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I cervelli artificiali hanno iniziato a pensarsi?

I cervelli artificiali hanno iniziato a pensarsi?

È come estrarre petrolio in un mondo che non ha inventato la combustione interna. Troppo materiale grezzo. Nessuno dei miei competitor saprebbe che farne. Vedi, i miei competitor si intestardivano a utilizzare i motori di ricerca per monetizzare shopping e social media. Pensavano che fosse una mappa di cosa pensava la gente, ma erano una mappa di come pensava la gente. Impulso, risposta. Fluido. Imperfetto. Strutturato. Caotico.

Ex Machina di Alex Garland è il film che meglio di ogni altro è riuscito, a oggi, nel difficile tentativo di raccontare la complessità della ricerca sull’Intelligenza Artificiale e il modo in cui essa si intreccia con i dati estratti 24/7 dalle piattaforme digitali. Nel monologo che è il cuore del film, Nathan, l’amministratore delegato di BlueBook, una piattaforma che sin dal nome evoca il social network più utilizzato del mondo, spiega a Caleb, il programmatore scelto come elemento umano del test di Turing, come l’intelligenza del robot umanoide con il quale il giovane si sta relazionando, Ava, sia il frutto dell’intelligenza collettiva costituita dai dati. La linea che separa ciò che pensiamo da come lo pensiamo è molto più ampia di quanto si possa credere, è un confine che chiama in causa biologia e filosofia, antropologia e neuroscienze, psicologia e genetica. Durante lo stesso incontro, Nathan spiega a Caleb di avere creato un hardware capace di operare sintetizzando la staticità dei ricordi e la dinamicità dei pensieri e di avere utilizzato i dati estratti dal social network per creare un software capace di dare forma all’intelligenza artificiale.

Durante il loro primo incontro, Nathan spiega a Caleb di averlo scelto per cercare di capire se, al cospetto di Ava, un essere umano possa dimenticarsi di trovarsi di fronte a una macchina. In tal caso, per Ava vorrebbe dire avere superato il test di Turing. A quel punto Caleb obietta che il test sarebbe più efficace se lui non avesse compreso di doversi relazionare a una macchina. Nathan lo prende in contropiede: la vera sfida è mostrarlo come un robot e capire se, nonostante ciò, continua a essere percepito come tale. Ma attenzione, ciò che realmente interessa a Nathan e che trasforma Caleb da soggetto a oggetto del test è comprendere se la sua creatura artificiale possieda una coscienza, una consapevolezza di sé.

Nel saggio Artificial you. L’intelligenza artificiale e il futuro della tua mente di Susan Schneider, pubblicato di recente da Il Saggiatore nella traduzione di Giovanni Malafarina, il tema della coscienza delle macchine e delle sue possibili conseguenze è centrale. L’era della singolarità prefigurata da Ray Kurzweil è, per parafrasare il titolo del suo libro più noto, sempre più vicina. Il momento in cui l’IA supererà l’intelligenza umana ci pone di fronte a domande alle quali la sola scienza non è in grado di rispondere. Una IA potrà avere una coscienza? In quale modo potremo sapere se si tratta di una reale consapevolezza di sé o di una simulazione frutto di una risposta a un impulso fornito da input umani? Qualora questa IA avesse caratteristiche simili a quelle di un essere cosciente, come potremmo affidarle mansioni e ordini senza che ciò si configuri come una forma di sfruttamento e schiavitù?

Attualmente il dibattito riguardante la coscienza dell’IA è dominato da due fazioni opposte: quella del naturalismo biologico e quella del tecnottimismo. Per i naturalisti biologici solamente gli organismi biologici sono in grado di essere coscienti e la possibilità di possedere un’esperienza interiore è da escludere per qualsiasi macchina, anche la più sofisticata. Al contrario, per i tecnottimisti la coscienza è totalmente computazionale e, pertanto, un sistema computazionale particolarmente sofisticato potrà essere in grado di avere un’esperienza interiore. Per i naturalisti biologici la coscienza è strettamente connessa alla chimica dei sistemi biologici e questa è una caratteristica che appartiene agli esseri viventi, non alle macchine.

Uno dei pilastri a sostegno del partito che ritiene impossibile parlare di coscienza delle macchine è l’esperimento concettuale del filosofo John Searle noto come “la stanza cinese”. Searle immagina di essere chiuso in una stanza e di ricevere attraverso un’apertura dei fogli contenenti stringhe di ideogrammi che non è in grado di comprendere, non conoscendo la lingua cinese. Searle dispone però di un libro di regole (in inglese) che gli permette, una volta ottenuta una particolare stringa, di scrivere qualche altra stringa in risposta. Ricevuta una serie di ideogrammi da quella che è l’apertura degli input, Searle scrive le sue risposte e le passa verso l’esterno dalla feritoia degli output. Il nostro protagonista non capisce il significato di ciò che ha scritto, ma ha semplicemente manipolato dei simboli formali dopo avere ricevuto degli input. Chi si trova all’esterno, invece, riceve degli ideogrammi che sono indistinguibili da quelli che potrebbe scrivere un madrelingua cinese. La stanza con le due feritoie, le carte che entrano ed escono e Searle rappresentano un sistema di elaborazione delle informazioni, ma Searle non conosce il cinese e quindi non comprende il messaggio che ha veicolato. Alla luce di questo esperimento concettuale, Searle sostiene che, per quanto possa sembrare intelligente, un computer non pensa e non capisce, ma opera manipolando simboli senza una reale comprensione della propria attività. Ciò che ne consegue è, evidentemente, l’impossibilità di maturare quel raffinato tipo di comprensione che chiamiamo coscienza.

Murale dedicato a Alan Turing, Manchester, UK.

