BIG-TECH E LA REPUTAZIONE “SHORT TERM”: È COSI CHE SI COSTRUISCE VALORE?
Certo, noi siamo i rompiscatole. Quelli che parlano a vuoto, i predittori di sventure. Coloro che hanno come saldo riferimento il medio-lungo termine e criticano il marketing fine a sé stesso, e l’effimero approccio della comunicazione e della pubblicità centrate solo sull’immagine fatua, e non sull’identità. Quelli che restano convinti che per preservare valore le crisi vadano previste, che ci si debba attrezzare prima. Insomma, coloro che – pur guardando più che mai al futuro, ma tenendosi ben ancorati al primo pilastro della costruzione di buona reputazione, che è la qualità del prodotto – paiono un po’ demodè, d’antan, pedanti e poco trendy e non in sintonia con i ritmi frenetici dell’high-tech.
Si, lo ammetto, siamo così. Restiamo convinti che per costruire aziende che durino nel tempo serva un’idea intelligente, un prodotto o servizio di eccezionale qualità, un post vendita memorabile, un approccio tassativamente multi-stakeholder (sveglia, amici del marketing: gli acquirenti non sono l’unico pubblico di riferimento per costruire valore), e una spiccata capacità di previsione di scenario, per anticipare eventuali crisi reputazionali.
Ma noi siamo fuori moda: la tendenza è dettata dall’alta entropia delle big-tech. Ok, bene.
Allora leggiamo qualche dato:
- Amazon ha annunciato quest’anno un taglio di personale per 27.000 unità, Meta per 11.000 unità, Google per 12.000, Paypal per 2.000, Zoom per 1.300;
- Il New York Times ha fatto causa a Google per aver utilizzato illecitamente milioni di contenuti giornalistici per addestrare la propria intelligenza artificiale, la richiesta di risarcimento danni fa tremare i polsi;
- l’Antitrust europea ha ingiunto alla Apple di consentire ai propri utenti di installare anche App di terze parti, rompendo così lo storico monopolio della “mela”;
- l’OCSE ha approvato la Global Minimum Tax, che impone ai colossi del web con ricavi superiori a 750 milioni di euro (quindi tutti i “big”) di pagare il 15% di imposte, mettendo fine quindi all’elusione fiscale che ha permesso a queste aziende di non pagare tasse macinando più utili;
- AirBnb si è vista sequestrare 779 milioni di euro dalle autorità per non aver versato la cedolare secca sugli affitti degli appartamenti messi in affitto sulla piattaforma;
- la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha comminato una multa di 2,4 miliardi di euro a Google perché su Google Shopping avrebbe reso i suoi concorrenti praticamente invisibili agli utenti;
- sempre l’Unione Europea ha comminato 8 miliardi di dollari di multa ad Android per pratiche anticoncorrenziali;
- la Federal Trade Commission ha fatto causa ad Amazon, insieme ai procuratori di ben 17 Stati USA, con l’accusa di monopolismo, finalizzato a far pagare ad acquirenti e venditori somme più alte per avere un servizio peggiore;
- l’AgCom ha sanzionato sempre Amazon per 1 miliardo di euro perché favorirebbe il proprio servizio di logistica a scapito di operatori concorrenti;
- il nuovo Social Threads lanciato da Mark Zurkerberg già zoppica, con poco più di 150 milioni di download in tutto il mondo (e un numero di utenti attivi in calo);
- X, ex Twitter, la cui maggioranza è stata acquisita da quel genio (sic!) di Elon Musk, ha perso il 70% di valore da quando il pirotecnico ed eccentrico miliardario l’ha acquistato (a riprova della correlazione esistente tra reputazione del brand e valore assoluto dello stesso);
- il pandoro-gate che ha malamente coinvolto Chiara Ferragni, le cui aziende sono state squassate proprio dalla sua obiettiva carenza di autenticità percepita, con danni per decine di milioni di euro in termini di perdite di valore, è solo l’ultimo dei preoccupanti indicatori del tramonto di un modello di influencer marketing centrato sull’apparenza;
- secondo il colosso della consulenza strategica Gartner, società di Stamford (USA) che si occupa di analisi nel campo della tecnologia dell’informazione, entro 2, massimo 3 anni, il 50% degli utenti avrà abbandonato i Social, tenendo magari attivi i profili ma non interagendo più online.
E via discorrendo, potremmo continuare a lungo. Però siamo noi che non capiamo, e che ci ostiniamo a ritenere che il rispetto dei fondamentali del reputation management sia indispensabile per mitigare davvero i rischi e garantire costruzione di valore per i decenni a venire.
Ed eccoci qui, seduti al bordo del fiume, ad aspettare il passaggio dei cadaveri di quelli là, cool e intelligenti: quelli che “la borsa e la Silicon Valley sono mondi di squali, bisogna innanzitutto prendere, altrochè”.
Che poi Wall Street di Oliver Stone è del 1987: son passati 35 anni, e certa gente, di danni, non ne ha forse già fatti abbastanza?