cognitivi dell’uomo. Insomma, solo in un mondo astratto è tutto già al suo posto. Nel mondo reale, ogni decisione ha un prima, un mentre e un poi. Certo, si possono commettere errori. Ma ogni conoscenza implica, di per sé, il rischio dell’illusione e dell’errore. Difficile riconoscerli. Vi siamo tutti esposti. La stessa scienza, che è un potente strumento di individuazione degli errori e di controllo razionale delle illusioni, per quanto rigorosa, non può evitare errori al proprio interno. Né può affrontare da sola le questioni che l’assillano. D’altro canto, spesso senza accorgersene, gli uomini mentono a se stessi: per egocentrismo, auto-giustificazione, alibi. Molte fonti di errori risiedono nella nostra memoria, che ci fa privilegiare i ricordi vantaggiosi e piacevoli e rimuovere quelli svantaggiosi e spiacevoli. Si tratta di meccanismi che deformano fortemente i ricordi, al punto da farci credere arbitrariamente di aver vissuto (o, se rimossi, di non aver vissuto) eventi anche importanti della vita. Le nostre idee possono essere non solo fallaci, ma anche dissimulare errori e illusioni. Non c’è da sorprendersi, dunque, quando ci accorgiamo che i nostri eleganti ragionamenti non ci conducono alla verità. La nostra cognizione delle cose non può offrirci alcuna certezza di verità. Essa contempla nella sua stessa essenza quell’incertezza che ci mette, sempre in modo nuovo, davanti ai problemi. Dopotutto una percezione non è mai uno specchio del mondo, ma una traduzione e una ricostruzione di segnali captati e modificati dai nostri sensi. Siamo inevitabilmente esposti al rischio dell’errore perché i nostri metodi, le nostre interpretazioni sono pregiudicati dalle inevitabili proiezioni delle nostre aspettative, dalle nostre paure, dalle nostre speranze.
L’inganno influencer Il 45% non è umano
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Un sondaggio che arriva dall’Inghilterra sostiene che il 28% dei ragazzi sogna di fare l’influencer. Cioè di fare soldi sui social pubblicizzando oggetti, luoghi, alberghi, ristoranti e vestiti, convincendo altre persone a spendere per averli. Anche in Italia probabilmente la percentuale è molto simile a quella inglese. Ciò che nessuno dice ai ragazzi, inglesi o italiani che siano, è che diventare influencer è un lavoro. E persino faticoso. Tanti invece pensano che sia un divertimento molto ben pagato e basta. Di più: che sia una splendida scorciatoia digitale per avere facilmente successo e fare soldi a palate. Forse un tempo per qualcuno è stato davvero così, ma in futuro sarà sempre meno facile diventare ricchi e famosi sui social. Più cresce il mercato del cosiddetto “influencer marketing” (è la pratica che consiste nel pagare un influencer per fare pubblicità a un prodotto) e più vengono affinati i sistemi di controllo che ne certificano il valore reale e che smascherano i bugiardi. Per capire meglio la portata del mercato, ecco alcuni dati: Zara, per esempio, nel 2020 ha usato per farsi pubblicità oltre 42mila influencer, mentre il suo concorrente Shein 30.800 circa. Se la Nike ha arruolato 42.300 influencer, Spotify ha fatto di più: ne ha usati 46 mila 994. Più di Netflix (38.244) e Amazon (32.836). Secondo l’ultimo rapporto di HypeAuditor, solo su Instagram (che ha più di 1 miliardo di iscritti), nonostante la pandemia, nel 2020 il mercato degli influencer è stato pari a poco più di 5 miliardi di dollari. E per questo 2021 si prevede che crescerà del 15% arrivando a toccare quota 5,8 miliardi di dollari. A rendere così interessante Instagram per il mercato degli influencer ci sono due fattori. Il primo è che il social delle immagini (delle emozioni, della forma sul contenuto). Il secondo motivo è che l’80,9% degli utenti di Instagram ha meno di 34 anni. E ben il 43% ha un’età tra i 25 e i 34 anni. Il 31% ha tra i 18 e i 24 anni, mentre l’8% è rappresentato dalla fascia 13-17 anni. I temi più gettonati sono quelli della moda, del divertimento, della bellezza e dei viaggi, seguiti a ruota da musica e fotografia. Al quinto posto nella classifica delle categorie più gettonate dagli influencer c’è la famiglia. Penserete: la famiglia? Sì, sempre più spesso le famiglie giovani amano raccontare la loro vita quotidiana sui social. E grazie a questo diventano un veicolo per far passare messaggi pubblicitari per prodotti che vanno dalle pappe dei figli agli oggetti per la casa. A ben vedere, però, il dato più interessante di questa ricerca è un altro. E cioè che oltre 50% degli influencer nel 2020 è rimasto coinvolto in una qualche forma di frode e falsificazione. Come spiega Pierluca Santoro di DataMediaHub, “le tattiche più comuni utilizzate includevano l’acquisto di follower, like e commenti e l’acquisto di visualizzazioni di storie. Nonché la pratica di creare gruppi di utenti di Instagram che si riuniscono per interagire tra loro con i post dei membri del gruppo così da far credere di avere più successo di quello che hanno”. I maggiori colpevoli delle frodi sono i cosiddetti mega-influencer di Instagram (cioè quelli con più di un milione di follower). “Due terzi di questi account sono stati coinvolti in qualche forma di attività fraudolenta». Il rapporto di HyperAuditor squarcia il velo anche su un vero e proprio scandalo: «Solo il 55% degli account Instagram è gestito da persone reali». Nel rapporto c’è anche un piccolo dato positivo: rispetto al 2019 la percentuale di attività truffaldine degli influencer è diminuita dell’8%. Conclude Santoro: «L’influencer marketing de noantri cresce, e prospera, perché le aziende sono ancora alla ricerca di volume e non di valore. Dimenticando che popolarità ed influenza sono due concetti che talvolta possono essere anche molto distanti tra loro».
I robot umanoidi si superano nelle acrobazie del parkour VIDEO
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Nuovo spettacolare video dei robot della Boston Dynamics: questa volta si dedicano al parkour, lo ‘sport’ urbano che prevede salti e acrobazie per superare ostacoli di ogni tipo e occasione perfetta per spingere al limite le capacità di questi robot umanoidi.
Nato negli anni ’80 in Francia da un gruppo di appassionati di salti e arrampicate come una disciplina freestyle il cui obiettivo è quello di mettersi alla prova per superare con fluidità qualsiasi tipo di ostacolo urbano, il parkour è già da anni una disciplina sportiva riconosciuta ufficialmente.
Da qualche tempo è diventato anche banco di prova per le capacità dei robot. A distanza di un paio di anni dall’esordio i robot umanoidi Atlas della Boston Dynamics tornano in video per dimostrare le loro abilità. Sessanta secondi spettacolari che vedono protagonisti una coppia di umanoidi correre e saltare tra una varietà di ostacoli simili a quelli presenti in un ambiente urbano. Il parkour, spiegano i ricercatori a margine del video, è l’occasione perfetta per sperimentare nuovi comportamenti, in cui cercare di spingere sempre più in alto i limiti dei robot e scoprire così nuove possibili applicazioni per il futuro.