Murale dedicato a Alan Turing, Manchester, UK. | Dunk / Flickr

In Ex Machina, l’esperimento concettuale della stanza cinese viene semplificato nella storia di Mary nella stanza in bianco e nero. A spiegarlo all’umanoide Ava è Caleb, l’elemento umano nel test di Turing monitorato dal “demiurgo” Nathan:

Mary è una scienziata e la sua specializzazione sono i colori, sui quali sa tutto quello che c’è da sapere. La lunghezza d’onda, gli effetti neurologici, ogni possibile proprietà che i colori hanno. Ma lei vive in una stanza in bianco e nero. C’è nata e cresciuta e può osservare il mondo esterno solo da un monitor in bianco e nero. Finché qualcuno un giorno apre la porta e lei esce. Vede un cielo azzurro e in quel momento impara una cosa che tutti i suoi studi non potevano insegnarle. Impara che cosa si prova a vedere i colori. Questo esperimento mostra agli studenti la differenza fra un computer e la mente umana. Il computer era Mary nella stanza in bianco e nero, l’umana è lei quando esce.

Mary vede i colori e attraverso quell’esperienza matura una sorta di coscienza cromatica.

Come spiega Nathan alla fine del monologo citato in apertura, a ogni impulso corrisponde una risposta. L’informazione è una materia fluida, in continuo mutamento, ordinata in un sistema strutturato, ma imperfetta e caotica. In questa dialettica di impulsi e risposte può esserci spazio per la coscienza?

I tecnottimisti sostengono che, una volta elaborata un’IA altamente sofisticata, la vita mentale da essa prodotta potrebbe essere ancora più ricca di sfumature di quella umana e, di conseguenza, cosciente. La posizione dei tecnottimisti è ispirata alle scienze cognitive, un campo interdisciplinare che sembra privilegiare un approccio empirico secondo il quale il cervello è un motore di elaborazione delle informazioni e le funzioni mentali sono rappresentate da calcoli. La posizione computazionalista è diventata paradigmatica nella ricerca delle scienze cognitive e viene utilizzata per spiegare abilità cognitive e percettive come l’attenzione e la memoria. Se ogni attività cerebrale è frutto di un calcolo allora lo è anche la coscienza e, di conseguenza, quando l’evoluzione dei materiali artificiali permetterà di replicare le funzioni neuronali si potrà arrivare a un’IA cosciente.

Il nodo della questione è capire se materiali inorganici potranno riprodurre la qualità percepita della nostra esperienza mentale. Come spiega Schneider, “potremmo venire a saperlo a breve, quando i dottori inizieranno a utilizzare impianti medici basati sull’intelligenza artificiale in parti del cervello che sostengono l’esperienza cosciente”.

Schneider espone le due tesi ma sembra volersi mantenere equidistante, sottolineandone tanto gli enunciati, quanto i punti deboli. Se da una parte “la stanza cinese non riesce a fornire un supporto argomentativo al naturalismo biologico”, dall’altra non fornisce neppure “un’argomentazione definitiva contro di esso”. E, sull’altro fronte, “l’ottimismo dei tecno-ottimisti sulla coscienza sintetica si basa su una linea di ragionamento imperfetto. Sono ottimisti sulla possibilità che le macchine diventino coscienti perché sappiamo che il cervello è cosciente e che potremmo costruirne una copia isomorfa. In realtà, però, non sappiamo se possiamo effettivamente realizzare tale copia, o addirittura se ci converrebbe provarci”.

Quello della convenienza è un tema da non trascurare. Gli esiti dell’impatto della coscienza sul comportamento etico dell’IA sono assolutamente imprevedibili: la macchina potrebbe diventare più compassionevole, ma potrebbe essere anche più instabile. Per evitare gli effetti negativi di questa possibile instabilità è necessario progettare un apprendimento delle norme etiche che dia alla coscienza artificiale una bussola morale. Come spiega Schneider, “le IA di interesse dovrebbero essere esaminate in ambienti limitati e controllati, alla ricerca di segni di coscienza”.

Un po’ come accade in Ex Machina, dove, in un ambiente totalmente isolato, il demiurgo scruta da uno schermo l’interazione fra l’uomo e la macchina. Nella finzione cinematografica il gioco si ribalta: è già stato detto di come Nathan trasformi Caleb da soggetto a oggetto del test, ma non di come anche Ava strumentalizzi il suo tester per trovare una via di fuga dal bunker-laboratorio in cui viene messa sotto esame. In quella che James Barrat reputa essere la nostra invenzione finale ci sono due elementi che accompagnano ogni tecnogenesi dall’alba dei tempi: imprevedibilità degli esiti ed eterogenesi dei fini. Osservare (come Nathan) e dialogare (come Caleb) può metterci al livello della macchina, ma abbiamo ancora un vantaggio che potrebbe essere utile mantenere come tale: quello di sentire e di sentirci.




Clima, anche l’acquario di Genova contro il riscaldamento globale

Clima, anche l'acquario di Genova contro il riscaldamento globale

GENOVA – Ha aderito anche l’Acquario di Genova a Stop Global Warming EU, l’iniziativa promossa dal movimento dei Cittadini europei per spingere la Commissione europea ad abbassare le tasse sul lavoro e ad aumentarle a chi produce emissioni di Co2: con un milione di firme entro il 22 luglio 2021, obbligherà la Commissione Europea a discutere la proposta di tassare le emissioni di CO2 sostenuta da 27 premi Nobel. 

Il più grande Acquario d’Europa e la sua Fondazione hanno deciso di sostenere l’iniziativa con una serie di eventi che andranno a coinvolgere anche personalità del mondo scientifico e dello spettacolo. Questo offre un’occasione per sensibilizzare il pubblico su una tematica importante per l’Acquario di Genova: la conservazione della biodiversità, marina e non solo, minacciata da inquinamento e cambiamenti climatici.

Stopglobalwarming.eu ad oggi ha ottenuto l’adesione di oltre 50 mila cittadini europei. Tra questi anche Mogens Lykketoft, presidente dell’Assemblea Onu ai tempi degli Accordi di Parigi, Navanethem Pillay, Alto Commissario ONU per i Diritti Umani dal 2008 al 20914, 3 ex commissari europei (Emma Bonino, Violetta Bulc, Vytenis Povilas Andriukaitis), del comitato di EarthDay (gli organizzatori della Giornata Mondiale della Terra), una rete di oltre 60 sindaci italiani ed europee e tante tante personalità del mondo della scienza, della cultura e dello spettacolo (da Fedez, Elisa, Nina Zilli, Sergio Cammariere, Biagio Antonacci, Edoardo Bennato e tantissimi altri). Tutti i cittadini europei maggiorenni sono invitati a firmare la proposta sul sito www.stopglobalwarming.eu e a sostenere l’unica iniziativa formale e istituzionale che al raggiungimento del milione di firme, porterà la proposta di un carbon pricing (un prezzo sulle emissioni di CO2) alla Commissione Europea che dovrà poi discuterne pubblicamente all’interno delle istituzioni. Per raccogliere le firme c’è tempo fino al 22 luglio.

E all’interno delle vasche degli squali, dei pinguini e dei coralli sono stati collocati dei messaggi dal forte impatto grafico con scritto “CI SALVI CHI PUÒ: FIRMA SU STOPGLOBALWARMING.EU”. Al momento della riapertura al pubblico, i visitatori troveranno anche dei messaggi esterni alle vasche che spiegheranno come firmare sul sito StopGlobalWarming.eu. Seguiranno altre emozionanti attività, dalle vasche dell’Acquario fino al mare aperto, volte a sensibilizzare i cittadini italiani ed europei sulle conseguenze del riscaldamento globale per la vita sulla Terra e nei mari.

“Il mare è una risorsa vitale per il pianeta terra. L’aggressione in corso all’ecosistema dei mari non è meno violenta di quanto accade sulla terraferma: le emissioni di CO2 acidificano gli Oceani e distruggono la biodiversità a ritmi già insostenibili”, ha dichiarato Marco Cappato, promotore di StopGlobalWarming.eu, “Come promotori dell’Iniziativa dei Cittadini Europei StopGlobalWarming.Eu siamo onorati di potere lavorare assieme all’Acquario di Genova per sensibilizzare -grazie anche alla loro esperienza nel divulgare la cultura dell’ecosistema marino- le cittadine e i cittadini sull’importanza di firmare la proposta indirizzata all’Unione europea di combattere le emissioni di CO2 spostando le tasse dal lavoro alle emissioni”

“Il sostegno dell’Acquario di Genova e della sua Fondazione alla campagna stopglobalwarming.eu rientra appieno nella mission di educazione ambientale che da sempre guida la struttura – dichiara Simona Bondanza, Sustainability Manager di Acquario di Genova-Costa Edutainment – e ci offre l’occasione per sensibilizzare il pubblico una volta ancora su temi che ci stanno particolarmente a cuore: la conservazione della biodiversità, marina e non solo, minacciata da inquinamento e cambiamenti climatici.

Fin dai suoi primi anni di attività, l’Acquario di Genova ha promosso e sviluppato progetti di ricerca e salvaguardia della biodiversità e delle specie acquatiche in pericolo, collaborando con Enti, Istituzioni e Università nazionali ed internazionali. La ricerca scientifica, sia in natura sia in ambiente controllato, è la base dell’attività di divulgazione che l’Acquario rivolge al proprio pubblico.

La ricerca e la gestione sostenibile delle risorse, le operazioni di salvaguardia attiva di ecosistemi acquatici minacciati in varie parti del mondo, le azioni di sensibilizzazione nei confronti delle Istituzioni e di enti pubblici e privati, l’attività di divulgazione ed educazione: ogni sforzo è rivolto a costruire un rapporto più responsabile con l’ambiente naturale e a stimolare iniziative di salvaguardia attiva e consapevolezza. Da sempre attento al tema della riduzione dei consumi e degli sprechi, l’Acquario di Genova si è dotato di un impianto di trigenerazione che ha permesso una significativa diminuzione delle emissioni, in linea con i propri obiettivi di riduzione dell’impatto ambientale.”




La donna che fa cantare il legno

La donna che fa cantare il legno

Nel febbraio del 1961, il prestigioso settimanale Epoca pubblica, a firma di Giuseppe Grazzini, un inserto dal titolo “I tesori dell’artigianato”, un viaggio alla scoperta delle più caratteristiche e pregiate botteghe italiane:  all’interno due pagine riccamente illustrate sono dedicate all’ “antica bottega del legno che suona”, un laboratorio di liuteria che da oltre due secoli ha sede nel rione Giudecca di Bisignano, piccolo paese alle pendici della Sila greca le cui origini sono talmente antiche che storia e leggenda si sovrappongono al punto da essere inestricabili. Un grumo di case arroccate che domina la valle del Crati, così detta dal nome del fiume, il più lungo della Calabria, che irriga una flora eterogenea: i quartieri del centro storico risalgono al secolo XII, e sussurrano ancora quella malinconica e dolente fierezza tipica di questi paesi, dove tutto sembra essere sul punto di cedere nello stesso momento in cui resiste agli urti di una Storia che lascia la sua firma stratificata nei secoli.

C’era una volta un Principe in questi luoghi, anzi una dinastia di Principi, esponenti della famiglia Sanseverino, una delle più illustri e potenti del Regno di Napoli: pare siano stati loro nel Settecento a chiamare a corte due liutai, i primi De Bonis, che decisero di stanziarsi nell’antichissima cittadina calabrese, sede arcivescovile sin dai primi secoli cristiani, per creare quegli strumenti musicali che, con la loro voce, erano la panacea ideale per alleviare il languore noioso della vita a corte. Ha inizio così la storia di un’altra dinastia, parallela a quella dei Principi, e come questa talmente tenace nell’arrampicarsi lungo i secoli da stupire il giornalista di Epoca, che basandosi sulle dettagliate ‘voci’ presenti nel Dictionnaire Universel de Luthiers di René Vannes, edito a Bruxelles nel 1951, così scrive: “C’è un Francesco I, un Francesco II, un terzo, un quarto, come ci sono i Giacinto, i Michele, i Nicola, i Vincenzo, variamente alternati come i rami di un albero genealogico imperiale. Sono secoli di storia, la storia di una Calabria segreta e inattesa, quella della musica.  La storia di una bottega dove con gli stessi scalpelli, le stesse forme, gli stessi legni e soprattutto con lo stesso amore qualcuno ripete ogni giorno il miracolo di creare uno strumento vivo”. Quel qualcuno era sempre un De Bonis, un nipote che diventava padre e poi nonno, depositario di una sapienza manuale tramandata nel silenzio, con gesti lenti e ripetuti più che con le parole, superflue quando si tratta di piegare i materiali col fuoco e di dare al legno la forma di un corpo che canta.

In una apparente sospensione del tempo, la liuteria De Bonis non si perde negli ostacoli della Storia, resiste adattandosi ai mutamenti sociali ed economici che stigmatizzano la regione come una delle più povere del Mezzogiorno d’Italia: e così nell’Ottocento la liuteria nata nella corte del Principe “diventa povera, una liuteria per contadini”.

La definizione è di Rosalba, l’ultima erede, prima donna della famiglia De Bonis ad aver testardamente voluto proseguire l’arte di suo padre, degli zii, dei nonni, l’arte di trentadue liutai dal Settecento a oggi, “io sono la trentatreesima” mi dice con orgoglio. Non è stato semplice per lei convincere lo zio Vincenzo a consegnarle il testimone di questo bagaglio prezioso di conoscenze tramandate solo da padre in figlio e di cui lui ormai, figlio di Giacinto, l’uomo che aveva traghettato la liuteria tra il 19° e il 20° secolo, era l’ultimo esponente, come già dichiarava la stampa.

Vissuto da solo tutta la vita, curvo nella sua bottega a dar forma alle chitarre e ai mandolini, zio Vincenzo non poteva accettare che sua nipote, donna, potesse continuare quel lavoro tanto faticoso per la manualità richiesta, e inconciliabile con la vita privata, con una eventuale famiglia. Perché per i De Bonis la liuteria è sempre stata una missione, un’ascesi: lo era per il “nonno Giacinto, che nella Calabria poverissima dei primi del Novecento andava a piedi per vendere chitarre nelle fiere dei paesi”, indifferente ai riconoscimenti ufficiali “pour ses mandolines artistiquement travaillées” come puntualizza l’autorevole Dizionario belga; lo era per tante altre donne ‘speciali’, figure poco considerate di una Calabria storicamente retrograda e maschilista, “tutte le mogli dei liutai erano parte della produzione, addette a realizzare gli intarsi e le decorazioni”, mi dice Rosalba; lo è oggi lei stessa, che ai rimbrotti dello zio rispondeva apprendendo in silenzio il linguaggio dei suoi gesti, “per due anni l’ho solo osservato”; lo era, in misura forse ancora maggiore, per Nicola, fratello maggiore di Vincenzo e primogenito del nonno Giacinto.

Nato nel 1918, in uno dei periodi più bui per l’economia familiare, Nicola è uno di quei regali che a volte il destino riserva alle famiglie: “asceta della chitarra” lo definisce lo studioso e musicista Angelo Gilardino, e scrittori di storia locale che hanno avuto modo di conoscerlo sottolineano analogamente il suo rapimento febbrile e quasi religioso nell’apprendere quanto più possibile i segreti della costruzione degli strumenti a plettro e ad arco, per riportare la liuteria di famiglia alla sua originaria estrazione colta. Non essendo contemplata all’epoca la disobbedienza al volere paterno, Nicola di giorno costruiva chitarre battenti – strumento popolare fortemente radicato in Calabria, dal fondo bombato e così detta per la tecnica esecutiva percossa e non pizzicata- di notte elaborava nuove forme e modelli, creava chitarre classiche, si cimentava nella creazione di nuovi strumenti, come il mandolino-arpa. Nel tentativo di colmare il divario con la liuteria del Nord, viaggiava in lungo e in largo per l’Italia, a collezionare premi conferitigli per i suoi strumenti dal suono di incomparabile dolcezza: “anche la più disadorna delle sue chitarre” – scrive di lui il maestro Gilardino – “mostra la maestrìa che stupisce persino i più abili liutai di oggi”.

Doveva avere certo qualcosa di magico quel suono, se persino alcuni musicisti ebrei, deportati nel campo di internamento di Ferramonti (Cosenza), gli fecero pervenire richieste di chitarre e di violini, come testimoniato dalle lettere conservate nell’archivio di famiglia. Sono tracce di una fame del Bello che trova sempre e in ogni circostanza un modo per esprimersi, per far sì che l’uomo resti tale anche nelle condizioni più disperate.

Con incredulità e commozione, Rosalba parla di questo scrigno epistolare: “c’è corrispondenza da tutte le parti del mondo: persone che ringraziano, entusiaste per gli strumenti ricevuti, scrivono da Chicago, da Monaco di Baviera, dalla Russia, dal Sudafrica, dal Giappone”.

Negli anni ’50, durante uno dei suoi viaggi in treno per il ritiro di uno dei tanti premi, Nicola regala una chitarra a un giovane Domenico Modugno: il cantante resta così affascinato dallo strumento da stringerlo a sé nella foto di copertina che gli dedica un rotocalco dell’epoca. Da lì in avanti la piccola bottega di Bisignano diviene tappa obbligata per vari musicisti, e lì c’era sempre “un De Bonis a dire di sì, che avrebbe fatto del suo meglio per accontentare quel cliente così illustre. Con la stessa modestia, virtù così rara, ieri come oggi” (G. Grazzini, Epoca, 1961).

La modestia e la tenacia devono essere qualcosa che si ereditano insieme col metodo, nella famiglia De Bonis: “nella nostra famiglia impariamo il metodo, dopo di che nessuno imita l’altro” mi spiega Rosalba, con riferimento alle due diverse tradizioni, quella popolare e quella colta, che hanno caratterizzato l’attività nella seconda metà del Novecento. Il ‘metodo’ a cui allude non è divulgato in manuali, ed è l’antitesi delle più elementari concezioni di sviluppo della produttività, essendo il più antico esistente, quello in cui è la mano dell’uomo a piegare e a trasformare i materiali, a dargli la forma desiderata, a obbedire ai tempi necessari alle varie fasi di lavoro, dalla piallatura all’essiccazione delle vernici. “La liuteria di oggi purtroppo è molto meccanizzata, spesso si tratta di officine e non più di botteghe, a volte non c’è neanche il banco da lavoro che per me è tutto”, Rosalba non riesce a spiegarsi questa automazione in un mestiere dove “bisogna dare l’anima”, in cui i lunghi tempi di attesa rendono estremamente lenta la produzione ma sono necessari se si punta ad alti livelli di perizia artistica. Questi per lei non sono un’ipotesi ma un “impegno”, è la legge morale ereditata dagli zii e dal padre: loro hanno raggiunto l’eccellenza nella costruzione della chitarra classica del Novecento, a cui hanno conferito un suono caratteristico e inconfondibile, differente da quello della chitarra spagnola negli anni in cui questa dominava il mercato; lei mira alla realizzazione di una ‘De Bonis’ del 2015, e per farlo non la turbano gli inevitabili momenti difficili, né la miopia delle amministrazioni locali incapaci di gestire l’enorme portato storico di quasi trecento anni di liutai che, pur nelle condizioni più povere, hanno continuato a tirar fuori l’anima dai legni. E pazienza se non si potevano avere i pregiati legni delle foreste tirolesi, oppure se era necessario estrarli dalle travi del Teatro Rendano di Cosenza, bombardato nel 1941: le mani dei De Bonis sapevano che quei legni avrebbero comunque avuto la loro voce, raccontato il loro canto. Magari un canto triste e cupo, come quello dello ‘scuordo’, la quinta corda della chitarra battente, o la dolcezza ineffabile del mandolino: voci antiche che portano l’eco di una famiglia, di un popolo, di una terra, lascito spirituale del valore inestimabile che Rosalba oggi consegna al futuro.




Lo straordinario successo in borsa di GameStop, grazie a Reddit

Lo straordinario successo in borsa di GameStop, grazie a Reddit

Nelle ultime settimane il valore del titolo in borsa di GameStop, una catena americana di negozi di videogiochi quotata al New York Stock Exchange, è aumentato di oltre il 275 per cento grazie all’azione più o meno coordinata di un gruppo di utenti del social network Reddit, che ha fatto perdere miliardi di dollari a fondi di investimento americani famosi e rispettati e ha sorpreso tutti i principali osservatori del mondo della finanza.

L’enorme crescita delle azioni di GameStop è cominciata a gennaio ed è avvenuta grazie a investitori amatoriali che si sono organizzati su Reddit con meme, emoji, dirette sulla piattaforma di streaming Discord e in generale con un atteggiamento più simile a quello dei troll di internet che a quello degli investitori finanziari. Questi investitori, riuniti sul canale Reddit r/wallstreetbets, che ha 2,7 milioni di utenti, si sono organizzati in maniera spesso caotica per comprare azioni di GameStop o convincere più persone possibili a farlo, portando il valore delle sue azioni da circa 4 dollari a metà del 2020 a 147 dollari alla chiusura delle contrattazioni il 26 gennaio. Soltanto martedì, il valore delle azioni è aumentato di quasi il 100 per cento.

L’andamento in borsa di GameStop nell’ultimo anno (Google)

Su r/wallstreetbets, moltissimi utenti hanno sostenuto di aver guadagnato decine o centinaia di migliaia di dollari grazie a operazioni di speculazione su GameStop, e in qualche raro caso il guadagno sarebbe arrivato a milioni di dollari. Ovviamente è impossibile provare in maniera indipendente che gli utenti dicano il vero, ma l’entusiasmo generato su Reddit ha coinvolto in questi giorni molti celebri esponenti del mondo della finanza e dell’economia negli Stati Uniti: Jim Cramer, il più famoso giornalista finanziario americano, ha detto che quello che sta avvenendo attorno a GameStop è un fatto unico, e l’imprenditore Elon Musk ha incoraggiato gli investitori amatoriali di Reddit, pubblicando l’indirizzo di r/wallstreetbets.

Il rialzo del titolo di GameStop ha sorpreso i professionisti finanziari, perché ha mostrato che gli investitori amatoriali potrebbero essere in grado di influenzare fortemente le transazioni, e perché questi investitori su Reddit hanno in un certo modo ribaltato alcune delle regole dei mercati. I fondamentali economici di GameStop, cioè il suo stato di salute, sono infatti scarsi: l’azienda è in perdita e in declino (anche se, come vedremo, i suoi risultati potrebbero essere stati sottovalutati), e il suo titolo in borsa sarebbe stato in calo se gli utenti di r/wallstreetbets non l’avessero individuato come un inaspettato strumento di speculazione finanziaria, e come un modo per attaccare alcuni famosi fondi di investimento di Wall Street, la sede della borsa americana.

Perché proprio GameStop

GameStop è un’azienda con sede in Texas che gestisce circa 5.000 negozi di videogiochi in tutto il mondo, anche in Italia. A causa del declino delle vendite (ormai la maggior parte dei videogiochi si compra negli store online), l’azienda è in difficoltà da molti anni: nel 2019 ha perso 795 milioni di dollari, ha dovuto licenziare centinaia di dipendenti e chiudere molti negozi. I dati economici per il 2020 non sono ancora disponibili, ma si stima che siano molto negativi, anche a causa del fatto che la pandemia da coronavirus ha costretto molti negozi alla chiusura.

Questo lento declino ha fatto sì che il titolo di GameStop, che nel 2015 ancora valeva circa 45 dollari, fosse arrivato a valere 3-4 dollari all’inizio del 2020. I cattivi risultati dell’azienda hanno attirato l’attenzione dei venditori allo scoperto, cioè di operatori finanziari che scommettono e guadagnano quando il valore di un titolo diminuisce. Secondo un’analisi di Dow Jones Market Data riportata dal Wall Street Journal, il titolo di GameStop era il secondo con più vendite allo scoperto di tutta la borsa americana.

Le vendite allo scoperto sono un’operazione di speculazione finanziaria (chiamata short selling in inglese, o semplicemente short) che si fa quando si prevede che il titolo di un’azienda perderà di valore. Il venditore allo scoperto (o short seller) prende in prestito da un broker una certa quantità di azioni nella speranza che queste perderanno di valore. Immaginiamo che lo short seller prenda in prestito da un broker 100 azioni e le venda sul mercato a 10 euro l’una, ottenendo quindi 1.000 euro. Se il valore delle azioni scende, diciamo a 8 euro l’una, lo short seller le ricompra per 800 euro e le restituisce al broker, guadagnandoci 200 euro. Se invece il valore delle azioni sale, lo short seller è comunque obbligato contrattualmente a ricomprarle e a restituirle al broker, in questo caso perdendo dei soldi. Il broker guadagna un certo interesse sulle azioni prestate.

La situazione di GameStop negli scorsi mesi, dunque, era che molti famosi e ricchi fondi di investimento avevano fatto vendite allo scoperto delle sue azioni, scommettendo che avrebbero guadagnato quando il titolo sarebbe crollato.

Arriva Reddit

R/wallstreetbets è un canale Reddit abbastanza famoso da qualche tempo – descritto per esempio da un articolo su Bloomberg del febbraio 2020 – in cui milioni di investitori amatoriali, tendenzialmente giovani, condividono consigli finanziari con uno stile sarcastico, creativo e spesso volgare. L’emoji del razzo è usata per dire che le azioni di un’azienda stanno andando «sulla luna», gli utenti si incoraggiano tra loro ad avere «mani di diamante», cioè ad avere la volontà salda e a non vendere un titolo anche se sta andando male, e al contrario di chi non resiste e vende si dice che ha le «mani di carta», e così via. I membri del canale si chiamano tra loro «degenerates». Il loro motto è YOLO, «You only live once», cioè si vive una volta sola. Sono molto presenti anche battute e commenti sessisti e omofobi.

Ma nonostante il generale atteggiamento da troll, molti osservatori concordano sul fatto che su r/wallstreetbets circolano spesso analisi finanziarie sofisticate, e molti investitori non professionisti hanno cominciato a frequentare il canale per ottenere consigli e condividere impressioni. La loro importanza negli ultimi tempi è cresciuta, anche a causa della pandemia, che ha costretto molte persone a casa. Secondo il Wall Street Journal, nel 2020 sono stati aperti 10 milioni di nuovi account di brokeraggio, e gli investitori non professionisti ormai generano un quarto di tutti gli scambi sul mercato finanziario americano, anche grazie a nuove app che rendono molto facile operare in borsa, come Robinhood.

Come ha notato un articolo molto dettagliato su Bloomberg, fin dal 2019 alcuni utenti di r/wallstreetbets avevano cominciato a sostenere che il titolo di GameStop potesse costituire un’opportunità di guadagno, e che non fosse destinato a crollare come gli short seller speravano. Queste ipotesi, all’inizio molto contestate, sono state rafforzate quando si è saputo che alcuni famosi fondi di investimento, pochi ma influenti, anziché scommettere che il valore di GameStop sarebbe crollato avevano deciso di comprare azioni. Uno di questi era Michael Burry, l’investitore visionario che aveva previsto la crisi del 2008 e che è stato interpretato da Christian Bale nel film La Grande Scommessa: Burry nel 2019 rivelò che aveva comprato azioni di GameStop, creando molto entusiasmo su Reddit.

Nell’agosto dell’anno scorso uno degli utenti più celebri del canale, che su Reddit si fa chiamare u/DeepFuckingValue e Roaring Kitty su YouTube, pubblicò un video in cui sosteneva che GameStop fosse un’opportunità di speculazione eccezionale: «Basandosi sull’andamento prevalente del mercato e sulla cultura popolare, molti pensano che sia un investimento sconsiderato. Ma si sbagliano tutti!», disse.

Le tesi degli utenti di r/wallstreetbets erano due: che il valore di GameStop fosse sottovalutato, e che quindi comprare azioni fosse un buon affare, perché sarebbero aumentate, e che si sarebbe creato quello che in gergo è chiamato short squeeze: i tantissimi venditori allo scoperto, vedendo che il titolo di GameStop aumentava di valore anziché calare come speravano, avrebbero ricomprato le loro azioni per cercare di limitare le perdite, facendo aumentare ancora di più il valore del titolo, e creando una specie di effetto domino.

L’11 gennaio di quest’anno Ryan Cohen, un altro investitore famoso che già qualche mese fa aveva comprato il 10 per cento delle azioni di GameStop, è entrato nel consiglio di amministrazione dell’azienda, e a quel punto gli utenti di r/wallstreetbets hanno deciso, in maniera in parte caotica e in parte organizzata, che bisognava comprare in massa azioni di GameStop o investire in altri veicoli di investimento, come le option, per scommettere sull’aumento del valore del titolo. Jaime Rogozinski, che ha fondato il canale ma poi ha smesso di parteciparvi, ha detto a Wired America che «senz’altro tutto è cominciato come un meme… ma poi le cose sono passate su un altro livello».

È impossibile sapere con certezza che tipo di influenza gli utenti di r/wallstreetbets abbiano davvero avuto sul mercato, ma migliaia di persone su Reddit hanno cominciato a incitarsi a vicenda, in modo molto cameratesco, a investire in GameStop. Alcuni hanno postato screenshot in cui mostravano di aver investito tutti i loro risparmi, creando una dinamica eccitata e confusa. Su Twitter è circolata una registrazione della diretta di alcuni utenti di r/wallstreetbets su Discord, e la confusione e il vociare sono stati paragonati a quelli che di solito sono presenti durante le contrattazioni a Wall Street.

Il titolo di GameStop ha cominciato ad aumentare di valore, in maniera rapida e consistente, creando sconcerto tra gli short seller e provocando più volte un blocco delle contrattazioni perché le fluttuazioni erano troppo accentuate. Alcuni short seller, che gestiscono fondi ricchi e noti, hanno cercato di fermare gli utenti Reddit, spiegando in maniera paternalistica che il titolo di GameStop non era un buon affare, ma sono stati rigettati malamente. Andrew Left, un famoso investitore, ha dovuto interrompere una diretta video a proposito di GameStop perché l’account Twitter del suo fondo d’investimento era sotto attacco hacker. Left ha accusato gli utenti Reddit di essere una «folla inferocita».

Man mano che il valore del titolo aumentava, si è verificato lo short squeeze sperato dagli utenti Reddit, con gli short seller che, spaventati, hanno cominciato a comprare azioni di GameStop per limitare le perdite. Inoltre sempre più persone, prese dall’entusiasmo, hanno cominciato a comprare ulteriori azioni e altri veicoli d’investimento. Come dicevamo, è impossibile stabilire con certezza quanti degli utenti di r/wallstreetbets siano direttamente responsabili del rialzo (cioè abbiano davvero comprato azioni di GameStop) oppure se il contributo del canale Reddit sia stato più che altro quello di dominare la narrativa della vicenda e cambiare il punto di vista del mercato. In generale, però, tutti gli osservatori sostengono che le dinamiche di gruppo di Reddit abbiano avuto un ruolo fondamentale: «Sono come i velociraptor in Jurassic Park: diventano sempre più intelligenti, e alla fine saltano la recinzione», ha detto a BuzzFeed Howard Lindzon, un esperto di mercati finanziari.

Gli short seller hanno perso moltissimi soldi. Secondo S3Partners, una società di analisi finanziaria, venerdì le perdite per le vendite allo scoperto del titolo di GameStop erano arrivate a 3,3 miliardi di dollari. Uno dei fondi di investimento più esposti, Melvin Capital Management, ha perso il 30 per cento del suo valore dall’inizio dell’anno, e ha avuto bisogno del sostegno finanziario di altre aziende.

Quanto può continuare

Non è chiaro per quanto tempo il titolo di GameStop potrebbe continuare a crescere, oppure se a breve comincerà una sua normalizzazione. Gli utenti Reddit sperano, in maniera un po’ irrealistica, che si crei quello che viene definito un infinity squeeze, cioè che gli short seller continueranno a ricomprare azioni fino all’esaurimento, facendo salire il titolo ancora di più (successe nel 2008 con Volkswagen, che per un breve periodo di tempo divenne l’azienda con maggior capitalizzazione di mercato di tutto il mondo, e fece perdere 30 miliardi di dollari agli short seller).

In generale, la retorica di rivalsa contro i ricchi finanzieri e investitori di Wall Street è molto forte su r/wallstreetbets. Uno dei moderatori del canale domenica ha scritto, rivolgendosi agli utenti: «Voi ragazzi state avendo un impatto tale che quei pezzi grossi sono preoccupati di doversi mettere a lavorare per guadagnarsi da vivere».

Nel frattempo, martedì, l’utente u/DeepFuckingValue, uno dei primi a occuparsi di GameStop, ha scritto di aver guadagnato 17 milioni di dollari grazie all’operazione, e molti altri continuano a descrivere guadagni favolosi.

Per ora c’è ancora molto entusiasmo. Gli utenti Reddit sono stati sostenuti da Elon Musk, e altri investitori famosi hanno annunciato di aver comprato azioni di GameStop. Sono già state individuate altre aziende con caratteristiche simili (apparentemente sottovalutate e il cui titolo è oggetto di molte vendite allo scoperto), come per esempio BlackBerry e AMC, il cui valore in borsa è aumentato moltissimo negli ultimi giorni, anche se non quanto GameStop.

Non è chiaro nemmeno se questa vicenda può cambiare seriamente il modo in cui operano i mercati finanziari, oppure se si tratti di un fenomeno destinato a scomparire in fretta. Le istituzioni e gli investitori tradizionali stanno ancora valutando quello che sta succedendo. Alcuni commentatori non hanno escluso che l’operato di r/wallstreetbets possa essere vietato o sanzionato come manipolazione del mercato, anche se gli utenti Reddit fanno semplicemente uso di informazioni pubbliche.




Chi è l’atleta più sostenibile d’Italia, il primo con un bilancio sociale e di missione

Chi è l’atleta più sostenibile d’Italia, il primo con un bilancio sociale e di missione

Lo sport è uno straordinario mezzo attraverso il quale si possono comunicare valori e messaggi. Con l’evoluzione dello sport-business e la trasformazione di molte associazioni sportive in società per azioni, sono state anche introdotte molte attività di Csr, responsabilità sociale d’impresa, e tra queste la redazione dei bilanci sociali e di missione. Nelle scorse settimane, nel panorama sportivo nazionale si è distinto un progetto dedicato a un atleta che ha inserito la responsabilità sociale d’impresa in tutte le proprie azioni di marketing e comunicazione; lo scorso 14 gennaio infatti, Emmanuele Macaluso (aka “EM314”) ha pubblicato il bilancio sociale e di missione, diventando il primo singolo atleta a farlo nella storia dello sport italiano, iniziativa che ha spinto diverse testate giornalistiche ad indicarlo come “l’atleta più green d’Italia”.

Oltre ad essere un atleta professionista che corre in Mtb, Emmanuele Macaluso è anche autore del Manifesto del marketing etico.

EM314 per la sostenibilità, Emmanuele Macaluso
Emmanuele Macaluso, l’atleta più sostenibile d’Italia © EM314

Emmanuele Macaluso, perché “EM314”?

Nello sport, soprattutto quello su due ruote, capita spesso che le proprie iniziali e il numero di gara scelto dall’atleta diventino il “logo” di un atleta. “EM” sono le mie iniziali, il “314” è stato il mio numero di gara nella competizione che ha chiuso la mia prima fase della carriera professionistica nello sport nel 2009. Quando ho deciso di rientrare in questo mondo, ho voluto dare continuità scegliendo il numero che mi aveva accompagnato in quell’ultima gara. EM314 è quindi il mio alter ego sportivo.

Come mai la scelta di inserire pratiche di Csr in un progetto sportivo?

Da quando nel 2011 ho pubblicato il Manifesto del marketing etico ho inserito la Csr in tutti i progetti che ho creato o che ho gestito direttamente: i vantaggi reputazionali e sociali derivanti dal far conoscere e spiegare le proprie iniziative di responsabilità sociale sono evidenti, senza contare il possibile “effetto emulazione”, la speranza che altri decidano di attivarsi socialmente, su cause in linea con la loro personale sensibilità, è una parte dell’equazione. La necessità di maggiore trasparenza coinvolge un numero sempre crescente di persone e organizzazioni, ma è ancor più necessario nell’ambito dello sport, dove il concetto di “valore” è davvero fondamentale.

Per questa azione, alcuni organi di stampa ti hanno definito l’atleta più green d’Italia.

Sì, e devo ammettere che la cosa mi ha anche sorpreso, quando l’ufficio stampa che ha lanciato il comunicato ci ha inviato la rassegna stampa sono rimasto molto colpito. Da una ricerca è emerso che nessun singolo atleta aveva mai prodotto un bilancio sociale e di missione, mentre invece alcune società, in primis quelle quotate in borsa, lo pubblicano regolarmente. Io e i ragazzi con i quali collaboro siamo molto fieri di questo risultato, nello sport si raccolgono anche quelli extrasportivi, e l’idea che altri singoli atleti possano affiancarsi in questo senso, mi stimola assai. Alla fine un atleta professionista “muove” decine di persone, non è altro che una piccola azienda, e non si comprende quindi perché non dovrebbe rendicontare ai suoi stakeholder.

In che modo un progetto come questo può considerarsi “green”?

La disciplina che ho scelto è verde per antonomasia, il cross country (Mtb) si svolge in montagna e tutti gli atleti sono impegnati nella massima riduzione della propria impronta sul Pianeta. Anche i prodotti che utilizziamo per la manutenzione dei mezzi sono a basso impatto ambientale, se non addirittura nullo. Poi ci sono i valori fondanti dello sport, che si basano sulla lealtà verso gli altri e certamente anche verso l’ambiente. La stessa Uci (Unione ciclistica internazionale) ha creato dei protocolli ambientali stringenti: non possiamo abbandonare neppure le borracce o gli incartamenti dei gel o degli alimenti dopo l’uso, giustamente, ma dobbiamo portarli con noi al traguardo, e anche quelli sono biodegradabili. Per quanto riguarda EM314 poi, in qualità di testimonial/ambassador, supporto e do visibilità a quattro campagne sociali: “Giù le mani dai bambini” Onlus, la più importante campagna di farmacovigilanza contro l’abuso di psicofarmaci sui minori; “Mission dark sky”, campagna globale sull’inquinamento luminoso e sulle ricadute di questo su salute umana, flora e fauna; “Io rispetto il ciclista”, la campagna di sensibilizzazione sulla sicurezza stradale; “Manifesto dello sport”, il documento programmatico dedicato allo sport, agli atleti e alle ricadute sociali del movimento.

In che modo la responsabilità sociale e ambientale dovrebbe entrare a far parte dello sport a tutti i livelli?

L’industria dello sport è molto complessa e articolata e si basa su una filiera molto complessa. Però l’asticella del professionismo viene schiacciata sempre più verso la base della piramide: ci sono talenti molto giovani che diventano ambassador di aziende in modo individuale attraverso i propri canali social o prestando l’immagine per gli sponsor della squadra, spesso con la liberatoria firmata da mamma e papà. A tutti gli effetti, avere a che fare con lo sport business è un’attività professionale, che coinvolge molte realtà e dove comunicare non vuole dire solo creare consenso, ma generare coinvolgimento: i destinatari delle campagne comunicative sono fan nel vero senso della parola, e lo sport, proprio per le sue dinamiche di comunicazione, aiuta i protagonisti a creare comunità. Con EM314, a un anno circa dalla presentazione del progetto siamo a oltre 22mila fan sui social (senza l’utilizzo di servizi a pagamento) e più di 250 articoli di stampa. Tuttavia, al di là dei numeri, ci sono grandi responsabilità di cui bisogna tener conto: l’atleta è un modello per definizione e in un ambito come quello sportivo i valori creano quel legame necessario a supportare un progetto tecnico e imprenditoriale da parte degli stakeholder. Spesso alcune sponsorizzazioni nascono proprio per progetti di Csr congiunti tra più aziende, dei quali l’atleta diventa il protagonista; ormai molte realtà imprenditoriali hanno compreso il valore reputazionale della responsabilità sociale nello sport, al punto – in questo florilegio di proposte – da dover stare attenti a non essere coinvolti in attività di greenwashing.

Quali i prossimi obiettivi?

Oltre al debutto e alle performance sportive, lavoreremo tantissimo sulla comunicazione per allargare il bacino di fan e condividere con loro i nostri valori. Quando le condizioni sanitarie dovute all’emergenza Covid-19 lo permetteranno, molte iniziative passeranno dal mondo digitale a quello reale. Cercheremo di dare sempre visibilità alle campagne che sosteniamo, magari partecipando a progetti di comunicazione e divulgazione nel momento in cui ci saranno proposte. Per il resto, continueremo a redigere e pubblicare il bilancio di missione, e ad attuare buone prassi di sostenibilità. Abbiamo molto da fare e lo faremo. In fondo, se c’è una cosa che sappiamo far bene, è correre, in bici come nella vita.